Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
giovedì 31 marzo 2016
martedì 29 marzo 2016
Aldo Penna: La primavera araba e l'eredità di Obama
Sette anni fa il discorso di Obama pronunciato all’Università del Cairo forniva l’ispirazione a una serie di sollevazioni spontanee che nella semplificazione giornalistica sarebbe stata chiamata primavera araba. Sette anni dopo, quelle fiammate piene di speranze si sono trasformate in cenere o, è il caso della Siria, in fuoco distruttore che ha disintegrato un grande paese e dato il via a un’ondata migratoria che preme e penetra dentro i confini dell’Occidente continentale mettendo a serio rischio la decennale politica di integrazione e accoglienza che ha caratterizzato l’Unione Europea.
“Io sono qui oggi per cercare di dare il via a un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo; l’inizio di un rapporto che si basi sull’interesse reciproco e sul mutuo rispetto; un rapporto che si basi su una verità precisa, ovvero che America e Islam non si escludono a vicenda, non devono necessariamente essere in competizione tra loro. Al contrario, America e Islam si sovrappongono, condividono medesimi principi e ideali, il senso di giustizia e di progresso, la tolleranza e la dignità dell’uomo”.
Alle orecchie delle moltitudini scolarizzate del Mediterraneo arabo, le parole del presidente degli Stati Uniti, nero e figlio di uno studente africano, suscitarono enormi attese lasciando immaginare svolte epocali e rivoluzioni incruente che avrebbero finalmente fatto transitare quella parte del mondo tra le aree dove la democrazia non sarebbe stata più un tabù.
“So che molte persone, musulmane e non musulmane, mettono in dubbio la possibilità di dar vita a questo nuovo inizio. Alcuni sono impazienti di alimentare la fiamma delle divisioni, e di intralciare in ogni modo il progresso. Alcuni lasciano intendere che il gioco non valga la candela, che siamo predestinati a non andare d’accordo, e che le civiltà siano avviate a scontrarsi. Molti altri sono semplicemente scettici e dubitano fortemente che un cambiamento possa esserci. E poi ci sono la paura e la diffidenza. Se sceglieremo di rimanere ancorati al passato, non faremo mai passi avanti. E vorrei dirlo con particolare chiarezza ai giovani di ogni fede e di ogni Paese: ‘Voi, più di chiunque altro, avete la possibilità di cambiare questo mondo’”.
I giovani lo ascoltarono e le proteste che si contaminarono l’una con l’altra portarono Mubarak in Egitto, Ben Alì in Tunisia, Gheddafi in Libia, Alì Abdullah Saleh nello Yemen, i tiranni che controllavano quei paesi e si preparavano a darli in successione ai figli, a cadere in pochi giorni.
Certo se gli studenti di Piazza Tahrir avessero immaginato di favorire l’ascesa dei Fratelli musulmani e poi dei militari al potere in Egitto, le manifestazioni avrebbero assunto altre forme.
Ma le fiammate di libertà non sempre conducono verso gli obiettivi sperati o almeno non subito questo avviene. Un pensatore arabo ha paragonato le rivolte del 2011 al 48 europeo. Quelle rivoluzioni quasi dappertutto dopo una breve parentesi, riportarono al potere le stesse case regnanti, ma il processo di costituzionalizzazione del potere sovrano ebbe un’accelerazione intensa e da lì derivarono i miglioramenti nel campo dei diritti politici ed economici che nei decenni seguenti cambiarono le condizioni di vita dei popoli europei.
Mentre la guerra divampa, nella Libia divisa e frammentata, nella Siria in mano a tante fazioni armate, la speranza ha grandi difficoltà a trovare seguaci. Il principio di responsabilità, un principio che a fatica si fa strada, significa che “la comunità internazionale è responsabile della sorte della popolazione, quando chi detiene il potere non possa o non voglia difendere i civili o sia il colpevole delle violazioni dei diritti umani”.
L’applicazione dello stesso principio ad altri campi (“agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana”) oggi dovrebbe portare i paesi democratici a interrogarsi se stanno facendo il meglio e il possibile per disinnescare quei conflitti, se l’impetuosa crescita dell’ISIS si poteva fermare prima, visto che la seduzione che esercita porta la distruzione anche dentro le calde e placide case delle terre democratiche.
E mentre il mandato dell’ispiratore di quelle fiammate volge al termine, occorre chiedersi con preoccupazione e utilizzando le similitudini con l’Impero Romano, cosa potrebbe accadere ai cento conflitti delle sterminate periferie del mondo se a Marco Aurelio Obama succedesse Commodo.
Aldo Penna
sabato 26 marzo 2016
venerdì 25 marzo 2016
Paolo Bagnoli: La partita tra Salvini e Maroni
Da CRITICA LIBERALE
riceviamo e volentieri pubblichiamo
La partita tra
Salvini e Maroni
“Critica liberale” si arricchisce una nuova rubrica di critica politica che si chiamerà “la biscondola” e sarà curata da Paolo Bagnoli. Ne riportiamo di seguito la prima puntata.
di Paolo Bagnoli
Spieghiamo: perché “biscondola” per titolare una rubrica di critica politica? È semplice: per posizionare il luogo visuale dell’analisi; di un ragionamento, cioè, che nasce in un angolo riparato – quello della critica, appunto – ai lati di un vasto “giardino” accarezzato dal vento e privato dei pochi, magari, raggi del sole che in quel giorno vi possono essere. Una biscondola, ossia un luogo appartato in un campo largo nel quale il buon tempo è una rarità di cui forse si è persa la memoria. Una metafora, quindi, per esprimere un luogo non separato dall’insieme, ma che sviluppa il proprio ragionamento dall’esterno, ma dal di dentro secondo il metodo della libera critica.
Che la politica italiana viva, da lungo tempo, una stagione decoattiva è sotto gli occhi di tutti. E se è sempre stato difficile spiegare la politica italiana quando essa rappresentava ancora un sistema, lo diventa ancor di più via via che esso si sta sfarinando. Ciò non esime dalla necessità di capire; soprattutto, quanto vi è di più intimo nel mutuarsi interno delle forze politiche la cui lotta intestina, nella manifesta grezza ruvidità, fa emergere i fili di trame sofisticate, ma di non difficile interpretazione una volta colta la chiave del progettismo che anima i due campi contrastantisi e quanto si muove all’interno di essi.
Da giorni risuona quanto avviene nella destra dello schieramento politico in preparazione delle prossime elezioni amministrative. Se si eccettua Milano, ovunque si registra una rottura tra la Lega di Matteo Salvini e Forza Italia di Silvio Berlusconi. Il rapporto stretto instauratosi tra la Lega e Fratelli d’Italia sembra incedere a grandi passi alla costituzione di un fronte lepenista anche in Italia e, sul piano politico, ciò giustifica, almeno formalmente, il distacco dal vecchio e tristemente patetico leader di Arcore. La partita per il Comune di Roma rappresenta l’ambito simbolico della nuova situazione. Non crediamo che il tutto si fermi qui. Sicuramente c’è un’acquisizione lepenista della Lega salviniana, ma vi è ben altro, ben più pesante e ancora in parte sottotraccia. Vogliamo dire che Salvini cuoce Berlusconi per colpire a fondo Roberto Maroni.
Che tra i due vi sia una differenza di visione politica è cosa nota; ma non è tanto ciò quanto sembra pesare, bensì che occorra fermare il prima possibile ogni ambizione di Maroni a fare, alle prossime elezioni, il candidato del centrodestra alla presidenza del consiglio. Se accadesse, la cosa implicherebbe due conseguenze dirette: continuare a tenere Berlusconi in campo e porre Maroni ben al di sopra di Salvini nella dirigenza della Lega. Ci sembra che proprio questo secondo fattore tolga il sonno all’attuale segretario leghista in quanto, sia che Maroni dovesse farcela oppure no, è chiaro che, per quanto concerne la Lega, il vincitore, prenderebbe in mano il partito e, nel caso della sconfitta, il perdente sarebbe solo Salvini. A tutto ciò, naturalmente si legano poi tutte le possibili derivate politiche del caso: questo, tuttavia, ci sembra essere il nocciolo. Va da sé che, in un caso come nell’altro, Berlusconi e quanto resta di se stesso, è destinato a dissolversi in modo accelerato.
Il caso del Comune di Milano, nel contesto, ha sì una sua specificità, ma esso non cambia la dinamica della partita in gioco.
Sono tutte tristezze di una democrazia che ci pare al tramonto; ognuno dei due schieramenti, nella specificità propria e implosione delle relative questioni, vi concorre. L’orizzonte del cambiamento, come è nelle cose, si allontana quanto più un desiderato cammino ci direbbe che esso si avvicina.
Andrea Ermano: La "saldatura"
EDITORIALE Avvenire dei lavoratori
La “saldatura”
Con orrore e sconforto tentiamo qui alcune considerazioni sugli eventi grandi e terribili che ci accadono intorno. Il rimbalzo del sanguinoso caos geo-politico si ricombina con gli effetti della lotta di classe condotta "dall'alto" contro i ceti medi proletarizzati e tutto questo si salda con le ferite continuamente inferte alle masse migranti da una xenofobia scatenata.
di Andrea Ermano
Le politiche migratorie applicate in Europa hanno avuto finora l'effetto di rafforzare la ri-gerarchizzazione delle nostre società. In cima alla piramide sociale globale sta un ottimato d'individui e gruppi economico-finanziari molto danarosi e potenti, variamente intrecciati con patriziati "autoctoni" che stanno in cima alle strutture del potere nazionale. Sopra gli ottimati globali pare esserci ormai soltanto Dio, che già ne sente però il fiato sul collo. Sotto l’Altissimo, gli ottimati e i patriziati ci sono le medie e le piccole borghesie occidentali. Più sotto ancora gli strati popolari "autoctoni".
Tutti questi sottostanti "autoctoni" formano un inedito aggregato interclassista, composto da corpi un tempo disomogenei, per non dire antagonisti tra loro. Oggi sono tutti "cittadini autoctoni". E intorno a essi si sono assiepati, o sono stati fatti assiepare, i "non-cittadini non-autoctoni": una cintura sociale d'immigrati destinati a lavorare in condizioni di minorità.
La minorità dei lavoratori immigrati nasce, formalmente, dal non godere essi di tutti i diritti di cittadinanza. Una minorità "formale" che si traduce poi però inevitabilmente in minorità anche economica, formativa e sociale, cui conseguono episodi persistenti di marginalizzazione, esclusione e discriminazione.
Vietato ai cani e agli italiani
La discriminazione degli "ultimi" finanzia una serie di piccoli privilegi per i "penultimi", i quali a loro volta vengono sottoposti da decenni a un processo di proletarizzazione, precarizzazione e pauperizzazione.
Come si vede, sono qui in gioco due transfer di ricchezza: l'uno prende ai sottostanti in generale per arricchire i super-ricchi soprastanti; l'altro meccanismo di trasferimento prende invece agli "ultimi" per risarcire (parzialmente, miseramente, simbolicamente) i "penultimi", cioè i ceti medi e popolari "autoctoni".
La propaganda ideologica populista alligna in gran parte nei meccanismi del secondo trasloco di beni, quello che ha luogo dagli "ultimi" ai "penultimi".
Nelle società europee contemporanee gli stranieri "ospiti" vengono complessivamente gerarchizzati secondo anzianità d'immigrazione e luoghi di provenienza, criteri che a loro volta si combinano con il grado d’istruzione individuale, la conoscenza della lingua locale, certe abilità, eccetera.
Sempre più massicciamente agli stranieri "regolari" si sono (o sono stati) affiancati gli "irregolari", i "clandestini", i sans papier. Questi sono gli "ultimissimi" ed essi, per parafrasare il grande Silone, stanno molto sotto ai cavalli da corsa, ai cani da passeggio e ai gatti da salotto dei patriziati autoctoni. Stanno sotto persino ai cafoni "autoctoni", che pure ritornano lentamente ma inesorabilmente al livello sociale zero da cui erano evasi con la Liberazione.
L'ordine costituzionale che era uscito dalla seconda guerra mondiale e che sanciva l'uguaglianza di tutti i cittadini in quanto titolari di eguali diritti si rattrappisce vistosamente, sostituito da una ri-gerarchizzazione caotica e altamente pericolosa. Non solo continuano a esserci cittadini e cittadini, ma anche cittadini e… non-cittadini. E poi financo non-cittadini di serie A, B, C e così via. Perché sempre nuovi non-cittadini, nuovi stranieri, nuovi paria, nuovi schiavi entrano in gioco. Un gioco che, a ogni ondata migratoria, incrementa l'inesorabile – ora sottile, ora sprezzante – discriminazione con cui vengono “accolti” gli ultimi arrivati, le loro famiglie, i loro bambini.
Bruxelles, 22.3.2016 – “Contro il
terrorismo e l’odio: la solidarietà”
Con l'arrivo d'immigrati provenienti dalla nazione islamica questo sistema di gerarchizzazione, apparentemente indistruttibile, sembrò raggiungere il suo punto di massima perfezione.
Di lì in poi il conflitto sociale poteva essere riformulato in termini di mamma li turchi, battaglia di Lepanto ecc. Così, invece di dover contrattare aumenti salariali con gli “autoctoni”, li si poteva convogliare emotivamente in fantastiche campagne contro le moschee, i minareti e gli infedeli…
In Italia, ricordate, abbiamo assistito all'impiego di maiali leghisti, cioè di suini in carne ed ossa fatti passeggiare, pisciare e cacare – a scopo dissacratorio preventivo – su quei terreni in cui era stata autorizzata l'edificazione di moschee. In Svizzera, patria della democrazia diretta, fiorivano intanto iniziative su iniziative referendarie anti-stranieri. La destra populista di altri paesi colse fior da fiore gli “empi esempi” e in Germania nord-orientale si diffuse financo l'uso d'incendiare baracche di profughi, preferibilmente di notte, con dentro donne vecchi e bambini, in perfetto stile Ku-Klux-Klan.
Intanto veniva avanti un conflitto “titanico”, così lo definì George W. Bush, tra Jihadismo e Occidente.
Oggi si dice delle guerre sulla sponda sud del Mediterraneo che esse riguardino in ultima analisi “solo” problemi di egemonia interni al mondo mussulmano. Per capire che le cose non stanno così, basterebbe pensare all'Iraq e alla Libia. Senza contare che persino nei teatri più strettamente connessi alla lotta per l'egemonia interna all’Islam le varie fazioni combattono anche per "decidere" la strategia da opporre all'Occidente, vuoi nel concreto contrasto post-coloniale circa la proprietà e l'uso delle risorse, vuoi nel conflitto culturale globale d’ispirazione apocalittica circa la destinazione della Storia e dell'Uomo presi in mezzo tra Spirito, Natura, Ragione, Rivelazione, Salvazione e Perdizione. Temi oggi considerati noiosissimi, di cui si parla poco persino nelle aule universitarie e sulle pagine culturali dei giornaloni.
I giornaloni! Il fatto che non ti spieghino mai nulla con chiarezza e che invece confondano regolarmente le carte comprova la loro vergognosa vocazione di asservimento all'anarco-capitalismo straripante, una forza cieca e incapace di sostituirsi alla politica che però tenta in ogni modo di devastare al solo scopo di non cambiare niente.
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Due grandi emergenze neofasciste si stagliano sullo sfondo di questa nostra contemporaneità stupidissima e tragica: da un lato c’è il neofascismo di marca populista occidentale che fomenta la guerra anti-islamica promettendo un residuo benessere ai "penultimi"; dall’altro lato c’è il clerico-fascismo islamista che rifrange gli interventi armati occidentali nella forma asimmetrica del terrorismo globale, promettendo agli ultimissimi di salvaguardare la loro miserabile dittatura misogina sulle ultimissime.
Quindici anni dopo l'attentato alle Twin Towers è maturata sopra l’Europa una temibile costellazione: a) nell'ulteriore peggioramento delle condizioni geo-politiche dentro l’area euro-mediterranea si sono installate le scuole d’odio dell’Isis; b) nell'ulteriore proletarizzazione, precarizzazione e pauperizzazione delle classi medie “autoctone” si vanno a ingrossare le fila populiste; c) nell'ulteriore aggravamento delle pratiche di marginalizzazione, esclusione e discriminazione riguardanti le masse immigrate continua a incubarsi potenziale manodopera terrorista.
Finché l'esportazione della “democrazia” (ma soprattutto l'importazione di materie prime) comportava l'ammazzamento di decine di migliaia di civili chissà dove... Finché veniva accoppato Olof Palme, o Rabin, o qualche mezzo centinaio abbondante di giovani antirazzisti... Finché le tremende tensioni interne ed esterne andavano a scaricarsi sugli USA o su Israele… Fin lì, a noi euroscettici, che ce ne calava, di tutto ciò?
Oggi però assistiamo alla “saldatura”.
Il rimbalzo caotico dei nostri export/import geo-politici si ricombina con gli effetti della lotta di classe condotta "dall'alto" contro i ceti medi inquieti e tutto questo si salda con gli effetti di una xenofobia massiccia, cinica e totalmente priva di pudore.
Questa saldatura ha portato agli orrendi attentati di Parigi e di Bruxelles. Ed essa potrebbe portare a eventi ancor più luttuosi, se andiamo avanti così. Ieri le autorità belghe temevano per le centrali nucleari. Il domani, lungo questa escalation, potrebbe riservarci tremende sorprese. Anni fa da Assisi l'ex ministro della difesa americano Robert McNamara ci metteva in guardia dal rischio di subire attacchi nucleari "sporchi" nelle nostre città.
È questo ciò che vogliamo?!
Lo otterremo, se non respingeremo le pulsioni oscure che ci abitano e che tendono a perderci sia nel conflitto geo-politico, sia nella spirale delle misure recessive e antisociali, sia nella deriva d'odio populista e xenofobo che incede verso il baratro, mano nella mano con lo stragismo di marca jihadista.
Livio Ghersi: Normalità e guerra
Normalità e guerra
Di fronte a fatti come quelli accaduti a Bruxelles il 22 marzo scorso, tutti proviamo disorientamento e smarrimento: chiunque di noi poteva trovarsi in quel dato aeroporto, o in quella data stazione della metropolitana; e se non direttamente noi, potevano esserci nostri figli, nostri cari amici, nostri conoscenti.
Noi fragili umani, tuttavia, abbiamo anche un punto di forza: siamo esseri razionali. Comprendiamo quindi che abbandonarsi all'angoscia e alla paura serva soltanto a farci stare peggio. E' proprio nelle difficoltà che bisogna fare affidamento sulle nostre capacità razionali, cercando di farne l'uso migliore.
Per quanto mi riguarda, gli sforzi rivolti a trovare il giusto orientamento includono naturalmente l'ascolto delle persone abituate a ragionare in pubblico muovendo da una formazione culturale affine alla mia e, quindi, avvezze ad utilizzare un linguaggio che posso immediatamente comprendere, perché è il mio stesso linguaggio.
Mi riferisco a persone (purtroppo, non ne sono rimaste molte in circolazione) che hanno un orientamento ideale liberale, hanno studiato lungamente il pensiero di Benedetto Croce traendone proficui insegnamenti, hanno un approccio al mondo umano di tipo storicista, pur difendendo il meglio dell'eredità dell'illuminismo.
Ha scritto il professor Paolo Bonetti: «Siamo in guerra, piaccia o non piaccia questa parola, e, come accade in tutte le guerre, bisogna realisticamente adottare misure che limitano necessariamente le nostre piccole libertà quotidiane» (si veda l'articolo di Bonetti "La demagogia della libertà e della privacy", in "Legno Storto Blog" del 23 marzo 2016). Il mio giudizio è che Bonetti abbia ragione nell'invitare l'opinione pubblica a meditare sul fatto che qualcosa è successo e sta ancora succedendo; e, dunque, anche il nostro abituale tenore di vita, quella che consideravamo la nostra normalità quotidiana, devono necessariamente subìre degli adattamenti, in relazione alle misure stabilite dalle competenti Autorità per garantire la sicurezza collettiva. Dissento, invece, da Bonetti circa la parola "guerra". Ogni parola ha un suo significato proprio e non va utilizzata impropriamente. C'è poi una precisa lezione della Storia, che non si può ignorare: la dichiarazione formale dello stato di guerra si traduce, sul piano interno, in uno stato d'eccezione. Questo comporta non soltanto che per un periodo si mettano tra parentesi le garanzie costituzionali, ma legittima, in concreto, misure restrittive della libertà personale come: perquisizioni personali e domiciliari; intercettazioni ed altre forme di controllo della corrispondenza e degli altri mezzi di comunicazione interpersonale; aumento dei casi in cui si può procedere al fermo di polizia e della sua durata, prima che si possa avere assistenza legale.
Per andare alla sostanza della questione: la dichiarazione formale dello stato di guerra produce automaticamente esiti illiberali.
Ci sono forze interne "non innocenti" che enfatizzano apposta la circostanza che saremmo in guerra, per arrivare ai provvedimenti dello stato d'eccezione. Sono le eterne, classiche, forze illiberali, che tanti nomi hanno assunto in passato, ma che vogliono sempre la medesima cosa: fare fuori i dissenzienti, i rompiscatole, i critici del potere. Vogliono un bel blocco d'ordine, in cui chi governa abbia carta bianca e chi si è arricchito possa godersi in pace la sua ricchezza.
Non mi riferisco unicamente a forze di ispirazione reazionaria; la guerra è una manna dal cielo anche per gli spiriti rivoluzionari e giacobini. I diritti dell'uomo e del cittadino dovevano essere il portato della Rivoluzione Francese; ma proprio la dichiarazione di guerra all'Austria ed alla Prussia consentì ai rivoluzionari di stabilire lo stato d'eccezione interno. Così furono messi tra parentesi gli ideali della rivoluzione del 14 luglio 1789 e si ebbe la seconda rivoluzione, del 10 agosto 1792: con lo stabilirsi del Terrore.
Del resto, la stessa Rivoluzione Russa del 1917 non si è innestata come diretta conseguenza degli sconvolgimenti determinati dalla prima guerra mondiale?
Un altro liberale italiano odierno, memore della lezione crociana, Corrado Ocone ha scritto: «Abbiamo perso il senso del tragico della vita, e quindi anche della stessa libertà» (si veda l'articolo di Ocone "Come combattono le società libere", nel giornale quotidiano "L'intraprendente", del 24 marzo 2016). Vero e ben scritto: le libertà di cui godiamo, i loro istituti, le loro garanzie giuridiche, non sono fatti scontati, acquisiti una volta per tutte. Tutto ciò che è umano è precario e si può perdere. Ci sono voluti secoli di lotte per arrivare agli odierni ordinamenti liberaldemocratici e per difenderli e consolidarli si sono combattute guerre dolorosissime e rovinose: ultima la seconda guerra mondiale, contro il nazi-fascismo.
Non sono d'accordo però con Ocone quando scrive: «L'attacco alla libertà viene questa volta dall'esterno, da una "cultura altra" che eravamo convinti di poter integrare».
Posso sbagliare, ma nell'espressione "cultura altra" mi sembra di cogliere un senso di superiorità, un guardare dall'alto in basso, una "puzza sotto il naso", per usare un'espressione colorita che un napoletano può subito intendere. Ci leggo lo stesso atteggiamento di un importante collaboratore del settimanale "Il Mondo" quando era diretto da Pannunzio, Vittorio De Caprariis (1924-1964). Nel suo saggio "L'Italia contemporanea. 1946-1953", De Caprariis difese la scelta italiana di aderire all'Alleanza Atlantica (NATO), ma con un surplus di natura politico-ideologica: «quello che sfuggiva alla sinistra della DC, dossettiana o gronchiana che fosse, era che il patto era più politico che militare: proprio perché l’Italia era un paese non-atlantico ma mediterraneo, una certa visione del suo sviluppo e destino esigeva che lo si disincagliasse moralmente, psicologicamente e politicamente dal Mediterraneo e lo si rendesse omogeneo ai paesi dell’area atlantica, e la nuova alleanza sarebbe stata strumento efficace di ciò» (si veda il terzo volume degli Scritti di De Caprariis, "Momenti di storia italiana nel '900", Messina, Edizioni P&M, 1986, p. 226).
Non c'è vergogna nell'essere un Paese del Mediterraneo. Bisogna essere consapevoli della ricchissima storia di questo piccolo mare, ed anche un po' orgogliosi di farne parte. Non esistono più tanti popoli che pure furono economicamente fiorenti e culturalmente interessanti, quali i Fenici (con i loro discendenti Cartaginesi), o gli Etruschi: ma la loro eredità è stata assorbita in noi. Il Mediterraneo fu il "Mare nostro" degli antichi Romani. Attraverso il Mediterraneo, la storia di molti popoli europei si è strettamente intrecciata a quella dei popoli adenti all'Islam. I quali tutti vantano culture ragguardevoli e meritano rispetto. Cito una fonte al di sopra di ogni sospetto: uno scrittore statunitense di origine ebraica, Noah Gordon. Nel romanzo "Medicus" (titolo originale "The Physician"), si narra di un inglese vissuto agli inizi dell'undicesimo secolo. Il quale, per imparare l'arte medica, si recò ad Ispahan, in Persia; mentre a Londra ancora non si sapeva cosa fosse un ospedale, ad Ispahan si studiava medicina nella madrassa (università) con insegnanti del livello di Ibn Sina (Avicenna) e gli studenti facevano pratica medica nell'adiacente maristan (un vero e proprio ospedale, in senso moderno).
Il rapporto fra culture diverse non può essere di tipo gerarchico, da superiore ad inferiore. Nella differenza c'è l'opportunità di un arricchimento reciproco.
In conclusione espongo, in sintesi, i punti di orientamento che personalmente intendo seguire.
1) E' profondamente sbagliato teorizzare uno scontro di civiltà, in questo caso fra Cristianità ed Islam.
2) Al contrario, il mondo islamico, sia nella sua componente maggioritaria sunnita, sia nella sua componente sciita, possiede intelligenze ed energie positive che sono indispensabili per battere, sul piano spirituale-ideale, oltre che sul piano politico e militare, i fondamentalisti ed il loro nichilismo.
3) Non è interesse dei Paesi occidentali e dell'Unione Europea soffiare sul fuoco dello scontro politico in atto all'interno dei Paesi islamici in Medio Oriente e nel Nord Africa.
4) Al contrario, attraverso una seria riforma del Consiglio di Sicurezza dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), bisogna costruire un nuovo ordine internazionale, facendo in modo che i più importanti Paesi di tradizione islamica (Turchia, Iran, Egitto, Arabia Saudita) siano valorizzati e corresponsabilizzati nella costruzione di questo nuovo ordine mondiale.
5) La cosiddetta globalizzazione non ha effetti soltanto per quanto attiene ai rapporti economici e finanziari. Ha contribuito a far sì che il pianeta sia diventato sempre più piccolo e interconnesso. Ciò determina crisi soprattutto nei Paesi più legati alle proprie tradizioni: perché tutto sembra mescolarsi ed ogni precedente certezza viene di colpo messa in discussione. Dobbiamo imparare tutti a gestire la globalizzazione. Il modo migliore per farlo è quello di consentire uno sviluppo economico quanto più diffuso possibile.
6) Al contrario, se la ricchezza mondiale si concentra in pochi Stati, è inevitabile che questi attraggano i disperati di tutto il mondo, con una miscela esplosiva di rancore e di odio.
7) Il nostro attuale livello di civiltà è una conquista molto recente. Ad esempio, la condizione delle donne vedeva una loro netta subordinazione anche nei rapporti civili, come attesta il Codice Civile napoleonico del 1804. Di conseguenza, invece di trattare dall'alto in basso altre società non europee, bisognerebbe considerare che nel loro caso si tratta di processi storici non ancora compiutamente maturati.
8) Non bisogna mai dimenticarsi che l'Occidente industrializzato non ha realizzato il paradiso in Terra. Scriviamo nelle Costituzioni che tutti hanno diritto al lavoro, ma nelle economie di mercato capita o che quantità molto rilevanti di popolazione siano in stato di disoccupazione, ovvero che tanti lavoratori siano economicamente sfruttati con salari di mera sopravvivenza. Non dimentichiamoci, inoltre, del disagio giovanile, dell'uso di massa di sostanze stupefacenti, di un fin troppo fiorente mercato del sesso che fa pensare alla degradazione della dignità umana piuttosto che alla sua esaltazione in una più compiuta libertà.
9) Anche i nostri amici islamici possono aiutarci a costruire un mondo più equilibrato, ossia migliore.
Palermo, 24 marzo 2016
Livio Ghersi
giovedì 24 marzo 2016
mercoledì 23 marzo 2016
martedì 22 marzo 2016
lunedì 21 marzo 2016
Ordine del giorno coordinamento democrazia costituzionale
Cari amici e care amiche
vi inviamo l'ordine del giorno approvato in assemblea il 18 marzo 2016 e la registrazione video integrale dei lavori a cura di Radio Radicale
Ordine del giorno assemblea nazionale
Il nostro primo obiettivo in questo momento è raccogliere le 500.000 firme per ciascuno dei due referendum abrogativi riguardanti l’Italicum. Quesiti referendari che riguardano sia il carattere ipermaggioritario della legge, distorsivo della rappresentanza democratica, che è il risultato del premio di maggioranza e ancora di più del ballottaggio, sia le norme che servono a “nominare” almeno i due terzi dei deputati. Il 9/10 aprile inizierà quindi la raccolta delle firme per abrogare le due norme della legge elettorale che assomigliano fin troppo a quelle del “porcellum”, già sanzionate dalla Corte Costituzionale. Raccogliere almeno 500.000 firme per ciascun quesito referendario è un impegno difficile ma indispensabile, che si accompagna al proseguimento dell’iniziativa presso i tribunali per sollevare l’incostituzionalità della legge elettorale. Iniziativa che ha già avuto un importante risultato a Messina. Se la Camera, a metà aprile, approverà definitivamente il testo delle modifiche alla Costituzione contenute nella legge Renzi-Boschi procederemo al deposito del quesito referendario e inizieremo a raccogliere le firme per esigere il referendum costituzionale per iniziativa popolare.
Va chiarito che raccoglieremo le 500.000 firme necessarie per attivare il referendum costituzionale, ex articolo 138, in parallelo all’analoga iniziativa dei parlamentari. Infatti riteniamo necessario ed indispensabile raccogliere le firme sia per dare voce ai cittadini sia per far vivere nella campagna elettorale le ragioni del no sul merito delle modifiche della Costituzione su cui dall’inizio abbiamo insistito.
La garanzia che sarà in campo una critica netta ma di merito sulle modifiche proposte dal governo è che vengano raccolte le 500.000 firme necessarie per fare valere le ragioni del nostro No. Altrimenti potrebbe prevalere, per volontà del governo e di almeno parte dei suoi avversari politici, un referendum pro o contro il governo, lasciando in ombra il merito delle modifiche della Costituzione e la legge elettorale. Ci rendiamo conto che chiediamo a tutti coloro che sostengono la nostra iniziativa un imponente carico di impegni perché è prevedibile una sfasatura di qualche settimana tra la raccolta delle firme per abrogare le due norme dell’Italicum, che partirà il 9/10 aprile, e quella per ottenere il referendum costituzionale che deve attendere la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dopo l’approvazione della legge.
Dobbiamo sottolineare che gran parte della raccolta delle firme avverrà in contemporanea e che quindi i cittadini potranno esprimersi sul complesso dei referendum proposti da noi e così potremo meglio far comprendere l’intreccio perverso ed inscindibile tra modifiche della Costituzione e legge elettorale (Italicum) che portano al ribaltamento del fondamento parlamentare della nostra Repubblica per mettere al centro il governo, consentendo ad una minoranza di elettori di conquistare la maggioranza della Camera, unico ramo del parlamento rilevante a fronte di un Senato ridotto a dopolavoro di lusso. Si vogliono imporre modifiche istituzionali tali da consentire al governo di imporre politiche in materie di grande delicatezza ed importanza: dall’elezione del Presidente della Repubblica fino alle decisioni in materia di impegno militare, o peggio di guerra, alle condizioni di vita e di lavoro.
Il 9 e 10 aprile inizierà la raccolta delle firme per abrogare le due norme dell’Italicum, raccomandiamo ai comitati locali di curare tutti gli aspetti che consentono di garantire la piena validità dei moduli, convalidandoli come abbiamo indicato, assicurando la presenza degli autenticatori delle firme anche costruendo sinergie con gli altri soggetti che raccolgono firme per i referendum abrogativi sul lavoro e sulla scuola, notificando per tempo la presenza dei banchetti per la raccolta delle firme, che debbono sempre avere visibili i due slogan: No alla deformazione della Costituzione e Contro il carattere ipermaggioritario della legge elettorale e per garantire ai cittadini il diritto di eleggere i loro rappresentanti. Inoltre è bene avere materiale di presentazione da distribuire ai cittadini. Appena possibile quindi i moduli per raccogliere le firme diventeranno tre, uno per il referendum costituzionale e gli altri due contro l’Italicum.
Questa campagna referendaria è un modo per contrastare la sfiducia, per invogliare i cittadini ad avere protagonismo, a far valere concretamente la possibilità di contare e quindi di eservitare il diritto di ribaltare le decisioni che il governo sta tentando di imporre al paese. Anche per questo riteniamo importante un raccordo non solo operativo con le altre iniziative referendarie che sono in corso di organizzazione sul lavoro e sulla scuola e che sosterremo interamente. Per queste ragioni e perché condividiamo l’obiettivo di merito invitiamo i cittadini a recarsi al voto e a votare si al referendum contro le trivellazioni previsto per il 17 aprile, in modo da fare arrivare anche in questa occasione un chiaro messaggio al governo e alle oligarchie economiche del nostro paese.
La campagna referendaria che sta per inziare registra un’evidente sproporzione di mezzi finanziari e mediatici. Abbiamo idee forti e personalità di rilievo che sostengono questa lotta ma le nostre risorse sono del tutto insufficienti malgrado il nostro impegno sia del tutto volontario, senza rimborsi di alcun tipo. Per questo chiediamo a tutti i cittadini di sostenerci con contributi anche modesti per consentire ai due Comitati di svolgere la campagna referendaria su Costituzione e legge elettorale. Anche 5, 10 euro - risorse che tanti possono mettere a disposizione della campagna referendaria - se sottoscritti da molti possono fare la differenza e consentirci di riequilibrare almeno in parte la sproporzione delle forze in campo.
DONAZIONI COMITATO PER L’ABROGAZIONE DELLA LAGGE 52/2015 “Italicum”: Bonifico Bancario CODICE IBAN: IT69J0101003201100000015865 - BIC: IBSPITNA (per chi sta all’estero) o con Carta di Credito sul sito www.referendumitalicum.it
DONAZIONI COMITATO PER IL NO ALLE MODIFICHE COSTITUZIONALI Bonifico Bancario IBAN: IT50H0101003201100000015 772 - BIC: IBSPITNA (per chi sta all’estero) o con Carta di Credito sul sito www.iovotono.it
VIDEO INTEGRALE ASSEMBLEA registrazione di Radio Radicale: http://www.radioradicale.it/scheda/469861/assemblea-nazionale-una-primavera-per-la-democrazia
Roma 18/3/2016
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Tutte le informazioni su iniziative, ricorsi, comunicati stampa, comitati locali ricorsi ecc:
www.coordinamentodemocraziacostituzionale.net
giovedì 17 marzo 2016
mercoledì 16 marzo 2016
Felice Besostri: Germania Landtagswahlen 2016: UNA SVOLTA A DESTRA SENZA ALTERNATIVE
Germania Landtagswahlen 2016: UNA SVOLTA A DESTRA SENZA ALTERNATIVE
di Felice Besostri
Ci sono due verità incontrovertibili risultanti dalle elezioni tedesche in 3 Länder, SASSONIA –ANHALT, RENANIA-PALATINATO e BADEN-WÜRTTEMBERG, il primo nella Germania orientale (ex DDR) e gli altri nel sud cattolico. Diverse anche le formule di governo uscente una groβe Koalition a guida CDU nella Sassonia-Anhalt e 2 governi rosso-verdi, nel Baden con il verde Winfried Kretschmann a capo e nella Renania-Palatinato la rossa Malu Dreyer. La prima verità: una svolta a destra trionfale con la AfD, secondo(SA) o terzo Partito(BW e RP) e con percentuali dal 12,6%(RP) al 24,2%(SA). La seconda la Linke non prende un voto dalle perdite a due cifre della SPD nel BW(-10,4%) e nella SA(-10,9%) e non entra per questo nei due Landtag del BW e della RP, inchiodata rispettivamente al 2,9% e al 2,8% ad Ovest e nel Land della ex DDR scende dal 23,7% al 16,3% e da secondo a terzo partito superata dalla AfD, che supera anche la SPD nel BW e nella SA.
Il terremoto politico è tale che le formule di governo uscente sono sempre state battute. Nella SA la grande coalizione CDU-SPD e nel BW e nella RP i governi rosso-verdi, ma con il successo spettacolare del Partito del Ministerpräsident/in i verdi di Kretschmann nel BW con il 30,3% e 47 seggi e i socialdemocratici della Dreyer nella RP con il 36,2%(+0,5%). L’unico Ministerpräsident punito è stato Reiner Haseloff della CDU anche se ha contenuto le perdite ad un -2,4% e conservato iol primo posto della CDU. Una vittima collaterale, particolarmente significativa, nella Renania palatinato è stata la democristiana Julia Klöckner, che ambiva a sostituire Frau Merkel , con una critica radicale alla sua politica di accoglienza. Ha perso credibilità dopo una campagna elettorale arrogante con la parola d’ordine di far diventare la CDU il primo partito e di sostituire Malu Dreyer alla testa del Land: risultato -3,4%. Resta con la soddisfazione che la maggioranza rosso-verde non c’è più per le perdite dei verdi, che perdono i due terzi dei voti dal 15,4% al 5,3% passando da 17 a 6 seggi. Lo storico partito liberale miglora le sue posizioni nel senso che conquista complessivamente 24 consiglieri a fronte dei 7 uscenti, resta con incremento di voti e seggi nel Landtag BW con 12 consiglieri l’8,3%, entra nella RP con 7 seggi e il 6,2% e resta fuori in SA con il 4,9 %. In Sassonia Anhalt la maggioranza è di 44 seggi , nella Renania Palatinato di 51 e nel Baden Württemberg di 72. Dalle tabelle in calce si evince che le maggioranze uscenti sono state sconfitte ed alleanze con solo 2 partiti sono possibili soltanto nella RP con una grande coalizione SPD-CDU con 77 seggi e nel BW con una formula verde-nera con 89 seggi. Scompare anche l’unica maggioranza, molto teorica, rosso-rossa nella SA, che contava su 55 seggi su 106. La SPD della Renania ha escluso un’alleanza con la CDU, ma cercherà di mettere d’accordo con lei sia i verdi che i liberali, per una maggioranza al pelo di 51 seggi . La stessa formula, che i tedeschi definiscono semaforo dai colori dei partiti SPD rosso, FDP giallo e GRÜNEN verde può valere per il BW con una più larga maggioranza di 78 seggi su 143. In Germania la formula del Governo centrale non è decisiva per le coalizioni nei Länder. Ci sono state maggioranze Jamaica, dai colori di quella bandiera di CDU nero, FDP giallo e GRÜNEN verde. Il rebus è la SA a causa di concomitanti il successo doppia della AfD 24,2% rispetto al 12,6% della RP e una Linke, terzo partito e il 16,3%. In quel Land l’unica maggioranza possibile è un’inedita coalizione CDU, SPD e GRÜNEN. I successi di Verdi e Socialdemocratici, che dall’opposizione e dal Governo hanno appoggiato la politica di apertura della Merkel sui profughi stanno ad indicare, che c’è un’opinione pubblica ancora vincolata ai valori democratici. I voti della AfD provengono da molte parti non solo dalla CDU, che in SA ha perso il 2,7%, nella RP il 3,4% e nel BW il 12% , solo in questo Land vi è una relazione stretta con il risultato della AfD (15,1%). Dal 2013 si sono intensificati i rapporti dell’ex socialdemocratico Thilo Sarrazin, un critico dell’immigrazioni , del sostegno alle politiche sociali e dell’euro. Tranne che in SA è diminuito il voto per altre formazioni, tra cui i Piraten, ed è diminuita l’astensione in modo significativo: -4,2% in BW, - 8,6% in RP e – 9,9% in SA. In passato formazioni di destra con tratti neonazisti, come la NPD o i Republikaner erano riusciti a passare la soglia del 5% ed essere rappresentati nelle assemblee dei Länder, ma mai con le percentuali della AfD, che è molto più pericolosa, in quanto più “rispettabile”. La vicenda delle politiche di accoglienza sta dimostrando che non ci sono vaccini politici od ideologici e che si pongono alla testa della chiusura delle frontiere esponenti di partiti del PPE, come il fascistoide ungherese Orban o il socialdemocratico nazionalista slovacco Fico o i polacchi con dio, patria e famiglia sulle loro bandiere come Prawo i Sprawiedliwość (Diritto e Giustizia). Prevalgono risposte emotive e nazionali tanto più esacerbate quanto più le politiche di austerità hanno ridotto il welfare state universale per tutti e, comunque, finché guerre, carestie, epidemie, repressioni spingono alla disperazione e alla fuga decine di milioni di persone, che saranno nulla quando sarà la volta delle migrazioni climatiche. Problemi che nessuna dimensione nazionale è in grado di affrontare senza mettere in forse la tenuta delle istituzioni democratiche. Non ci sono ricette semplici e scorciatoie, ma è ancora più preoccupante che non ci siano luoghi dove tentare di cercarle, nemmeno a sinistra.
Avvertenza: in Germania non sempre il numero dei seggi è fisso e possono aumentare anche in maniera significativa quando ci sono partiti senza o con pochi mandati diretti, con la necessità di riproporzionalizzare la rappresentanza.
SASSONIA –ANHALT SACHSEN-ANHALT
CDU 29,8% -02,7% seggi 30 -12
AfD 24,2% +24,2% 24 +24
LIN 16,3% -07,4% 17 -12
SPD 10,6% -10,9% 11 -15
GRÜ 5,2% -01,9% 5 -4
FDP 4,9% +01,1%
Altri 9,0% +2,0%
RENANIA-PALATINATO RHEINLAND-PFALZ
SPD 36,2% +0,5% seggi 39 - 3
CDU 31,8% -3,4% 35 - 6
AfD 12,6% +12,6% 14 +14
FDP 6,2% +02,0% 7 + 7
GRÜ 5,3% -10,1% 6 -11
LIN 2,8% -02%
Altri 5,1% -1,4%
BADEN-WÜRTTEMBERG
GRÜ 30,3% +6,91% seggi 47 +11
CDU 27,6% -12% 42 -18
AfD 15,1% +15,1% 23 +23
SPD 12,7% -10,4% 19 -16
FDP 8,3% +03% 12 + 5
LIN 2,9% +0,1% 0 =
Altri 3,7% -1,9%
Milano-Zurigo 14 marzo 2016
martedì 15 marzo 2016
domenica 13 marzo 2016
Vittorio Melandri: La sinistra italiana si rassegni a fare senza il PD
LA SINISTRA IN ITALIA SI RASSEGNI A FARE SENZA IL PD
Su “la Repubblica” bisogna arrivare a pagina 10 per trovare tracce delle “scintille fra opposti Pd”, che occupano l’apertura di prima pagina su “il manifesto”.
Al di là dell’essere in sintonia con il me (mé) dicente “house organ” del PD, o con il sé dicente “quotidiano comunista”, credo sia sintomatico dello stato febbrile della stampa in Italia, una così plateale differenza di trattamento per una “notizia” che comunque, volenti o nolenti, investe gli interessi dei cittadini del bel Paese.
Sia dei cittadini attenti alla politica, perché consapevoli che ci riguarda da molto vicino, sia di quelli più interessati alla “movida”, perché consapevoli che quello che conta è come far arrivare l’ora di andare in discoteca, senza arrivare in questo “unico” caso, sfigatissimi primi.
Sono inguaribilmente convinto dell’importanza delle forze che si coagulano attorno al PD, per le sorti della sinistra in Italia.
In quel “buco nero” sono finite energie indispensabili alla riuscita di un principio di rinascita di speranza (al momento solo principio e solo speranza), della sinistra in Italia.
Dopo che si sono create le condizioni perché un ‘democratico cristiano’ giovane, e risoluto quanto verace, risultasse vincente di un’Offerta Pubblica di Acquisto, inopinatamente messa in piedi dai superstiti del crollo del Muro di Berlino, la cosiddetta “MINORANZA DEM” si consola nel suo insieme ripetendo di continuo giaculatorie tipo …. “noi restiamo a casa nostra”.
Indifferenti al fatto che nel frattempo di “casa loro”, siano rimaste al più le pareti, intanto che il nuovo amministratore ha già trasferito altrove anche i “cento chiodi” cui stavano appesi i quadri alle pareti.
Sentita ripetere per l’ennesima volta questa pietosa cantilena da San Martino in Campo (PG), sono stato assalito da una dubbiosa domanda.
Dove sta la “cassa” del PD?, dopo che la fusione fredda di DS e Margherita ha generato il “buco nero” che gli astronomi hanno appunto chiamato PD, i soldi, quelli legittimi sia chiaro, quelli in capo a proprietà mobili e a proprietà immobili, quelli per intenderci che nei DS erano sotto la tutela amministrativa di tal Sposetti, e nella Margherita erano stati pure amministrati da tal Lusi, come si sono “fusi insieme”???
Un noto ritornello recita così …
Casa mia casa mia per piccina che tu sia …..
Forse è a quel ritornello che occorre riandare per farsi una ragione del fatto che, D’Alema o non D’Alema, Renzi o non Renzi, la sinistra in Italia deve ormai rassegnarsi a fare senza il PD.
Quello di Renzi ovviamente, che di sinistra non ha niente, anzi proprio niente, ma anche quello della cosiddetta minoranza Dem, cui forse si dovrebbe andare in soccorso con l’equivalente di una “legge Bacchelli”, quella legge n. 440 varata l’8 agosto 1985, promulgata dal vituperato Governo Craxi (I), che ha istituito un fondo a favore di cittadini illustri che versino in stato di particolare necessità.
vittorio melandri
sabato 12 marzo 2016
Franco Astengo: Questione morale
ANCORA SULLA CENTRALITA’ DELLA QUESTIONE MORALE di Franco Astengo
Le notizie più importanti riguardanti le tormentate vicende italiane stanno nelle pagine interne dei giornali e sono soprattutto due:
1) La prima riguarda il rapporto annuale della Guardia di Finanza che definisce come ben oltre i livelli di guardia quelli della corruzione, sia in alto, sia in basso. Un appalto pubblico su tre è irregolare, con una “distrazione” complessiva per 3,5 miliardi di euro. Questo avviene “in alto” nel rapporto tra pubblica amministrazione e sistema delle imprese. Tra i “comuni” cittadini, invece, si nota che – ad esempio – nove controlli su dieci sull’esenzione del ticket sanitario e sei su dieci sulle prestazioni sociali risultano irregolari. In sostanza, tra sprechi della P.A. e truffe sui pubblici finanziamenti, nel 2015, lo Stato italiano ha subito un danno patrimoniale di 4,35 miliardi (furono 2,67 nel 2014), mentre gli evasori fiscali sono saliti del 7,4%;
2) La seconda riguarda la manipolazione delle sentenze di giustizia tributaria, con sentenze elaborate direttamente dagli avvocati dei ricorrenti al contenzioso in cambio di mazzette ai magistrati.
La “periferia” non è comunque da meno, se si pensa ai dirigenti dell’AMIU genovese arrestati per le presunte malversazioni al riguardo della tanto decantata raccolta dei rifiuti “differenziata”.
L’elenco, regione per regione, di situazioni analoghe nei campi più diversi potrebbe però risultare molto lungo.
Ancora, nelle ultime ore, è uscita la vicenda ANAS: ancora una lunga storia di malversazioni, tangenti e quant’altra robaccia del genere con al centro le solite banalità : vacanze a scrocco, tangenti per pranzi e cene, vita allegra dei vari “ras” e delle diverse “zarine” magari sponsorizzate dall’UDC.
Rimane così scolpita, come sempre nella storia più recente, l’assoluta centralità di una “questione morale” fondata su di una totale simbiosi tra “pubblico e privato”, tra la politica e quella che viene sbrigativamente ma in maniera errata, “società civile”. Simmetricamente un vero e proprio “inquinamento morale”.
In prima pagina troviamo, invece, la miseria dell’accattonaggio: soltanto così si po’ definire l’esistenza di una vera e propria industria della miseria come quella del voto di scambio rilevato alle cosiddette “primarie” napoletane del PD.
Dentro a questo meccanismo infernale ci stanno tutte le categorie che dovrebbero costituire la nuova “classe dirigente”: politici, manager delle istituzioni e del “privato”, magistrati e vasti strati di popolazione in un intreccio che la dice lunga, visti i fatti, sulla debolezza strutturale del sistema di relazioni tra il politico e il sociale, sempre più misurato sul grande e piccolo inganno, sulla mistificazione, sulla confusione (voluta) nei ruoli.
Altro che “governabilità” e capacità di “leadership”!
Si cerca di affondare la realtà con la propaganda, affidando il governo ai trucchi delle deformazioni costituzionali e dell’Italikum.
Un Presidente del Consiglio nato “politico” professionista che semina, a piene mani, non tanto la “cultura del fare” (di cui conosciamo bene la matrice pseudo – culturale) ma una vera e propria qualunquistica ostilità alle logiche più coerenti dell’agire politico: uno squadrismo verbale, quello di Renzi, che può davvero lasciare un segno fortemente negativo nelle prospettive future.
La politica sfugge, poco a poco, nel suo essere alla comprensibilità dei più e fa scivolare via via il Paese nel baratro dell’indifferenza.
Un’indifferenza pericolosa perché alle sue spalle si trovano sempre le soluzioni più negative per la democrazia e per le condizioni materiali di vita dei ceti popolari.
Non c’è “Partito della Nazione” ma incredibilità diffusa e individualismo da “si salvi chi può”: l’unico fattore collettivo rimasto in campo appare essere quello del classico “arrangiarsi” diventato fenomeno di massa.
Un “arrangiarsi” per tenere in piedi il potere di consorterie e cordate, alimentando, al Sud come al Nord come in tutta Italia, la spirale perversa di questa gigantesca “questione morale” che è costituita soprattutto da un enorme fenomeno di disonestà intellettuale.
Mentre la BCE si muove in modo da essere considerata una semplice erogatore di liquidità per le banche le controversie sui dati econometrici, a livello nazionale, fanno sorridere: basta scendere in profondità, nella realtà della vita quotidiana, per accorgersi della drammaticità nella quale si trovano i settori principali della nostra realtà, dai migranti al lavoro, dallo stato sociale alle condizioni del territorio.
Si discute molto di spazio politico a sinistra, anche con qualche inesattezza fondamentale come quella alimentare l’equivoco di un PD di sinistra.
Sembra proprio una discussione inutile.
Una sinistra la cui esistenza è ampiamente giustificata dalla gravità profonda delle contraddizioni in atto e dalla necessità inespressa ma evidente di innovare davvero la grande tradizione del movimento operaio non può soffermarsi sui “giochi tattici” portati avanti da chi tanto ha fatto per distruggerla nel suo insieme e adesso pretenderebbe di recuperarne il patrimonio (e non mi riferisco semplicemente all’interno del PD o alle sue mini – scissioni con annessi personalismi deteriori).
Occorre un’aggregazione in grado di sviluppare davvero l’opposizione ai progetti reazionari, nazionalisti, bellicisti di questo governo che si esprimono nella sua politica estera, in quella economica e nelle tragedie delle riforme costituzionali ed elettorali.
Un’opposizione che parta da una proposta di risanamento morale come presupposto ad un possibile risanamento politico.
Un “muoversi contro” questa situazione considerata nel suo insieme in un’idea fondativa di recupero di riaggregazione quale solo presupposto per ridefinire un progetto di sistema e la riappropriazione di un’identità: questa è la priorità assoluta da porre al centro di un progetto politico.
Il resto appare come una sequela di banali ripetitività.
venerdì 11 marzo 2016
BISCARDINI, MILANO, PROSEGUIAMO SULLA STRADA DEL PROGETTO MUNICIPALE.
BISCARDINI, MILANO, PROSEGUIAMO SULLA STRADA DEL PROGETTO MUNICIPALE.
Dichiarazione di Roberto Biscardini: “E’ evidente che il sistema politico è instabile a Milano come altrove. Non c’è esperienza di primarie del centrosinistra che regga allo sfarinamento delle coalizioni. Milano ne è un esempio eclatante. Noi di Costituente per la Partecipazione siamo partiti dalla lista civica e municipale e lì siamo. Un progetto per dare voce ai cittadini contro tutti i giochi della vecchia politica. Contro il canto del cigno dei vecchi schieramenti. Centrosinistra e centrodestra, due cose entrambe superate, per ragioni diverse ma superate. Cose del passato che non ritorneranno più.
Quindi bisogna cambiare pagina e la politica deve ripartire dai cittadini, che vengono considerati a sproposito dagli attori maggiori degli spettatori ai quali si chiede solo di andare a votare ogni cinque anni. Poi ci si dimentica di loro, dei programmi e si tira a campare. I cittadini più responsabili l’hanno capito e vogliono partecipare alla vita politica con continuità. Vogliono essere dei governanti e non solo degli elettori. Vogliono essere informati e non lo sono. Vogliono il rispetto delle regole e legalità, ma sia la politica e sia la burocrazia, ancora peggio, li considera dei sudditi. Bisogna partire da questa necessità. Da questa necessità di cambiamento profondo per avviare una protesta larga, costruttiva e democratica. Ma una protesta è. Per prepararci a costruire dal basso un nuovo progetto politico. Come abbiamo sempre detto un progetto partecipato e largo, che abbia una grand e idea e una visione chiara per Milano, ma non perda di vista l’esigenza di una solida e radicata idea della democrazia civica. In questo senso siamo noi che possiamo meglio di altri rappresentare la speranza tradita rappresentata da Pisapia nel 2011. Anche senza volerlo, siamo noi gli eredi di quel mondo arancione che prese forma allora e di cui oggi non c’è più traccia. Di quella prospettiva non è rimasto pressoché niente, nemmeno gli uomini e le donne che lo avevano interpretato nelle istituzioni. Vedere Pisapia e Ambrosoli sostenere Sala ha dell’incredibile. Anzi è la traduzione plastica di una cosa che non c’è più. Costruire un area civica larga e trasversale è alla base del nostro progetto e del lavoro ormai ben avviato.
In gioco c’è il futuro di Milano e le condizioni di vita dei cittadini della grande Milano, questo è il punto su cui concentrarsi e da qui bisogna partire per un confronto con la città.”
mercoledì 9 marzo 2016
Lettera ai compagni da Area socialista
LETTERA AI COMPAGNI DA AREA SOCIALISTA
Cari compagni,
come avrete visto di fronte alla indisponibilità della segreteria nazionale ad aprire un confronto serio sulla politica e a garantire uno svolgimento regolare del Congresso, Area Socialista ha valutato l’opportunità di non partecipare al prossimo congresso nazionale del Partito.
Ciò vuol dire che non presenteremo alcuna mozione alternativa e naturalmente tutti coloro che sono critici nei confronti della segretaria nazionale non firmeranno la mozione che verrà presentata dalla maggioranza. Nei prossimi giorni decideremo insieme le iniziative alternative che occorrerà programmare.
La nostra proposta è che Area Socialista resti nel Partito, non partecipi al Congresso nazionale e possa convocare gli Stati generali del socialismo italiano per il prossimo mese di aprile.
Pensiamo inoltre che i compagni, in sede locale, valutino come partecipare e se partecipare ai congressi provinciali e regionali che si terranno comunque dopo il congresso nazionale.
A presto
Bobo Craxi, Roberto Biscardini, Pieraldo Ciucchi, Gerardo Labellarte, Aldo Potenza, Angelo Sollazzo.
Franco Astengo: Primarie
LE PRIMARIE VEICOLO DELL’INDIVIDUALISMO E DI ULTERIORE INQUINAMENTO DELLA POLITICA ITALIANA di Franco Astengo
Il sistema politico italiano è da tempo inquinato da una apparentemente irrisolvibile”questione morale” ben più incancrenita di quanto sarebbe sopportabile in un “normale” sistema democratico.
Inutile fare l’elenco dei casi in questioni: è ben noto e sarebbe troppo lungo.
In questo quadro complessivo di inquinamento corruttivo, del quale si deve parlare senza alcun timore di essere tacciati di qualunquismo, si è innestato un ulteriore elemento: quello delle cosiddette “primarie” organizzate dal PD in determinate occasioni per scegliere i candidati alle elezioni.
Dopo il caso della Liguria nel 2015, ecco quello della Campania, laddove i protagonisti dei tentativi di estromissione sono esponenti “storici” di provenienza PCI: prima Cofferati, poi Bassolino (senza alcuna idea di fornire giudizi positivi su questi personaggi, il dato sottolinea soltanto una derivazione politica e non di più).
Estromissione da parte di giovani rampanti (ci sarebbe da riflettere ancora sulle donne in politica che usano tutte le armi del vecchio dominio maschilista) perfettamente allineati al nuovo corso autoritario, personalistico, individualistico.
Sono questi gli elementi che corrompono, nel profondo, questo presunto “agire politico” e portano, considerando la propria affermazione personale come l’unica ambizione perseguibile, a episodi come quelli cui stiamo accennando.
Il ricorso presentato da Bassolino sull’esito delle primarie napoletane ( già annullate nel 2011 per episodi analoghi) conferma le primarie come veicolo di questo “individualismo competitivo” fonte, appunto, di ulteriore inquinamento della politica italiana.
Purtroppo, se guardiamo alle vicende del M5S, il quadro appare sostanzialmente analogo: un inquinamento principiato e proseguito da destra con la logica dell’esaltazione della personalizzazione avvenuta attraverso il ruolo svolto da Forza Italiana nella trasformazione di quello definito “all catch party” in partito personale (da Kirchhmeier a Calise).
Le primarie non rappresentano un momento di esaltazione della democrazia ma un’esaltazione dell’individualismo e della trasformazione dei soggetti politici in un insieme di comitati elettorali che vivono soltanto di sondaggi adeguando la propria azione al loro esito (come risulta clamorosamente in ogni atto di questo Governo) e di cordate in modo da impedire anche il minimo di solidarietà che dovrebbe comunque sussistere in quella che si vorrebbe ritenere ancora una “comunità politica” e che invece non lo è proprio più.
Radicamento di massa, funzione pedagogica, rappresentatività politica e sociale anche nella presenza istituzionale, politica delle alleanze: tutti elementi smarriti in questo quadro così triste.
E’ sbagliato votare una persona per una persona: si creano grandi e piccoli mostri.
Le persone svincolate dalle idee rappresentano soltanto l’arroganza e la presunzione.
martedì 8 marzo 2016
Franco Astengo: Eleggibili
SETTANT’ANNI FA. LE DONNE ELETTRICI ED ELEGGIBILI di Franco Astengo
Il 10 Marzo 1946, con l’emanazione del decreto legislativo luogotenenziale n.74, fu completato l’iter che portava l’Italia nel novero dei paesi a suffragio universale: le donne non soltanto erano ammesse al voto come elettrici, ma rimediando ad una lacuna (dimenticanza o volontà del legislatore, l’origine di quel “buco” non è mai stata chiarita) del decreto del 1 Febbraio 1945 potevano anche essere elette se, nel giorno delle elezioni, avessero compiuto il venticinquesimo anno d’età.
Ripercorriamo allora la storia dell’inter legislativo compiuto in quel periodo.
Il 30 Gennaio 1945, con l'Italia ancora divisa in due, il Consiglio dei Ministri, presieduto da Ivanoe Bonomi, dopo aver esaminato la questione dei collocamenti a riposo di funzionari civili e nella riserva di militari per motivi di epurazione ed altre proposte del ministro della Guerra, affrontò (riportiamo dal verbale della seduta): “ la questione del voto alle donne. Il Ministro Brosio si dichiara favorevole a tale concessione, ma fa presente che trattandosi di una riforma importante sarebbe opportuno che il relativo progetto di legge avesse il conforto della discussione in assemblea consultiva. Dopo alcune osservazioni di altri Ministri, il Consiglio, a conclusione, decide l'estensione del diritto elettorale alle donne ed approva, in conseguenza, uno schema di decreto legislativo luogotenenziale con il quale il diritto di voto viene riconosciuto alle donne che abbiano compiuto il 21° anno di età al 31 Dicembre 1944”.
Il Presidente Bonomi aggiunge: “ poiché in quello stesso giorno entrava in vigore la disposizione per la formazione delle liste elettorali in tutti i Comuni dell'Italia liberata, la deliberazione giungeva in tempo perché, fin dall'inizio del lavoro, si procedesse ad iscrivere nelle nuove liste gli uomini e le donne”.
Era così sancito il raggiungimento dell'obiettivo di una lotta secolare delle donne europee e americane (nel 1869 in Gran Bretagna era stato concesso il voto alle donne nubili o vedove, esteso poi 25 anni dopo anche alle coniugate che, fino a quel punto, evidentemente si pensava dovessero essere politicamente rappresentate dal marito).
In Italia la lotta per il suffragismo aveva vissuto fasi di minore intensità, anche se va ricordato come al primo congresso nazionale delle donne italiane, tenutosi a Roma dal 24 al 30 Aprile 1908, fu approvato un ordine del giorno che chiedeva come alle donne fosse concesso il voto amministrativo e politico, nella stessa misura in cui questo era concesso agli uomini, auspicando che fra le donne italiane si intensificasse la propaganda fino al raggiungimento di questo fine.
Torniamo, comunque, al decreto del 31 Gennaio 1945, meglio noto come decreto “De Gasperi – Togliatti”, dal nome dei due ministri che con maggiore nettezza si erano espressi in favore del voto alle donne nel periodo precedente: in quel momento il decreto apparve quasi come una sorta di ovvio completamento del nuovo processo democratico.
Al punto che l'eco sulla stampa fu scarso, come ricorda Anna Rossi – Doria nel suo saggio “Le donne sulla scena politica”, apparso nella “Storia dell'Italia Repubblicana” edita da Einaudi e a cui si devono molte delle informazioni contenute in questo testo.
Indubbiamente il fatto che il decreto fosse emanato in un momento in cui il potere legislativo spettava solo al governo lo reso meno solenne dal punto di vista giuridico: un dibattito parlamentare avrebbe sicuramente definito meglio questo passaggio, pure fondamentale per la nuova democrazia italiana.
A determinare la decisione del governo valsero certamente elementi diversi: la richiesta formulata dal governo dal CLN; l'analoga decisione presa dal CLN francese; la scadenza per la preparazione delle liste per le future elezioni amministrative; soprattutto la campagna per il voto, condotta unitariamente da tutte le associazioni femminili.
A conferma della scarsa attenzione dedicata dal Consiglio dei Ministri alla misura adottata, in essa fu dimenticato un particolare certamente non secondario: quello relativo all'eleggibilità delle donne.
Per l'elettorato passivo al femminile bisognerà attendere, infatti, il decreto del 10 Marzo 1946, n.74, emanato davvero all'ultimo momento (la settimana successiva si sarebbero svolte, come vedremo meglio in seguito, la prime elezioni amministrative in tutta una serie di Comuni).
In cambio il Governo si affrettò a far aggiungere all'elenco dei punti da trattare nelle relazioni mensili e settimanali dei prefetti il “movimento politico femminile”, che, evidentemente, con la concessione del voto aveva acquistato interesse.
Nella generale sottovalutazione del provvedimento, fa eccezione “L'Unità” che, attraverso l'editoriale “Vittoria della democrazia” del 31 Gennaio 1945 scrive:
“ Questo avvenimento (il voto alle donne. n.d.r.) è una grande vittoria della democrazia, giacché una forza politica nuova viene immessa nella vita nazionale... si tratta di una scelta validissima di nuovi dirigenti, i quali, particolarmente per quanto concerne i problemi della vita cittadina, della vita locale, hanno l'enorme vantaggio di conoscere e sentire più direttamente i bisogni più immediati dei singoli e delle famiglie. Una ventata di sano buon senso entrerà sicuramente nella vita politica, e nella vita amministrativa entrerà con le donne un maggior spirito di concretezza...Noi comunisti siamo stati e siamo ardenti fautori della partecipazione delle donne alla vita politica... Ma...sarebbe un grande errore il supporre che il senso di responsabilità acquistato nella lotta quotidiana contro le difficoltà della vita possa pienamente tener luogo alla coscienza politica... Le militanti democratiche sapranno dare alle donne italiane una coscienza democratica, esse sapranno valorizzare politicamente le grandi qualità naturali che le donne porteranno nella vita pubblica”.
E' soprattutto l'UDI a rivendicare il merito della conquista, per la quale si era, in effetti, effettivamente battuta.
E' necessario però rilevare come i primi interventi dell'UDI a favore del voto alle donne, fossero piuttosto orientati a presentarlo come uno strumento di difesa della famiglia piuttosto che come un diritto individuale, tranne che per il tema del diritto all'eguaglianza nel lavoro (secondo le priorità che erano già state indicate nei documenti politici della Resistenza).
Leggiamo, allora, da un volantino diffuso dall'UDI il 5 Febbraio1945:
“ Donne d'Italia! In seguito alla campagna iniziata e condotta energicamente dall'Unione Donne Italiane, il 30 Gennaio il governo democratico ha emanato la legge che accorda alle donne il diritto di voto...Per noi il voto significa partecipare al governo della cosa pubblica e quindi: poter allevare degnamente i nostri figli; ricostruire le nostre famiglie; concorrere a tutti i posti a cui le nostre capacità ci danno diritto; impedire che i nostri figli, i nostri mariti, i nostri fratelli siano trascinati ancora in guerre ingiuste”.
Le donne cattoliche si erano impegnate, in questa battaglia , in modo molto simile a quelle dell'UDI e , inizialmente, presentarono il diritto di voto come una mera estensione alla sfera pubblica del ruolo familiare delle donne.
Leggiamo, dal “Popolo” (organo della DC) del 3 Gennaio 1945, un brano dell'articolo scritto da Anna Maria Guidi Cingolani e titolato “ La partecipazione delle donne alla vita politica”:
“ Il cliché della donna comiziante, galoppina, deputatessa, è un cliché che va spezzato prima di essere adoperato...Si tratta in sostanza di completare la funzione delle donna, per rendere più efficace la sua stessa missione di sposa e di madre...Certamente la donna orienterà la sua attività politica verso quei partiti che le garantiranno l'integrità, la sanità, lo sviluppo delle famiglie”.
Ancora in un circolare interna per le donne democristiane (Torino, luglio 1945):
“ Non resta per la donna italiana che far pesare sul piatto della bilancia riservato al bene comune, quelle doti di moralità e senso pratico, che talvolta...pesavano solo sull'altro piatto destinato al bene ristretto di una società famigliare che, pur essendo il centro e la forza di tutta quanta l'organizzazione umana, può diventare invece un circolo chiuso di egoismo”.
Sia le comuniste, sia le cattoliche, dunque, in un primo momento collocano il voto nella tradizione conservatrice in base alla quale le donne hanno servizi da rendere, non diritti da rivendicare.
Non emerge, insomma, dalle fonti politiche il senso di una nuova libertà personale legata al diritto di voto che, invece, sembrava diffuso tra le donne: ancor oggi molte testimonianze orali ricordano la grande emozione, provata il giorno delle prime elezioni).
Le donne politicizzate daranno subito al voto il significato essenziale di uno strumento da utilizzare per colmare il divario tra diritti politici e diritti civili.
Nel dibattito successivo, nella commissione dei 75 che redasse il testo della Costituzione Repubblicana, nell'ambito dei lavori dell'Assemblea Costituente, Nilde Iotti dichiarò:
“ Dal momento che alla donna è stata riconosciuta, nel campo politico, piena eguaglianza col diritto di voto attivo e passivo, ne consegue che la donna stessa dovrà essere emancipata dalle condizioni di arretratezza e di inferiorità in tutti i campi della vita sociale” (Commissione per la Costituzione, I sottocommissione. “Relazione dell'On. Signora Jotti Leonilde sulla famiglia. In “Assemblea Costituente, Atti della Commissione per la Costituzione, vol.II Relazioni e Proposte).
Le rarissime voci che, in occasione del vero dibattito sul voto alle donne, che si svolse alla vigilia delle elezioni amministrative del 1946, stabiliscono un nesso tra il voto e una trasformazione delle vita individuale delle donne sono quelle di personaggi politicamente eccentrici.
Sulle colonne dell'Unità del 26 Febbraio 1946 ( “ La sorte della donna”), Sibilla Aleramo, pur senza nominare il femminismo prefascista, ne riprende la traccia parlando del valore della partecipazione alle elezioni per il riscatto personale della donna: “che ne “ha coscienza” e compiendo il primo gesto “civile”, assume una dignità che le sarà di sostegno e di difesa per tutta la lunga, lunghissima strada”.
In realtà esisteva un nesso molto stretto tra il diritto di voto e la acquisizione, nuova per le donne, di un riconoscimento di esistenza individuale.
Tale acquisizione non riguardava affatto, come molte donne sia cattoliche, sia comuniste, pensavano, sole le borghesi.
Recenti studi sulla realtà contadina hanno posto in luce come, in quel ceto sociale, il voto per le donne avesse rappresentato la prima esperienza generalizzata e storicamente significativa di integrazione nel processo di individuazione, nel più importante, dunque, dei processi che caratterizzano la modernizzazione in senso socioculturale.
IL diritto/dovere di voto esplicitava l'esistenza di individualità femminili, perché le rendeva, in quanto individualità, titolari di un comportamento formalmente definito e garantito; e altrettanto esplicitamente valorizzava l'indipendenza e l'autonomia messe in atto nel comportamento stesso, in opposizione aperta alla definizione tradizionale della donna subordinata al marito..
Dei significati del voto alle donne la storiografia sul dopoguerra, che a stento lo nomina, non ha fin qui tenuto conto, a causa, oltre che del generale silenzio sulla storia politica delle donne, le quali compaiono in genere solo negli studi sulle lotte sociali, del fatto che è stata accettata una tesi preconcetta di voto “concesso” e non “conquistato” dalle donne.
Alcuni elementi indicano la possibilità di smentire la tesi della “concessione” : la partecipazione politica vissuta, in quel momento storico, dalle donne in forma di democrazia dal basso che pure si erano esercitate in alcune fasi della lotta di Resistenza (pensiamo alla Repubblica dell'Ossola e alla presenza, in quel frangente, di un Ministro donna, Gisella Floreanini); il ritorno della memoria della antiche lotte femminili per il diritto di voto; infine la piccola ma significativa battaglia per il voto che fu combattuta.
Il dato però più importante, sotto questo aspetto, rimane quello della smentita, sul campo, della tesi relativa all'abbassamento della partecipazione al voto che la presenza delle donne in forma attiva nella competizione elettorale avrebbe comportato, secondo alcuni critici.
La partecipazione al voto delle donne contribuì invece, in dimensione determinante, a costruire quel “caso italiano” che, per decenni, ha contraddistinto il nostro Paese, con percentuali di votanti, molto superiori a quelle degli altri paesi europei.
Questa annotazione ci introduce, così, direttamente nella seconda parte del nostro lavoro, laddove daremo conto dei primi risultati elettorali verificatisi con la partecipazione al voto delle donne.
Dunque il turno elettorale amministrativo del 1946, in base al quale si sarebbero elette le amministrazioni comunali di tutta Italia per la prima volta dalla Liberazione del Paese ( le “deputazioni provinciali” sarebbero state elette con suffragio universale per la prima volta nel 1951) si svolse in due tornate: nella primavera, in precedenza all'elezione dell'Assemblea Costituente e al referendum istituzionale e nell'autunno.
La prima occasione di voto per le donne fu dunque nel corso del turno primaverile amministrativo, svoltosi in 5 tornate, tra il 10 Marzo ed il 7 Aprile, coinvolgendo le elettrici e gli elettori di 66 province: 30 situate al Nord, 18 al Centro, 10 al Sud, 5 in Sicilia e 3 in Sardegna.
Il significato politico di quel voto risultò molto rilevante: si trattò della primissima indicazione fornita dall'esercizio fondativo della democrazia, quello del voto popolare, alle nuove forze politiche uscite dal fascismo.
Ecco l'elenco completo delle province in cui si votò nell'occasione:
10 Marzo. Arezzo, Enna, Frosinone, Grosseto, Nuoro, Rieti, Teramo.
17 Marzo: Belluno, Macerata, Vicenza, Cagliari.
24 Marzo: Ancona, Asti, Bergamo, Bologna, Campobasso, Cremona,Novara, Padova, Savona, Siena, Venezia e Vercelli.
31 Marzo: Agrigento, Brescia, Brindisi, Caltanissetta, Como, Cosenza, Cuneo, Ferrara, Forlì, Imperia, Modena, Pesaro, Pescara, Piacenza, Pisa, Potenza, Reggio Emilia, Sassari, Siracusa, Terni, Treviso, Verona.
7 Aprile: Alessandria, Ascoli, Caserta, Catanzaro, Chieti, Latina, Lucca, Massa, Matera, Milano, Parma, Pavia, Perugia, Ravenna, Reggio Calabria, Rovigo, Sondrio, Trapani, Udine, Varese, Viterbo.
Si può notare come fosse stato rinviato all'autunno il voto amministrativo in grandi città come Roma, Napoli, Firenze, Genova, Torino: una scelte che diede luogo ad un serrato dibattito politico e a diverse interpretazioni dal punto di vista del significato del voto, in gran parte concentrato nella “provincia” e non nelle metropoli, in relazione al voto sul referendum istituzionale, in quel momento al centro del confronto, ma deve anche essere tenuto in conto il dato della necessità di ricostruire per intero lo schedario elettorale dei Comuni, un lavoro svolto febbrilmente ma che, in certi casi, aveva avuto necessità di tempi più lunghi proprio perché le operazioni del 2 Giugno (Costituente e Referendum) alla fine risultassero, come fu, assolutamente regolari.
I dati che seguiranno si riferiscono esclusivamente ai Comuni capoluogo delle province dove si è votato nella tornata primaverile.
Si tratta del dato che può essere considerato maggiormente omogeneo sul piano politico(il sistema proporzionale era previsto soltanto per i comuni superiori ai 30.000 abitanti), perché nei comuni minori si diede luogo ad una variegata gamma di presentazioni in alleanza, con liste civiche, di indipendenti ( gli indipendenti in molti casi “mascherarono” le forze moderate del centrodestra) e quindi ci troviamo nell'impossibilità di stabilire una mappa provvista di una qualche attendibilità, a quel livello.
Il voto dei capoluoghi, invece, può essere analizzato nel merito circa il profilo politico complessivo ed essere anche paragonato, senza eccessiva tema di arbitrarietà, al risultato politico generale del 2 Giugno.
Indubbiamente vi era grande attesa per i risultati delle prime 7 province chiamate al voto il 10 Marzo 1946, e quel risultato (ripetiamo: nel nostro caso riferito esclusivamente ai capoluoghi) diede già indicazioni politiche piuttosto precise. Il primo posto toccò, però e contrariamente a quello che sarebbe accaduto in seguito, al PCI con 24.227 voti pari al 27,16%, la DC si piazzò al secondo posto con 23.470 voti, 26,31%; al terzo posto il PSIUP con 22.249 suffragi, 24,94%. Insomma l'indicazione che pareva prevalere era quella di un testa a testa fra quelli che erano definiti, al momento, i tre “partiti di massa”.
Furono proprio i dati della affluenza alle urne in quel primo turno amministrativo del 10 marzo 1946 ad indicare che l'estensione del suffragio femminile non avrebbe comportato pericoli per la percentuale dei votanti: in quelle 7 province infatti risultavano iscritti nelle liste 622.091 maschi, e si realizzò una percentuale dei votanti del 77,48%, e 680.891 femmine, con una percentuale di partecipazione del 76,09%. Il totale dei votanti di entrambi i sessi risultò così del 76,75%.
Il risultato complessivo, invece, nei 66 comuni capoluogo che abbiamo indicato definì le posizioni in una dimensione omologa a quelle che poi si sarebbero avute nell'elezione per l'Assemblea Costituente.
Al 7 Aprile 1946 il dato elettorale dimostrò come la DC rappresentasse il partito di maggioranza relativa con 934.833 voti, pari al 32,92% (negli stessi Comuni alla Costituente lo scudo crociato avrebbe raccolto 950.759 voti pari al 30,10%, a fronte di un risultato nazionale superiore del 5,11% dovuto probabilmente all'influenza del voto dei piccoli centri, in particolare rurali). Il PSIUP rappresentava ancora la forza più grande della sinistra, con 749.541 voti, pari al 26,40% ( alla Costituente nei 66 comuni presi in esame i socialisti avrebbero avuto 836.107 voti pari al 26,47%, sostanzialmente tenendo le posizioni. Il risultato “nazionale” invece si sarebbe collocato il 5,79% più sotto). Stesso “trend” per il PCI che aveva raccolto, in questa prima tornata elettorale, 683.806 voti pari al 24,43% (il 2 Giugno nelle stesse situazioni geografiche il voto sarebbe risultato, per i comunisti, sostanzialmente analogo con 770.152 voti pari al 24,38%, quindi del 5,45% superiore al dato nazionale del 2 Giugno).
Nella sostanza in questa elezione dominata dalla “provincia” italiana, le distanze tra i tre grandi partiti risultarono maggiormente ravvicinate rispetto a quelle poi effettivamente fatte registrare nell'intero Paese, di cui ricordiamo il dato: la DC 35, 21%, il PSIUP 20,68%, il PCI 18,93%. Stabili, invece, in questo rapporto i repubblicani (5,38% alle amministrative, 4,36 alla costituente) ed in crescita la destra (abbiamo assimilato , per comodità d'esposizione e per effettiva affinità, il voti del Blocco Nazionale , dell'Uomo Qualunque e dell'Unione Democratica Nazionale, passati dal 6,51% delle amministrative al 12,27% delle elezioni per l'Assemblea Costituente).
Risultavano quindi confermati da subito alcuni tratti caratteristici del nostro sistema: la prevalenza dei partiti di massa, il ruolo centrale della DC ,mentre restava ancora in discussione il discorso sull'egemonia a sinistra tra PSIUP (che aveva ancora, è bene, ricordarlo, i socialdemocratici che si sarebbero scissi soltanto nel Gennaio del 1947 formando il PSLI).
L'egemonia dei grandi partiti di massa risultò ancor di più esaltata dall'assegnazione dei seggi nei consigli comunali eletti con il sistema proporzionale che, al termine di quella tornata primaverile del 1946 e alla vigilia dell'elezione della Costituente e del Referendum istituzionale, risultò così suddivisa: 1627 consiglieri comunali alla DC, 1057 al PCI, 885 allo PSIUP, 350 eletti in liste unitarie di sinistra, 222 al PRI, 27 al Partito d'Azione, 29 al Partito Sardo d'Azione, 113 al PLI, 45 alla Democrazia del Lavoro, 52 all'Uomo Qualunque e 232 eletti in liste varie di centrodestra.
Il dato era stato tratto, elettrici ed elette rappresentavano una realtà politica dopo tanti anni d’attesa.
domenica 6 marzo 2016
Franco Astengo: Le ragioni dei comunisti (e dei socialisti)
LE RAGIONI DEI COMUNISTI (E DEI SOCIALISTI) di Franco Astengo
In un peraltro bellissimo dal punto di vista della fattura giornalistica, articolo Eugenio Scalfari illustra oggi quarant’anni di concorrenza tra “Repubblica” e il “Corriere della Sera” nobilitandone i termini in chiave ideologica.
Assegna, infatti, al gran giornale della borghesia lombarda la parte “liberal – conservatrice” nella scia – che giudica pressoché ininterrotta – di Luigi Albertini e al proprio quotidiano (in continuità con l’Espresso, e di conseguenza con il “Mondo” di Pannunzio e al filone dell’azionismo) la parte “liberal – democratica”.
Fin qui tutto abbastanza prevedibile.
Risalta però un punto ed è quello riguardante il ruolo di “giornale – partito” che il fondatore di Repubblica assegna al concorrente, rifiutandolo per sé e giudicando invece come parti importanti del sistema politico italiano, nella DC e nel PCI, si siano alla fine accostati alla sua impostazione politico – culturale mutando, alla fine, la natura dei propri partiti (Scalfari ricorre a citazioni illustri, da Berlinguer a Moro): insomma il PD sarebbe nato sulla base delle sollecitazioni avanzate da “Repubblica” che avrebbe assolto, in sostanza, un compito di tipo maieutico.
Scompaiono in questo quadro le ragioni “storiche” della presenza dei comunisti italiani e anche dei socialisti, che pure – ai tempi del primo Espresso formato lenzuolo – furono appoggiati nell’operazione di centrosinistra, al punto che lo stesso Scalfari fu eletto alla Camera sotto l’insegna della sfortunata “bicicletta” del 1968.
Eppure le ragioni dei comunisti e dei socialisti ci stanno tutte andando a verificare i punti che nell’articolo sono elencati come distintivi dell’allineamento liberal – democratico.
Ne risalta uno in particolare: dopo aver citato i beni comuni e la giustizia sociale Scalfari scrive di “eguaglianza dei punti di partenza, cioè di dare a tutti i cittadini e soprattutto ai giovani le stesse possibilità di misurarsi con la vita”.
Ecco questo è il punto: al di là degli assunti teorici portati avanti nella storia e al di là delle fortune e dei disastri nelle diverse fasi di inveramento della politica anche sul piano del potere statuale , si può ben dire che non esiste l’eguaglianza dei punti di partenza se non attraverso l’abbattimento preventivo delle barriere costituite dallo sfruttamento e dalla sopraffazione, materiale e morale.
Senza di ciò la disuguaglianza non sarà mai annullata e sarà necessario lottare per abbatterla.
Non esiste, nella difformità dei punti di partenza causati dal censo, alcuna possibilità di “merito”,almeno sul piano complessivo, salvo casi isolati che non possono rimuovere il macigno dello sfruttamento del lavoro dell’uomo, dell’uomo sulla donna, della razza sulla razza.
E’ questa la grande ragione della necessità inderogabile del permanere, nella modernità, dell’idea dell’uguaglianza sociale e politica per far sì che le leve fondamentali dell’economia e dell’insieme delle relazioni sociali siano collettivamente condivise all’interno della classe degli sfruttati, oggi molto più ampia di quella dei soli lavoratori manuali comprendendo diversità e differenze molteplici e complesse non più riassumibili nei termini classici della “teoria delle fratture” e del rapporto tra struttura e sovrastruttura, come inteso marxianamente.
Poi si può discutere sulla gradualità sulla transizione, sul fatto che ogni 14 Luglio abbia poi il suo 18 Brumaio ma deve rimanere sulla scena della storia il fondamento dell’Utopia, dell’ “assalto al cielo” di quel marzo 1871.
La ricostruzione eseguita da Scalfari è frutto del lavoro di un direttore di giornale di un paese di seconda fila come l’Italia: eppure va inteso come discorso globale, a tutti i livelli, storicamente impegnativo.
Non ci si può ridurre ai due campi: liberal – conservatore e liberal – democratico anche perché essi sono ormai confusi in una stringente logica del dominio che attanaglia le grandi masse di popolo accentuando i pericoli di guerra.
Il campo dell’utopia radicale dell’uguaglianza da tradurre in visione di sistema e di progetto politico deve restare aperto: è questo il tema che comunisti e socialisti debbono saper affrontare al principio del nuovo secolo.
sabato 5 marzo 2016
venerdì 4 marzo 2016
giovedì 3 marzo 2016
Franco Astengo: Guerra
NO ALLA GUERRA di Franco Astengo
L’incombenza di una guerra totale e l’intreccio delle due guerre: quella ormai dichiarata ai migranti e quella degli interventi armati per imporre di nuovo un ordine vetero – colonialista consentono di poter affermare come, da nostro punto di vista, il NO alla guerra, il NO all’intervento italiano ed europeo in Libia risultati sul piano politico una priorità assoluta nell’oggi.
E’ vero : si tratta dell’ennesimo appello lanciato con una determinazione soggettiva che potrebbe apparire anche astratta, ma è indispensabile non scoraggiarci.
Serve subito una mobilitazione politica per affermare con forza il NO alla guerra.
L’idea di un intervento italiano in Libia oltre a richiamare eventi storici che non vorremmo assolutamente ricordare, viola palesemente (per l’ennesima volta) l’articolo 11 della Costituzione erappresenta anche e soprattutto l’accettazione della “frattura” profonda che passa tra la ricerca della pace e l’accettazione del conflitto nella logica dello sterminio indiscriminato.
Ha scritto giustamente Tommaso Di Francesco sulle colonne del “Manifesto”: “La guerra non è altro che una seminagione d’odio”.
E nel merito ha aggiunto: “ Nessuno dei conflitti proclamati dall’Occidente dal 1991 ad oggi, Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Libia, Siria, ha benché minimamente risolto i problemi sul campo, anzi li ha tragicamente aggravati”.
Senza l’intervento in Iraq nel 2003, come ha già ammesso lo stesso Toni Blair, l’ISIS o Daesh o che dir si voglia non esisterebbe.
Non si tratta, però, semplicemente del dato oggettivo d’attualità con il quale far fronte all’interno di un mondo definito dallo stesso direttore di Limes Caracciolo “caoslandia”.
La questione è essenzialmente quella del discrimine di fondo tra un’opposta visione della politica in relazione all’umanità.
La sinistra, tenacemente, deve saper tenere aperto il punto di vista della pace: come fecero le minoranze socialiste nel corso della rima guerra mondiale, a Zimmerwald e Kienthal: minoranze apparentemente schiacciate dal peso di ciò che stava accadendo ma capaci di muoversi non semplicemente sulla base di visioni profetiche ma politicamente concrete.
Quella parte di sinistra che, in Italia, sta cercando faticosamente di recuperare una strada possibile di esistenza e di resistenza deve cogliere al volo questo stato di cose: il NO alla guerra, il NO all’ennesima avventura, vale come punto di riferimento nell’opposizione ai presunti dati di fatto dominanti e vale come elemento di aggregazione chiaro, limpido, praticabile.
Per questi motivi serve immediatamente una mobilitazione politica, una forte presa di coscienza, un discorso di riconoscibilità immediata di un valore non negoziabile come quello della pace: in qualsiasi parte del globo.
Un recupero di comunità, di spirito insieme alternativo e di diversità, una radicale espressione di filosofia politica avversa alla sopraffazione e al dominio imposto dagli apparentemente più forti.
Utopia ? Astrattezza ? o meglio affermazione di un’identità sulla quale basare una presenza politica: la pace come parte fondativa di una coerente fisonomia di una sinistra che non tradisce la parte migliore della propria storia. Una sinistra che si oppone all’apparente ineluttabile e propone l’alternativa.
mercoledì 2 marzo 2016
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