Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
sabato 30 gennaio 2016
Franco Astengo: Presidenzialismo
PERSONALIZZAZIONE E PRESIDENZIALISMO di Franco Astengo
A distanza di qualche anno Mauro Calise torna con un nuovo libro sul tema della personalizzazione della politica: “La democrazia del leader (Laterza)”.
Nel testo emerge un’intuizione rilevante nel definire una differenza tra i due principali modelli di personalismo che hanno attraversato la vicenda politica italiana degli ultimi 20 anni: quello berlusconiano e quello incarnato dall’attuale presidente del consiglio Renzi.
Come viene inquadrato da Calise quest’ultimo passaggio?
Renzi, a suo giudizio, coltiva il carisma oltre misura ma evita di creare (come fece Berlusconi) un partito tutto suo: il rischio, come proprio l’esempio di Forza Italia sta a dimostrare, è quello di ritrovarsi per le mani poco o nulla.
L’obiettivo di Renzi, infatti, è quello di rafforzare il fronte istituzionale: ed è questo un elemento che dovrebbe far riflettere gli oppositori nel referendum ( al riguardo del quale, tra l’altro, i dati odierni indicano un esito assai più incerto di quanto non fosse prevedibile in partenza).
In questo modo, del rafforzamento del fronte istituzionale, non s’individuano nemici all’interno del corpo sociale allargato, ma si scelgono come privilegiate “categorie ristrette” in particolare quelle derivanti dalla nomenclatura burocratica: prefetti, commissari d’authority, ex – direttori generali che diventano l’impalcatura del regime affiancando un ristretto novero di sodali raccolto nel cosiddetto “giglio magico” ( in questo quadro rimane ancora senza risposta lo “stantio odore di massoneria” evocato da Ferruccio De Bortoli nel suo articolo d’addio al Corriere della Sera e mai più ripreso da altri commentatori).
In questo modo Renzi presenta la sua vocazione presidenzialista, lavorando apertamente per questa prospettiva anche al riguardo del mutamento della Costituzione con un passaggio formale che suffraghi quella che è adesso “Costituzione materiale”.
Intanto si procede ab utroque mutando in maniera occulta la stessa struttura della Presidenza del Consiglio: la nomina di Nannicini a sottosegretario per l’economia ponendolo a capo di un trust di cervelli che fa riferimento a Palazzo Chigi è uno degli atti più recenti ed incisivi rivolti in questa direzione.
L’effetto dovrebbe essere quello di uno spostamento di fatto nella direzione economica ponendo il ministero di via XX Settembre retto da Padoan in posizione del tutto subalterna rispetto alla “neo-cancelleria” che siede a Palazzo Chigi.
Un atto istituzionale di grande rilievo e molto pericoloso sul piano della dinamica democratica: il cosiddetto “trust di cervelli” diretto da Nannicini, infatti, è espressione diretta del “pensiero unico” neo – liberista di osservanza del rito Marchionne e fautore concreto del “job – act”.
Una situazione che, in pratica, sfuggirebbe, di fatto, da qualsiasi istanza di dibattito e controllo parlamentare.
L’obiettivo presidenzialista in questo caso appare abbastanza scoperto e non sufficientemente contrastato.
La nuova qualità del personalismo che Calise lucidamente individua nel suo testo deve essere analizzata con attenzione e contrastata con forza nell’occasione referendaria che pare presentarsi.
Un presidenzialismo senza contrappesi che nascerebbe dal superamento del ruolo centrale assegnato dalla Costituzione al Parlamento e che avverrebbe attraverso un plebiscito votato in nome di una semplificazione del processo legislativo proclamata in pura chiave antipolitica.
Quanto più pericoloso, insomma, al riguardo del processo democratico.
venerdì 29 gennaio 2016
giovedì 28 gennaio 2016
mercoledì 27 gennaio 2016
martedì 26 gennaio 2016
lunedì 25 gennaio 2016
Intervista a Bernie Sanders
la corsa alla casa bianca
L’intervista.
Il candidato
democratico contro Trump e Bloomberg: “L’America non vuole essere un’oligarchia”
La riscossa di Sanders “Basta super-ricchi la gente mi voterà”
CHUCK TODD la repubblica 25 gennaio 2016
«La gente pensa sia arrivata l’ora di sfidare l’establishment. Per questo la mia campagna elettorale sta andando così bene». È più determinato che mai, il senatore del Vermont Bernie Sanders. Che sale nei sondaggi, facendo aumentare le preoccupazioni per Hillary Clinton. Ma non è solo l’ex Segretario di Stato a doverlo temere.
Senatore Sanders, lei è in Iowa, in piena campagna elettorale. Come procede? Perché è appena arrivata la notizia che nessun senatore democratico è disposto a sostenere la sua candidatura...
«Non mi sorprende che tutti questi politici mi voltino le spalle: la mia è una sfida all’establishment politico, a quello economico, agli interessi finanziari di questo paese, alle corporation. Per questo la mia campagna elettorale è unica, perché mira ad avviare una rivoluzione politica che avvicini milioni di persone al sistema che controlla Washington. Sì, l’establishment appoggia la Clinton. Non è un segreto. Ma il motivo per cui la mia campagna sta suscitando così tanto entusiasmo è che la gente pensa sia davvero arrivata l’ora di sfidare l’establishment, Wall Street e i grandi interessi economici».
Se vincerà la nomination democratica corre il rischio di ritrovarsi un terzo incomodo in gara: Michael Bloomberg, candidato indipendente. Che ne pensa?
«Se Donald Trump vincesse la nomination repubblicana e Bloomberg si decidesse a scendere in campo, ci sarebbero ben due multimiliardari in corsa contro di me per la presidenza degli Stati Uniti. Non credo che il popolo americano abbia voglia di vedere la nostra nazione andare verso un’oligarchia, dove ad avere il controllo del processo politico sono dei miliardari. Quindi penso che vincerei le elezioni».
Ta-Nehisi Coates, che è oggi uno degli intellettuali più stimati del movimento per i diritti civili, l’ha attaccata su
Atlantic
perché lei è contrario a indennizzare gli afroamericani in quanto discendenti degli schiavi ma chiede costantemente giustizia economica per tanti altri motivi. Come risponde?
«È inaccettabile che nel nostro paese vi sia così tanta povertà e che la situazione più grave sia quella della comunità afroamericana, dove tra i ragazzi fra i 17 e i 20 anni che finiscono le superiori c’è un tasso di disoccupazione del 51 per cento. Dove il 36 per cento dei bambini viva in povertà. Se diventerò presidente è mia intenzione affrontare questi problemi in modo aggressivo, facendo sì che i giovani lavorino invece di finire in prigione. E mi adopererò per migliorare le scuole, è indispensabile ».
Non ha risposto alla mia domanda: perché
non è favorevole ai risarcimenti?
«Perché dobbiamo investire nel futuro. Dobbiamo risolvere la piaga della povertà in America. Nella mia agenda è previsto l’innalzamento del salario minimo a 15 dollari l’ora, creando milioni di posti di lavoro, ricostruendo le infrastrutture, concentrandoci per porre rimedio all’alta percentuale di disoccupazione giovanile. La mia candidatura è quella di chi vuole risolvere i problemi della comunità afroamericana e degli americani poveri in generale».
Molti l’ascoltano con interesse, ma tanti pensano che non riuscirà mai a far approvare la sua agenda dal Congresso. Molte sue idee sono difficili da realizzare...
«A questo paese sto dicendo che alle ultime elezioni il 63 per cento degli americani non ha votato. E a quelle di metà mandato non ha votato l’80 per cento dei giovani. È per questo che i ricchi continuano ad arricchirsi. È per questo che i miliardari sono in grado di comprarsi le elezioni. Io cerco di far comprendere che nella democrazia americana il Congresso dovrebbe rappresentare le famiglie dei lavoratori e la classe media, invece di chi contribuisce in modo più cospicuo alle campagne elettorali. Sto cercando di modificare le dinamiche della politica americana. Incitare milioni di giovani e milioni di operai a battersi a testa alta per i loro diritti. Se ci riusciranno, potremo aumentare il salario minimo. Potremo creare posti di lavoro. Potremo rendere gratuita la frequenza dei college pubblici ed eliminare le rette universitarie. Questo dovremmo fare. E questo voglio fare”.
© Meet the Press, Nbc. Traduzione Anna Bissant
domenica 24 gennaio 2016
sabato 23 gennaio 2016
Franco Astengo: La politica come contenitore del vuoto
LA POLITICA COME CONTENITORE DEL VUOTO di Franco Astengo
Se si esaminano con attenzione le vicende politiche italiane sempre più prende campo la consapevolezza che si sia giunti, ormai, a considerare l’agire politico come il contenitore del vuoto nell’incapacità di espressione di progetti per il futuro.
Sono assenti visioni del mondo alternative all’esistente: sembrano aver valore soltanto le ambizioni personali, il tutto ridotto all’io, lo scambio clientelare come moneta prevalente, l’esibizionismo personalistico come cifra esclusiva di una presenza riduttivamente scenica.
Eppure nel mondo le grandi contraddizioni esaltano lo scontro, anche apparentemente senza senso o addirittura fuori dalla storia: infuria la guerra esportata anche a forza fuori dai suoi teatri di riferimento attraverso il terrorismo; vediamo e viviamo migrazioni di massa che ci riportano indietro nel tempo a immagini terribili però non smarrite dalla memoria; le fluttuazioni dell’economia ci indicano la precarietà dell’esistenza per miliardi di persone.
Sempre più il distacco nella possibilità del vivere si accentua e l’immaginario costruito dalla tecnologia assimila i modelli ma non cancella la pesantezza delle diversità che non si riescono a raccogliere dentro ad un progetto di cambiamento, com’era stato invece nella tragica ma grande filosofia politica del ‘900.
Razzismo, diversità di genere, confronto tra le “diversità” rimangono quasi tabù inalterati in una globalizzazione che esclude la cultura se non come fatto meramente commerciale.
Lo stesso presidente uscente degli USA conversando con Marynelle Robinson richiama alla necessità di ricostruire la storia, di non abbandonarsi semplicemente all’oggi.
Esaurito il sogno della “fine della storia” alimentato dalla caduta del muro di Berlino, fermatasi forse definitivamente la spinta europeista, in una fase in cui il dato più saliente sempre essere quello del recupero del nazionalismo,nel complesso di questo quadro drammatico l’Italia torna a essere “un caso”.
“Un caso” che non si può catalogare se di avanguardia o di retroguardia perché si tratta di categorie difficili da classificare adesso come adesso.
In una società fortemente secolarizzata, dai valori smarriti rispetto a quelli prodotti dalle grandi concentrazioni della cultura di massa come furono i partiti e le agenzie di comunicazione ad esse legate (compresa la scuola, non soltanto televisioni e giornali o le espressioni prevalenti del mito del consumismo individualistico), con l’economia abbandonata alla prevalenza dell’inganno e della sopraffazione, l’Italia sta sempre più riducendo il proprio “spazio vitale”: non geografico, per carità, ma politico e culturale.
Uno “spazio vitale” sempre più esiguo e non più in grado di offrire alle diseguaglianze della società modelli, esempi, parametri e paradigmi, certamente diversi, magari inusuali e apparentemente complicati ma certo praticabili e stimolanti.
La politica, dunque, praticata in Italia (ma non solo, beninteso) per coprire il vuoto.
La politica intesa come un contenitore al cui interno non si trova nessuna espressione.
Un vuoto che inutilmente si cerca di riempire con le chiacchiere senza costrutto di chi cerca il potere attraverso le scorciatoie della propaganda, al di fuori dell’analisi concreta delle contraddizioni operanti nel concreto e della fatica necessaria per fornire una risposta in termini di progettualità sociale.
A sinistra, smarrito lo storicismo e adeguatisi tutti all’imperante obbligatorietà dell’io e dell’oggi, si dovrebbe pensare proprio a questo: a come, cioè, costruire un contenuto, a una possibilità di riempire questo vuoto.
Guardarsi all’indietro per formulare una proposta rivolta in avanti forse potrà apparire eccessivamente semplicistico: però, forse (troppi forse anche in questo intervento) non c’è altra possibilità.
venerdì 22 gennaio 2016
giovedì 21 gennaio 2016
martedì 19 gennaio 2016
lunedì 18 gennaio 2016
Felice Besostri: Risposta a Panebianco
Risposta a PANEBIANCO “Quel Club Anomalo Antiriforma”( Corsera 17.01.16)
Caro Professore ho letto con molta attenzione il suo fondo di Domenica 17 gennaio, come meritano le opinioni di un autorevole editorialista del maggiore quotidiano italiano. I quotidiani da un lato rappresentano l'opinione pubblica e dall'altro la influenzano: se ne deve tener debito conto. Proprio per la di Lei autorevolezza sono preoccupato: Senza essere Groucho Marx non desidero far parte di un Club anomalo e per di più antiriforma. Per questo è necessario preliminarmente sulle parole.Una volta la parola " Riforma" aveva un preciso significato, per rimanere sul Suo terreno adotto la definizione di "Modifica volta a dare un nuovo e migliore assetto a qlco., in partic. in ambito politico, sociale, economico(http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/R/riforma.shtml)". Riforma è una nobile parola che sottende ad un ancor più nobile filone politico culturale nella sinistra quello del Socialismo riformista, nel quale mi riconosco. Purtroppo nei tempi presenti il termine, nella sua versione inglese di Reform Party , designa partiti conservatori di destra, come nei paesi scandinavi i Partiti del Progresso, formazioni populiste e xenofobe. Come per altre mutazioni George Orwell (Fattoria degli animali e 1984) è stato un presago anticipatore e la parola RIFORMA è un esempio della sua neolingua (nell'originale Newspeak, ossia "nuovo parlare"), cioè una lingua artificiale che il potere impone a tutta la società. La neolingua è un fenomeno ancora attuale, in quanto serve per uniformare il pensiero. I significati delle parole sono predefiniti e cambiano solo quando lo vuole il potere. Quindi il processo va dall'alto al basso e quando è adottata dai chierici diventa difficile da contrastare.
Ora si è trasformata in un suo sinonimo come cambiamento od innovazione,così che designa qualsiasi modificazione. Per chiarire io sono perla riforma della Costituzione e della legge elettorale, ma contrario al progetto che un Parlamento, delegittimato dalla incostituzionalità della legge con cui è stato eletto/nominato, sta per approvare, per fortuna senza il quorum dei due terzi e alla legge elettorale approvata: tra l'altro è proprio la loro reciproca interferenza che motiva l'opposizione della maggioranza dei membri del Comitato per il NO. solo per fare un esempio il prof. Gianni Ferrara, quando era senatore, ha presentato uno dei più organici progetti di mono-cameralismo. Gustavo Zagrebelski è stato per lungo tempo sostenitore di un assetto bipolare ed ad una legge elettorale di impronta maggioritaria: Libertà e Giustizia non sostenne le azioni giudiziarie contro il Porcellum, promosse dall'avv. Aldo Bozzi, alle quali ho partecipato. . Per quanto mi riguarda un Senato come il Bundesrat e una legge elettorale come quella tedesca sarebbero stati un pacchetto che avrei appoggiato.Bisognava riformare il bicameralismo perfetto, su questo il consenso era amplissimo, ma non abrogare di fatto il Senato,rendendolo un organismo di natura, non è una Camera rappresentativa delle autonomie locali e regionali, e di poteri incerti, l'unica cosa certa è che con questo Senato non si potranno riformare le Regioni, comprese quelle a Statuto speciale, cioè le istituzioni, che, anche secondo Lei hanno più urgenza di essere riformate. Le argomentazioni sulla lentezza del procedimento legislativo, quando il nostro problema è di averne troppe, non è di nessun pregio. La riduzione dei costi della politica sarebbe stata maggiore con una Camera dei deputati di 400 membri e un Senato di 200, a prescindere dalla volgarità del criterio, perché se il problema è il costo si risparmiava di più ad abolire la Camera o le elezioni sostituendole con un estrazione a sorte come nell'antica Atene. E' sotto gli occhi di tutti il disastro delle province e Città metropolitane con costi per la P.A. non compensati dal risparmio delle indennità dei Sindaci e consiglieri metropolitani.La Del Rio è stata la sperimentazione dei disastri delle elezioni di secondo grado: non si sono abolite le Province, ma la democrazia rappresentativa nelle Province. Se questo sistema si generalizza si saprà chi governerà non la sera delle elezioni, ma la sera prima delle elezioni.se pensiamo che la riforma della Costituzione sia una cosa seria, mi aspetterei che il nuovo testo sia chiaro e comprensibile. Cominciamo dall'art. 70 Cost. , che nel testo vigente recita "La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere". Per non abusare del Suo tempo e pazienza non posso trascriverle il nuovo testo, che Le allego con le osservazioni tecniche del Servizio Studi del Senato, in cui non si annidano membri del nostro o di altri club. In sintesi da un articolo composto da un comma e 9 parole, si è' passati ad un testo con 7 commi, di cui solo uno con lo stesso numero di parole: centinaia di parole e un testo di difficile interpretazione, tanto che si parla da sei a nove iter procedurali. Eppure le manchevolezze derivanti dalla fretta sono state rilevate nelle audizioni e nel dibattito parlamentare. Per esempio non ho mai capito per quale ragione un sindaco di città metropolitana, eletto direttamente dai suoi cittadini non possa far parte del Senato e il Sindaco di Bottida o Rocca Cannuccia invece sì.
"La Carta del 1947 è stata costruita – sono 9.369 parole – con l'uso di 1.357 vocaboli dell'uso comune e tra questi ce ne sono 1.302, in particolare, che appartengono al vocabolario di base dei cittadini italiani, addirittura del 1946. Si è anche rinunciato all'uso, per esempio, dei congiuntivi, dell'eleganza dei congiuntivi, e si è preferito l'indicativo. Non ci sono periodi che superano le venti parole, tranne che nelle disposizioni transitorie e finali. Normalmente stiamo sulle 19 parole. In altri termini, il cittadino italiano è in grado di leggere e di capire la Costituzione italiana, anche se fosse di media o inferiore cultura. Ora, è ben noto che quel testo fu sottoposto all'esame di persone che di lingua italiana ne capivano. Ci fu un esame da parte di Concetto Marchesi; ci fu pure uno scrittore che fu appositamente incaricato di questo lavoro ed abbiamo avuto quel testo che, ripeto, è un testo democratico perché è comprensibile".(.Intervento del deputato Sannicandro, nel resoconto stenografico della seduta fiume della Camera dell'11 febbraio 2015 e seguenti giorni solari, pagina 633).* Dunque mi pare giusto che gli altri membri ed io del Comitato NO al referendum costituzionale., si sia iscritti al Club ANTIDEFORMA COSTITUZIONE. Quanto alle compagnie anomale, preferisco quella dei pentiti, a quella di chi per disciplina di partito o per non perdere l'indennità parlamentare ovvero per uno strapuntino al governo o per un incarico nella presidenza delle Commissioni hanno votato a favore e voteranno SI 'al referendum costituzionale: sono parlamentari che hanno violato gli articoli 48, 51, 54 e 67 della Costituzione.
on. avv. Felice C. Besostri
*vedi anche http://archiviostorico.corriere.it/1997/febbraio/06/Concetto_Marchesi_latinista_costituente_co_0_9702068184.shtml
Piancavallo 17 gennaio 2016
Franco Astengo: Malthus
ADAM SMITH, MARX, MALTHUS: DA UNA “PROVOCAZIONE” DI CLAUDIO BELLAVITA di Franco Astengo
Il compagno socialista Claudio Bellavita di Torino è uno degli intelligenti animatori del dibattito sul sito del Circolo Rosselli di Milano, trattando soprattutto di temi economici.
E’ autore spesso di provocazioni acute e interessanti, com’è stato nel caso dell’intervento diffuso nella serata del 17 Gennaio, del quale si riporta di seguito la parte conclusiva:
“Senza contare che il fondamento della dottrina della scuola di Chicago e dell’austerità che viene
predicata di conseguenza dal FMI, e cioè che lo scopo del mondo è di far diventare sempre più ricchi qualche migliaio di ultramiliardari, a lungo termine si troverà con meno consumatori e a breve con meno elettori. E se si continua a dare a consumatori impoveriti beni di poca sostanza e di tanta pubblicità, c’è il problema che le risorse agricole e abitative del mondo possono non bastare. E certo non basterebbero a reggere l’estensione a tutto il mondo dello stile di vita e di consumo degli statunitensi poveri...stile che per l’80% della popolazione mondiale è un mito da raggiungere a ogni costo.
Forse, dopo 150 anni di liberisti e di Marx (“la lotta di classe c’è stata e la ha vinta il capitale” ha detto Warren Buffett, il mago delle start-up che non ha nessuna intenzione di chiudere baracca) è il caso di dare una spolverata a Malthus...”
Un’annotazione questa sviluppata dal compagno Bellavita nell’ambito complessivo di un suo filone di ricerca tendente a dimostrare il superamento del concetto di lotta di classe e la necessità di percorrere nuove strade rispetto al passato per una sinistra che egli ritiene ancora debba essere “di governo” sul piano politico al riguardo delle esplosive contraddizioni dell’oggi: “di governo” nel senso di un’impronta decisamente decisionistica nel tenere assieme equità sociale, sviluppo economico, democrazia.
L’impianto che regge, tanto per fare un esempio, il corposo testo recentemente uscito a cura di Massimo L. Salvadori “Democrazia, storia di un’idea tra mito e realtà" editore Donzelli di rilancio di una visione classicamente “riformista”. Pur, naturalmente, tra punti inesplorati e spunti critici di rilievo.
Il riferimento a Malthus, contenuto nel testo elaborato dal compagno Bellavita, fornisce però l’occasione per un approfondimento di merito, sia pure molto sommario nell’occasione, e il caso di provare a misurarsi.
Il fondamento della teoria maltusiana consisteva nell’idea che la povertà non dipendesse da fattori istituzionali, ma da cause naturali derivanti da un’asimmetria strutturale tra crescita (limitata) dei mezzi di sussistenza e crescita (illimitata) della popolazione (ci troviamo all’inizio del XIX secolo).
Se la miseria era frutto di una legge naturale essa non poteva essere eliminata, al più arginata attraverso un controllo demografico delle classi lavoratrici da ottenere con “restrizioni morali” e con livelli salariali tali da scoraggiare progetti procreativi.
Per tale ragione Malthus polemizzò con la legislazione assistenziale nei confronti dei poveri vigente nell’Inghilterra del suo tempo (il “Poor Law”).
In seguito lo stesso Malthus modificò la sua analisi convincendosi che le cause della recessione derivassero non da una scarsità di risorse ma da una sottoutilizzazione delle medesime, dovuta a una carenza di domanda effettiva.
La soluzione maltusiana (sarà in questo senso la proposta di “rispolverata” avanzata da Bellavita?) fu trovata nella promozione del consumo improduttivo delle classe abbienti: in questo modo, esercitando la logica del superfluo (tanto cara oggi agli esegeti del consumismo individualistico di lusso) andava esclusa ogni ipotesi di aumento dei salari che intaccasse il complesso dei profitti. Di conseguenza l’ordine costituito andava difeso a vantaggio delle classi sociali dominanti.
Un quadro che portato all’oggi laddove il tema è quello dello spostamento di popolazione dalle zone del mondo infestate dalla guerra o impoverite dal sottosviluppo chiederebbe di applicare, nella sostanza, queste indicazioni: chiusura dei passaggi verso l’Occidente opulento, mantenimento di forti livelli di diseguaglianza sia all’interno delle aree sviluppate sia tra queste e il resto del Pianeta.
Diseguaglianze sulle quali costruire una difformità di ordini sociali e politici tra le diverse parti del mondo, con l’espressione di una “democrazia governante” da considerare lo strumento per realizzare, insieme, la crescita della domanda dei beni di lusso intangibili per la maggioranza e la difesa dei criteri di diversità di “status”.
Appare evidente, più che mai proprio nell’attualità, la somma di ingiustizie che questa prospettiva contiene e comporta: forse la lotta di classe, proprio per questo motivo, non è stata vinta da un capitalismo in crisi ciclica che si rafforza soltanto estendendo lo sfruttamento, il dominio, la sopraffazione.
Si sta tentando di far divorziare definitivamente la politica dall’economia per imporre l’egemonia della tecnica cancellando la società esistente in quanto fondamento dell’azione politica collettiva definita nelle sua varie accezioni come democrazia.
E’ proprio questo il punto al quale rivolgersi nell’approfondimento dell’analisi a partire proprio dalla crescita delle diseguaglianze come fenomeno che sta avvenendo su larga scala (Piketty, Atkinson).
In gioco sono soprattutto il ruolo dello Stato e il rapporto tra pianificazione economica e mercato quale elemento fondativo di una nuova qualità di compromesso sociale.
Tempi difficili ci stanno attendendo e in questa schermaglia dialettica non è possibile far entrare, per mere ragioni di spazio, il rischio serissimo di guerra globale che pure esiste concretamente: forse può tornare ancora utile il Marx della “critica all’economia politica” e della critica del falso universalismo giuridico formale delle cosiddette “relazioni di mercato”.
Sono i rapporti capitalistici di produzione che danno luogo allo sfruttamento della forza – lavoro fino alla conseguenza dell’insopportabilità delle differenziazioni sociali ed economiche (tenendo ben conto naturalmente della complessità delle contraddizioni dell’oggi al riguardo delle “fratture” di genere, nell’utilizzo del suolo, ai temi ambientali, soltanto per citarne alcune più evidenti di altre).
Ricordando, infine, come già in altre occasioni: all’orizzonte appaiono guerre e dittature, anche in Occidente.
E’ bene non sottovalutare.
domenica 17 gennaio 2016
sabato 16 gennaio 2016
Franco Astengo: Europa
EUROPA: DISCORSO E SPAZIO POLITICO NELLA CONTESA ITALIANA di Franco Astengo
Sarà il nazionalismo la carta che il Governo Renzi sta per giocare in questo 2017 nel corso del quale potrebbe anche essere prevista una tornata d’anticipo delle elezioni legislative generali, all’indomani del referendum confermativo sulle cosiddette “deformazioni costituzionali”?
In realtà l’idea del nazionalismo circola da tempo negli ambienti governativi in sostituzione dell’europeismo senza se e senza ma dei bel tempo (sic) ulivisti: questo cambio di rotta è stato avvertito anche dallo stesso presidente emerito Napolitano che, in un’intervista alla Stampa, esorta alla prudenza nel confronto/scontro oggi apparentemente in atto con i vertici della Commissione Europea e la stessa Lady PESC Federica Mogherini pare incaricarsi di una ricerca di un livello di mediazione. Mogherini che proviene dagli ambienti veltroniani, quindi cresciuta nella stessa logica “europeista” di cui si accennava poc’anzi.
Sarebbe questo, anche a detta di autorevoli osservatori (Stefano Folli sulle colonne di Repubblica, Francesco Verderami su quelle del Corriere della Sera), il senso complessivo dello scontro Juncker – Renzi che sta riempiendo le pagine dei giornali di oggi.
Una narrazione voluta dal Presidente del Consiglio che prescinde dalla questione del deficit: i temi concreti sono sempre marginali nell’impostazione di Renzi, cedendo il passo all’immaginario e all’utilità “politica” delle affermazioni .
Le parole sempre nettamente prevalenti sui fatti nella narrazione renziana.
Un nazionalismo, con forti venature belliciste (vedi la questione della Libia) che rappresenterebbe un punto di riferimento importante nell’impostazione personalistico – autoritaria sulla quale si pensa di basare, attraverso il combinato disposto “esito del referendum- risultato elettorale drogato dall’Italikum” una fase di effettiva egemonia del PD, partito da plasmare definitivamente all’interno di questo tipo di concezione del potere.
Una tattica spregiudicata che presenta elementi di vantaggio potenziali per quelle forze di destra dichiaratamente anti-europeiste, Lega Nord e FdI, e lo stesso Movimento 5 Stelle e che pone in imbarazzo settori vasti del PD e una stessa parte residua di Forza Italia.
A dimostrazione ulteriore delle difficoltà che incontra il processo di riallineamento del sistema politico italiano in una fase dove non trovano ragione le discriminanti classiche che ne hanno caratterizzata la composizione nel corso degli ultimi decenni: adesso l’abbandono del bipolarismo (insito nell’idea del doppio turno presente nella nuova legge elettorale) e la sua sostituzione con il bipartitismo non trova soggetti concretamente pronti a sostenere una tale ipotesi.
Questi riferimenti non possono essere considerati contingenti e limitati a espressioni di tipo meramente polIticista: rappresentano, invece, segnali di processi profondi tali da determinare esiti tanto negativi, quanto duraturi.
Il rischio è quello di un frastagliamento ulteriore e di un esito elettorale nel quale i livelli di consenso risultino alla fine così labili da non consentire di sostenere, nel concreto, una qualsiasi ipotesi di governo parlamentare: in un quadro di rischio dal punto di vista bellico sul piano generale e di inasprimento della situazione economico – sociale a livello globale, in Italia potrebbe presentarsi la concreta possibilità di un’avventura autoritaria.
Avventura autoritaria al riguardo della quale la spregiudicatezza morale del nuovo gruppo dirigente del PD risulta fortemente incline proprio come formazione derivante dal prevalente concetto “decisionista – personalistico”
Il tramonto della prospettiva di una riorganizzazione politica di una sinistra d’opposizione e di alternativa rende questo quadro ancora più incerto perché il processo di riallineamento sistemico in atto e al quale si faceva già cenno risulterebbe pericolosamente incompleto.
Tanto più che la crisi verticale dei partiti rende difficile un processo di riavvicinamento alla militanza e alla partecipazione di intere generazioni mentre tende sempre di più al basso l’indice dell’espressione di voto, ormai ridotta a circa la metà o poco più del corpo elettorale.
Espressione di voto ormai completamente in mano alla vacuità d’espressione imposta dai mezzi di comunicazione di massa e quindi quasi totalmente influenzabile da fattori meramente propagandistici, come avviene ormai da tempo, ad esempio, nel merito delle questioni di politica economica.
Il tema europeo diventa così fondamentale, se s’intende davvero porre mano alla ricostruzione di una soggettività politica di sinistra.
Un tema che non può essere affrontato rischiando di cadere nella trappola sovranista – nazionalista e neppure adagiandosi di nuovo nel perdente spirito ulivista dell’europeismo acritico.
E’ evidente che l’Europa rappresenti, all’interno della crisi complessiva degli equilibri mondiali, il principale spazio politico di riferimento.
Altrettanto chiaro il fatto che risulti necessario un raccordo tra tutte le forze di sinistra antagoniste che operano in questo spazio: risaltano a questo punto divisioni gravi tra di esse, e anche elementi forti di dibattito sulla loro identità.
L’esperimento italiano della Lista Tspiras, ad esempio, è completamente fallito, perché tarato su di una prospettiva risultata sbagliata: quella dell’assunzione di governo in Grecia quale fattore trainante di una ripresa di protagonismo politico della sinistra.
Sarebbe importante l’avvio di un’iniziativa politica posta su due piani: il primo riguardante il quadro interno laddove deve risultare come risulti impossibile l’assemblaggio dell’esistente e sia, invece, necessario partire da un modello diverso di costruzione politica; il secondo riguarda il confronto europeo con le forze esistenti perché assieme si tenti di ragionare attorno ai termini di un internazionalismo da esercitare politicamente proprio nello spazio politico europeo.
Possono essere due gli elementi da porre al centro della discussione: il primo riguardante la fase di “guerra di posizione” all’interno della quale stiamo agendo ponendo così il tema dell’opposizione sistematica da condurre a tutti i livelli evitando velleitarie affermazioni da “sinistra di governo” e la ricerca di impossibili convergenze; il secondo quello dell’apertura di un’analisi sulla qualità delle contraddizioni in atto e sulle complessità che si esprime nel determinarsi di un insieme di fratture sociali pesantemente operanti nella società e in gran parte inesplorate nell’incapacità collettiva dell’espressione di un progetto alternativo di società.
Accanto a questi naturalmente l’organizzazione del contrasto, a partire dal “NO” nel referendum confermativo,al regime in corso di consolidamento.
Un contrasto da condurre a tutto tondo anche nell’occasione delle elezioni amministrative: non può esistere la logica della diversità delle situazioni, deve prevalere l’idea di un quadro generale da contrastare fino in fondo. Un contrasto che, comunque, è richiesto anche dalla realtà concreta delle amministrazioni così come queste sono state condotte dal PD.
Opposizione e alternativa da coniugare dunque all’interno di un progetto politico: sarà forse necessaria una “politica dei due tempi” di nuovo conio. Sarebbe già importante oggi raccogliere le forze in un processo di costruzione di soggettività non vincolato dalla pesantezza del passato e dalla “sindrome della sconfitta”, recuperando prima di tutto il gusto della politica.
venerdì 15 gennaio 2016
giovedì 14 gennaio 2016
mercoledì 13 gennaio 2016
Franco Astengo: Il disastro del M5S
IL DISASTRO DEL MOVIMENTO 5 STELLE E LA COMPLEMENTARIETA’ CON IL PDR di Franco Astengo
La vicenda di Quarto di Napoli appare soltanto come un puntino all’interno della crisi complessiva del sistema politico italiano e dell’insieme delle relazioni sociali, economiche, culturali di un Paese ormai in profonda difficoltà da molti anni.
Eppure è servita per mettere a fuoco, nei confronti della parte più vasta dell’opinione pubblica, la vacuità di presenza di un Movimento come quello dei 5 stelle che a una porzione di elettorato era apparso quasi come una visione salvifica e rigenerante dell’intero sistema.
E’ il caso allora di mettere a fuoco alcuni punti distintivi che ci fanno tranquillamente apparire questo Movimento semplicemente come mistificatorio e la cui presenza è ingannatrice e ulteriormente aggravante delle condizioni di difficoltà generale già indicate in premessa.
Verifichiamo allora alcuni punti specifici:
1) Questo Movimento è allineato, in politica estera, con il gruppo ultranazionalista inglese dell’UKP con il quale ha stretto un accordo al Parlamento Europeo e alle posizioni della Lega Nord sulle migrazioni, sull’Europa, sull’euro. Sotto quest’aspetto appare totalmente privo di autonomia e di una propria proposta politica;
2) In politica economica l’orientamento è quello della politica liberista dominante nel “pensiero unico”, con i riferimenti che più o meno ha lo stesso PD. L’unica “spuntatura” è quella del reddito minimo di cittadinanza (non si capisce bene comunque in quali termini). Una proposta che rimane comunque di “destra”, nell’accezione storica del termine. Non si ravvedono indicazioni per quel che riguarda il welfare, la struttura industriale, i temi dell’occupazione, dell’innovazione tecnologica, dell’istruzione;
3) La forma politica assunta dal Movimento è quella del “partito azienda” addirittura nelle scaturigini. Rispetto al modello originale del “partito azienda” si ravvedono analogie sorprendenti: quello principiò da Publitalia, questo dalla Casaleggio Associati raccogliendosi entrambi intorno al mito dell’uomo di successo e di spettacolo. Publitalia e Casaleggio associati che sono è bene ricordarlo entrambe agenzie di pubblicità. L’unico elemento distintivo è quello della scelta compiuta dal Movimento al riguardo dei candidabili e degli eleggibili (è il caso di ricordare che coloro i quali sono arrivati in Parlamento ci sono arrivati”nominati” attraverso la posizione in lista) realizzata in forma plebiscitaria attraverso il web. Questo ha reso molto labile il filtro della conoscenza soggettiva con gli esiti che abbiamo tutti sotto gli occhi. L’importante per il Movimento 5 Stelle che non ci sia un partito aperto alla militanza e al confronto diretto. Confronto che se avviene lo si realizza attraverso circoli chiusi e le iniziative pubbliche appaiono molto rade e, in principio, soltanto attraverso il meccanismo delle facili adunate oceaniche dei “vaffa”.
Tutti questi elementi rendono il Movimento 5 Stelle del tutto complementare con il progetto del PdR. Entrambi i soggetti, infatti, partono dal principio della sostituzione della democrazia rappresentativa, del Parlamento e della mediazione politica, con la cosiddetta democrazia diretta (non certo collegabile, in questo caso, con la ricerca luxemburghiana e gramsciana dei consigli), la governabilità, il decisionismo in mano a pochi, se non a uno solo: i 5 Stelle esercitano questa facoltà attraverso l’espulsione dei reprobi in una sorta di robespierrismo senza ghigliottina (dimenticando che a quel modo si finisce sempre prigionieri dei vezzi di madame Tallien); il PD puntando a una sorta di dittatura mediatica, con la governabilità fatta da annunci “scenici” di stampo prettamente populista.
Non è l’antipolitica classica dei movimenti “contro il sistema”, ma una sorta di post – politica destinata, come ha scritto giustamente Gustavo Zagrebelsky, a funzionare da carapace del potere.
La lotta per il potere intesa come semplice sostituzione di disponibilità, infatti, è l’oggetto del contendere tra 5 Stelle e PdR . Una lotta per il potere condotta apparentemente in modo manicheo (salvo spartizioni quando si presenta la necessità di dividere il bottino).
Una lotta di tipo manicheo che avverrà, dal punto di vista di entrambi i contendenti, ad esempio all’interno dello scontro nel referendum sulle riforme costituzionali.
Un’occasione quella referendaria in realtà perfettamente funzionante come prospettiva sostitutiva nella logica della detenzione del dominio all’insegna del : “apre mois le deluge”.
E’ evidente, invece, che l’occasione referendaria deve essere colta nell’espressione di un “NO” secco e inequivocabile per avanzare una proposta di democrazia che recuperi i termini concreti dell’espressione piena della rappresentanza politica.
Per Movimento 5 Stelle e PdR è fondamentale infatti, che temi come quelli dell’uguaglianza restino fuori dalle porte della scena politica e che l’organizzazione e la ricezione del consenso rimangano saldamente in mano ai vari “gigli” e “cerchi” magici e si realizzino attraverso strumenti come la televisione e il web escludenti dalla partecipazione diretta e dalla determinazione delle soggettività derivanti dalla divisione in classi.
Nel frattempo il contesto sociale si sta sgretolando in un assetto egoistico e consumistico (il consumo come grande protagonista dell’economia) e la partecipazione politica si riduce vieppiù al lumicino: ma è questo che conviene ai detentori dei pacchetti azionari e ai consigli d’amministrazione.
Importante per questi signori che non ci siano più partiti, corpi intermedi, mediazioni di alto o basso profilo: tutto deve essere riservato alla logica del Capo e dei suoi accoliti.
La democrazia ridotta al sì e al no dei plebisciti: un problema antico che ritorna di moda, come i diktat e gli ukase.
Meditino a sinistra quanto, nel passato, si sono mossi perché la governabilità sorpassasse il peso della rappresentatività politica: sistemi elettorali maggioritari, elezione diretta, personalizzazione.
Nasce tutto da lì e la valanga preparata dagli apprendisti stregoni ha trascinato l’intera montagna a schiacciare tutto e tutti.
martedì 12 gennaio 2016
Franco Astengo: Un referendum bonapartista
UN REFERENDUM BONAPARTISTA di Franco Astengo
L’esito della votazione alla Camera dei Deputati sul DDL Boschi relativo alle cosiddette riforme costituzionali (quelle definite dal senatore Besostri “deformazioni costituzionali”) apre la strada al referendum confermativo, del resto invocato dallo stesso Presidente del Consiglio in termini ultimativi: anzi ponendo la sua stessa carriera politica sul crinale dell’esito del voto popolare.
Il referendum dovrebbe svolgersi con ogni probabilità nel prossimo autunno.
Il “NO” (trattandosi di referendum confermativo il NO vorrà proprio dire NO, contrariamente a quanto avviene nel referendum abrogativo laddove il “SI’” risulta come affermazione negativa) sarà rappresentato da varie posizioni politiche ma è evidente come la più importante fra queste sarà quella costituita dai costituzionalisti che, nel corso di questi anni, hanno impegnato una battaglia per la difesa dei termini fondamentali della Costituzione Repubblicana.
Il Comitato del NO da essi formato ha di fronte un compito di grande importanza: quello di definire i caratteri peculiari della campagna referendaria, scegliendo i temi di fondo sui quali svilupparli in un confronto politico a tutto tondo nel corso del quale coinvolgere direttamente milioni di cittadini scendendo direttamente nel dibattito pubblico che non deve essere riservato esclusivamente ai mezzi di comunicazione di massa e alle tecnologie dei “social network”.
Questo è un primo punto di discrimine nell’autonomia e nell’identità del Comitato referendario che necessita di essere approfondito.
Sorge poi un altro interrogativo molto importante.
La campagna referendaria dovrà essere incentrata sul merito tecnico delle norme in discussione e, in particolare, sulla presenza dei consiglieri regionali in Senato, sul collegamento tra la composizione del Senato e la nuova legge elettorale, sulle potestà della Seconda camera in materia di fiducia al governo e di poteri di nomina, controbattendo così la facile propaganda derivante dagli effetti del superamento del cosiddetto “bicameralismo paritario”?
Oppure seguendo lo schema già dettato, come si sosteneva all’inizio di questo intervento, dallo stesso Presidente del Consiglio si tratterà di votare su di un reale spostamento nella forma di governo con il passaggio dalla repubblica parlamentare, prevista dalla Costituzione nata dalla Resistenza, a una forma anomala di Repubblica personale, né presidenzialismo, né premierato imperniata su di una figura centrale il cui ruolo sarebbe quello di significare un passaggio ben più ampio di quello fin qui identificato nella forma di governo?
Un passaggio che è possibile definire di stampo bonapartista che accompagnerebbe definitivamente la transizione alla modernità già avviata con l’elezione diretta dei Sindaci e proseguita attraverso l’uso spregiudicato dei mezzi di comunicazione di massa in dimensione personalistica come verificatosi durante il ventennio 1994 – 2014 seguito alla fase d’implosione dei grandi partiti di massa.
Un transito che significherebbe l’accantonamento della democrazia rappresentativa a favore di una democrazia formale presuntamente” diretta”,ma in realtà di tipo plebiscitario raccolta attorno alla figura del cosiddetto “uomo solo al comando” attorniato dal suo “giglio magico” di riverenti servitrici/ori come abbiamo visto, nella fattispecie, nel corso della costruzione del regime avviatosi con la presidenza Renzi dal 2014.
E’ questo l’interrogativo che si trova di fronte al Comitato per il NO al riguardo del quale è evidente la necessità di un intreccio fra le diverse ragioni.
La dimensione di questo intreccio, la scelta dei temi e dei riferimenti è questione di grande delicatezza da affrontare attraverso una discussione serrata nel merito da compiersi, anch’essa, ad ampio raggio tenendo ben conto sia delle ragioni di carattere teorico poste sul piano della qualità della democrazia, sia di quelle più concretamente collocate sul terreno dell’immediatezza politica.
Sicuramente il momento più delicato nella vita della Repubblica.
Nel 1960 l’intervento diretto delle masse popolari e il peso dei grandi partiti della sinistra e della CGIL evitarono un pericoloso scivolamento a destra dell’asse politico con la prospettiva concreta di un esito – appunto – di tipo bonapartista (o gaullista come si diceva allora).
Oggi?
La posta in gioco è quella della qualità della democrazia, tra rappresentanza democratica e , come sosteneva Max Weber, il “principio cesari stico”.
lunedì 11 gennaio 2016
Franco Astengo: Valori e idealità
VALORI E IDEALITA’ di Franco Astengo
Si fanno sentire, qui al centro della vecchia Europa, gli effetti politici, sociali, culturali della nuova qualità dello scontro in atto nelle zone più delicate del pianeta, quelle dove ci si sta misurando per la supremazia nel possesso e nel governo delle fonti energetiche, dal cui uso dipende una buona fetta di futuro.
E’ ben ricordare sempre questo dato per inquadrare il tipo di guerre in corso tra l’Asia centrale, il Medio Oriente, l’Africa del Nord e sub sahariana: una guerra prima di tutto economica con le potenze occidentali e orientali coinvolte in pieno e non certo quello che è stato definito “uno scontro di civiltà”.
Non ci si può però limitare all’astrattezza e non vederne gli effetti concreti sulla vita quotidiana: l’ondata di migrazioni che la guerra ha prodotto assieme al fenomeno delle fughe verso l’Occidente a causa di necessità ha provocato fatti importanti di squilibrio nell’assetto delle società europee e, soprattutto, reazioni di diverso tipo da parte dell’establishment politico e culturale.
La risposta più immediata è quella dell’innalzamento dei muri e della militarizzazione del territorio.
La politica viene accantonata quando rischia di innescare confronti che pongono in discussione il cosiddetto ordine costituito (niente rivendicazioni, niente scioperi, inviti pressanti alle varie unità nazionali con tanto di dispiegamento della retorica delle bandiere e degli inni).
C’è spazio soltanto per sorde lotte di potere.
La parola d’ordine imperante da parte dei sostenitori del pensiero unico e della “tranquillità borghese” è stata efficacemente riassunta da Ernesto Galli della Loggia sulle colonne del “Corriere della Sera” sotto il titolo: “Una politica di integrazione senza complessi di colpa”.
Nella sostanza, secondo l’autore, è necessario rifiutare il multiculturalismo offrendo agli immigrati protezione e opportunità senza esitare a chiedere con fermezza il rispetto delle regole.
Su quali regole però è forse il caso di interrogarci.
Forse quelle di un’assimilazione del conflitto derivante dalle contraddizioni derivanti dalla guerra che dovrebbe avvenire non tanto sul piano culturale (un fattore che viene usato quale sorta di nobilitante “foglia di fico”) ma piuttosto politica all’interno del meccanismo stritolante di un capitalismo fondato completamente sull’egoismo proprietario, la reiterazione dello sfruttamento, l’individualismo consumistico: la “proprietà dell’altro” che Dacia Maraini intende come identificazione della propria virilità è ben altro da ciò che intende l’illustre scrittrice. E’ proprietà “economica”, libertà di impadronirsi davvero dell’altro ma per farne l’oggetto del proprio arricchimento materiale nell’espressione del dominio.
Viene invocata la reciprocità che consisterebbe nell’esigere dall’altro quello che si pretende per sé, praticando così il rispetto come forma dell’etica pubblica.
Ma questa reciprocità non si verifica quando in ballo ci sono gli “interessi” della bassa cucina della ricchezza.
Non sarà mai sufficiente lo schermo dei relativi integralismi religiosi perché ci si nasconda la cattiveria di una società fondata sulla disuguaglianza .
Una società comandata dagli avventurieri che se ne impadroniscono per il loro profitto.
In questo quadro descritto cerco in maniera del tutto sommaria è necessario continui a esistere una parte politica e insieme culturale, quella che storicamente abbiamo definito come “sinistra” .
Una sinistra capace prima di tutto di demistificare questo tipo di impatto culturale e d’immagine tendente a conservare presunti valori di un primato del “pensiero unico” in modo, nel nome di una presunta “sicurezza”, di abolire l’antagonismo sociale.
Occorre il coraggio del “controcorrente” perché si mantenga ferma l’ispirazione dell’universalismo internazionalista cercando di comprendere come, ancora una volta, si stia cercando di far passare come idee dominanti quelle della classe dominante.
Idee della classe dominante da contrastare anche quando sembrano incontrare sentimenti emergenti nelle masse, attraverso la propaganda populistica.
Anche nei momenti più difficili, nel corso dei quali è possibile pensare a un prevalere dell’avversario di classe grazie alla sopraffazione dettata dall’uso spregiudicato della comunicazione di massa attraverso la quale si reclama un restringimento nell’ottica stessa della dimensione umana e non semplicemente della partecipazione democratica, è il caso di non abbandonare i “fondamentali” di un’etica alternativa fondata sull’eguaglianza (nell’insieme delle fratture agenti all’interno della società, in una visione strutturale che nella frattura di classe vede inserite quella di genere, d’ambiente, della diversità nel quotidiano) e sul tipo di progettualità politica che ne deriva sul piano storico.
I grandi interessi economici, politici , sociali, culturali, nell’espressione stessa delle dinamiche delle relazioni, non potranno mai coincidere in un sistema governato dall’alto in ragione della parte più aggressiva e rampante in nome dell’ideologia individualistica.
Gli interessi non potranno mai coincidere anche se si tenta di esprimere la narrazione di una società destrutturata da intrecci diversi di pulsioni e visioni morali apparentemente tra loro alternative .
Pulsioni e visioni morali che la tagliano trasversalmente ponendo in maniera inedita la realtà delle contraddizioni in atto.
Le contraddizioni della modernità, la complessità delle “fratture” restano comunque riconducibili all’unicum” delll’espressione di un dominio dall’alto che spesso, ormai, assume le sembianze dell’espressione personalistica capace di annullare lo stesso costituzionalismo.
Ciò sta avvenendo qui, nella vecchia Europa, non soltanto in ragione dello squilibrio causato dalla guerra, e non esclusivamente tra i paesi dell’Est che erano appartenuti alle società bloccate del “socialismo reale”.
Dobbiamo porre ancora una volta tutta l’energia disponibile per non farci risucchiare nella retorica dello scontro per affermare l’identità di una visione del cambiamento sociale tale da esprimersi nell’insieme dello scenario globale.
Ci sono vecchi insegnamenti da non smarrire : non è possibile abbandonare tutto a una sorta di nichilismo millenarista e moltitudinario.
Rimarrà per sempre scolpita nella storia la lezione di Germinale (anche per quel che riguarda, beninteso, la condizione di genere).
domenica 10 gennaio 2016
venerdì 8 gennaio 2016
giovedì 7 gennaio 2016
mercoledì 6 gennaio 2016
Franco Astengo: La Costituzione materiale
LA COSTITUZIONE MATERIALE di Franco Astengo
Negli anni scorsi si era molto discusso circa l’affermarsi di una “Costituzione Materiale” che, attraverso l’adozione del sistema elettorale maggioritario, il propagarsi della personalizzazione della politica suffragata dall’elezione diretta di Sindaci e Presidenti di Provincia e di Regione, la centralità del governo intesa quale unico obiettivo dell’azione politica, stava modificando – in senso autoritario – il dettato della Costituzione repubblicana, laddove questa afferma la supremazia del concetto di rappresentanza politica e di centralità del Parlamento e dell’insieme delle Assemblee elettive.
In contemporanea con questi elementi si è notato il modificarsi nel ruolo e nella definizione di sostanza politica dei partiti passati dal modello duvergeriano dell’integrazione di massa a quello catalogato da Katz e Mair come “all catch party” poi via via modificatosi nel partito personale così come teorizzato da Mauro Calise e, ancora, nella versione italianissima del “partito azienda” fino agli attuali comitati elettorali permanenti, fondati sull’individualismo competitivo e le cordate fondate sul segno del trasformismo, attraverso il modello delle cosiddette “primarie”.
Adesso si sta cercando di codificare questo sostanziale mutamento di paradigma attraverso una legge elettorale che finisce con il codificare questa situazione di fatto realizzando – ancora una volta – un’operazione del tutto surrettizia di elezione diretta del Premier che sarebbe sostenuto da una maggioranza artificiosa basata su di un partito che potrebbe avere il 55% dei seggi pur partendo da una percentuale sui voti validi collocata attorno al 30%.
Voti validi, è bene ricordarlo, che alla fine, potrebbero rappresentare – più o meno – il 60% scarso dell’elettorato.
Un partito con circa 8 milioni di voti validi conseguirebbe così la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, per la quale sarebbe necessari – senza premio – almeno 15 milioni di voti (50 milioni di elettrici ed elettori iscritti nelle liste per 30 milioni circa di voti validi).
Il tutto in presenza della modifica del Senato, reso rappresentativo di Consigli Regionali e Sindaci e privato della potestà di votare la fiducia al governo.
Nei fatti una prospettiva di profondo squilibrio istituzionale, un vero e proprio mutamento di paradigma rispetto allo spirito e alla lettera di una Costituzione come quella del ’48 mai pienamente applicata e mandata da tempo in crisi.
Del resto sono i numeri che confermano questa tesi, in particolare rispetto alla capacità delle Camere di esprimere la propria potestà legislativa.
I dati che emergono da uno studio di Openpolis, pubblicato da Repubblica. it sotto il titolo “Premierato all’Italiana” ci dicono che la percentuale di leggi di iniziativa parlamentare che arrivano all’approvazione è dello 0,88% e che il rapporto tra leggi di iniziativa governativa e leggi di iniziativa parlamentare è di 80 -20.
Le proposte di legge depositate nelle ultime due legislature sono state circa 15 mila, delle quali ne sono state approvate 565: 440 delle quali di iniziativa governativa.
Si tratta di dati che, in previsione della campagna referendarie sulle riforme costituzionali (al riguardo della quale oggi Napolitano annuncia il suo Sì: una ragione di più per esprimere un forte No) andrebbe meditati attentamente al fine di essere capaci di proporre, assieme al NO, un nuovo rapporto tra rappresentanza politica e iniziativa parlamentare.
Un nesso , quello tra rappresentanza politica e iniziativa parlamentare, da recuperare, rinnovare, valorizzare al massimo.
Francesco Maria Mariotti: La bomba, la paura, il futuro
Riflessioni a caldo, perciò solo abbozzate, sicuramente imperfette, sulla "notizia" che ha aperto questa festa di Epifania.
1. In generale non serve "spaventarsi" di fronte agli avvenimenti di politica internazionale; e sempre in generale è necessario trovare un modo di "sfruttarli", di ricavare una qualche "utilità", per quel che è possibile; anche quando le alternative sono pessime, una possibilità di scelta c'è. E scegliere è già "non subire", è un passo di libertà.
2. I fatti vanno verificati: la notizia dell'esplosione nucleare nord-coreana deve essere innanzitutto appurata in tutti i suoi aspetti. Non sono mai da escludere "eccessi propagandistici" che magari nostri legittimi allarmi possono involontariamente amplificare.
3. Forse un "allarme coreano" -se c'è - può innescare una positiva chiamata di corresponsabilità per tutto il mondo, vedi soprattutto Cina; e forse questo può accentuare pressione su scenario iraniano-arabosaudita perché la tensione si plachi.
4. La sensazione è che il Medio Oriente sia di fronte a un lungo periodo di ridefinizione confini che può durare una generazione (cit. Maurizio Molinari oggi a Omnibus); in questo senso lo scenario sembra essere quello di un'area che - vedi problema scarsità petrolio, fonte prima o poi in esaurimento - vede diminuire, in prospettiva, la propria importanza nel mondo. La nascita del terrorismo qaedista e poi di Isis forse vede in questo declino parte delle ragioni fondanti. La nuova importanza dell'Iran può aprire scenari nuovi ma forse non cambierà questa prospettiva di lungo periodo.
5. Una crisi in estremo Oriente apre invece lo sguardo su un'area che sembra aver "prenotato il futuro". Ma non dobbiamo farci abbagliare. Le dinamiche economiche cinesi sono assai complesse e non tutte positive. In questo senso non dobbiamo assolutamente perder fiducia nel modello democratico "liberal-sociale" che alla lunga rimane il più duttile e capace di vincere le peggiori tempeste.
Quando ritroveremo questa fiducia, sapremo proporre anche a quel mondo una prospettiva di crescita; non "armoniosa", forse, ma più aperta alle ragioni dell'individuo e della persona.
Non dobbiamo avere paura.
Francesco Maria Mariotti
martedì 5 gennaio 2016
Emanuele Macaluso: I primati della ferrari e quelli di renzi
I PRIMATI DELLA FERRARI E QUELLI DI RENZI. UNA SPOCCHIA CHE ISOLA E NON FA VEDERE LE COSE
emanuele macaluso
Gli egocentrici, le persone che contano solo su se stesse e diffidano di tutti, se non di coloro che gli danno sempre ragione e sono pronti a tutti i servizi anche per trarne profitto, non si accorgono mai di quel che succede nel mondo in cui vivono. Se queste persone governano un Paese, pensano che il loro modo di governare sia l’unico possibile, e chi dissente o propone un’altra linea politica e un altro modo di governare è tacciato di disfattismo. Sono queste le persone che non si accorgono quando la loro parabola politica è in caduta, e proprio per questo accentuano la diffidenza e menano fendenti a destra e a manca. È questo che sta succedendo al Presidente del Consiglio del nostro Paese, che è anche segretario del PD.
Oggi, L’Unità, che è un bollettino anche fotografico del Presidente-segretario, ha confermato questo mio giudizio. Come è noto, ieri Renzi è stato a Milano, a Piazza Affari, per partecipare insieme a Marchionne e alla famiglia Agnelli, alla manifestazione che solennizzava la quotazione in borsa della Ferrari. Per l’occasione, il Presidente ha fatto un discorso che leggo su L’Unità, in un resoconto firmato da Natalia Lombardo, che inizia con queste parole: “L’Italia c’è”. E già, c’è sempre stata… E aggiunge che il nostro Paese “non deve avere paura, perché il nostro grande alleato è la globalizzazione, e quando ci mettiamo in pista siamo i più bravi del mondo”. Proprio così: del mondo, signore e signori! L’Unità sottolinea in un box scritto in rosso questa frase presidenziale: “Abbiamo avuto tre anni di recessione sconosciuti agli altri paesi. Cresceremo ancora di più”. Una recessione sconosciuta agli altri paesi? E la Grecia, la Spagna, il Portogallo, e anche la Francia, non hanno subito una recessione, e alcuni anche più pesante della nostra? Renzi ha poi ricordato la parabola del PIL: “-2,3 Monti, -1,9 Letta e con me -0,4 l’anno scorso. Quest’anno siamo cresciuti dello 0,8 e nel 2016 faremo il doppio”. Non è questa l’occasione per parlare dei governi Monti e Letta. Ma quali erano le condizioni dell’Italia nel 2011, con l’Europa che inviava un’ingiunzione a Berlusconi che scappava? E Letta non recuperò in condizioni ancora difficili? E non c’è stata nel mondo, in Europa (vedi Grecia, Spagna e Portogallo), un’inversione di tendenza nella crisi?
Io non sono tra coloro che vedono in Renzi il nemico da abbattere subito per risollevare l’Italia e salvare la democrazia. Le cose sono molto più complesse. Ma Renzi, per i motivi che ho cercato di elencare all’inizio di questa nota, non si accorge che proprio questa spocchia, che mostra non solo nel nostro Paese, ma in Europa, lo rende a volte ridicolo e altre intollerabile, al punto che oggi è sempre più isolato. E non se ne accorge. Tuttavia, penso che questo Presidente resterà ancora in sella, perché non si vedono alternative, né a destra né a sinistra, e nel PD c’è solo mugugno. Questo 2016 si apre quindi con molte incognite politiche, nazionali e internazionali. Ne parleremo ancora.
lunedì 4 gennaio 2016
Ruggero Paladini: Bail-in alla tedesca
Da Il Campo delle idee
Bail-in alla tedesca: come a Berlino (e tra i funzionari della Ue) la sfiducia verso l'Italia può produrre danni al nostro Paese.
Il bail-in avrebbe un fondamento razionale, ma sarebbe stato bene applicarlo per il futuro e con ampiezza di informazione nei confronti dei risparmiatori. Si è voluto mettere l'Italia nel mirino. E non è finita. Dalla Germania già sono partite ulteriori proposte, in particolare quella per cui qualora un paese che in futuro richieda assistenza al fondo salva-stati, il Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM), sia soggetto alla ristrutturazione automatica del proprio debito pubblico.
Il primo dono del 2016 viene da Bruxelles: la Bank Recovery and Resolution Directive (BRRD) stabilisce che azioni, obbligazioni (di tutti i tipi) e depositi oltre 100mila euro dovranno sopportare le perdite nel caso di crisi bancaria. Come è ben noto, un anticipo della direttiva l’abbiamo avuta con le quattro banche (Chieti, Etruria, Ferrara e Marche), dove il salvataggio del governo ha provocato migliaia di risparmiatori infuriati, un suicidio, ritiro di depositi e cause civili che daranno lavoro a molti avvocati. Ma se l’intervento fosse stato rinviato al 2016 le cose sarebbero andate ancora peggio.
In teoria sarebbe stato possibile evitare le perdite subite dai risparmiatori senza oneri per i contribuenti. Come ha dichiarato alla Camera Carmelo Barbagallo (capo della Vigilanza bancaria e finanziaria della Banca d’Italia), era “emersa la disponibilità` del Fondo Interbancario di Tutela dei depositi a farsi carico di tale aspetto, assorbendo i rischi relativi ai crediti deteriorati. L’intervento del Fondo avrebbe consentito, congiuntamente alle risorse apportate da altre banche, di porre i presupposti per il superamento delle crisi senza alcun sacrificio per i creditori delle quattro banche”. Ma la Commissione Europea ha posto il veto a questa soluzione, con un argomento che, dice Barbagallo, la Banca d’Italia non ha condiviso.
Infatti Margrethe Vestager, a capo della sezione Concorrenza della Commissione europea, ha considerato l’intervento del Fondo Interbancario come un aiuto di Stato, in sostanza perché le risorse del Fondo derivano da versamenti obbligatori da parte delle banche operanti in Italia. Argomento alquanto discutibile; in questo caso si dovrebbero considerare come appartenenti al settore pubblico le società di assicurazione che ricevono premi obbligatori (auto, condomini ecc…). In realtà si tratta di un argomento ad hoc, quello vero è che si voleva stabilire immediatamente il principio del burden sharing, cioè appunto il sacrificio degli azionisti e (almeno) di alcuni obbligazionisti. Ecco perché in Portogallo la Commissione ha consentito l’intervento pubblico a favore del Banif (Banco Internacional do Funchal di Madeira) con un'iniezione di quasi 2,3 miliardi di euro di fondi pubblici alla banca originaria di Madeira, che viene venduta al Santander dopo essere stata ripulita degli asset più problematici; perché lì c’è stato il burden sharing.
La direttiva BRRD ha un suo fondamento razionale, che gli economisti raccontano come l’obiettivo di evitare il moral hazard da parte del management delle banche. Se lo Stato interviene a salvare azionisti e creditori di una banca, i dirigenti eccedono nel prendere rischi e gli azionisti non vigilano sul loro operato. L’unica eccezione alla regola riguarda i depositanti, almeno fino ad una certa cifra, dato che avere un conto corrente è essenziale per il funzionamento del sistema economico ed una fuga dai depositi sarebbe esiziale. Certo si potrebbe notare che gli aiuti di Stato concessi alle banche in Germania a fine 2014 ammontavano a 238 miliardi di euro (8,2 per cento del PIL tedesco) e che il 19 ottobre scorso la Commissione europea ha approvato il piano di salvataggio della HSH Nordbank, specializzata nel credito navale e detenuta in maggioranza dai governi regionali dello Schleswig Holstein e di Amburgo. La banca, in dissesto finanziario da tempo, sarà oggetto di una liquidazione o di una vendita, godendo, però, delle garanzie pari a 3 miliardi dello Stato tedesco. Si potrebbe anche ricordare che BCE e Commissione permisero che le banche francesi e tedesche, piene di titoli greci, recuperassero i loro investimenti, e solo dopo avvenne un parziale default a carico dei creditori privati.
Ma a parte questi rilievi polemici, va detto che la BRRD può anche essere considerata una misura ragionevole, se applicata ai nuovi azionisti o creditori dal 2016 in avanti; o, proprio volendo accelerare i tempi, si poteva obbligare tutte le banche ad informare i clienti dei rischi che si corrono con le obbligazioni subordinate o i depositi oltre i 100.000 euro, procedendo alle modifiche richieste dai clienti stessi, e prendendosi l’intero 2016 di tempo. Perché quindi questa fretta della Germania nel varare la BRRD, mentre allo stesso tempo esprime una sorda resistenza a creare un fondo europeo per la tutela dei depositi (fino a 100mila euro)?
Come disse Andreotti, a pensare male si commette peccato però ci s’indovina. Basti ricordare un ben noto precedente: Merkel e Sarkozy durante una passeggiata, il 19 ottobre 2010, a Deauville, dichiararono che i sottoscrittori di debito pubblico dovevano pagare la loro parte, in caso di default. I tassi d’interesse italiani e spagnoli iniziarono ad impennarsi e i cittadini dei due paesi impararono il significato della parola spread. L’economista Paul De Grauwe scrisse (10 maggio 2011) un articolo su Vox “Managing a fragile Eurozone”, nel quale faceva notare come il Regno Unito, pur avendo deficit e debito più alti della Spagna, aveva tassi d’interessi più bassi. La ragione, dice De Grauwe, è perché dietro il debito pubblico britannico c’è la Banca d’Inghilterra, mentre dietro il debito spagnolo non c’è la BCE.
Gli spread continuarono a ballare fino al famoso whatever it takes di Draghi, e al varo degli Outright Monetary Transactions (OMT) da parte della BCE. Senza mai essere stati usati, gli OMT hanno progressivamente fatto scendere lo spread italiano e spagnolo sui cento punti base. A questo calo ha contribuito ovviamente anche il QE iniziato dalla BCE a partire da marzo 2015, motivato dalla necessità di effettuare una politica monetaria fortemente espansiva per stimolare l’economia e, in particolare, per scongiurare la deflazione. Ma ovviamente si tratta di una politica monetaria che effettua una monetizzazione (in parte) del debito pubblico.
Gli OMT, ed ancora di più il QE, sono visti come fumo negli occhi in Germania, pressoché da tutti. Sia da quelli che vogliono cacciare l’Italia (oltre alla Grecia) dall’area dell’euro, sia da quelli che non hanno esplicitamente questo obiettivo, ma, basandosi sulla teoria economica dell’espiazione della pena, pensano che solo con l’acqua alla gola gli italiani possono “fare le riforme”. Le misure della BRRD tornano allora molto utili per creare difficoltà al nostro paese. Ma non basta, e dalla Germania partono ulteriori proposte, in particolare quella per cui qualora un paese che in futuro richieda assistenza al fondo salva-stati, il Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM), sia soggetto alla ristrutturazione automatica del proprio debito pubblico.
Si tratta quindi di una proposta nello spirito di Deauville, equivalente del bail-in bancario applicato al debito pubblico, un modo cioè per far pagare la ristrutturazione dei debiti a azionisti e obbligazionisti, e non ai contribuenti degli altri paesi. Nel caso delle banche era previsto che insieme con il bail-in fosse predisposta anche un’assicurazione dei risparmi comune (cioè finanziata con risorse condivise) che garantisse il rimborso dei depositi fino a 100mila euro in caso di insolvenza di un istituto di credito. Ma la Bundesbank ora chiede che questa misura di condivisione dei rischi bancari sia rinviata di una decina di anni. Il problema infatti non è tanto quello dei prestiti incagliati delle banche (circa 200 miliardi in Italia), ma quello dei titoli pubblici del proprio paese in mano alle banche (in Italia 400 miliardi). Se la banca dovesse saltare, perché il debito pubblico di un Paese è diventato insostenibile, salvare la banca implicherebbe il sostegno al debito pubblico, e questo andrebbe contro i Trattati. Allora si dovrebbe agire tramite il MES, ed ecco allora la proposta di ristrutturazione automatica del debito.
L’entrata in vigore delle regole BRRD creerà sicuramente difficoltà alle piccole banche, ma se dovessero aggiungersi le proposte made in Germany, i problemi del sistema bancario, in termini di costo del finanziamento o della stessa capacità di erogare crediti, aumenterebbero. Non solo, ma ci sarebbero ripercussioni anche sullo spread dei titoli pubblici. Finora non ci sono state particolari reazioni da parte dei commentatori italiani (da segnalare un articolo di Carlo Bastasin sul Sole del 31 dicembre), ma sarà bene che il governo si occupi attivamente delle proposte tedesche, perché sono mirate a contrastare sia l’OMT sia il QE della (maggioranza della) BCE.
Infine una nota: si potrebbe pensare che Margrethe Vestager sia una agente di Berlino, membro del partito popolare. Non è così, si tratta di una politica danese di una formazione che letteralmente significa “sinistra radicale”, ma il termine non deve ingannare; l’orientamento è liberale e Madame Vestager fa parte di ALDE, l’alleanza liberale e democratica al Parlamento europeo. Ma anche chi è a capo di una importante struttura della Commissione Europea deve basarsi sul lavoro dei funzionari della Commissione, e il clima generale che si respira è quello di sospetto e sfiducia nei confronti dell’Italia, simile a quello nei confronti della Grecia. Una sfiducia nettamente maggiore rispetto a quella verso i due paesi della penisola iberica.
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Franco Astengo: Le parole smarrite
LE PAROLE SMARRITE TRA SOSTANZA E ACCIDENTE di Franco Astengo
Ci si aggira attoniti attorno alle notizie che segnalano eventi sempre più difficili da interpretare secondo quelli che erano i nostri tradizionali strumenti di analisi e di comunicazione: un insieme di termini che la sinistra usava per le sue analisi sembra proprio definitivamente smarrito e mai più recuperabile.
Sviluppo così pochi esempi allo scopo di far intendere meglio quanto contenuto in premessa.
Prendiamo il cosiddetto “scandalo” delle quattro banche che, per un cumulo di motivi, ha fatto grande clamore in questi giorni.
Ebbene, da parte dei mezzi di comunicazione di massa e dei commentatori più autorevoli l’accento è stato posto sulla (giusta, peraltro) richiesta di risarcimento da parte dei cittadini investitori più o meno truffati, sull’atteggiamento riprovevole del governo, sui legami catto -massonico- familistici che sembrano collegare i protagonisti in negativo di questa vicenda.
A nessuno, o quasi, è venuto in mente di collegare questo fatto a fenomeni ben più generali: primo fra tutti il processo di crescente finanziarizzazione dell’economia che sta alla base di quanto accaduto nella gestione del ciclo capitalistico degli ultimi decenni; del fallimento – nello specifico del “caso italiano” – del processo di concentrazione / privatizzazione che ha segnato la fase attraverso procedimenti del tutto opachi e di altri fattori, in primis quelli riguardanti obiettivi meramente speculativi, che determinano una situazione davvero difficile nell’insieme delle relazioni economiche.
Questa assenza di capacità analitica ha fatto sì che risultino smarrite, all’interno del dibattito pubblico, le ragioni che sostengono la contrarietà al processo di privatizzazione e propongano un ruolo dell’intervento pubblico fino alla nazionalizzazione delle banche.
Due parole: intervento pubblico e nazionalizzazione che , scritte e/o pronunciate, produrrebbero orrore nella gran parte dei ben pensanti lieti, invece, dei brillanti risultati che l’itinerario delle privatizzazioni e della “sana” concorrenza hanno prodotto, come nel caso – appunto – delle quattro banche citate: ma tanti altri casi si potrebbero enucleare in particolare sul piano europeo per non trasmigrare oltre Atlantico.
Un altro caso di parole smarrite riguarda il discorso dell’industria e, in particolare, in relazione a questa il discorso della ricerca e dell’innovazione tecnologica.
Un discorso, del resto, strettamente legato alla questione bancaria.
E’ prevista, per i primi mesi di questo 2016 appena avviato, una conferenza nazionale sull’industria.
L’Italia, in un contesto europeo sicuramente più agguerrito, è priva da tempo di una politica industriale sostenuta da una forma coerente d’indirizzo pubblico.
Nei giorni scorsi, sulle colonne di Repubblica, Mariana Mazzucato in un articolo “Pubblico e Privato uniti nella lotta” si è molto spesa per illustrare tutta una serie d’interventi pubblici sviluppati non solo da paesi europei in funzione di finanziare un diverso sviluppo industriale, posto in relazione proprio ai meccanismi dell’innovazione tecnologica, di un’adeguata produzione di “know-how” e di sviluppo ecologicamente all’altezza con le contraddizioni della cosiddetta modernità.
Il suo giudizio è molto preciso : “ L’Italia continua a non disporre di organizzazioni con un respiro strategico. I problemi dell’economia sono visti soltanto (sia da Berlusconi in passato, sia da Renzi oggi) in termini di “impedimenti” (tasse, burocrazia) da rimuovere, invece che in termini di istituzioni da creare per investire e creare i nuovi mercati del futuro”.
Anche in questo caso la sinistra appare del tutto afona (ritrovandosi nella sostanza subalterna alla conduzione del potere): non si pretenderebbe di arrivare addirittura alla possibilità di mettere in agenda la nazionalizzazione dei settori strategici e dei servizi essenziali (considerati pure in questo caso gli esiti delle privatizzazioni, se pensiamo a chimica, siderurgia, agro alimentare, telecomunicazioni) ma almeno ad un riferimento ad una qualche proposta di programmazione e di intervento pubblico (qualcuno molto timidamente tempo fa aveva rivolto un qualche accenno all’antica storia dell’IRI) . Elementi di dibattito e di iniziativa politica che andrebbero posti almeno al livello di come fu all’epoca del primo centro – sinistra, quello vero degli anni’60, quello spezzato dal “tintinnar di sciabole”.
Quando ci si interroga sullo smarrimento di identità e di autonomia della sinistra italiana forse ci si dovrebbe interrogare anche al riguardo della terminologia del dibattito e della formulazione delle proposte politiche: sembrano proprio introvabili, infatti, i termini che, un tempo ma anche adesso, distinguono interessi pubblici e interessi privati, ricerca di crescita collettiva e speculazione.
Quei termini, in definitiva, che dovrebbero distinguere tra destra e sinistra.
Una sinistra che ha perso la capacità di vedere e leggere la sostanza e si limita ad occuparsi dell’accidente.
Un accidente che ha assunto le vesti di un personalismo insulso e arrogante.
sabato 2 gennaio 2016
Franco Astengo: Disuguaglianza e interrogativi
DISUGUAGLIANZA E INTERROGATIVI: ANCORA UN TENTATIVO DI APRIRE UN CONFRONTO SU “SPAZIO E RUOLO DEL RIFORMISMO, OGGI” di Franco Astengo
Nella parte conclusiva del suo bel libro “Disuguaglianza” Anthony B. Atkinson (professore a Oxford e alla London School of Economics) avanza quindici proposte (che saranno riportate in calce a questo intervento) allo scopo di affrontare il problema della disuguaglianza che definisce come “uno dei problemi più urgenti con cui ci confrontiamo oggi).
Quindici proposte elaborate all’insegna di un “consapevole ottimismo sulle possibilità dell’azione politica” tese a rilanciare i principi di fondo del keynesismo e delle idee di fondo che diedero vita, nei “trenta gloriosi” (così definiti da Piketty e da Rossanda gli anni dal 1945 al 1975) al welfare state.
Atkinson non si limita però a rivedere il passato ma si rivolge all’innovazione presentando ipotesi originali e proposte politiche innovative in cinque campi: la tecnologia, l’occupazione, i sistemi di sicurezza sociale, la condivisione del capitale e la tassazione.
Si tratta di un quadro d’insieme che interesserà molto coloro che, pur volendo conservare con chiarezza una matrice di natura socialista, intendono muoversi su di un piano di realismo riformista e di sinistra di governo.
Non è questa la sede per riaprire un confronto tra chi sostiene queste posizioni e quanti pensano, invece, alla necessità di espressione da parte della sinistra di opzioni ben più radicali partendo da un’espressione di “opposizione sistematica” al quadro di governo dominante che si muove nel segno di un capitalismo bellicista e distruttore di qualsiasi istanza sociale posta al di fuori dal “pensiero unico”.
Pur tuttavia è il caso di far premettere all’elenco delle proposizioni stilate da Atkinson almeno tre domande di fondo ( esprimendo anche, attraverso l’espressione di una doverosa onestà intellettuale, un personale scetticismo di fondo sulla possibilità concreta di esistenza di una “sinistra di governo” in questo quadro):
a) Può essere possibile portare avanti un’idea di sinistra di governo fondata sull’innovazione del keynesismo e il rilancio di uno “stato sociale della modernità” in questo quadro generale segnato dalla ripresa dei rischi di scontro bellico globale e dalla presenza di un’Unione Europea che si presenta come lo strumento più efficace per favorire l’economismo delle disparità e la crisi di una visione politica democraticamente avanzata?
b) Quale battaglia politica può risultare possibile per modificare i termini di costruzione di governi fondati sulla negazione della rappresentanza, la visione assolutista del personalismo, l’espressione di forme di gretta meschinità razzista, di sostanziale fascismo come sta avvenendo in più parti d’Europa in questa fase?
c) Può essere possibile sostenere questo tipo di proposte presenti nel libro di Atkinson, di natura – va ripetuto e ribadito – chiaramente socialdemocratica, senza la presenza di una forza politica radicata e organizzata nella dimensione nazionale ma in possesso di una visione internazionalista riferita alla qualità delle effettive contraddizioni sociali operanti nella realtà e ispirata ai grandi principi che hanno appartenuto al movimento operaio?
Sono questi i tre punti di riflessione sui quali pare non cimentarsi quella parte di sinistra europea apparentemente rimasta in campo ma che, nella maggior parte dei casi, appare ormai ridotta al tentativo di conservazione di qualche trincea elettorale di sempre più ridotte dimensioni, risultando del tutto sprovvista di dimensione ideale e di visione progettuale e programmatica (lo stesso Ilvo Diamanti si è augurato una ripresa di soggettività in questo senso, pur giudicandone la possibilità come un “sogno”).
Queste comunque le 15 proposte di Atkinson:
1) La direzione del cambiamento tecnologico deve essere una preoccupazione esp0licita della politica: va incoraggiata l’innovazione in una forma che aumenti l’occupazione, mettendo in rilievo la dimensione umana della fornitura di servizi;
2) La politica pubblica deve mirare a un equilibrio appropriato di poteri fra gli stakholder, e a questo fine deve (a) introdurre una dimensione distributiva esplicita nelle regole di concorrenza; (b) garantire un quadro giuridico di riferimento che consenta ai sindacati di rappresentare i lavoratori a pari diritti; (c) formare, ove già non esista un Consiglio sociale ed economico che coinvolga le parti sociali e altri organismi non governativi;
3) Il governo deve adottare un obiettivo esplicito per prevenire e ridurre la disoccupazione e deve sostenere tale obiettivo offrendo un impiego pubblico garantito a salario minimo a quanti lo cercano;
4) Deve esistere una politica salariale nazionale, fondata su due elementi: un salario minimo legale fissato a livello di salario vitale e un codice di buone pratiche per le retribuzioni al di sopra del minimo, concordate nell’ambito di una “conversazione nazionale” che coinvolga il Consiglio sociale economico;
5) Il governo deve offrire, attraverso buoni di risparmio nazionali, un tasso di interesse reale positivo garantito sui risparmi, prevedendo un tetto massimo per persona;
6) Deve esistere una dotazione di capitale (eredità minima) assegnato a tutti all’ingresso nell’età adulta;
7) Deve venire creata un’Autorità di investimento pubblica, che gestisca un fondo patrimoniale sovrano al fine di accrescere il patrimonio netto dello Stato con investimenti in aziende e proprietà immobiliari;
8) Dobbiamo tornare a una struttura di aliquote più progressiva per l’imposta sui redditi delle persone fisiche, con aliquote marginali crescenti per scaglioni di reddito imponibile, fino a un’aliquota massima del 65%, il tutto accompagnato da un ampliamento della base imponibile;
9) Il governo deve introdurre nell’imposta sui redditi delle persone fisiche uno “sconto sui redditi da lavoro”, limitato alla prima fascia di retribuzione;
10) Eredità e donazioni inter vivos devono essere soggette a un’imposta progressiva sugli introiti da capitale nell’arco della vita;
11) Deve esistere un’imposta proporzionale, o progressiva, sugli immobili, basata su una valutazione catastale aggiornata;
12) Deve essere pagato un assegno familiare per tutti i figli, in misura sostanziale, che vada soggetto a imposta come reddito;
13) Deve essere introdotto, a livello nazionale, un reddito di partecipazione, a complemento della protezione sociale esistente, con la prospettiva di un reddito di base per i figli a livello di Unione Europea;
14) (alternativa a 13) Deve darsi un rinnovamento della previdenza sociale, con un innalzamento del livello dei benefici e un’estensione della sua copertura;
15) I Paesi ricchi devono innalzare il loro obiettivo per l’assistenza ufficiale allo sviluppo, portando all’1% del reddito nazionale lordo.
Fin qui Atkinson, restando ferme le tre domande di fondo sul quadro internazionale, l’assetto dello Stato, il soggetto politico e interrogandoci ancora: c’è spazio per un progetto di questo tipo o è necessaria una ben più forte radicalità di fondo nell’opporci all’arretramento storico in atto riferendoci, invece, a una prospettiva che, nel necessario delinearsi delle fasi di transizione torni davvero l’obiettivo dell’abolizione dello stato di cose presenti”?E questo mettendo da parte le controversie vicende che hanno accompagnato gli inveramenti del ‘900?
L’eterno dilemma della sinistra, dunque, cui aggiungere ancora una domanda: è possibile un’intesa politica fra quanti si oppongono al “pensiero unico” e al ritorno del fascismo sotto mentite spoglie, al di là degli obiettivi di medio e lungo periodo e tornando a un’ispirazione, questa sì, ideologica legata ai concetti di pace, solidarietà,eguaglianza?
Nella sostanza: oggi rimane spazio e ruolo per il riformismo?
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