martedì 17 maggio 2016

Ruggero Paladini: Bonus bebè: per favore, no!

Dal sito Nens Bonus bebè: per favore, no! Ruggero Paladini Nel quinquennio 2010-2015 i nati in Italia sono scesi sotto il mezzo milione, da 562mila a 488mila, un calo del 13%. Si è di nuovo manifestato, in forma accentuata, quel trend decrescente che è iniziato negli anni settanta del secolo scorso e che ha portato a circa 8 nati vivi per 1000 abitanti. E’ inutile sottolineare le conseguenze demografiche ed economiche di questo fenomeno. E’ chiaro che la crisi economica, la precarietà del lavoro e del reddito, in particolare per le giovani coppie, ha avuto la conseguenza di accentuare un declino di lungo periodo. Il ministro Lorenzin ha proposto un aumento del c.d. bonus bebè, introdotto dalla riforma Fornero del mercato del lavoro e rivisto poi nel 2014. La logica è quella di offrire una somma al termine del congedo di maternità per poter permettere alle neo-mamme di mandare al nido il baby o affidarlo ad una baby-sitter. Attualmente il bonus, con durata triennale, viene erogato sulla base del reddito ISEE della famiglia: 160 euro mensili se l’ISEE è inferiore a 7.000, 80 euro tra 7.000 e 25.000. Nel 2015 due terzi dei nati hanno usufruito del bonus, ma ciò non ha impedito un calo del 3% delle nascite rispetto all’anno precedente. In sostanza sembra che si tratti di un premio per una decisione che le coppie hanno già preso, e che avrebbero preso anche in assenza, più che di un incentivo alla natalità. Basterebbe allora, seconda la proposta del Ministro, raddoppiare la cifra e aumentare ulteriormente per secondi e terzi figli? Probabilmente no, poiché i costi di un figlio vengono, del tutto logicamente, valutati in un arco di tempo di un ventennio (o anche più). Fermo rimanendo il fatto che solo con una ripresa economica e dell’occupazione si può determinare un clima più favorevole alla natalità (il picco di natalità avvenne nel 1964, dopo gli aumenti salariali in un clima di piena occupazione), forse andrebbe colta l’occasione per ripensare il sostegno a favore dei figli. Attualmente possiamo elencare le seguenti modalità: detrazioni Irpef, assegni al nucleo familiare, assegno per il terzo figlio, assegno di maternità e, infine, il bonus bebè. Il reddito di riferimento è diverso, e nel caso in cui viene usato l’ISEE ogni istituto fissa tre limiti diversi, senza una particolare logica. La detrazione per i figli a carico (non necessariamente minori) si basano ovviamente sul reddito imponibile Irpef; la presenza di redditi che non entrano nell’Irpef quindi non influisce sulla detrazione. Poiché l’Irpef è un’imposta che i contribuenti versano sul loro proprio reddito, la detrazione si divide a metà tra i genitori. La detrazione diminuisce molto gradatamente al crescere del reddito, estinguendosi a 95mila euro (un solo figlio), 110mila (due figli), 125mila (tre figli) e così via. Pertanto quasi tutti i genitori usufruiscono della detrazione. Ma c’è un problema, e cioè che se entrambi i genitori hanno redditi bassi, accade che non riescano ad usufruire delle varie detrazioni cui hanno diritto, per cui si calcola che i genitori non riescano a godere di circa due miliardi di detrazioni per i figli (il fenomeno è aumentato quando Baretta e Brunetta, ai tempi del governo Monti, ottennero che lo sgravio Irpef proposto dal governo fosse indirizzato all’aumento delle detrazioni). Nel caso degli assegni al nucleo familiare (ANF), si prendono in considerazione i redditi della famiglia (in questo caso della coppia regolarmente sposata) compresi i redditi che non fanno parte dell’Irpef ma hanno una tassazione separata (purché superiori a poco più di mille euro), ma non si considerano varie entrate tra cui i trattamenti di fine rapporto, gli arretrati, i trattamenti di famiglia, le rendite erogate dall’INAIL, le indennità per indennizzi e simili. Comunque il 70% del reddito familiare deve essere costituito da reddito da lavoro dipendente. L’ANF aumenta con il numero dei figli; ha un primo tratto costante, per poi decrescere al crescere del reddito fino ad annullarsi. Sono pertanto presenti delle aliquote marginali implicite, oscillanti tra il 10% ed il 15%. Le detrazioni fiscali e gli ANF sono le due modalità di intervento più rilevanti; le altre hanno un peso minore e sono strutturate in modo più sbrigativo, con delle soglie limite passate le quali il beneficio crolla a zero. Si basano tutte sull’ISEE, calcolato tenendo conto di tutti i redditi che affluiscono alla famiglia (il Consiglio di Stato ha però stabilito che vadano escluse le indennità di accompagnamento), aggiungendo il 20% del patrimonio (al netto di circa 52mila euro per la casa di residenza) e calcolando il reddito equivalente sulla basa di una scala di equivalenza. Visto che tutti i redditi da capitale rientrano nell’ISEE, la presenza del 20% del patrimonio ha la logica secondo la quale gli evasori fiscali accumulano un patrimonio più alto, cosa che appare discutibile e certamente non equo. Poiché si tratta di interventi volti a sostenere il reddito disponibile delle famiglie, in particolare di quelle con redditi più bassi, ci si può chiedere quanto sia razionale un sistema così confuso. E se non sia preferibile un unico sistema, basato su trasferimenti monetari (le detrazioni hanno infatti il problema dell’incapienza) calcolato sulla base dei redditi equivalenti delle famiglie, e considerando tutti i redditi da patrimonio, ma senza l’aggiunta della componente patrimoniale tipica dell’ISEE. Una proposta di questo tipo è stata presentata da tempo dal Nens; prevede un unico assegno universale, che si riduce gradatamente (quindi con aliquota marginale implicita contenuta) al crescere del reddito equivalente, e a questa si rimanda per approfondimenti.

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