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lunedì 5 ottobre 2015
Luciano Belli Paci: Perché Renzi era nel Dna del Pd
Da critica liberale estate 2015
La trasformazione del Pd in volenteroso artefice di
tutte le istanze programmatiche della destra – far
pagare la crisi economica a pensionati e pensionandi,
ridurre i diritti dei lavoratori, stravolgere la
democrazia costituzionale, imporre ilmodello della scuolaazienda
– non deriva né da fattori congiunturali, né dall’arrivo
del cavaliere nero Renzi che lo ha espugnato.
Deriva invece da un difetto genetico che viziava il
processo costituente del Pd e di cui era portatrice, paradossalmente,
proprio la sua componente teoricamente di
sinistra (Ds).
Fin dalla nascita, infatti, il nuovo partito era privo di
un organo vitale: l’ideologia.Apparentemente questamancanza
era frutto di una specie di esperimento dell’asino di
Buridano, giacché la fusione di Ds e Margherita era stata
condotta accantonando l’impresa di portare a sintesi i rispettivi
corredi ideali, nell’illusione che il nuovo soggetto
forgiato con impeto volontaristico (il cuore al di là della
mente, più che al di là dell’ostacolo) avrebbe poi trovato
col tempo anche un ubi consistam identitario.
All’epoca il contrasto più difficilmente componibile
pareva quello tra clericali e laici, visto che l’elenco dei punti
che i primi definivano “non negoziabili” era talmente sterminato
da costringere il neonato partito ad una paralizzante
ambiguità, a partire dalla penosa auto-definizione di
“partito di laici e di cattolici”: un unicum nel panorama
delle democrazie occidentali, dove tutti i soggetti interni al
sistema liberaldemocratico si proclamano partiti intrinsecamente
laici, di credenti e non credenti. Ma dopo pochi
anni l’abbandono della componente più clericale (Rutelli,
Binetti) ha ridotto, anche se certo non eliminato, la carica
divisiva di questi temi per il Pd.
Sul piano delle posizioni sociali, economiche e più in
generale dell’identità politica, invece, il vuoto ideologico
derivava essenzialmente dai cromosomi del Pci-Pds-Ds,
nel quale la psico-politica aveva preso il sopravvento sulla
cultura politica vera e propria, facendo sì che il trapianto
della nuova identità socialdemocratica sul corpo dimatrice
post-comunista – molto maldestramente tentato prima da
D’Alema e poi da Fassino – andasse incontro a una irreversibile
crisi di rigetto. Piuttosto che riconoscere il fallimento
epocale del comunismo e tornare secondo la profezia
di Turati nell’alveo dell’antico fiume socialista democratico,
il ceppo del grande partito prima ancora di sciogliersi
nel Pd si era via via innamorato della litania consolatoria
veltroniana: “è finito il ‘900”, dunque le ideologie
sono tutte ugualmente fallite e superate, dunque il partito
può vivere in un universo gassoso senza storia e senza
identità, nutrendosi solo di “bella politica” e di buoni sentimenti.
Insomma anche il Pci-Pds-Ds, come Candide,
aveva incontrato il suo Dottor Pangloss che lo aveva educato
a pensare che viviamo nel migliore dei mondi possibili,
in assenza di conflitti ideologici e di conflitti sociali.
Peccato che il mondo reale sia lontanissimo da questo
Eden e che chi sceglie di non scegliere una precisa linea
di pensiero e, di conseguenza, non decide neppure di quali
interessi sociali farsi portatore, venga risucchiato inesorabilmente
sulle posizioni dominanti. Infatti, proprio come
in natura vi è l’horror vacui, così in politica esiste l’orrore
del vuoto di ideologia: se non hai (più) un’ideologia tua
propria finisci per assumerne più o meno inconsapevolmente
una altrui, ovviamente la più forte.
L’ideologia non è quella parola impronunciabile,
quella specie dimostro divoratore che ci descrivono da decenni
i grandi giornali confindustriali ed i loro sprovveduti
complici sedicenti di sinistra. L’ideologia non è necessariamente
un rigido corpus dogmatico che militarizza il pensiero
(lo è stato ilmarxismo-leninismo, che è solo una ideologia
tra le tante), ma può essere, deve essere uno strumento
che costantemente viene sottoposto a revisione e si
aggiorna con metodo popperiano. Se è la parola a spaventare,
chiamiamola pure diversamente: sistema di pensiero,
visione del mondo, idea di società. Quel che è certo è che,
così come nessuno può viaggiare in territori sconosciuti
senza servirsi dimappe, bussole, navigatori satellitari, così
non si può affrontare la navigazione politica senza la bussola
dell’ideologia. E questo non è meno vero in tempi di
grandi ed impetuosi mutamenti sociali e tecnologici; anzi,
è più vero di prima perché proprio la continua novità delle
sfide ci impone di tenerci stretta una bussola, una chiave di
lettura che ci faccia trovare il nostro posto senza ogni volta
sbandare, senza perdersi.
Il Pd è la dimostrazione vivente di cosa produca, alla
lunga, la mancanza genetica, programmatica, di una identità
ideologica e di una scelta di campo sociale.
Per qualche anno il partito ha ballato, passando dal
nuovismo veltroniano alla confusione bersaniana, ma al
fondo già covava l’attrazione fatale verso il pensiero unico.
luciano belli paci
perché renzi era nel dna del pd
L’avevano capito prima di altri i “giovani turchi”, che già
nel 2010 in un lucidissimo documento ( http://www.ulivoprenestino.
org/?p=372 ) scrivevano che «In unmondo popolato
solo di individui completamente liberi, autodeterminati
e autosufficienti nelle loro scelte di vita, e pertanto
bisognosi solamente di essere liberati da tutti gli ostacoli
che la società oppone al pieno appagamento dei loro desideri,
la dottrina economica prevalente non può che fondarsi
sulla certezza fideistica nel libero mercato e nelle
scelte razionali dei suoi attori. In politica, questa impostazione
si traduce inevitabilmente in una visione personalistica
e leaderistica, che fa breccia anche a sinistra. (…) il
partito viene considerato come una zavorra, se non addirittura
un motivo d’imbarazzo, per l’ascesa di leader caricati
di aspettative messianiche, ma sempre più isolati. (…)
La ragione sta proprio nel modo in cui il Partito democratico
è nato: senza una propria analisi del mutamento nel
rapporto tra politica ed economia, senza una propria idea
dell’Italia, né una propria lettura della sua storia recente.
(…) Si è preferito rimuovere il passato, cullandosi nella retorica
del partito “completamente nuovo”, figlio di niente
e di nessuno, contenitore post-identitario di tutto, supermercato
elettorale di unmolteplice nulla. (…) Di questo atteggiamento
il discorso del Lingotto è stato ilmomento culminante,
la summa teorica di un’eclettica visione dell’Italia,
mutuata da tutte le narrazioni dominanti nel ristretto
circuito delle nostre classi dirigenti».
Il documento, che si concludeva con un appello a «fermarsi;
non per “tornare indietro”,ma per cambiare strada»,
rimase clandestino. Bastarono le prime vibrate proteste dell’ala
sedicente liberal del partito perché il convegno di presentazione,
già convocato per il 25 settembre di quell’anno
adOrvieto, venisse annullato.Non se ne parlòmai più. E da
allora Orfini ed Orlando hanno fatto carriera…
Il Pd non si è fermato e non ha cambiato strada,ma al
contrario è rimasto su un piano inclinato che non poteva non
portare, presto o tardi, a Renzi. La prova del nove si è avuta
con il governo Monti, quando sotto la spinta delle logiche
emergenziali il partito ha sostenuto acriticamente scelte che
non erano affatto neutre, ma derivavano dalla piena assunzione
della narrazione dominante nel ristretto circuito delle classi
dirigenti italiane ed europee, secondo la quale non c’è mai
alternativa (lo slogan thatcheriano T.I.N.A.: there is no alternative).
Si è consumata allora non soltanto una rottura
con i gruppi sociali di riferimento della sinistra, ma anche
una devastante opera di pedagogia antipolitica: se la destra
e la sinistra governano insieme facendo proprio il dogma
T.I.N.A., diventando indistinguibili e fungibili, fanno saltare
l’identificazione dell’elettore sull’asse destra-sinistra e lasciano
campo libero a qualunque populismo.
Ma che non si trattasse solo di una parentesi legata
all’emergenza economica è risultato presto evidente. L’avvento
di Renzi (di un Renzi) è stato solo accelerato dallo
shock della sconfitta elettorale – assurdamente addebitata
alla goffaggine di Bersani anziché all’ostentata devozione
a Maria Antonietta del governo dei tecnici – ma era stato
preparato da una lunga mitridatizzazione. Basta farci caso
e ci si rende conto che anche nella dialettica politica con il
centro-destra si è prodotto negli anni uno slittamento quasi
subliminale: si è passati progressivamente dalla critica dei
programmi berlusconiani alla critica della loro mancata
realizzazione, e poi da questa alla piena assunzione del
compito di realizzarli (la facciamo noi la rivoluzione liberale
che lui vi aveva promesso!).
Ed altrettanto progressivamente si è alterato, fino a
spezzarsi, il rapporto con i gruppi sociali che dovrebbero
costituire il popolo della sinistra, e gli interessi dei quali
dovrebbero rappresentare la sua stella polare.Molto prima
che arrivasse il rottamatore fiorentino il Pd era andatomutuando
dal pensiero unico una costante delegittimazione
culturale della difesa degli interessi del poliedrico mondo
dei lavori, dipingendoli immancabilmente come corporativi,
egoistici, espressione di conservatorismo. Mai che le
stesse categorie vengano scomodate per i poteri forti del
mondo finanziario ed imprenditoriale, gli interessi dei
quali assurgono invece a parametri dellamodernità! Il conflitto
sociale sembra evaporato, anche qui è penetrata la rivoluzione
thatcheriana per cui la società non esiste, esistono
solo gli individui. Dunque il partito non deve farsi
carico degli interessi concreti di chi lavora e non deve relazionarsi
con i corpi intermedi che ne hanno la rappresentanza,
ma deve limitarsi a perseguire un mitologico interesse
generale (ilmercato, ilmerito, i consumatori).Afuria
di ripetere il mantra per cui le classi sociali sono cambiate
e non esiste più la fabbrica fordista, il Pd ha finito per ignorare
che la lotta di classe c’è ancora ed i super ricchi l’hanno
stravinta (Warren Buffett).
Con Renzi tutto questo non è cambiato nella sostanza,
è solo divenuto più ruvidamente esplicito nella
forma. Certo, che un capo di governo e leader delmaggiore
partito sedicente di centro-sinistra additi i sindacati dei lavoratori
come nemici del progresso e suoi principali avversari
fa un certo effetto. Che il Pd dialoghi con chiunque,
compresi pregiudicati, corruttori, speculatori, sfruttatori…
ma abbia eretto un muro di incomunicabilità con i sindacati,
costituisce un’anomalia. Che si sbavi per farsi un selfie
conMarchionne,mentre si tiene fuori dai cancelli la Cgil
è impressionante. Però è del tutto conseguente.
Il punto è che l’insostenibile leggerezza ideologica ed
identitaria con la quale (in virtù della quale) il Pd è nato
produce necessariamente una strutturale subalternità rispetto
al luogocomunismo imposto dai mass media, ergo
dai loro padroni. E fa del partito solo in apparenza il contenitore
post-ideologico di tutto ed il supermercato elettorale di un
molteplice nulla, ma nella realtà finisce per ridurlo al ruolo
di diligente esecutore delle ricette dei gruppi dominanti
che vengono spacciate come le uniche realisticamente desiderabili
e praticabili. Perciò Matteo Renzi, nonostante
l’esibizione di determinazione ducesca e l’apparente egemonismomuscolare,
non è altro che l’ultimo stadio e la sublimazione
di questa strutturale subalternità.
È importante che tutti coloro che si accingono a costruire
un nuovo soggetto della sinistra, e soprattutto quelli
che finalmente dal Pd iniziano ad emanciparsi, ne abbiano
2 ESTATE 2015
piena coscienza: non si tratta solo di cambiare questa o
quella scelta politica, ma preliminarmente occorre ricostruire
quella sostanza ideologica – iniziando col riabilitare
la parola stessa “ideologia” – senza la quale non soltanto
non riavremo una sinistra decente in questo Paese, ma non
recupereremo neppure, più in generale, quel grado minimo
di autonomia della politica che deve esserci per dare senso
alla stessa partecipazione democratica.
ESTATE 2015 3
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