Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
giovedì 29 dicembre 2011
Nerio Nesi - Roberto Romano: La fase due
La fase due: crescita e sviluppo.
Nerio Nesi, Roberto Romano
La crisi economica internazionale non si ferma. Tutte le previsioni di crescita dell’area euro per il 2012 hanno il segno meno, mentre per l’Italia, tecnicamente già in recessione, le proiezioni di crescita del pil per il 2012 variano tra un meno 1,5% e un meno 2,5%. Lo spettro di un’ulteriore caduta del pil (double dip) non è più un caso di scuola. Sembra di rivivere il dibattito degli anni ’30. Riprendendo Minsky: “Nel tormentato periodo che va dal 1929 al 1936 gli economisti accademici …. non avevano saputo offrire pressoché nessun suggerimento politicamente accettabile circa un piano d’azione governativo, in quanto essi erano fermamente convinti della capacità d’autoregolamentazione del meccanismo di mercato ….. l’economia prima o poi si sarebbe ripresa da sola, a patto che la situazione non venisse aggravata ulteriormente dall’adozione di un’errata politica economica, inclusa la manovra fiscale”.
Inoltre, la politica economica europea finalizzata alla stabilizzazione dei conti pubblici non aiuta a sostenere la domanda. Per molti versi aggrava la malattia, come se l’esperienza degli anni trenta sia ormai un lontano ricordo di cui è meglio cancellare ogni traccia. Ma l’aspetto più grave è l’assenza di un dibattito pubblico e politico europeo adeguato alla più grave crisi economica del sistema capitalistico in tempo di pace.
Se il quadro internazionale ed europeo condiziona le politiche pubbliche italiane, occorre puntualizzare la peculiarità del sistema economico italiano e, per questa via, individuare le misure più efficaci per la cosiddetta fase due del governo Monti. Infatti, le misure d’adottare dovrebbero ri-strutturare (Riccardo Lombardi) il sistema produttivo e dei servizi, almeno per agganciare il target medio europeo.
L’Italia, più di altri paesi europei, ha un problema di crescita. Tra il 1996 e il 2010 ha maturato un gap di minore crescita di quasi 11 punti di pil rispetto la media europea, mettendo in crisi la sostenibilità del debito pubblico. Infatti, se diminuisce il denominatore è difficile contenere il rapporto debito-pil, ormai prossimo al 120%. Ma pochi si sono occupati delle ragioni tecniche che hanno impedito la crescita economica. Indiscutibilmente la distribuzione del reddito italiana, ormai pari a quella dei paesi anglosassoni, condiziona i consumi delle famiglie, ma sono gli investimenti e la spesa in ricerca e sviluppo a determinare la minore crescita del paese. Rispetto alla spesa in ricerca e sviluppo è nota la minore spesa complessiva dell’Italia rispetto alla media europea. Da troppi anni è ferma all’1,3% del pil, contro una media europea vicina al 2%. Ma è la sua composizione che dovrebbe interrogarci. Perché a livello europeo la spesa in ricerca e sviluppo è per lo più privata (60% del totale), mentre in Italia è pari al 40%? Forse uno dei nodi di struttura da affrontare nella fase due del governo Monti è proprio la necessità di far crescere la spesa privata in ricerca e sviluppo almeno a livello europeo. Ma gli stimoli fiscali servono a poco. Infatti, la spesa in ricerca e sviluppo è direttamente proporzionale alla specializzazione produttiva, e ben poco possono fare gli incentivi fiscali. Si pensi agli incentivi fiscali per l’installazione dei pannelli solari: su cento pannelli installati, 98 sono importati, 1 è prodotto da una impresa estera sul territorio nazionale, 1 è fatto da una impresa italiana. Sostanzialmente gli incentivi per la green economy nazionali stimolano il lavoro di altri paesi europei, persino cinesi. L’atro nodo-vincolo del paese è legato agli investimenti. Non perché sono pochi, ma perché hanno un moltiplicatore pari alla metà di quello medio europeo. Infatti, gli investimenti delle imprese private nazionali non sono inferiori a quelli delle imprese tedesche, francesi o danesi, ma la produttività degli stessi investimenti è pari alla metà di questi paesi. L’esito non è strano, piuttosto il frutto della specializzazione produttiva, che poco attiene alle liberalizzazioni. Infatti, mentre in tutti paesi europei di riferimento la produzione industriale e dei servizi si è rafforzata nei beni strumentali ad alto valore di conoscenza, l’Italia ha consolidato la produzione dei beni di consumo, che necessitano di un “sapere” più contenuto. Non a caso il valore aggiunto di questi beni è significativamente più basso dei beni strumentali, con il difetto che incorporano la tecnologia prodotta in altri paesi. Indiscutibilmente il made in Italy è conosciuto in tutto il mondo, ma il valore aggiunto del made in Italy non è paragonabile a quello dei beni ad alto valore di conoscenza.
A questo vincolo di struttura, si affianca un altro vincolo tutto italiano. Indiscutibilmente i distretti industriali italiani sono stati un modello di organizzazione del lavoro. Questo modello ha retto la competizione internazionale fin tanto chè il contenuto di alta tecnologia del commercio internazionale era non superiore al 15% dell’insieme dello stesso. Il saper fare italiano era ineguagliabile, ma oggi è del tutto inadeguato per affrontare la sfida della conoscenza e delle economie di scala adeguate per misurarsi a livello internazionale.
La fase due del governo Monti dovrebbe almeno delineare i percorsi di ri-specializzazione del tessuto produttivo nazionale. Diversamente, le politiche di liberalizzazione o farmacie, persino delle public utility, serviranno a ben poco perché consolideranno gli stessi vizi della produzione italiana.
Si potrebbe fare come in Germania che utilizza la propria Cassa Depositi e Prestiti per rafforzare il proprio sistema produttivo. In questo caso si potrebbe immaginare l’industrializzazione della ricerca pubblica italiana, che al momento rimane l’unica ricerca di peso e di livello europeo.
La fase due non è una occasione da perdere. Facciamo in modo tale che non si ripetano gli errori del passato.
Nerio Nesi, Roberto Romano
La crisi economica internazionale non si ferma. Tutte le previsioni di crescita dell’area euro per il 2012 hanno il segno meno, mentre per l’Italia, tecnicamente già in recessione, le proiezioni di crescita del pil per il 2012 variano tra un meno 1,5% e un meno 2,5%. Lo spettro di un’ulteriore caduta del pil (double dip) non è più un caso di scuola. Sembra di rivivere il dibattito degli anni ’30. Riprendendo Minsky: “Nel tormentato periodo che va dal 1929 al 1936 gli economisti accademici …. non avevano saputo offrire pressoché nessun suggerimento politicamente accettabile circa un piano d’azione governativo, in quanto essi erano fermamente convinti della capacità d’autoregolamentazione del meccanismo di mercato ….. l’economia prima o poi si sarebbe ripresa da sola, a patto che la situazione non venisse aggravata ulteriormente dall’adozione di un’errata politica economica, inclusa la manovra fiscale”.
Inoltre, la politica economica europea finalizzata alla stabilizzazione dei conti pubblici non aiuta a sostenere la domanda. Per molti versi aggrava la malattia, come se l’esperienza degli anni trenta sia ormai un lontano ricordo di cui è meglio cancellare ogni traccia. Ma l’aspetto più grave è l’assenza di un dibattito pubblico e politico europeo adeguato alla più grave crisi economica del sistema capitalistico in tempo di pace.
Se il quadro internazionale ed europeo condiziona le politiche pubbliche italiane, occorre puntualizzare la peculiarità del sistema economico italiano e, per questa via, individuare le misure più efficaci per la cosiddetta fase due del governo Monti. Infatti, le misure d’adottare dovrebbero ri-strutturare (Riccardo Lombardi) il sistema produttivo e dei servizi, almeno per agganciare il target medio europeo.
L’Italia, più di altri paesi europei, ha un problema di crescita. Tra il 1996 e il 2010 ha maturato un gap di minore crescita di quasi 11 punti di pil rispetto la media europea, mettendo in crisi la sostenibilità del debito pubblico. Infatti, se diminuisce il denominatore è difficile contenere il rapporto debito-pil, ormai prossimo al 120%. Ma pochi si sono occupati delle ragioni tecniche che hanno impedito la crescita economica. Indiscutibilmente la distribuzione del reddito italiana, ormai pari a quella dei paesi anglosassoni, condiziona i consumi delle famiglie, ma sono gli investimenti e la spesa in ricerca e sviluppo a determinare la minore crescita del paese. Rispetto alla spesa in ricerca e sviluppo è nota la minore spesa complessiva dell’Italia rispetto alla media europea. Da troppi anni è ferma all’1,3% del pil, contro una media europea vicina al 2%. Ma è la sua composizione che dovrebbe interrogarci. Perché a livello europeo la spesa in ricerca e sviluppo è per lo più privata (60% del totale), mentre in Italia è pari al 40%? Forse uno dei nodi di struttura da affrontare nella fase due del governo Monti è proprio la necessità di far crescere la spesa privata in ricerca e sviluppo almeno a livello europeo. Ma gli stimoli fiscali servono a poco. Infatti, la spesa in ricerca e sviluppo è direttamente proporzionale alla specializzazione produttiva, e ben poco possono fare gli incentivi fiscali. Si pensi agli incentivi fiscali per l’installazione dei pannelli solari: su cento pannelli installati, 98 sono importati, 1 è prodotto da una impresa estera sul territorio nazionale, 1 è fatto da una impresa italiana. Sostanzialmente gli incentivi per la green economy nazionali stimolano il lavoro di altri paesi europei, persino cinesi. L’atro nodo-vincolo del paese è legato agli investimenti. Non perché sono pochi, ma perché hanno un moltiplicatore pari alla metà di quello medio europeo. Infatti, gli investimenti delle imprese private nazionali non sono inferiori a quelli delle imprese tedesche, francesi o danesi, ma la produttività degli stessi investimenti è pari alla metà di questi paesi. L’esito non è strano, piuttosto il frutto della specializzazione produttiva, che poco attiene alle liberalizzazioni. Infatti, mentre in tutti paesi europei di riferimento la produzione industriale e dei servizi si è rafforzata nei beni strumentali ad alto valore di conoscenza, l’Italia ha consolidato la produzione dei beni di consumo, che necessitano di un “sapere” più contenuto. Non a caso il valore aggiunto di questi beni è significativamente più basso dei beni strumentali, con il difetto che incorporano la tecnologia prodotta in altri paesi. Indiscutibilmente il made in Italy è conosciuto in tutto il mondo, ma il valore aggiunto del made in Italy non è paragonabile a quello dei beni ad alto valore di conoscenza.
A questo vincolo di struttura, si affianca un altro vincolo tutto italiano. Indiscutibilmente i distretti industriali italiani sono stati un modello di organizzazione del lavoro. Questo modello ha retto la competizione internazionale fin tanto chè il contenuto di alta tecnologia del commercio internazionale era non superiore al 15% dell’insieme dello stesso. Il saper fare italiano era ineguagliabile, ma oggi è del tutto inadeguato per affrontare la sfida della conoscenza e delle economie di scala adeguate per misurarsi a livello internazionale.
La fase due del governo Monti dovrebbe almeno delineare i percorsi di ri-specializzazione del tessuto produttivo nazionale. Diversamente, le politiche di liberalizzazione o farmacie, persino delle public utility, serviranno a ben poco perché consolideranno gli stessi vizi della produzione italiana.
Si potrebbe fare come in Germania che utilizza la propria Cassa Depositi e Prestiti per rafforzare il proprio sistema produttivo. In questo caso si potrebbe immaginare l’industrializzazione della ricerca pubblica italiana, che al momento rimane l’unica ricerca di peso e di livello europeo.
La fase due non è una occasione da perdere. Facciamo in modo tale che non si ripetano gli errori del passato.
Angelo Giubileo: E ora? Non resta che il PD
E ora? Non resta che il PD
L’Italia si trova ad uno snodo cruciale della storia di quella che viene definita la “seconda Repubblica”. Il destino nostro peraltro incrocia il destino dell’Europa, meglio sarebbe dire dell’attuale UME, che si trova anch’essa ad affrontare un nodo ancora più cruciale in quanto si rischia di mancare l’obiettivo dell’unione politica, e non solo monetaria, fondamento dell’idea di costruzione elaborata dai padri costituenti in principio della seconda metà del secolo scorso. E forse non è per uno strano caso che i destini delle due comunità s’intrecciano, considerato che l’Italia rappresenta ancora oggi il settimo paese più industrializzato al mondo.
In Italia e in particolare negli ultimi dieci anni, a mio modo di vedere, la politica ha accusato notevoli ritardi rispetto ai cambiamenti richiesti e avanzati dalla società, ispirati da esigenze e istanze di maggiore libertà in materia di diritti civili e politici. Queste istanze sono state in qualche modo canalizzate nell’alveo degli schieramenti di centrodestra, falsamente rappresentate dal Pdl, e questo travisamento operato nel centrodestra è causa soprattutto della crisi odierna vissuta sul piano istituzionale. Che è cosa diversa dalla crisi economico-finanziaria, che origina sul piano internazionale, ma trova nell’economia italiana facile terreno di coltura. Nella situazione in cui ci troviamo, credo innanzitutto che andrebbero mantenuti fermi alcuni punti:
1. Il consolidamento della struttura politico-istituzionale in chiave moderna e quindi attraverso strutture di potere organizzate su fronti contrapposti. Il bipolarismo va salvaguardato, in una versione chiaramente che non sia quella becera messa in scena sul piano formale dell’immaginario collettivo. Occorre stabilire un’“etica del conflitto” che ci consenta di affrontare seriamente i problemi e laddove necessario risolverli con ricette anche condivisibili dagli opposti schieramenti. In tal senso, il governo Monti potrebbe rappresentare un pericolo, ma diversamente anche un’opportunità. La futura scomposizione e ricomposizione dei partiti politici potrebbe condurre ad un sistema organizzato intorno a due grossi schieramenti contrapposti di centrodestra e centrosinistra. In quest’ambito, il Pd è e sarà investito della funzione di catalizzatore e ha fatto bene Bersani ad evidenziarne ruolo e prospettiva allorchè durante l’esito della caduta del governo Berlusconi e la formazione del governo Monti ha ribadito e meglio precisato che il Pd “o è un partito riformista o non è”. In proposito, mi piace ricordare una definizione di Croce: “il riformismo è la versione liberale del socialismo”.
2. È giunto il tempo, ormai non più procrastinabile, in cui in Italia si avvii un processo di riforme, che veda il centrosinistra naturalmente protagonista. La crisi economico-finanziaria di cui si diceva prima ha attecchito anche in Italia, come del resto negli altri paesi europei ad eccezione ancora della Germania, a motivo si dice del debito pubblico elevato, che è ritornato, non a caso però, ai livelli del 1992. Tra i problemi, oltre l’alto tasso di evasione che l’ultimo governo Prodi aveva iniziato seriamente a fronteggiare, credo vi sia anche quello della (cattiva) spesa pubblica. Già nel 2007, Padoa Schioppa pubblicò con un pool di esperti un Libro verde con l’obiettivo della revisione della spesa ed è su questo punto che bisogna insistere a partire dai costi della politica cifrati in ordine al 15-20% della spesa pubblica attuale.
3. Il rinnovamento della classe dirigente è altro punto fondamentale. Il mondo è cambiato e gli attori protagonisti sulla scena non possono essere sempre gli stessi. Non è questione di “vecchi” e “giovani”, è questione di rinnovamento “culturale”, laddove con il termine deve intendersi il complesso dell’apparato che i vecchi filosofi del partito comunista chiamavano “sovrastruttura”. Oggi quella sovrastruttura è parte del sistema ed inter-agisce in termini “strutturali”; in proposito si guardi all’analisi ontologica che fu già di Heidegger e per quanto riguarda l’Italia, nel corso dell’ultimo trentennio, di Emanuele Severino.
23.11.2011
Angelo Giubileo
L’Italia si trova ad uno snodo cruciale della storia di quella che viene definita la “seconda Repubblica”. Il destino nostro peraltro incrocia il destino dell’Europa, meglio sarebbe dire dell’attuale UME, che si trova anch’essa ad affrontare un nodo ancora più cruciale in quanto si rischia di mancare l’obiettivo dell’unione politica, e non solo monetaria, fondamento dell’idea di costruzione elaborata dai padri costituenti in principio della seconda metà del secolo scorso. E forse non è per uno strano caso che i destini delle due comunità s’intrecciano, considerato che l’Italia rappresenta ancora oggi il settimo paese più industrializzato al mondo.
In Italia e in particolare negli ultimi dieci anni, a mio modo di vedere, la politica ha accusato notevoli ritardi rispetto ai cambiamenti richiesti e avanzati dalla società, ispirati da esigenze e istanze di maggiore libertà in materia di diritti civili e politici. Queste istanze sono state in qualche modo canalizzate nell’alveo degli schieramenti di centrodestra, falsamente rappresentate dal Pdl, e questo travisamento operato nel centrodestra è causa soprattutto della crisi odierna vissuta sul piano istituzionale. Che è cosa diversa dalla crisi economico-finanziaria, che origina sul piano internazionale, ma trova nell’economia italiana facile terreno di coltura. Nella situazione in cui ci troviamo, credo innanzitutto che andrebbero mantenuti fermi alcuni punti:
1. Il consolidamento della struttura politico-istituzionale in chiave moderna e quindi attraverso strutture di potere organizzate su fronti contrapposti. Il bipolarismo va salvaguardato, in una versione chiaramente che non sia quella becera messa in scena sul piano formale dell’immaginario collettivo. Occorre stabilire un’“etica del conflitto” che ci consenta di affrontare seriamente i problemi e laddove necessario risolverli con ricette anche condivisibili dagli opposti schieramenti. In tal senso, il governo Monti potrebbe rappresentare un pericolo, ma diversamente anche un’opportunità. La futura scomposizione e ricomposizione dei partiti politici potrebbe condurre ad un sistema organizzato intorno a due grossi schieramenti contrapposti di centrodestra e centrosinistra. In quest’ambito, il Pd è e sarà investito della funzione di catalizzatore e ha fatto bene Bersani ad evidenziarne ruolo e prospettiva allorchè durante l’esito della caduta del governo Berlusconi e la formazione del governo Monti ha ribadito e meglio precisato che il Pd “o è un partito riformista o non è”. In proposito, mi piace ricordare una definizione di Croce: “il riformismo è la versione liberale del socialismo”.
2. È giunto il tempo, ormai non più procrastinabile, in cui in Italia si avvii un processo di riforme, che veda il centrosinistra naturalmente protagonista. La crisi economico-finanziaria di cui si diceva prima ha attecchito anche in Italia, come del resto negli altri paesi europei ad eccezione ancora della Germania, a motivo si dice del debito pubblico elevato, che è ritornato, non a caso però, ai livelli del 1992. Tra i problemi, oltre l’alto tasso di evasione che l’ultimo governo Prodi aveva iniziato seriamente a fronteggiare, credo vi sia anche quello della (cattiva) spesa pubblica. Già nel 2007, Padoa Schioppa pubblicò con un pool di esperti un Libro verde con l’obiettivo della revisione della spesa ed è su questo punto che bisogna insistere a partire dai costi della politica cifrati in ordine al 15-20% della spesa pubblica attuale.
3. Il rinnovamento della classe dirigente è altro punto fondamentale. Il mondo è cambiato e gli attori protagonisti sulla scena non possono essere sempre gli stessi. Non è questione di “vecchi” e “giovani”, è questione di rinnovamento “culturale”, laddove con il termine deve intendersi il complesso dell’apparato che i vecchi filosofi del partito comunista chiamavano “sovrastruttura”. Oggi quella sovrastruttura è parte del sistema ed inter-agisce in termini “strutturali”; in proposito si guardi all’analisi ontologica che fu già di Heidegger e per quanto riguarda l’Italia, nel corso dell’ultimo trentennio, di Emanuele Severino.
23.11.2011
Angelo Giubileo
mercoledì 28 dicembre 2011
Franco Astengo: Fuori dal PD, oltre il PD
FUORI DAL PARTITO DEMOCRATICO, OLTRE IL PARTITO DEMOCRATICO
La formazione del Governo Monti ha rappresentato un indubbio elemento di novità all’interno del sistema politico italiano, al di là del suo pervicace procedere su di una linea liberista nell’affrontare la crisi il cui prezzo sarà pagato interamente da masse popolari ulteriormente impoverite e al riguardo delle quali si pone ineludibile la necessità di affrontare la lotta politica recuperando per intero i termini, considerati ormai desueti invece sempre attuali, dell’antica “lotta di classe”.
In quest’occasione, però, ci limiteremo ad analizzare alcuni elementi riguardanti la dinamica del sistema politico, con particolare riguardo al Partito Democratico.
Partiamo da un assunto: il Partito Democratico non potrà rappresentare il soggetto di riferimento per un’alternativa che, invece, in collegamento con il quadro europeo, è necessaria e urgente per il Paese.
Andando per ordine è necessario valutare con attenzione un dato: il governo Monti rappresenta un dato di novità vera sotto due aspetti.
Il primo riguarda la sua natura “presidenziale”, di vera e propria ratifica dell’affermazione della Costituzione materiale sulla Costituzione formale: si è aperto, in questo modo, un interrogativo di fondo per le forze politiche. Andare avanti su questa strada e quindi affrontare il tratto che separa la Repubblica parlamentare da una Repubblica presidenziale? Oppure tornare immediatamente all’indietro e ripristinare sul serio i meccanismi istituzionali della Repubblica Parlamentare?
Il secondo elemento riguarda il futuro: quale segno politico questo Governo vorrà lasciare a livello di sistema? E’ indubbio che, al di là delle candidature dei singoli, in questo senso qualcosa andrà muovendosi, indipendentemente se le elezioni saranno anticipate al 2012 (in questo caso, a maggior ragione, essendo- nell’eventualità di questo scenario – il governo caduto “da destra”, si renderà necessario reperire una forma di presentazione elettorale del dicastero) oppure se si arriverà al 2013 (in questo caso, al di là della qualità della “missione compiuta” appare difficile reperire in giro il Cincinnato di turno).
Allora appare evidente che la formazione del Governo Monti e l’esito della prima fase della sua attività chiama i partiti a un rapido riallineamento sistemico: di questo fatto si sono già accorti tempestivamente Lega e IdV, collocandosi immediatamente all’opposizione e candidandosi alla rendita che fisiologicamente questo tipo di posizione assegna a chi la occupa e il “Terzo Polo” che, al contrario si candida, a essere il soggetto politico costitutivo del “farsi carico” dello imprinting espresso dal Governo Monti ai fini di una trasformazione in fattore elettorale.
In questo quadro il PDL appare prigioniero della sorta di “ridotta della Valtellina” in cui il suo leader tende a trasformare il Partito (non a caso abbiamo parlato di “caduta da destra” possibile per il nuovo Governo), ma sono molti i topastri pronti ad abbandonare la nave prima del naufragio.
In netto ritardo il PD, appunto, mentre a sinistra pare non si voglia prendere atto della difficoltà evidente che incontra la linea politica elaborata da SeL, sia rispetto alle primarie, sia rispetto al rinnovo di un’alleanza di centrosinistra nei termini di “Nuovo Ulivo” e appare molto complessa la ricerca di una modalità utile per il necessario rientro in Parlamento di una componente che faccia riferimento all’eredità della “sinistra storica” rivolgendosi nello stesso tempo, con una qualche efficacia ai nuovi movimenti sociali, sia di tipo politico (pensiamo alla spinta dal basso che si è verificata in occasione delle elezioni amministrative, in particolare a Napoli e Milano), sia al riguardo del tema dei “beni comuni”, sia della richiesta di mobilitazione dal basso e di nuova partecipazione democratica (popolo “viola”, movimento 5 stelle).
Proprio il PD è chiamato, però, per le sue dimensioni e le ambizioni dei suoi dirigenti, ad aprire la riflessione più accurata.
Molto modestamente, in quest’occasione, proponiamo sei punti di dibattito:
1) Al di là del tema della “fusione fredda” (o della d’alemiana “amalgama non riuscita”), nel PD si nota l’assenza completa di una proiezione di tipo internazionale (la perlomeno ambigua collocazione al Parlamento Europeo appare fortemente indicativa, sotto quest’aspetto).I DS avevano comunque tentato se si pensa all’“Ulivo Mondiale” (formula un po’ pretenziosa per la verità). Adesso si nota un respiro appena provinciale, una sostanziale incapacità di muoversi su di un terreno più ampio. La gestione della crisi è stata portata avanti, sempre per esempio, senza che si sia notato un passo perlomeno significativo a livello europeo. Perché quando Merkel e Sarkozy hanno preso in mano la gestione europea in forma dualistica, non si è proposto un passo comune, ad esempio a SPD e PSF.?Questo per limitarci all’Europa. Quali rapporti, tanto per andare avanti ad esempi, ha il PD con le forze democratiche del BRIC e quale politica di vicinato propone all’Europa nell’area mediterranea?
2) Il secondo limite sul quale il PD dovrebbe interrogarsi a fondo risiede nell’essere nato, sul piano della “mission” esclusivamente sul terreno della “governabilità” a pieno scapito del concetto di rappresentanza esordendo , alle elezioni del 2008, con un tentativo di bipartitizzazione del sistema, forzando lo schema bipolare per coalizione al quale gli elettori si erano abituati votando con il sistema misto del 2003 (ricordate “bipolarismo per caso”, ecc., ecc.). L’idea della “vocazione maggioritaria” si è rivelata a questo modo assolutamente sciagurata e la sconfitta del 2008 di proporzioni esiziali, quasi delle dimensioni di quella subita dal Fronte Popolare nel 1948. Nella sostanza con la “vocazione maggioritaria” si è favorito l’avversario, non vedendo l’articolazione esistente nel rapporto tra il sistema politico e la società. Un errore grave, non rimediabile a tavolino con la continuità sostanziale del gruppo dirigente, al vertice come in periferia;
3) L’idea della governabilità quale unico riferimento per la vita del Partito, oltre a dar vita a fenomeni personalistici sinceramente imbarazzanti (ad esempio quello riguardante il sindaco di Firenze, Renzi) ha impedito al PD, oltre alla già citata verifica della mutazione delle fratture sociali, anche la possibilità di afflusso nel Partito di nuovi soggetti non interessati a collocazioni istituzionali e di governo, ma interessati a far valere collettivamente le ragioni di determinate istanze sociali;
4) In collegamento al punto tre va chiarito come il rapporto tra concetto di governabilità e realtà della base sociale, abbia fatto intendere il PD quasi come una sorta di soggetto formatore delle “liste d’attesa” per ruoli istituzionali e di sottogoverno, in particolare e in una dimensione molto forte, alla periferia, anziché come luogo di militanza politica. Un fattore questo sulla base del quale si sono originati anche episodi legati all’intreccio tra questione politica e questione morale, non ancora risolti, dal caso “Sesto San Giovanni” a quello della giunta pugliese;
5) Il PD non è riuscito a realizzare un’ipotesi di “partito nazionale” (nella concezione che molto opportunamente porta avanti Ilvo Diamanti). Esiste , infatti, una discrasia molto forte fra la composizione, indubbiamente interclassista, del partito e la base elettorale ancora concentrata prevalentemente nelle antiche roccaforti “rosse” del Centro Italia e di alcune città ex-industriali come Genova. Come può un Partito che pretende di essere “a vocazione maggioritaria” ottenere all’incirca il 10% dei voti in zone nevralgiche del Paese, in particolare al Sud?
6) Infine: la riflessione che c’è capitata di proporre in quest’occasione appare urgente e indispensabile alla vigilia di un probabile riallineamento del sistema. In questo senso come sta la discussione collettiva nel PD? Come funzionano i suoi organismi dirigenti, al di là delle dichiarazioni e delle interviste di questo/a o di quello/a, considerato che nel corso di questi ultimi mesi abbiamo annotato pochissime o quasi nessuna presa di posizione degli stessi organismi dirigenti? Come sono valutate le primarie che, nel caso genovese, appaiono davvero lo sfogatoio per improbabili ambizioni personali e faide di corrente?
Savona, li 27 dicembre 2011 Franco Astengo
La formazione del Governo Monti ha rappresentato un indubbio elemento di novità all’interno del sistema politico italiano, al di là del suo pervicace procedere su di una linea liberista nell’affrontare la crisi il cui prezzo sarà pagato interamente da masse popolari ulteriormente impoverite e al riguardo delle quali si pone ineludibile la necessità di affrontare la lotta politica recuperando per intero i termini, considerati ormai desueti invece sempre attuali, dell’antica “lotta di classe”.
In quest’occasione, però, ci limiteremo ad analizzare alcuni elementi riguardanti la dinamica del sistema politico, con particolare riguardo al Partito Democratico.
Partiamo da un assunto: il Partito Democratico non potrà rappresentare il soggetto di riferimento per un’alternativa che, invece, in collegamento con il quadro europeo, è necessaria e urgente per il Paese.
Andando per ordine è necessario valutare con attenzione un dato: il governo Monti rappresenta un dato di novità vera sotto due aspetti.
Il primo riguarda la sua natura “presidenziale”, di vera e propria ratifica dell’affermazione della Costituzione materiale sulla Costituzione formale: si è aperto, in questo modo, un interrogativo di fondo per le forze politiche. Andare avanti su questa strada e quindi affrontare il tratto che separa la Repubblica parlamentare da una Repubblica presidenziale? Oppure tornare immediatamente all’indietro e ripristinare sul serio i meccanismi istituzionali della Repubblica Parlamentare?
Il secondo elemento riguarda il futuro: quale segno politico questo Governo vorrà lasciare a livello di sistema? E’ indubbio che, al di là delle candidature dei singoli, in questo senso qualcosa andrà muovendosi, indipendentemente se le elezioni saranno anticipate al 2012 (in questo caso, a maggior ragione, essendo- nell’eventualità di questo scenario – il governo caduto “da destra”, si renderà necessario reperire una forma di presentazione elettorale del dicastero) oppure se si arriverà al 2013 (in questo caso, al di là della qualità della “missione compiuta” appare difficile reperire in giro il Cincinnato di turno).
Allora appare evidente che la formazione del Governo Monti e l’esito della prima fase della sua attività chiama i partiti a un rapido riallineamento sistemico: di questo fatto si sono già accorti tempestivamente Lega e IdV, collocandosi immediatamente all’opposizione e candidandosi alla rendita che fisiologicamente questo tipo di posizione assegna a chi la occupa e il “Terzo Polo” che, al contrario si candida, a essere il soggetto politico costitutivo del “farsi carico” dello imprinting espresso dal Governo Monti ai fini di una trasformazione in fattore elettorale.
In questo quadro il PDL appare prigioniero della sorta di “ridotta della Valtellina” in cui il suo leader tende a trasformare il Partito (non a caso abbiamo parlato di “caduta da destra” possibile per il nuovo Governo), ma sono molti i topastri pronti ad abbandonare la nave prima del naufragio.
In netto ritardo il PD, appunto, mentre a sinistra pare non si voglia prendere atto della difficoltà evidente che incontra la linea politica elaborata da SeL, sia rispetto alle primarie, sia rispetto al rinnovo di un’alleanza di centrosinistra nei termini di “Nuovo Ulivo” e appare molto complessa la ricerca di una modalità utile per il necessario rientro in Parlamento di una componente che faccia riferimento all’eredità della “sinistra storica” rivolgendosi nello stesso tempo, con una qualche efficacia ai nuovi movimenti sociali, sia di tipo politico (pensiamo alla spinta dal basso che si è verificata in occasione delle elezioni amministrative, in particolare a Napoli e Milano), sia al riguardo del tema dei “beni comuni”, sia della richiesta di mobilitazione dal basso e di nuova partecipazione democratica (popolo “viola”, movimento 5 stelle).
Proprio il PD è chiamato, però, per le sue dimensioni e le ambizioni dei suoi dirigenti, ad aprire la riflessione più accurata.
Molto modestamente, in quest’occasione, proponiamo sei punti di dibattito:
1) Al di là del tema della “fusione fredda” (o della d’alemiana “amalgama non riuscita”), nel PD si nota l’assenza completa di una proiezione di tipo internazionale (la perlomeno ambigua collocazione al Parlamento Europeo appare fortemente indicativa, sotto quest’aspetto).I DS avevano comunque tentato se si pensa all’“Ulivo Mondiale” (formula un po’ pretenziosa per la verità). Adesso si nota un respiro appena provinciale, una sostanziale incapacità di muoversi su di un terreno più ampio. La gestione della crisi è stata portata avanti, sempre per esempio, senza che si sia notato un passo perlomeno significativo a livello europeo. Perché quando Merkel e Sarkozy hanno preso in mano la gestione europea in forma dualistica, non si è proposto un passo comune, ad esempio a SPD e PSF.?Questo per limitarci all’Europa. Quali rapporti, tanto per andare avanti ad esempi, ha il PD con le forze democratiche del BRIC e quale politica di vicinato propone all’Europa nell’area mediterranea?
2) Il secondo limite sul quale il PD dovrebbe interrogarsi a fondo risiede nell’essere nato, sul piano della “mission” esclusivamente sul terreno della “governabilità” a pieno scapito del concetto di rappresentanza esordendo , alle elezioni del 2008, con un tentativo di bipartitizzazione del sistema, forzando lo schema bipolare per coalizione al quale gli elettori si erano abituati votando con il sistema misto del 2003 (ricordate “bipolarismo per caso”, ecc., ecc.). L’idea della “vocazione maggioritaria” si è rivelata a questo modo assolutamente sciagurata e la sconfitta del 2008 di proporzioni esiziali, quasi delle dimensioni di quella subita dal Fronte Popolare nel 1948. Nella sostanza con la “vocazione maggioritaria” si è favorito l’avversario, non vedendo l’articolazione esistente nel rapporto tra il sistema politico e la società. Un errore grave, non rimediabile a tavolino con la continuità sostanziale del gruppo dirigente, al vertice come in periferia;
3) L’idea della governabilità quale unico riferimento per la vita del Partito, oltre a dar vita a fenomeni personalistici sinceramente imbarazzanti (ad esempio quello riguardante il sindaco di Firenze, Renzi) ha impedito al PD, oltre alla già citata verifica della mutazione delle fratture sociali, anche la possibilità di afflusso nel Partito di nuovi soggetti non interessati a collocazioni istituzionali e di governo, ma interessati a far valere collettivamente le ragioni di determinate istanze sociali;
4) In collegamento al punto tre va chiarito come il rapporto tra concetto di governabilità e realtà della base sociale, abbia fatto intendere il PD quasi come una sorta di soggetto formatore delle “liste d’attesa” per ruoli istituzionali e di sottogoverno, in particolare e in una dimensione molto forte, alla periferia, anziché come luogo di militanza politica. Un fattore questo sulla base del quale si sono originati anche episodi legati all’intreccio tra questione politica e questione morale, non ancora risolti, dal caso “Sesto San Giovanni” a quello della giunta pugliese;
5) Il PD non è riuscito a realizzare un’ipotesi di “partito nazionale” (nella concezione che molto opportunamente porta avanti Ilvo Diamanti). Esiste , infatti, una discrasia molto forte fra la composizione, indubbiamente interclassista, del partito e la base elettorale ancora concentrata prevalentemente nelle antiche roccaforti “rosse” del Centro Italia e di alcune città ex-industriali come Genova. Come può un Partito che pretende di essere “a vocazione maggioritaria” ottenere all’incirca il 10% dei voti in zone nevralgiche del Paese, in particolare al Sud?
6) Infine: la riflessione che c’è capitata di proporre in quest’occasione appare urgente e indispensabile alla vigilia di un probabile riallineamento del sistema. In questo senso come sta la discussione collettiva nel PD? Come funzionano i suoi organismi dirigenti, al di là delle dichiarazioni e delle interviste di questo/a o di quello/a, considerato che nel corso di questi ultimi mesi abbiamo annotato pochissime o quasi nessuna presa di posizione degli stessi organismi dirigenti? Come sono valutate le primarie che, nel caso genovese, appaiono davvero lo sfogatoio per improbabili ambizioni personali e faide di corrente?
Savona, li 27 dicembre 2011 Franco Astengo
martedì 27 dicembre 2011
lunedì 26 dicembre 2011
Antonio Caputo: In onore del compagno Giorgio Bocca
IN ONORE DEL COMPAGNO GIORGIO BOCCA
Caro compagno, mi mancherai, ci mancherai.
Ci manchera' la Tua penna asciutta e tagliente.
Ci manchera' la tua intransigenza
La tua chiarezza nel saper distinguere senza mai confondere.
Il tuo desiderio insoddisfatto di un'epurazione che avrebbe forse consentito all'Italia e agli italiani di non imputridire, di "non mollare".
Hai visto il declino di Berlusconi, ma non dell'eterno berlusconismo che invano hai cercato di respingere.
Hai sognato un'Italia libera di italiani civili.
L'Europa dei cittadini.
Unire l'Europa per unire il mondo, secondo il motto, il Tuo/nostro motto , il grido sempre piu' lontano proveniente da Ventotene.
Ora grido di dolore.
Partigiano delle montagne, hai sognato Giustizia e Liberta'.
Per noi il sogno continua nel ricordo della Tua persona.
Ti sia la terra lieve, come meritano i Giusti.
Antonio Caputo (Presidente del Movimento d'Azione Giustizia e Liberta')
Caro compagno, mi mancherai, ci mancherai.
Ci manchera' la Tua penna asciutta e tagliente.
Ci manchera' la tua intransigenza
La tua chiarezza nel saper distinguere senza mai confondere.
Il tuo desiderio insoddisfatto di un'epurazione che avrebbe forse consentito all'Italia e agli italiani di non imputridire, di "non mollare".
Hai visto il declino di Berlusconi, ma non dell'eterno berlusconismo che invano hai cercato di respingere.
Hai sognato un'Italia libera di italiani civili.
L'Europa dei cittadini.
Unire l'Europa per unire il mondo, secondo il motto, il Tuo/nostro motto , il grido sempre piu' lontano proveniente da Ventotene.
Ora grido di dolore.
Partigiano delle montagne, hai sognato Giustizia e Liberta'.
Per noi il sogno continua nel ricordo della Tua persona.
Ti sia la terra lieve, come meritano i Giusti.
Antonio Caputo (Presidente del Movimento d'Azione Giustizia e Liberta')
domenica 25 dicembre 2011
sabato 24 dicembre 2011
venerdì 23 dicembre 2011
Peppe Giudice: Un nucleo socialdemocratico per un polo progressista
Giuseppe Giudice
UN NUCLEO SOCIALDEMOCRATICO PER UN POLO PROGRESSISTA.
Nell'intervista che fa all'Unità Vendola sottolinea bene il dato che una parte del PD pensa di costruire intorno al governo Monti una nuova aggregazione moderata. La posizione di Letta, Veltroni ed altri (e credo dello stesso D'Alema) è questa ed è in linea con le ragioni fondative del PD come fuoriuscita a destra dalla socialdemocrazia. Ma Vebdola sottolinea che Bersani (e quelli che gli stanno vicini) persegue un'altra linea, Vendola stesso spinge Bersani a proseguire su queste posizioni che alla fine (questo lo dico io) porteranno ad una rottura irreparabile del PD. Lo stesso Vendola dice (e sottoscrivo in pieno) che l'alternativa alla destra (e non solo al berlusconismo, sottolineo io) non può essere una sommatoria di proteste, ma deve partire da un progetto organico di governo e di società. Benissimo! E' quello che noi socialisti per la sinistra diciamo da tempo. Ma aggiungo io che tale progetto organico si può costruire sulla base di una cultura politica e di visione strategica condivisa. Ed a mio avviso questa non può che essere rappresentata da un raccordo forte con il processo di riposizionamento a sinistra del socialismo europeo. Vendola stesso che ha partecipato a molti seminari del PSE ed in particolare della SPD e del PSF, ha detto che il dibattito sulla crisi all'interno de PSE è anni luce più avanzato di quello che c'è nel centro-sinistra italiano. ED è vero. Chi come noi ha seguito bene questo dibattito lo sa. FElice Besostri che è stato ai seminari del PSE a Bruxelles di fine Novembre ce lo ha confermato. E' quindi partendo da chi oggi si riconosce in questo nuovo percorso socialista (al di là anche delle adesioni formali) che può fondarsi un asse su cui costruire un nuovo polo progressista, al di dello stesso vecchio centrosinistra. Lo stesso rapporto con la FDS e con quella parte di elettorato dell'IDV che poco ha a che vedere con il populismo cialtrone e con il giustizialismo forcaiolo, può essere costruito validamente non se si inseguono acriticamente le loro posizioni, ma se si definisce con chiarezza un punto di vista socialdemocratico (magari liberandoci della usurata parola riformismo). E' in questo modo che si può costruire una egemonia nel senso più nobile del termine. DEvo dire che un pezzo della FDS guarda con interesse nuovo alla socialdemocrazia, ma è evidente che il grosso è stracolmo di pregiudizi. L'Idv è un coacervo. Sarebbe pura perdita di tempo avviare una interlocuzione con un partito personale. Come dicevo occorre recuperare con un progetto serio quella parte di elettorato che vi ha aderito in seguito alla grande confusione seguita al 2008. La storia degli ultimi anni ci dice che vi sono due derive negative da evitare: quella veltroniana e quella dell'Arcobaleno. Questo credo che Vendola lo ha ben chiaro in testa. Ma noi crediamo anche che per costruire un nucleo socialdemocratico non si può non togliere dal dimenticatoio il socialismo autonomista e riformatore di Lombardi, Giolitti, DE Martino e Santi, che è poi stata la cultura propulsiva della stagione riformatrice più importante dell'Italia republicana e che negli anni 60 e nei primi settanta ha inciso molto sulle più importanti riforme sociali fatte nel paese. In realtà senza lo stimolo dialettico della cultura socialista lo stesso postcomunismo è rimasto senza bussola. Il Prof Cesaratto mi ha fatto capire bene la differenza profonda tra socialdemocrazia e migliorismo. Fatto è che da D'Alema a Veltroni a Napolitano c'è stata un irrefenabile scivolamento al centro molto ma molto più a destra della socialdemocrazia.
Peppe
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Mario Liso http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-pd-e-l%e2%80%99asino-di-buridano/?com=21932#scrivicommenti
Il Pd e l’asino di Buridano
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di Paolo Flores d'Arcais, da Il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2011Riuscirà Corra...Visualizza altro..
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Giuseppe Giudice il guiao è che Flores è uno dei rappresentanti di quell'antipolitica da liquidare. Se quelle posizioni non si costruisce nulla. E poi che senso ha ancora contrapporre CGIL e FIOM : è da cretini. Ma saappiamo Flores su quale libro paga è. Da Craxi a Scalfari ha sempre lavorato per un padrone.
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Nell'intervista che fa all'Unità Vendola sottolinea bene il dato che una parte del PD pensa di costruire intorno al governo Monti una nuova aggregazione moderata. La posizione di Letta, Veltroni ed altri (e credo dello stesso D'Alema) è questa ed è in linea con le ragioni fondative del PD come fuoriuscita a destra dalla socialdemocrazia. Ma Vebdola sottolinea che Bersani (e quelli che gli stanno vicini) persegue un'altra linea, Vendola stesso spinge Bersani a proseguire su queste posizioni che alla fine (questo lo dico io) porteranno ad una rottura irreparabile del PD. Lo stesso Vendola dice (e sottoscrivo in pieno) che l'alternativa alla destra (e non solo al berlusconismo, sottolineo io) non può essere una sommatoria di proteste, ma deve partire da un progetto organico di governo e di società. Benissimo! E' quello che noi socialisti per la sinistra diciamo da tempo. Ma aggiungo io che tale progetto organico si può costruire sulla base di una cultura politica e di visione strategica condivisa. Ed a mio avviso questa non può che essere rappresentata da un raccordo forte con il processo di riposizionamento a sinistra del socialismo europeo. Vendola stesso che ha partecipato a molti seminari del PSE ed in particolare della SPD e del PSF, ha detto che il dibattito sulla crisi all'interno de PSE è anni luce più avanzato di quello che c'è nel centro-sinistra italiano. ED è vero. Chi come noi ha seguito bene questo dibattito lo sa. FElice Besostri che è stato ai seminari del PSE a Bruxelles di fine Novembre ce lo ha confermato. E' quindi partendo da chi oggi si riconosce in questo nuovo percorso socialista (al di là anche delle adesioni formali) che può fondarsi un asse su cui costruire un nuovo polo progressista, al di dello stesso vecchio centrosinistra. Lo stesso rapporto con la FDS e con quella parte di elettorato dell'IDV che poco ha a che vedere con il populismo cialtrone e con il giustizialismo forcaiolo, può essere costruito validamente non se si inseguono acriticamente le loro posizioni, ma se si definisce con chiarezza un punto di vista socialdemocratico (magari liberandoci della usurata parola riformismo). E' in questo modo che si può costruire una egemonia nel senso più nobile del termine. DEvo dire che un pezzo della FDS guarda con interesse nuovo alla socialdemocrazia, ma è evidente che il grosso è stracolmo di pregiudizi. L'Idv è un coacervo. Sarebbe pura perdita di tempo avviare una interlocuzione con un partito personale. Come dicevo occorre recuperare con un progetto serio quella parte di elettorato che vi ha aderito in seguito alla grande confusione seguita al 2008. La storia degli ultimi anni ci dice che vi sono due derive negative da evitare: quella veltroniana e quella dell'Arcobaleno. Questo credo che Vendola lo ha ben chiaro in testa. Ma noi crediamo anche che per costruire un nucleo socialdemocratico non si può non togliere dal dimenticatoio il socialismo autonomista e riformatore di Lombardi, Giolitti, DE Martino e Santi, che è poi stata la cultura propulsiva della stagione riformatrice più importante dell'Italia republicana e che negli anni 60 e nei primi settanta ha inciso molto sulle più importanti riforme sociali fatte nel paese. In realtà senza lo stimolo dialettico della cultura socialista lo stesso postcomunismo è rimasto senza bussola. Il Prof Cesaratto mi ha fatto capire bene la differenza profonda tra socialdemocrazia e migliorismo. Fatto è che da D'Alema a Veltroni a Napolitano c'è stata un irrefenabile scivolamento al centro molto ma molto più a destra della socialdemocrazia.
Peppe
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giovedì 22 dicembre 2011
mercoledì 21 dicembre 2011
martedì 20 dicembre 2011
lunedì 19 dicembre 2011
domenica 18 dicembre 2011
sabato 17 dicembre 2011
venerdì 16 dicembre 2011
Claudio Bellavita: Complicato è il mondo
questo titolo, mutuato dall'ultimo libro di Tony Judt, è un po' problematico, come è giusto che sia per chi riconosce che "sa di non sapere" ma si propone di cercare insieme a amici e compagni, senza voler produrre documentoni di verità categoriche.
Proviamo a elencare una prima serie di cose di cui parlare: ce ne sarebbe per anni.
1-In 100 anni, nonostante 2 guerre "mondiali" per la parte più ricca del mondo e non meno di 4 per la parte più povera, oltre a carestie e almeno una pestilenza, l'umanità è passata da 2 miliardi a 7. Sui 2 miliardi la parte più ricca e civile era intorno ai 400 milioni, sui 7, circa due miliardi. Ma l'informazione e la pubblicità sono alla portata di tutti e quindi anche gli altri 5 vogliono sedersi a tavola e vivere nello stesso modo.
I consumi totali quindi stanno aumentando geometricamente, ci stiamo divorando le risorse naturali e potrebbe arrivare il momento in cui non ci sarà più energia sufficiente.
Eppure , l'economia esige che i consumi continuino a aumentare (lo "sviluppo" sta nella crescita del PIL) e tutte le religioni considerano un peccato gravissimo il controllo delle nascite.
Ma forse la cosiddetta scienza economica è un'altra religione, per l'adorazione di un PIL che esige sacrifici umani, forse fino all'autoannientamento in una crisi epocale scappata di mano ai suoi sacerdoti...
Intanto non si arresta il flusso di chi vuole vivere meglio subito e preme verso le frontiere dei paesi che per ora stanno meglio. Certo, gli immigrati ci servono, anche perchè sono giovani e intraprendenti, migliorano la situazione demografica dell'occidente, e pure le qualità razziali, ma non possiamo spopolare il mondo povero e stra-affollare quello ricco. Non è solo un problema di risorse, è anche un problema di spazio e di cementificazione.
2-Conseguentemente, è diventato più importante lo sfruttamento del consumatore che quello del lavoratore, al punto che la finanza d'occidente non ha problemi nel licenziare lavoratori, anzi lo richiede come "misura di risanamento". Ma non può licenziare i consumatori, e allora moltiplica le forme di credito purchè continuino a comprare, salvo inventare prodotti finanziari per liberarsi di questi crediti praticamente inesigibili, cercano di guadagnare in poco tempo anche su questa transazione
.
3-la produzione dei beni si sta spostando dai paesi tradizionalmente industrializzati ai BRICS. Che stanno accumulando velocemente una quota crescente della ricchezza mondiale, ma sono privi di potere reale e militare (nessuno conosce, anche solo approssimativamente, qualità e quantità degli armamenti cinesi).
I popoli arabi stanno chiedendo di usare la ricchezza petrolifera per garantire il welfare delle popolazioni.
Per ora, non si ha notizia che stia accadendo qualcosa di simile nei BRICS. E fare un po' di propaganda al nostro welfare, oppure mettere dei dazi per punire le importazioni dai paesi dove non esistono pensioni e sanità pubblica?
4- ci troviamo in mezzo a una crisi finanziaria dove i governi hanno chiaramente perso la bussola delle priorità. La crisi non nasce da problemi produttivi o di mercato, ma da una serie di gigantesche truffe messe in piedi all'interno del sistema finanziario. Anzichè far fallire le banche e le assicurazioni incoscienti e truffaldine si preferisce far fallire gli stati, oppure imporre tagli inauditi al welfare. I poveri, gli anziani e i lavoratori devono pagare i debiti di gioco degli straricchi. La rivoluzione francese è cominciata così, è ora di girare la frittata e vedere cosa succede a far pagare i responsabili e non le vittime.
Per ora, siamo fermi all'applicazione della tassa sul macinato (ora è la benzina) che nell'ottocento faceva mantenere dai poveracci l'esercito e la corte.
E' incredibile che di fronte a un 'economia che non funziona più, perchè dominata da un settore finanziario che non serve a orientare la produzione e lo sviluppo, ma solo a creare bolle speculative e truffe, la sinistra europea e mondiale sia stata muta per così tanto tempo, forse travolta dal blairismo(e noi in Italia dalla sua approssimazione provinciale, il veltronismo).
Incredibile che nessuno a sinistra abbia alzato la voce per pretendere la messa sotto controllo degli strumenti truffaldini della finanza mondiale: swaps, CDS, derivati, futures e tutti i prodotti (basati su assicurazioni non solvibili ma non classificate dalle società di rating) che gli strapagati gnomi di New York e Londra si inventano per prendere i soldi e scappare, lasciando il conto da pagare agli stati, trattandoli anche da inguaribili spendaccioni.
C'è una bella differenza tra chi ruba e chi assume troppi dipendenti pubblici, ma nessuno la ha ancora rilevata, sembra di dire un'eresia. E noi diciamola! ...anzichè scambiare i truffatori e i loro complici per la "società civile" che ci deve salvare, e eleggerli alla nostra testa
5- i paesi europei continuano ad avere 27 eserciti che non si possono neanche scambiare le pallottole, 27 diplomazie con obiettivi diversi, hanno fatto ridere tutto il mondo perchè non erano in grado di bombardare per più di 3 settimane un paese straccione come la Libia.
I burocrati di Bruxelles, e di Francoforte, che continuano a essere nominati dai governi e non dal parlamento europeo che pure è eletto, si affannano a decretare quanti pasti devono saltare i cittadini dei paesi spendaccioni per mettersi in regola. Nessuno rileva che tra poteri trasferiti alla UE e quelli trasferiti alle regioni, i costi più parassitari sono quelli del mantenimento degli stati nazionali....
Per un mix tra imbecillità diplomatica e ostinata paura dell'immigrazione, l'Europa ha perso la possibilità di agganciare la Turchia che con ogni probabilità,con il suo sviluppo "cinese", col suo esercito e la tradizione del panturchismo, diventerà una potenza mondiale. Passeremo così dai BRICS ai BRICST. Chissà, potrebbero mettersi tutti d'accordo col loro debitore USA per fondare una ONU su basi diverse, e lasciare all'Europa l'organizzazione di un museo storico e un parco turistico
6- se l'Europa è indietro rispetto al mondo, l'Italia è indietro rispetto all'Europa. Per colpa della sua finanza, della sua burocrazia (giustizia compresa) e della sua sinistra, innamorata della propria specificità e incapace di collegamenti organici con l'Europa e il resto del mondo. Capace al massimo di un terzomondismo retorico e cattopiagnone.
Il sindacato, poi, non si è ancora accorto che c'è la globalizzazione (veramente, non si è neanche accorto che c'è la UE) e che non si possono fare altre Alitalia, anche se non spiacerebbero ai nostri finanzieri, che sanno già come guadagnarci su. Continua nella nostalgia dell' operaismo e non si occupa delle condizioni di lavoro con cui funzionano gli altri grandi paesi europei, che ottengono più qualità nei prodotti e più benessere per i lavoratori.
7- al di fuori della quasi inesistente elaborazione dei partiti, sta crescendo nel pubblico, che si informa e dibatte nelle sedi che trova, cioè su Internet, la consapevolezza :
-che è in corso una campagna globale per l'appropriazione dei beni comuni, che costituiscono un monopolio naturale di consumi
-che nella maggior parte dei partiti (in Italia , in tutti) è stata eliminata la democrazia interna: ci sono solo più partiti personali o oligarchici.
Questa ultima è un specie di controriforma della classe politica, che reagisce con la repressione del dissenso all'apertura di spazi di dibattito non più sotto il suo controllo. Esattamente come reagì la Chiesa alla possibilità data dalla stampa di leggersi da soli le Scritture...mentre non ci vorrebbe molto a utilizzare internet non solo per radunare (scarse) folle plaudenti agli interminabili e confusi discorsi dei leaders autonominati ma anche per prendere decisioni e scegliere gli uomini. Chissà se Internet potra diventare la nostra piazza Tahrir: l'anzianità in carica di troppi politici italiani è simile a quella di Mubarak, e forse di simile c'è anche altro.
Proviamo a elencare una prima serie di cose di cui parlare: ce ne sarebbe per anni.
1-In 100 anni, nonostante 2 guerre "mondiali" per la parte più ricca del mondo e non meno di 4 per la parte più povera, oltre a carestie e almeno una pestilenza, l'umanità è passata da 2 miliardi a 7. Sui 2 miliardi la parte più ricca e civile era intorno ai 400 milioni, sui 7, circa due miliardi. Ma l'informazione e la pubblicità sono alla portata di tutti e quindi anche gli altri 5 vogliono sedersi a tavola e vivere nello stesso modo.
I consumi totali quindi stanno aumentando geometricamente, ci stiamo divorando le risorse naturali e potrebbe arrivare il momento in cui non ci sarà più energia sufficiente.
Eppure , l'economia esige che i consumi continuino a aumentare (lo "sviluppo" sta nella crescita del PIL) e tutte le religioni considerano un peccato gravissimo il controllo delle nascite.
Ma forse la cosiddetta scienza economica è un'altra religione, per l'adorazione di un PIL che esige sacrifici umani, forse fino all'autoannientamento in una crisi epocale scappata di mano ai suoi sacerdoti...
Intanto non si arresta il flusso di chi vuole vivere meglio subito e preme verso le frontiere dei paesi che per ora stanno meglio. Certo, gli immigrati ci servono, anche perchè sono giovani e intraprendenti, migliorano la situazione demografica dell'occidente, e pure le qualità razziali, ma non possiamo spopolare il mondo povero e stra-affollare quello ricco. Non è solo un problema di risorse, è anche un problema di spazio e di cementificazione.
2-Conseguentemente, è diventato più importante lo sfruttamento del consumatore che quello del lavoratore, al punto che la finanza d'occidente non ha problemi nel licenziare lavoratori, anzi lo richiede come "misura di risanamento". Ma non può licenziare i consumatori, e allora moltiplica le forme di credito purchè continuino a comprare, salvo inventare prodotti finanziari per liberarsi di questi crediti praticamente inesigibili, cercano di guadagnare in poco tempo anche su questa transazione
.
3-la produzione dei beni si sta spostando dai paesi tradizionalmente industrializzati ai BRICS. Che stanno accumulando velocemente una quota crescente della ricchezza mondiale, ma sono privi di potere reale e militare (nessuno conosce, anche solo approssimativamente, qualità e quantità degli armamenti cinesi).
I popoli arabi stanno chiedendo di usare la ricchezza petrolifera per garantire il welfare delle popolazioni.
Per ora, non si ha notizia che stia accadendo qualcosa di simile nei BRICS. E fare un po' di propaganda al nostro welfare, oppure mettere dei dazi per punire le importazioni dai paesi dove non esistono pensioni e sanità pubblica?
4- ci troviamo in mezzo a una crisi finanziaria dove i governi hanno chiaramente perso la bussola delle priorità. La crisi non nasce da problemi produttivi o di mercato, ma da una serie di gigantesche truffe messe in piedi all'interno del sistema finanziario. Anzichè far fallire le banche e le assicurazioni incoscienti e truffaldine si preferisce far fallire gli stati, oppure imporre tagli inauditi al welfare. I poveri, gli anziani e i lavoratori devono pagare i debiti di gioco degli straricchi. La rivoluzione francese è cominciata così, è ora di girare la frittata e vedere cosa succede a far pagare i responsabili e non le vittime.
Per ora, siamo fermi all'applicazione della tassa sul macinato (ora è la benzina) che nell'ottocento faceva mantenere dai poveracci l'esercito e la corte.
E' incredibile che di fronte a un 'economia che non funziona più, perchè dominata da un settore finanziario che non serve a orientare la produzione e lo sviluppo, ma solo a creare bolle speculative e truffe, la sinistra europea e mondiale sia stata muta per così tanto tempo, forse travolta dal blairismo(e noi in Italia dalla sua approssimazione provinciale, il veltronismo).
Incredibile che nessuno a sinistra abbia alzato la voce per pretendere la messa sotto controllo degli strumenti truffaldini della finanza mondiale: swaps, CDS, derivati, futures e tutti i prodotti (basati su assicurazioni non solvibili ma non classificate dalle società di rating) che gli strapagati gnomi di New York e Londra si inventano per prendere i soldi e scappare, lasciando il conto da pagare agli stati, trattandoli anche da inguaribili spendaccioni.
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5- i paesi europei continuano ad avere 27 eserciti che non si possono neanche scambiare le pallottole, 27 diplomazie con obiettivi diversi, hanno fatto ridere tutto il mondo perchè non erano in grado di bombardare per più di 3 settimane un paese straccione come la Libia.
I burocrati di Bruxelles, e di Francoforte, che continuano a essere nominati dai governi e non dal parlamento europeo che pure è eletto, si affannano a decretare quanti pasti devono saltare i cittadini dei paesi spendaccioni per mettersi in regola. Nessuno rileva che tra poteri trasferiti alla UE e quelli trasferiti alle regioni, i costi più parassitari sono quelli del mantenimento degli stati nazionali....
Per un mix tra imbecillità diplomatica e ostinata paura dell'immigrazione, l'Europa ha perso la possibilità di agganciare la Turchia che con ogni probabilità,con il suo sviluppo "cinese", col suo esercito e la tradizione del panturchismo, diventerà una potenza mondiale. Passeremo così dai BRICS ai BRICST. Chissà, potrebbero mettersi tutti d'accordo col loro debitore USA per fondare una ONU su basi diverse, e lasciare all'Europa l'organizzazione di un museo storico e un parco turistico
6- se l'Europa è indietro rispetto al mondo, l'Italia è indietro rispetto all'Europa. Per colpa della sua finanza, della sua burocrazia (giustizia compresa) e della sua sinistra, innamorata della propria specificità e incapace di collegamenti organici con l'Europa e il resto del mondo. Capace al massimo di un terzomondismo retorico e cattopiagnone.
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7- al di fuori della quasi inesistente elaborazione dei partiti, sta crescendo nel pubblico, che si informa e dibatte nelle sedi che trova, cioè su Internet, la consapevolezza :
-che è in corso una campagna globale per l'appropriazione dei beni comuni, che costituiscono un monopolio naturale di consumi
-che nella maggior parte dei partiti (in Italia , in tutti) è stata eliminata la democrazia interna: ci sono solo più partiti personali o oligarchici.
Questa ultima è un specie di controriforma della classe politica, che reagisce con la repressione del dissenso all'apertura di spazi di dibattito non più sotto il suo controllo. Esattamente come reagì la Chiesa alla possibilità data dalla stampa di leggersi da soli le Scritture...mentre non ci vorrebbe molto a utilizzare internet non solo per radunare (scarse) folle plaudenti agli interminabili e confusi discorsi dei leaders autonominati ma anche per prendere decisioni e scegliere gli uomini. Chissà se Internet potra diventare la nostra piazza Tahrir: l'anzianità in carica di troppi politici italiani è simile a quella di Mubarak, e forse di simile c'è anche altro.
Gianvito Mastroleo: Se non ora, quando?
Se non ora, quando …….?
di Gianvito Mastroleo
Nella seduta di di ieri 15 dicembre Bruno Vespa, assistito dai guru del sondaggismo italiano, novello talmud della politica, con tanto di tabelle ha annunciato che le previsioni, condivise dai tre esperti, per il Partito Socialista si aggirano intorno allo 0,6% .
Il dato non è importante in sé e per sé, ma per altre due ragioni: intanto, perché dopo tanto silenzio esce dalla voce “altri” e prende ricompare fra le forze politiche meritevoli di essere segnalate una che si richiama al Socialismo italiano; e poi, per l’annunciato il dato delle astensioni, in continuo aumento fino a circa il 46%.
Immagino che il segretario del Partito Nencini oggi si precipiterà a smentire giacchè altri sondaggisti collocano il Partito alla soglia ben superiore dell’1,5%: il che non è poco!
Ma a noi dovrebbe interessare sopratutto il dato relativo alle astensioni che si collocano in quel 46%; elettori che non è detto che si ricredano e sui quali dovremmo lavorare.
Fra gli intervistati che dichiarano l’astensione ci sono i giovani (molti) e i delusi dalla nuova politica (altrettanti), che si è rivelata peggiore della cosiddetta prima repubblica, sempre più rimpianta: fra questi molti socialisti, quelli che dopo la sciagurata diaspora non si sono più ripresi.
Mentre si fa sempre più acuta la crisi della stagione politica che ci lasciamo alle spalle, con il suo bipolarismo anomalo, (l’intervista odierna di Stefania Craxi, Corriere della sera 16 dic., pag. 17 ne è la conferma) specularmente crescono le opportunità per il Socialismo Italiano; a condizione che noi stessi sappiamo intercettare quell’area, abbandonando chiusure, pregiudizi, antichi rancori, e aprendosi ad un socialismo “largo” che con la forza dell’antica tradizione sia capace di parlare con le giovani generazioni, interpretandone le aspirazioni.
E’ quello che seppero fare i socialisti già dall’inizio della loro storia, alla quale è sempre utile tornare, come certifica la straordinaria raccolta dell’Avanti! alla quale mi capita di riferirmi sempre più spesso.
Ed al quale Avanti!, ormai definitivamente recuperato per iniziativa sia del Partito che degli amici e compagni milanesi di Critica Sociale, sarebbe il caso di ritornare come occasione per una grande mobilitazione dei socialisti di ieri e di domani, e per cercare di “allargare” sempre più l’orizzonte comune.
C’è un vasto mondo di socialisti che non si riconosce (spesso a torto) nelle forme organizzative attuali, come conferma l’altissimo, davvero altissimo numero di risposte all’appello lanciato da Critica Sociale; ci sono socialisti ai quali occorre offrire l‘occasione per rinnovare la scelta smarrita della propria identità; tutti questi socialisti hanno figli verso i quali negli anni hanno trasmesso ansie, delusioni, frustrazioni, rammarichi.
E un potenziale grande che è sbagliato liquidare come “vecchio”, come ho sentito dire da qualche compagno a Fiuggi: quel vecchio potrebbe rinnovarsi e rigenerarsi nelle nuove generazioni, solo che fosse motivato e stimolato nella maniera giusta.
“Se non ora, quando …….?” Quello slogan tanto efficace potrebbe essere molto utile anche per noi oggi.
di Gianvito Mastroleo
Nella seduta di
Il dato non è importante in sé e per sé, ma per altre due ragioni: intanto, perché dopo tanto silenzio esce dalla voce “altri” e prende ricompare fra le forze politiche meritevoli di essere segnalate una che si richiama al Socialismo italiano; e poi, per l’annunciato il dato delle astensioni, in continuo aumento fino a circa il 46%.
Immagino che il segretario del Partito Nencini oggi si precipiterà a smentire giacchè altri sondaggisti collocano il Partito alla soglia ben superiore dell’1,5%: il che non è poco!
Ma a noi dovrebbe interessare sopratutto il dato relativo alle astensioni che si collocano in quel 46%; elettori che non è detto che si ricredano e sui quali dovremmo lavorare.
Fra gli intervistati che dichiarano l’astensione ci sono i giovani (molti) e i delusi dalla nuova politica (altrettanti), che si è rivelata peggiore della cosiddetta prima repubblica, sempre più rimpianta: fra questi molti socialisti, quelli che dopo la sciagurata diaspora non si sono più ripresi.
Mentre si fa sempre più acuta la crisi della stagione politica che ci lasciamo alle spalle, con il suo bipolarismo anomalo, (l’intervista odierna di Stefania Craxi, Corriere della sera 16 dic., pag. 17 ne è la conferma) specularmente crescono le opportunità per il Socialismo Italiano; a condizione che noi stessi sappiamo intercettare quell’area, abbandonando chiusure, pregiudizi, antichi rancori, e aprendosi ad un socialismo “largo” che con la forza dell’antica tradizione sia capace di parlare con le giovani generazioni, interpretandone le aspirazioni.
E’ quello che seppero fare i socialisti già dall’inizio della loro storia, alla quale è sempre utile tornare, come certifica la straordinaria raccolta dell’Avanti! alla quale mi capita di riferirmi sempre più spesso.
Ed al quale Avanti!, ormai definitivamente recuperato per iniziativa sia del Partito che degli amici e compagni milanesi di Critica Sociale, sarebbe il caso di ritornare come occasione per una grande mobilitazione dei socialisti di ieri e di domani, e per cercare di “allargare” sempre più l’orizzonte comune.
C’è un vasto mondo di socialisti che non si riconosce (spesso a torto) nelle forme organizzative attuali, come conferma l’altissimo, davvero altissimo numero di risposte all’appello lanciato da Critica Sociale; ci sono socialisti ai quali occorre offrire l‘occasione per rinnovare la scelta smarrita della propria identità; tutti questi socialisti hanno figli verso i quali negli anni hanno trasmesso ansie, delusioni, frustrazioni, rammarichi.
E un potenziale grande che è sbagliato liquidare come “vecchio”, come ho sentito dire da qualche compagno a Fiuggi: quel vecchio potrebbe rinnovarsi e rigenerarsi nelle nuove generazioni, solo che fosse motivato e stimolato nella maniera giusta.
“Se non ora, quando …….?” Quello slogan tanto efficace potrebbe essere molto utile anche per noi oggi.
giovedì 15 dicembre 2011
Franco Astengo: La realtà della manovra
LA REALTA' DELLA MANOVRA
La marginalizzazione dal dibattito politico di una "sinistra possibile", a causa soprattutto dall'assenza dalle aule parlamentari, ha fatto sì che, in questo delicato frangente contrassegnato dalla manovra finanziaria portata avanti dal governo Monti, non possa emergere una valutazione che oltrepassasse l'idea, pur necessaria, di un contrasto finalizzato a realizzare maggiori condizioni di equità sul piano dell'impatto complessivo dei provvedimenti sui settori più deboli della società italiana.
Non è possibile, a causa di questo meccanismo di oggettiva emarginazione, poter affermare che, salvagurdati appunto alcuni fondamentali principi di equità, la manovra risulti comunque negativa, dannosa, sbagliata nella sua impostazione di fondo proprio perchè punta sulla "svalutazioen interna" tramite la dimnuzione del potere d'acquisto di salari e pensioni e adun processo di ulteriore allontamento dei giovani dal mercato del lavoro, attraverso l'innalzamento dell'età pensionabile.
Una manovra che porterà ad una sorta di "stagflazione" interna (mix di inflazione e recessione, come fu negli anni'70 a cavallo della crisi petrolifera) lontana da un possibile quadro europeo di riferimento alternativo.
Così in nome della lotta all'inflazione si predica e si vuole che si attuino politiche di inflazione interna, riducendo pensioni e salari, eliminando le garanzie contro i licenziamenti e liberalizzando e privatizzando quanto resta ancora da passare alle entità economiche di diritto privato.
Nella sostanza si punta a ripristinare vera e proprie "condizioni di classe" che pensavamo ormai di aver definitivamente superato, almeno nell'Occidente avanzato.
Una "sinistra possibile" dovrebbe avere coraggio e capacità di affermare queste posizioni, collegarsi alle forze socialiste e della sinistra europea, creare un movimento a quel livello e costruire una posizione che chieda una inversione di rotta complessiva, non solo sul piano quantitativo, ma anche e soprattutto sul terreno della prospettiva, non limitandosi ad oscillare
tra la subalternità quasi ancillare verso il neo-liberismo dei tecnocrati e risposte di stampo populista e neo.corporativo.
Savona, li 14 Dicembre 2011 Franco Astengo
La marginalizzazione dal dibattito politico di una "sinistra possibile", a causa soprattutto dall'assenza dalle aule parlamentari, ha fatto sì che, in questo delicato frangente contrassegnato dalla manovra finanziaria portata avanti dal governo Monti, non possa emergere una valutazione che oltrepassasse l'idea, pur necessaria, di un contrasto finalizzato a realizzare maggiori condizioni di equità sul piano dell'impatto complessivo dei provvedimenti sui settori più deboli della società italiana.
Non è possibile, a causa di questo meccanismo di oggettiva emarginazione, poter affermare che, salvagurdati appunto alcuni fondamentali principi di equità, la manovra risulti comunque negativa, dannosa, sbagliata nella sua impostazione di fondo proprio perchè punta sulla "svalutazioen interna" tramite la dimnuzione del potere d'acquisto di salari e pensioni e adun processo di ulteriore allontamento dei giovani dal mercato del lavoro, attraverso l'innalzamento dell'età pensionabile.
Una manovra che porterà ad una sorta di "stagflazione" interna (mix di inflazione e recessione, come fu negli anni'70 a cavallo della crisi petrolifera) lontana da un possibile quadro europeo di riferimento alternativo.
Così in nome della lotta all'inflazione si predica e si vuole che si attuino politiche di inflazione interna, riducendo pensioni e salari, eliminando le garanzie contro i licenziamenti e liberalizzando e privatizzando quanto resta ancora da passare alle entità economiche di diritto privato.
Nella sostanza si punta a ripristinare vera e proprie "condizioni di classe" che pensavamo ormai di aver definitivamente superato, almeno nell'Occidente avanzato.
Una "sinistra possibile" dovrebbe avere coraggio e capacità di affermare queste posizioni, collegarsi alle forze socialiste e della sinistra europea, creare un movimento a quel livello e costruire una posizione che chieda una inversione di rotta complessiva, non solo sul piano quantitativo, ma anche e soprattutto sul terreno della prospettiva, non limitandosi ad oscillare
tra la subalternità quasi ancillare verso il neo-liberismo dei tecnocrati e risposte di stampo populista e neo.corporativo.
Savona, li 14 Dicembre 2011 Franco Astengo
mercoledì 14 dicembre 2011
Paola Meneganti: Santa Lucia
La banalità del male? Comunque, dovremmo riflettere: il pogrom di Torino contro gli zingari - li chiamo così, abbiamone il coraggio, non usiamo braghettoni linguistici ... - la "follia" omicida nei confronti dei ragazzi senegalesi di Firenze ... Hanno seminato tanto odio, negli anni, contro i diversi, gli "altri", gli inguardabili, gli infrequentabili, i poveri; oggi, raccogliamo tempesta. Ero a Firenze, oggi. Sottopasso per andare a Santa Maria Novella, gente che va di fretta, di frettissima. Un suonatore girovago di violoncello si ferma vicino ad un signore che chiedeva l'elemosina fin dalla mattina, cionco, sciancato, come posso dire?, monco di una gamba. Gli fa: "dai, andiamo a mangiare". Mi sono vergognata. "Voi, che vivete sicuri nelle vostre tiepide case ...".
(P.M.)
(P.M.)
martedì 13 dicembre 2011
lunedì 12 dicembre 2011
Lorenzo Borla: Maurizio Landini
Maurizio Landini, domenica sera a “Che tempo che fa”. Dice cose sacrosante sul divario fra ricchi arricchiti e poveri impoveriti. Dice magari qualche cosa inesatta, nell’eccitazione del suo ragionamento. Dice le cose con la rabbia, non ingiustificata, di un operaio alla catena di montaggio. Fa il suo mestiere di sindacalista, a difesa degli interessi dei lavoratori. Tanto di cappello a quest’uomo che, da segretario nazionale della Fiom guadagna 2.300 euro netti al mese. Dice le cose con una torrenziale e insopportabile retorica, stile anni Cinquanta. Non ha capito che, se dicesse le cose in modo più pacato, magari non otterrebbe migliori risultati dalla Fiat, ma forse attirerebbe più simpatia alla sua causa. Non gli è stata posta, né lui l’ha introdotta, la domanda cruciale: quali sono le correnti condizioni di lavoro nell’industria dell’auto, in Germania e Francia, a paragone dell’Italia. E pure quali sono in America, a cui Marchionne evidentemente si ispira. A meno di non sostenere che lì sono delle bestie, mentre in Italia ci vogliono maggiori riguardi perché siamo più fragili... (non a caso abbiamo perso quasi tutte le guerre...). E dopo aver tifato la domenica allo stadio, il lunedì siamo più stanchi... Quanto al fatto che in Germania e Francia gli operai vengono pagati di più, ciò non è dovuto soltanto ai padroni delle ferriere spietati e sfruttatori, ma anche al cuneo fiscale che pagano gli operai per sostenere, fra tante altre cose, gli aiuti ai giornali per la pluralità dell’informazione, agli ippodromi per aiutare l’industria delle corse e delle scommesse, eccetera... Cari saluti. Lorenzo Borla
Stefano Fassina: I neoliberisti ci portano alla catastrofe
"I NEO LIBERISTI CI PORTANO ALLA CATASTROFE" - L'Unità 12 dicembre
.pubblicata da Stefano Fassina il giorno lunedì 12 dicembre 2011 alle ore 10.18.Perché, in Europa e negli Usa, non usciamo dal tunnel della recessione e, in Italia, andiamo verso la depressione? Perché si continua ad applicare, nonostante i disastri prodotti, la ricetta neo-liberista dominante nell'ultimo quarto di secolo: austerità senza se e senza ma e svalutazione reale del lavoro per recuperare in esportazioni la caduta della domanda interna depressa dall'aumento delle diseguaglianze. In sintesi, siamo vittime del "trionfo delle idee fallite", come ripete Paul Krugman. Non a caso, per la presidenza degli Stati Uniti ritorna, come uno zombie, Newt Gingrich. Non a caso, da noi continuano ad imperversare gli Alesina ed i Giavazzi, nonostante Il FMI qualche mese fa abbia radicalmente confutato le loro tesi. Il Fondo, in un'analisi di decine e decine di casi di aggiustamenti di bilancio pubblico, trova un risultato banale, ma negato nell’ultimo ventennio: le politiche restrittive sono recessive, non rileva se fatte dal lato delle entrate o dal lato delle spese. Ma gli Alesina ed i Giavazzi, amplificati da interessi corporativi miopi, insistono. Per coprirsi le spalle rilanciano contro l'art.18 dello Statuto dei Lavoratori. Stesso schema dell’editoriale di Orioli su Il Sole 24ore di giovedì scorso. Ovviamente, la giustificazione è l'equità verso i giovani, principio trendy, strumentalizzato senza imbarazzo da un classismo pesante ed autolesionista.
Purtroppo ideologia fallita ed interessi miopi dominano anche la discussione a Bruxelles. La crisi dell'euro non ha nulla a che vedere con la finanza pubblica (si legga Martin Wolf sul. Financial Times di mercoledì scorso per l'ennesima, eccellente e divulgativa spiegazione). È dovuta alle differenze di competitività presenti nell'area della moneta unica. È dovuta alla caduta della domanda aggregata conseguente alla aumento della disuguaglianza a sua volta alimentata dalla regressione del lavoro. Non importa. L'ossessione dei conservatori tedeschi verso il deficit pubblico segna la rotta. Il vertice europeo di giovedì e venerdì scorso è l'ultimo esempio. Si progetta un trattato intergovernativo al solo fine di rendere più cogente una linea di austerità suicida, in larga misura già recepita nel "six pact" (il pacchetto pro-austerity approvato nei mesi scorsi dal Parlamento europeo), senza aprire alcuno spazio agli interventi per lo sviluppo sostenibile. Così, data la linea voluta dalla signora Merkel, l'unica speranza per attenuare i sempre più gravi danni sociali ed economici e democratici è affidata agli acquisti surrettizi della Bce dei titoli di debito pubblico dei Paesi in difficoltà.
Al punto in cui siamo, dovrebbe essere chiara la posta in gioco. Se le forze maggiori dell’impresa e della finanza continuano ad affermare i loro legittimi interessi di parte attraverso il paradigma della destra tecnocratica degli Alesina e dei Giavazzi arriviamo ad una lunga e drammatica depressione economica, ad insostenibili disuguaglianze, alla fine della civiltà del lavoro e allo svuotamento populista delle democrazie delle classi medie. Insomma, alla fine del modello sociale europeo, alla rottura dell’euro e della UE e alla inevitabile irrilevanza degli Stati nazionali del vecchio continente nel secolo asiatico.
La linea da seguire è opposta. La ripetono oramai da tempo sia i liberal statunitensi (Krugman, Stiglitz, Summers, Rodrik,...) sia i liberali pragmatici dalle colonne del Financial Times (oltre a Wolf, Munchau, Key ed altri). La sostengono i sindacati europei. La propongono i progressisti europei, Pd, Pse, Verdi, come indicato dagli emendamenti e dal voto contrario al "six pact".
La linea alternativa passa per la correzione degli squilibri macroeconomici all'interno dell'area euro e per il riavvio della domanda aggregata. Quindi, allentamento dell’austerità autolesionista. Sostegno agli investimenti, da alimentare attraverso euro-project bonds e Tassa sulle Transazioni Finanziarie. Bce autorizzata a fare da prestatore di ultima istanza. Regolatori dei mercati finanziari meno ottusi. Agenzia europea per il debito. Coordinamento delle politiche retributive, in primis innalzamento delle retribuzioni tedesche in linea con la produttività. Armonizzazione delle politiche di tassazione. E, soprattutto, costruzione di sedi democraticamente legittimate di sovranità condivisa nell'area euro.
Soltanto un paradigma culturale autonomo può dare senso storico ai progressisti europei. Seguire i conservatori ed i tecnocrati rivolti all’indietro rende i progressisti inutili e corresponsabili del disastro annunciato di fronte a noi. Un disastro per la democrazia, prima che per l'economia.
Stefano Fassina
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.pubblicata da Stefano Fassina il giorno lunedì 12 dicembre 2011 alle ore 10.18.Perché, in Europa e negli Usa, non usciamo dal tunnel della recessione e, in Italia, andiamo verso la depressione? Perché si continua ad applicare, nonostante i disastri prodotti, la ricetta neo-liberista dominante nell'ultimo quarto di secolo: austerità senza se e senza ma e svalutazione reale del lavoro per recuperare in esportazioni la caduta della domanda interna depressa dall'aumento delle diseguaglianze. In sintesi, siamo vittime del "trionfo delle idee fallite", come ripete Paul Krugman. Non a caso, per la presidenza degli Stati Uniti ritorna, come uno zombie, Newt Gingrich. Non a caso, da noi continuano ad imperversare gli Alesina ed i Giavazzi, nonostante Il FMI qualche mese fa abbia radicalmente confutato le loro tesi. Il Fondo, in un'analisi di decine e decine di casi di aggiustamenti di bilancio pubblico, trova un risultato banale, ma negato nell’ultimo ventennio: le politiche restrittive sono recessive, non rileva se fatte dal lato delle entrate o dal lato delle spese. Ma gli Alesina ed i Giavazzi, amplificati da interessi corporativi miopi, insistono. Per coprirsi le spalle rilanciano contro l'art.18 dello Statuto dei Lavoratori. Stesso schema dell’editoriale di Orioli su Il Sole 24ore di giovedì scorso. Ovviamente, la giustificazione è l'equità verso i giovani, principio trendy, strumentalizzato senza imbarazzo da un classismo pesante ed autolesionista.
Purtroppo ideologia fallita ed interessi miopi dominano anche la discussione a Bruxelles. La crisi dell'euro non ha nulla a che vedere con la finanza pubblica (si legga Martin Wolf sul. Financial Times di mercoledì scorso per l'ennesima, eccellente e divulgativa spiegazione). È dovuta alle differenze di competitività presenti nell'area della moneta unica. È dovuta alla caduta della domanda aggregata conseguente alla aumento della disuguaglianza a sua volta alimentata dalla regressione del lavoro. Non importa. L'ossessione dei conservatori tedeschi verso il deficit pubblico segna la rotta. Il vertice europeo di giovedì e venerdì scorso è l'ultimo esempio. Si progetta un trattato intergovernativo al solo fine di rendere più cogente una linea di austerità suicida, in larga misura già recepita nel "six pact" (il pacchetto pro-austerity approvato nei mesi scorsi dal Parlamento europeo), senza aprire alcuno spazio agli interventi per lo sviluppo sostenibile. Così, data la linea voluta dalla signora Merkel, l'unica speranza per attenuare i sempre più gravi danni sociali ed economici e democratici è affidata agli acquisti surrettizi della Bce dei titoli di debito pubblico dei Paesi in difficoltà.
Al punto in cui siamo, dovrebbe essere chiara la posta in gioco. Se le forze maggiori dell’impresa e della finanza continuano ad affermare i loro legittimi interessi di parte attraverso il paradigma della destra tecnocratica degli Alesina e dei Giavazzi arriviamo ad una lunga e drammatica depressione economica, ad insostenibili disuguaglianze, alla fine della civiltà del lavoro e allo svuotamento populista delle democrazie delle classi medie. Insomma, alla fine del modello sociale europeo, alla rottura dell’euro e della UE e alla inevitabile irrilevanza degli Stati nazionali del vecchio continente nel secolo asiatico.
La linea da seguire è opposta. La ripetono oramai da tempo sia i liberal statunitensi (Krugman, Stiglitz, Summers, Rodrik,...) sia i liberali pragmatici dalle colonne del Financial Times (oltre a Wolf, Munchau, Key ed altri). La sostengono i sindacati europei. La propongono i progressisti europei, Pd, Pse, Verdi, come indicato dagli emendamenti e dal voto contrario al "six pact".
La linea alternativa passa per la correzione degli squilibri macroeconomici all'interno dell'area euro e per il riavvio della domanda aggregata. Quindi, allentamento dell’austerità autolesionista. Sostegno agli investimenti, da alimentare attraverso euro-project bonds e Tassa sulle Transazioni Finanziarie. Bce autorizzata a fare da prestatore di ultima istanza. Regolatori dei mercati finanziari meno ottusi. Agenzia europea per il debito. Coordinamento delle politiche retributive, in primis innalzamento delle retribuzioni tedesche in linea con la produttività. Armonizzazione delle politiche di tassazione. E, soprattutto, costruzione di sedi democraticamente legittimate di sovranità condivisa nell'area euro.
Soltanto un paradigma culturale autonomo può dare senso storico ai progressisti europei. Seguire i conservatori ed i tecnocrati rivolti all’indietro rende i progressisti inutili e corresponsabili del disastro annunciato di fronte a noi. Un disastro per la democrazia, prima che per l'economia.
Stefano Fassina
.
domenica 11 dicembre 2011
Andrea Ermano: Un progresso incredibile, un obbligo per tutti noi
Dall'Avvenire dei lavoratori
Un progresso incredibile.
Un obbligo per tutti noi
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“La Germania in Europa, con l’Europa e per l’Europa” - su questo tema Helmut Schmidt, ex cancelliere tedesco, ha tenuto un importante discorso al 66° Congresso della SPD di Berlino. Un discorso che entra a buon diritto nella galleria ideale delle grandi orazioni europeiste e che può aiutarci a focalizzare meglio l'attuale situazione politica.
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di Andrea Ermano
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“Vent’anni dopo Maastricht faremo un nuovo trattato che cancellerà le debolezze dell’euro garantendo la stabilità europea”, ha assicurato a conclusione del tour de force brussellese un'Angela Merkel ostentatamente soddisfatta per “l’accordo sui tetti di debito e le sanzioni automatiche previste dal nuovo trattato”.
La Gran Bretagna si è chiamata fuori e il vice premier europeista Nick Clegg ha espresso “rammarico” per la mancata soluzione comune, rilevando che le richieste inglesi erano ragionevoli: “Quel che cercavamo di ottenere” – ha aggiunto il leader liberaldemocratico britannico – “era un terreno di gioco comune per i servizi finanziari e il mercato unico. Che ci avrebbe consentito i margini necessari a introdurre misure più severe per regolamentare il nostro sistema bancario”.
In realtà, il Regno Unito non sarebbe stato in grado di accedere a un qualunque accordo, ragionevole o non ragionevole, senza ricorrere al referendum solennemente promesso nel caso da Cameron durante la scorsa campagna elettorale, e questo avrebbe bloccato il convoglio europeo. Di qui l'indisponibilità continentale ad annacquare le strategie per compiacere i britannici.
"I capi di Stato e di governo di Bulgaria, Repubblica Ceca, Danimarca, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Svezia" hanno indicato in un comunicato congiunto il loro consenso unanime (per ora) alla linea indicata dai paesi dell'Eurozona, cioè "la possibilità di prendere parte a questo processo dopo aver consultato i loro parlamenti laddove opportuno”.
Per il presidente della Ue, Herman Van Rompuy, dal vertice di Bruxelles escono “importanti decisioni atte a salvaguardare la stabilità della zona euro”.
Giudizio positivo anche dal direttore dell’Fmi, Christine Lagarde, secondo la quale l’impegno europeo “rafforza anche la capacità del Fondo monetario”.
La Borsa italiana ha risposto bene e piazza Affari è rimbalzata al +2,83% nel primo pomeriggio di ieri l'altro, dopo che giovedì aveva accusato il calo più pesante nel continente (-4,29%).
Joschka Fischer, venerdì a Roma per prendere parte al congresso del Partito Radicale transnazionale, ha giudicato positivamente il percorso iniziato, ponendo però l’accento sulla natura iniziale delle decisioni assunte di fronte a una crisi che, ha confessato l’ex ministro degli esteri tedesco, "non avrei mai immaginato di vedere nel corso della mia vita”.
“Il nocciolo specifico della crisi europea è la crisi dei governi e non la crisi finanziaria”, ha aggiunto Fischer osservando che l'emergenza finanziaria è risultata dal crollo di liquidità prodottosi nel sistema bancario globale: “Ma questo ha colpito tutti i paesi, mentre solo da noi si è trasformata in una minaccia all’esistenza stessa” dell'Europa e del progetto europeo, “perché solo in Europa non abbiamo un governo centrale, un ministero comune del tesoro né una qualche forma di controllo parlamentare”.
Nel medio periodo ("due o tre anni") dovremo dunque approdare a una federazione leggera degli Stati Uniti d’Europa: “Non dobbiamo prenderci in giro”, ha ribadito l’ex vice-cancelliere e leader ecologista tedesco, “non ha alcun senso una moneta comune senza una politica comune”. Perciò, ha concluso Fischer: “sarebbe ovviamente auspicabile procedere tutti insieme, ma se questo non è possibile, anche l’Eurozona (più chi ci sta) può essere per intanto una soluzione”.
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Fresco di stampa - Editoriale di Eugenio Colorni (Centro Interno del PSI) su L'ADL dell'11 febbraio del 1944
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Sempre nella seconda sessione del congresso radicale, presieduta da Emma Bonino, hanno posto accenti analoghi Antonio Taiani (PPE), Commissario UE per l'Industria e l'Imprenditoria, e l’ex ministro socialista francese Bernard Koucher, entrambi condividendo l’utilità dell’accordo di Bruxelles ed entrambi ribadendo però la necessità di incamminarsi verso gli Stati Uniti d’Europa.
È lecito chiedersi come, in questa prospettiva, si posizionerà la Germania. E qui occorre allora riandare a domenica scorsa quando Helmut Schmidt ha preso la parola al 66° Congresso della SPD sul tema: La Germania in Europa, con l’Europa e per l’Europa.
La lectio magistralis del Cancelliere emerito, novantatreenne, non può essere qui riassunta in brevi parole. Diciamo che essa ha manifestato acuta consapevolezza delle sfide globali in atto, di fonte alle quali né l’Europa né i singoli paesi in essa, e nemmeno la Germania, saranno in grado di salvaguardare un ruolo di qualche rilievo, ove si presentassero disuniti.
“Cinquant’anni fa l’Europa rappresentava un terzo dell’economia e della popolazione globale”, ha fatto presente Schmidt: “Tra cinquant’anni i paesi europei, Germania inclusa, non verranno più misurati in percentuale, perché nessuno di essi raggiungerà la centesima parte del mondo, nemmeno la Germania. La nostra misura, se l’Europa fallisse, sarebbe il millesimo”.
Se questo malaugurato scenario di disunione si verificasse, verrebbero messi a rischio non solo il contributo dell'Europa al progresso umano in termini di sviluppo e diritti civili, non solo il benessere morale e materiale dei nostri popoli, ma la stessa pace.
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Helmut Schmidt, classe 1918
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L’effetto politico della posizione assunta della SPD, che ha fatto quadrato intorno al cancelliere decano, è presto detto: ora Angela Merkel sa di non poter sopravvivere politicamente a un eventuale acuirsi della crisi europea. E Schmidt, con grande autorevolezza, ha chiarito che nessun apprezzabile risultato potrà conseguirsi lungo la strada, diciamo, dell’autoaffermazione dell’export teutonico, nemmeno laddove esso s’intenda rivolto alla virtù, per altro ambigua, della disciplina di bilancio.
“Se oggi la più parte del continente gode dei diritti umani e della pace, noi questo progresso non ce lo eravamo neanche immaginato: né nel 1918 né nel ‘33 né nel 1945. Ma questo progresso incredibile è, insieme, anche un obbligo, per tutti noi. E dunque noi dobbiamo lavorare, e noi dobbiamo combattere", ha concluso Schmidt, "affinché l’Unione Europea, unicum della storia, sappia uscire dalla sua attuale debolezza, forte e consapevole di sé”.
Standing ovation di dieci minuti. E il grande vecchio della socialdemocrazia europea alla fine era talmente emozionato da doversi accendere una sigaretta (vietatissima), sulla sua sedia a rotelle, in mezzo a una platea visibilmente commossa.
Occorrerà ritornare, appena possibile, su questa lectio del cancelliere emerito, che entra nella galleria ideale dei grandi discorsi europeisti inaugurata il 19 settembre 1946 dall'ex premier britannico Winston Churchill nell’aula magna dell’Università di Zurigo: “Therefore I say to you: Let Europe arise!”.
Un progresso incredibile.
Un obbligo per tutti noi
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“La Germania in Europa, con l’Europa e per l’Europa” - su questo tema Helmut Schmidt, ex cancelliere tedesco, ha tenuto un importante discorso al 66° Congresso della SPD di Berlino. Un discorso che entra a buon diritto nella galleria ideale delle grandi orazioni europeiste e che può aiutarci a focalizzare meglio l'attuale situazione politica.
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di Andrea Ermano
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“Vent’anni dopo Maastricht faremo un nuovo trattato che cancellerà le debolezze dell’euro garantendo la stabilità europea”, ha assicurato a conclusione del tour de force brussellese un'Angela Merkel ostentatamente soddisfatta per “l’accordo sui tetti di debito e le sanzioni automatiche previste dal nuovo trattato”.
La Gran Bretagna si è chiamata fuori e il vice premier europeista Nick Clegg ha espresso “rammarico” per la mancata soluzione comune, rilevando che le richieste inglesi erano ragionevoli: “Quel che cercavamo di ottenere” – ha aggiunto il leader liberaldemocratico britannico – “era un terreno di gioco comune per i servizi finanziari e il mercato unico. Che ci avrebbe consentito i margini necessari a introdurre misure più severe per regolamentare il nostro sistema bancario”.
In realtà, il Regno Unito non sarebbe stato in grado di accedere a un qualunque accordo, ragionevole o non ragionevole, senza ricorrere al referendum solennemente promesso nel caso da Cameron durante la scorsa campagna elettorale, e questo avrebbe bloccato il convoglio europeo. Di qui l'indisponibilità continentale ad annacquare le strategie per compiacere i britannici.
"I capi di Stato e di governo di Bulgaria, Repubblica Ceca, Danimarca, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Svezia" hanno indicato in un comunicato congiunto il loro consenso unanime (per ora) alla linea indicata dai paesi dell'Eurozona, cioè "la possibilità di prendere parte a questo processo dopo aver consultato i loro parlamenti laddove opportuno”.
Per il presidente della Ue, Herman Van Rompuy, dal vertice di Bruxelles escono “importanti decisioni atte a salvaguardare la stabilità della zona euro”.
Giudizio positivo anche dal direttore dell’Fmi, Christine Lagarde, secondo la quale l’impegno europeo “rafforza anche la capacità del Fondo monetario”.
La Borsa italiana ha risposto bene e piazza Affari è rimbalzata al +2,83% nel primo pomeriggio di ieri l'altro, dopo che giovedì aveva accusato il calo più pesante nel continente (-4,29%).
Joschka Fischer, venerdì a Roma per prendere parte al congresso del Partito Radicale transnazionale, ha giudicato positivamente il percorso iniziato, ponendo però l’accento sulla natura iniziale delle decisioni assunte di fronte a una crisi che, ha confessato l’ex ministro degli esteri tedesco, "non avrei mai immaginato di vedere nel corso della mia vita”.
“Il nocciolo specifico della crisi europea è la crisi dei governi e non la crisi finanziaria”, ha aggiunto Fischer osservando che l'emergenza finanziaria è risultata dal crollo di liquidità prodottosi nel sistema bancario globale: “Ma questo ha colpito tutti i paesi, mentre solo da noi si è trasformata in una minaccia all’esistenza stessa” dell'Europa e del progetto europeo, “perché solo in Europa non abbiamo un governo centrale, un ministero comune del tesoro né una qualche forma di controllo parlamentare”.
Nel medio periodo ("due o tre anni") dovremo dunque approdare a una federazione leggera degli Stati Uniti d’Europa: “Non dobbiamo prenderci in giro”, ha ribadito l’ex vice-cancelliere e leader ecologista tedesco, “non ha alcun senso una moneta comune senza una politica comune”. Perciò, ha concluso Fischer: “sarebbe ovviamente auspicabile procedere tutti insieme, ma se questo non è possibile, anche l’Eurozona (più chi ci sta) può essere per intanto una soluzione”.
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Fresco di stampa - Editoriale di Eugenio Colorni (Centro Interno del PSI) su L'ADL dell'11 febbraio del 1944
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Sempre nella seconda sessione del congresso radicale, presieduta da Emma Bonino, hanno posto accenti analoghi Antonio Taiani (PPE), Commissario UE per l'Industria e l'Imprenditoria, e l’ex ministro socialista francese Bernard Koucher, entrambi condividendo l’utilità dell’accordo di Bruxelles ed entrambi ribadendo però la necessità di incamminarsi verso gli Stati Uniti d’Europa.
È lecito chiedersi come, in questa prospettiva, si posizionerà la Germania. E qui occorre allora riandare a domenica scorsa quando Helmut Schmidt ha preso la parola al 66° Congresso della SPD sul tema: La Germania in Europa, con l’Europa e per l’Europa.
La lectio magistralis del Cancelliere emerito, novantatreenne, non può essere qui riassunta in brevi parole. Diciamo che essa ha manifestato acuta consapevolezza delle sfide globali in atto, di fonte alle quali né l’Europa né i singoli paesi in essa, e nemmeno la Germania, saranno in grado di salvaguardare un ruolo di qualche rilievo, ove si presentassero disuniti.
“Cinquant’anni fa l’Europa rappresentava un terzo dell’economia e della popolazione globale”, ha fatto presente Schmidt: “Tra cinquant’anni i paesi europei, Germania inclusa, non verranno più misurati in percentuale, perché nessuno di essi raggiungerà la centesima parte del mondo, nemmeno la Germania. La nostra misura, se l’Europa fallisse, sarebbe il millesimo”.
Se questo malaugurato scenario di disunione si verificasse, verrebbero messi a rischio non solo il contributo dell'Europa al progresso umano in termini di sviluppo e diritti civili, non solo il benessere morale e materiale dei nostri popoli, ma la stessa pace.
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Helmut Schmidt, classe 1918
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L’effetto politico della posizione assunta della SPD, che ha fatto quadrato intorno al cancelliere decano, è presto detto: ora Angela Merkel sa di non poter sopravvivere politicamente a un eventuale acuirsi della crisi europea. E Schmidt, con grande autorevolezza, ha chiarito che nessun apprezzabile risultato potrà conseguirsi lungo la strada, diciamo, dell’autoaffermazione dell’export teutonico, nemmeno laddove esso s’intenda rivolto alla virtù, per altro ambigua, della disciplina di bilancio.
“Se oggi la più parte del continente gode dei diritti umani e della pace, noi questo progresso non ce lo eravamo neanche immaginato: né nel 1918 né nel ‘33 né nel 1945. Ma questo progresso incredibile è, insieme, anche un obbligo, per tutti noi. E dunque noi dobbiamo lavorare, e noi dobbiamo combattere", ha concluso Schmidt, "affinché l’Unione Europea, unicum della storia, sappia uscire dalla sua attuale debolezza, forte e consapevole di sé”.
Standing ovation di dieci minuti. E il grande vecchio della socialdemocrazia europea alla fine era talmente emozionato da doversi accendere una sigaretta (vietatissima), sulla sua sedia a rotelle, in mezzo a una platea visibilmente commossa.
Occorrerà ritornare, appena possibile, su questa lectio del cancelliere emerito, che entra nella galleria ideale dei grandi discorsi europeisti inaugurata il 19 settembre 1946 dall'ex premier britannico Winston Churchill nell’aula magna dell’Università di Zurigo: “Therefore I say to you: Let Europe arise!”.
sabato 10 dicembre 2011
venerdì 9 dicembre 2011
giovedì 8 dicembre 2011
mercoledì 7 dicembre 2011
martedì 6 dicembre 2011
Gianvito Mastroleo: Due parole sul "dopo-Fiuggi"
Due parole sul “dopo-Fiuggi”
di Gianvito Mastroleo
Le valutazioni politiche sul Congresso-Conferenza di programma di Fiuggi le faremo nel Direttivo che speriamo di organizzare quanto prima.
A me preme anticipare due cose.
Il Congresso fu concepito in un clima politico del tutto diverso da quello nel quale si è celebrato; nonostante la buona volontà di Nencini, con la sua buona relazione, l’emergenza del Paese ha fatto premio sui contenuti, soprattutto dibattito e nelle conclusioni tratte nell’attesa dei provvedimenti varati dal Governo nello stesso pomeriggio.
Nella relazione Nencini ha espresso un concetto condivisibile: l’atteggiamento delle forze politiche rispetto ai provvedimenti del Governo determineranno il quadro delle alleanze in vista delle elezioni del 2013: giusto, anzi giustissimo.
Il voto del senatore Vizzini, dunque, e l’atteggiamento del PSI rispetto ai provvedimenti del Governo Monti non può che essere di consenso, ancorchè critico, finanche rispetto al ripristino dell’IMU (ex ICI) per la prima casa: se non si vuole entrare in contraddizione con se stessi, ma soprattutto per non essere confusi con i populismi leghista o dipietrista.
La seconda: non è stato un bene che dalla discussione del Congresso sia rimasto fuori il tema del Mezzogiorno: lo avrebbe richiesto una considerazione politica che mi ero ripromesso di illustrare.
Da un paio di mesi in avanti si è rotto il patto tra PDL e Lega del quale Tremonti era garante nel Governo: in cambio del federalismo (oggi messo seriamente in pericolo, o comunque non più fra le priorità del governo) la Lega Nord si era impegnata a rinunciare alla battaglia per il “secessionismo”.
Battaglia che oggi la Lega con la casacca di partito d’opposizione e ridefinendola per la “indipendenza” ha ripreso, sostenuta dalla considerazione che la condizione socio - economica dei territorio del Nord Ovest, dove registra il suo massimo insediamento, ha un reddito pro - capite e un PIL pari a quello della Germania; il che legittimerebbe quei territori a seguire più le politiche tedesche che quelle dei paesi più deboli dell’Europa.
Mentre il Mezzogiorno è sotto la duplice pressione: un’inedita situazione di disoccupazione e bassi redditi, e la spinta delle rivoluzioni magrebine i cui effetti si riversano soprattutto verso le regioni meridionali, aggravandone la condizione.
Sottosviluppo e inoccupazione diffusa, dunque, (altro che superato il divario!) mettendo a rischio l’unità della nazione e la coesione sociale, posta a fondamento del cambiamento voluto e garantito dal presidente della repubblica Napolitano.
Quando ci riuniremo citeremo tutti i dati: oggi si può anticipare che l’effetto combinato della caduta di competitività e del rallentamento decennale della crescita dell’intero paese della gravissima recessione del 2008-2010, dei profondi tagli lineari realizzati sui grandi servizi pubblici nazionali e delle persistenti difficoltà del bilancio pubblico italiano anche per le nuove norme del Patto di stabilità europeo, della cancellazione delle politiche regionali possono produrre un effetto “catastrofico” per il Mezzogiorno.
Sarebbe il caso, perciò, che i socialisti – e non solo quelli meridionali - riflettessero su tutto questo non relegando il tema in un Ordine del Giorno che nessuno leggerà mai, e di nessuna incidenza nell’azione politica.
di Gianvito Mastroleo
Le valutazioni politiche sul Congresso-Conferenza di programma di Fiuggi le faremo nel Direttivo che speriamo di organizzare quanto prima.
A me preme anticipare due cose.
Il Congresso fu concepito in un clima politico del tutto diverso da quello nel quale si è celebrato; nonostante la buona volontà di Nencini, con la sua buona relazione, l’emergenza del Paese ha fatto premio sui contenuti, soprattutto dibattito e nelle conclusioni tratte nell’attesa dei provvedimenti varati dal Governo nello stesso pomeriggio.
Nella relazione Nencini ha espresso un concetto condivisibile: l’atteggiamento delle forze politiche rispetto ai provvedimenti del Governo determineranno il quadro delle alleanze in vista delle elezioni del 2013: giusto, anzi giustissimo.
Il voto del senatore Vizzini, dunque, e l’atteggiamento del PSI rispetto ai provvedimenti del Governo Monti non può che essere di consenso, ancorchè critico, finanche rispetto al ripristino dell’IMU (ex ICI) per la prima casa: se non si vuole entrare in contraddizione con se stessi, ma soprattutto per non essere confusi con i populismi leghista o dipietrista.
La seconda: non è stato un bene che dalla discussione del Congresso sia rimasto fuori il tema del Mezzogiorno: lo avrebbe richiesto una considerazione politica che mi ero ripromesso di illustrare.
Da un paio di mesi in avanti si è rotto il patto tra PDL e Lega del quale Tremonti era garante nel Governo: in cambio del federalismo (oggi messo seriamente in pericolo, o comunque non più fra le priorità del governo) la Lega Nord si era impegnata a rinunciare alla battaglia per il “secessionismo”.
Battaglia che oggi la Lega con la casacca di partito d’opposizione e ridefinendola per la “indipendenza” ha ripreso, sostenuta dalla considerazione che la condizione socio - economica dei territorio del Nord Ovest, dove registra il suo massimo insediamento, ha un reddito pro - capite e un PIL pari a quello della Germania; il che legittimerebbe quei territori a seguire più le politiche tedesche che quelle dei paesi più deboli dell’Europa.
Mentre il Mezzogiorno è sotto la duplice pressione: un’inedita situazione di disoccupazione e bassi redditi, e la spinta delle rivoluzioni magrebine i cui effetti si riversano soprattutto verso le regioni meridionali, aggravandone la condizione.
Sottosviluppo e inoccupazione diffusa, dunque, (altro che superato il divario!) mettendo a rischio l’unità della nazione e la coesione sociale, posta a fondamento del cambiamento voluto e garantito dal presidente della repubblica Napolitano.
Quando ci riuniremo citeremo tutti i dati: oggi si può anticipare che l’effetto combinato della caduta di competitività e del rallentamento decennale della crescita dell’intero paese della gravissima recessione del 2008-2010, dei profondi tagli lineari realizzati sui grandi servizi pubblici nazionali e delle persistenti difficoltà del bilancio pubblico italiano anche per le nuove norme del Patto di stabilità europeo, della cancellazione delle politiche regionali possono produrre un effetto “catastrofico” per il Mezzogiorno.
Sarebbe il caso, perciò, che i socialisti – e non solo quelli meridionali - riflettessero su tutto questo non relegando il tema in un Ordine del Giorno che nessuno leggerà mai, e di nessuna incidenza nell’azione politica.
Pierpaolo Pecchiari: Sulla manovra
Anche a me, come a molti, negli ultimi anni è toccata in sorte un'attività professionale indipendente al servizio delle piccole e medie imprese.
L'idea che la crescita dimensionale si possa ottenere con aiuti fiscali che consentano una maggiore capitalizzazione delle PMI è una bizzarria, e può essere venuta in mente solo a chi delle aziende da 15-20 dipendenti e 5-10 milioni di fatturato ha una conoscenza indiretta e libresca.
Si tratta di aziende che operano in un mercato interno asfittico, e che non hanno la forza per reggere la concorrenza sui mercati esteri da parte di gruppi che in Germania, Austria e Scandinavia hanno dimensioni e fatturato maggiori di almeno dieci volte.
Tralascio, solo per carità di Patria, ogni ragionamento sui limiti culturali e organizzativi di queste aziende, che purtroppo costituiscono la spina dorsale del nostro settore manufatturiero. Nella maggior parte dei casi, ormai da anni la loro unica strategia competitiva è stata quella di ridurre i costi, insistendo in particolare sul costo del lavoro, e sfruttando al massimo tutte le odiose possibilità offerte da una serie di leggi scellerate in tema di precarizzazione dei rapporti di lavoro.
In linea di massima temo che, in termini di crescita e incremento dell'occupazione, dalle nostre PMI industriali non ci sia da aspettarsi niente di buono. Forse qualche risultato potrebbe ottenersi con la riduzione significativa del cosiddetto "cuneo fiscale", ma è difficile immaginare l'espansione degli organici a fronte di fatturati comunque decrescenti...
A parer mio l'unica politica per la crescita può fondarsi su una conversione del nostro modello di specializzazione industriale, motivata con la necessità di una transizione ad un diverso modello di sviluppo. Green economy, ammodernamento delle reti di telecomunicazioni, intervento radicale sulla mobilità di persone e merci. Una riconversione di questo tipo è giustificata dall'emergenza ambientale, che è sotto i nostri occhi; e deve vedere sforzi che per intensità non hanno nulla di diverso a quelli storicamente fatti, nel secolo scorso, per il passaggio da economie di pace a economie di guerra.
Un passaggio di questo tipo ha buone probabilità di indurre la nascita e la crescita di aziende di medie dimensioni, o il rafforzamento di quelle medio-grandi già esistenti. Purtroppo la possibilità di realizzare questo passaggio dipende dalla presenza di un Europa più forte, in grado di assumere un ruolo in termini di indirizzo delle politiche industriali comuni. Qualcosa che ancora all'orizzonte ancora non si vede.
Altre soluzioni per creare sviluppo e occupazione proprio non sono date.
Che la manovra Monti sia un espediente per imbellettare i nostri conti pubblici e togliere l'Italia dalla posizione di "grande malato" d'Europa pare chiaro anche a me. Per la fretta si sono escogitati interventi caratterizzati - e voglio essere generoso - da una totale mancanza di fantasia.
Il problema è che l'Europa, anche con i nostri conti rimessi in ordine, rimane comunque estremamente vulnerabile. Proprio ieri, mentre in molti si congratulavano per le ritrovate "magnifiche sorti e progressive" d'Italia, gli analisti di S&P - evidentemente poco suggestionabili e ancor meno inclini all'esaltazione temporanea, propria invece degli sprovveduti - preannunciavano un downgrade generalizzato del rating di tutti i paesi europei, anche di quelli che si presentano come più virtuosi. E questa oggi è la notizia principale su tutti i quotidiani della stampa economica europea.
Nel corso delle ultime riunioni del nostro Forum sui temi economici e finanziari, Prini ha più volte cercato di indirizzare la nostra attenzione sul tema degli squilibri nella nostra bilancia dei pagamenti. Il discorso può diventare molto interessante, perché osservando invece di quella italiana la situazione tedesca - caratterizzata da un impressionante surplus - si può capire meglio lo scetticismo delle agenzie di rating e degli investitori istituzionali, che dall'area Euro stanno fuggendo a gambe levate. Purtroppo abbiamo a che fare con squilibri fra i diversi paesi dell'area Euro, che sarà molto difficile ridurre o sanare. Paul Krugman ha osservato come sia impossibile che i paesi del sud Europa - ma non solo loro - rimettano a posto i conti con politiche intrinsecamente recessive ("tagli e tasse") quando il loro partner europeo più forte li sta affossando con politiche commerciali estremamente aggressive (il 60-70% dell'export tedesco è in Europa, altro che BRICS o paesi emergenti!).
Qui non è più questione di deficit dovuto a spesa pubblica eccessiva per sostenere lo stato sociale: questa idea, così diffusa nella vulgata corrente, non ha alcun rapporto con la realtà, come ancora Krugman dimostra.
Se c'è qualcosa di buono nella manovra Monti è che adesso siamo legittimati a sostenere in sede europea - con una credibilità che il barzellettiere-puttaniere-fantasista di Arcore non poteva avere - le tesi illustrate da Amato e Prodi nel loro intervento congiunto di oggi sul Sole 24 Ore. Che sostanzialmente tornano alla carica su Eurobond e, addirittura, su "mutualizzazione temporanea del debito degli Stati membri al di là del 60% del Pil, con l'obiettivo di una riduzione progressiva dello stock e nella prospettiva della creazione di un Fondo monetario europeo". Proprio le cose di cui la Merkel e la Germania non vogliono nemmeno sentir parlare, come si è capito dal bilaterale di ieri in Francia. Sempre Amato e Prodi - in questo riprendendo alcuni ragionamenti di Monti di ieri, e quindi mostrando una certa unicità di intenti dell'establishment politico ed economico-finanziario italiano - stigmatizzano accordi bilaterali, intergovernativi o interni all'area Euro: l'Europa o marcia unita o si dissolve. Di nuovo, il contrario esatto di quanto sta chiedendo la Germania - una revisione rapida dei trattati tra i 24 non può essere data, quindi spinta su accordi intergovernativi multilaterali.
In sostanza pare che ci si appresti a usare una ritrovata credibilità internazionale per metterci significativamente di traverso rispetto ai disegni della Merkel e del suo involontario compagno di strada Sarkozy. Se così fosse, varrebbe la pena di resuscitare il vecchio detto per cui Parigi (o Bruxelles) val bene una messa (o il pianto greco della Fornero).
Auguriamoci che Monti e i suoi sappiano muoversi al meglio nelle sabbie mobili di Bruxelles e Strasburgo. In caso contrario, il giudizio su una manovra oggettivamente iniqua, che oggi può trovare estimatori solo tra i frequentatori del Billionaire di Briatore, sarebbe reso ancora più pesante dalla constatazione della sua sostanziale inutilità.
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1) L'incisivo commento di Krugman ai dati sul surplus commerciale tedesco (http://krugman.blogs.nytimes.com/2011/12/05/lake-wobegon-europe/)
2) L'altrettanto pungente commento di Krugman ai dati che dimostrano lìassenza di qualsiasi relazione tra livello della spesa pubblica e tasso di interesse sui titoli di stato decennali per io diversi paesi europei (http://krugman.blogs.nytimes.com/2011/12/05/no-its-not-the-welfare-state/)
3) la lettera congiunta di Prodi e Amato a Monti, in vista dei prossimi vertici europei http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-12-06/caro-mario-italia-molli-063604.shtml?uuid=AaebYkRE
L'idea che la crescita dimensionale si possa ottenere con aiuti fiscali che consentano una maggiore capitalizzazione delle PMI è una bizzarria, e può essere venuta in mente solo a chi delle aziende da 15-20 dipendenti e 5-10 milioni di fatturato ha una conoscenza indiretta e libresca.
Si tratta di aziende che operano in un mercato interno asfittico, e che non hanno la forza per reggere la concorrenza sui mercati esteri da parte di gruppi che in Germania, Austria e Scandinavia hanno dimensioni e fatturato maggiori di almeno dieci volte.
Tralascio, solo per carità di Patria, ogni ragionamento sui limiti culturali e organizzativi di queste aziende, che purtroppo costituiscono la spina dorsale del nostro settore manufatturiero. Nella maggior parte dei casi, ormai da anni la loro unica strategia competitiva è stata quella di ridurre i costi, insistendo in particolare sul costo del lavoro, e sfruttando al massimo tutte le odiose possibilità offerte da una serie di leggi scellerate in tema di precarizzazione dei rapporti di lavoro.
In linea di massima temo che, in termini di crescita e incremento dell'occupazione, dalle nostre PMI industriali non ci sia da aspettarsi niente di buono. Forse qualche risultato potrebbe ottenersi con la riduzione significativa del cosiddetto "cuneo fiscale", ma è difficile immaginare l'espansione degli organici a fronte di fatturati comunque decrescenti...
A parer mio l'unica politica per la crescita può fondarsi su una conversione del nostro modello di specializzazione industriale, motivata con la necessità di una transizione ad un diverso modello di sviluppo. Green economy, ammodernamento delle reti di telecomunicazioni, intervento radicale sulla mobilità di persone e merci. Una riconversione di questo tipo è giustificata dall'emergenza ambientale, che è sotto i nostri occhi; e deve vedere sforzi che per intensità non hanno nulla di diverso a quelli storicamente fatti, nel secolo scorso, per il passaggio da economie di pace a economie di guerra.
Un passaggio di questo tipo ha buone probabilità di indurre la nascita e la crescita di aziende di medie dimensioni, o il rafforzamento di quelle medio-grandi già esistenti. Purtroppo la possibilità di realizzare questo passaggio dipende dalla presenza di un Europa più forte, in grado di assumere un ruolo in termini di indirizzo delle politiche industriali comuni. Qualcosa che ancora all'orizzonte ancora non si vede.
Altre soluzioni per creare sviluppo e occupazione proprio non sono date.
Che la manovra Monti sia un espediente per imbellettare i nostri conti pubblici e togliere l'Italia dalla posizione di "grande malato" d'Europa pare chiaro anche a me. Per la fretta si sono escogitati interventi caratterizzati - e voglio essere generoso - da una totale mancanza di fantasia.
Il problema è che l'Europa, anche con i nostri conti rimessi in ordine, rimane comunque estremamente vulnerabile. Proprio ieri, mentre in molti si congratulavano per le ritrovate "magnifiche sorti e progressive" d'Italia, gli analisti di S&P - evidentemente poco suggestionabili e ancor meno inclini all'esaltazione temporanea, propria invece degli sprovveduti - preannunciavano un downgrade generalizzato del rating di tutti i paesi europei, anche di quelli che si presentano come più virtuosi. E questa oggi è la notizia principale su tutti i quotidiani della stampa economica europea.
Nel corso delle ultime riunioni del nostro Forum sui temi economici e finanziari, Prini ha più volte cercato di indirizzare la nostra attenzione sul tema degli squilibri nella nostra bilancia dei pagamenti. Il discorso può diventare molto interessante, perché osservando invece di quella italiana la situazione tedesca - caratterizzata da un impressionante surplus - si può capire meglio lo scetticismo delle agenzie di rating e degli investitori istituzionali, che dall'area Euro stanno fuggendo a gambe levate. Purtroppo abbiamo a che fare con squilibri fra i diversi paesi dell'area Euro, che sarà molto difficile ridurre o sanare. Paul Krugman ha osservato come sia impossibile che i paesi del sud Europa - ma non solo loro - rimettano a posto i conti con politiche intrinsecamente recessive ("tagli e tasse") quando il loro partner europeo più forte li sta affossando con politiche commerciali estremamente aggressive (il 60-70% dell'export tedesco è in Europa, altro che BRICS o paesi emergenti!).
Qui non è più questione di deficit dovuto a spesa pubblica eccessiva per sostenere lo stato sociale: questa idea, così diffusa nella vulgata corrente, non ha alcun rapporto con la realtà, come ancora Krugman dimostra.
Se c'è qualcosa di buono nella manovra Monti è che adesso siamo legittimati a sostenere in sede europea - con una credibilità che il barzellettiere-puttaniere-fantasista di Arcore non poteva avere - le tesi illustrate da Amato e Prodi nel loro intervento congiunto di oggi sul Sole 24 Ore. Che sostanzialmente tornano alla carica su Eurobond e, addirittura, su "mutualizzazione temporanea del debito degli Stati membri al di là del 60% del Pil, con l'obiettivo di una riduzione progressiva dello stock e nella prospettiva della creazione di un Fondo monetario europeo". Proprio le cose di cui la Merkel e la Germania non vogliono nemmeno sentir parlare, come si è capito dal bilaterale di ieri in Francia. Sempre Amato e Prodi - in questo riprendendo alcuni ragionamenti di Monti di ieri, e quindi mostrando una certa unicità di intenti dell'establishment politico ed economico-finanziario italiano - stigmatizzano accordi bilaterali, intergovernativi o interni all'area Euro: l'Europa o marcia unita o si dissolve. Di nuovo, il contrario esatto di quanto sta chiedendo la Germania - una revisione rapida dei trattati tra i 24 non può essere data, quindi spinta su accordi intergovernativi multilaterali.
In sostanza pare che ci si appresti a usare una ritrovata credibilità internazionale per metterci significativamente di traverso rispetto ai disegni della Merkel e del suo involontario compagno di strada Sarkozy. Se così fosse, varrebbe la pena di resuscitare il vecchio detto per cui Parigi (o Bruxelles) val bene una messa (o il pianto greco della Fornero).
Auguriamoci che Monti e i suoi sappiano muoversi al meglio nelle sabbie mobili di Bruxelles e Strasburgo. In caso contrario, il giudizio su una manovra oggettivamente iniqua, che oggi può trovare estimatori solo tra i frequentatori del Billionaire di Briatore, sarebbe reso ancora più pesante dalla constatazione della sua sostanziale inutilità.
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1) L'incisivo commento di Krugman ai dati sul surplus commerciale tedesco (http://krugman.blogs.nytimes.com/2011/12/05/lake-wobegon-europe/)
2) L'altrettanto pungente commento di Krugman ai dati che dimostrano lìassenza di qualsiasi relazione tra livello della spesa pubblica e tasso di interesse sui titoli di stato decennali per io diversi paesi europei (http://krugman.blogs.nytimes.com/2011/12/05/no-its-not-the-welfare-state/)
3) la lettera congiunta di Prodi e Amato a Monti, in vista dei prossimi vertici europei http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-12-06/caro-mario-italia-molli-063604.shtml?uuid=AaebYkRE
Paolo Borioni: Ma la flexsecurity non è soltanto maggior flessibilità
http://m.friendfeed-media.com/d9dad44bb5bd330a2c823390a21a73558c3daa6e
Peppe Giudice: Una ferma opposizione alla manovra, ma su un progetto socialdemocratico
.Una ferma opposizione alla manovra, ma su un progetto socialdemocratico
Credo che nessuno di noi si aspettasse miracoli da Monti. Ma le misure prese sono molto più inique e squilibrate socialmente di quello che forse qualcuno si aspettava. E’ una manovra che colpisce, per far cassa, la parte più debole del paese, quella che ha già pagato tanto in termini di riduzione di diritti sociali, di precarietà, di abbassamento del tenore di vita. Non c’è traccia di una vera imposta patrimoniale che vada a riequilibrare il dato vergognoso di un 10% della popolazione che è in possesso del 45% della ricchezza.
E’ una manovra recessiva (e questo non farà che ri-scatenare la speculazione), che mette il paese in ginocchio.
Quindi i socialisti non possono che stare in prima fila contro questa politica. Ma ci devono stare non per fare la solita lagna di sinistra che non serve a niente, ma per aiutare a dare uno sbocco positivo nel senso della costruzione di un progetto di riformismo forte socialista alla deriva attuale.
Per questo oggi è essenziale il pieno sostegno alla CGIL della compagna Camusso perché è l’unico punto di riferimento di chi vuole fare una battaglia di sinistra; ma non di una sinistra qualunque: di una sinistra incardinata in una prospettiva di socialismo democratico. Per questo motivo occorre che il malcontento non sia gestito da forze demagogiche (Lega e Di Pietro) e che SeL si mobiliti (pur con i suoi limiti organizzativi) a sostegno della Cgil.
Ma al tempo stesso occorre costruire un rapporto serio con l’ala del PD che certo non si entusiasma per Monti. Penso non solo a Fassina, ma anche a Damiano.
Stamattina un autorevole dirigente del PD mi diceva che comunque difficilmente il partito uscirà indenne da questa fase che ridisegna probabilmente la geografia politica nazionale.
Insomma il governo Monti accentua la crisi e le profonde contraddizioni del PD.
Ho sempre detto che la rottura del PD è la via maestra per ricostruire una sinistra con una chiara identità socialista democratica, con il grosso di SeL e l’area socialista dispersa.
Ma dobbiamo riconoscere che la situazione attuale è il corollario di una profonda crisi della politica che ha caratterizzato tutta la II Repubblica; non solo per colpa del centrodestra, ma anche del centrosinistra.
Alla fine degli anni 80 avevamo in Italia una sinistra al 45% (solo la somma tra PCI e PSI giungeva al 41%). Nel 1996 (vittoria dell’Ulivo) la sinistra era al 30% (-15 rispetto a dieci anni prima). Nel 2006 era al 25%. La scomparsa del Psi si è sentita eccome, insieme alla migrazione a destra di vasti settori di elettorato popolare ed operaio.
Il carattere moderato e centrista del CS di Prodi e D’Alema è in larga parte frutto di questo declino inarrestabile della sinistra politica. Si cercò di porre rimedio a questo declino con la “Cosa 2”. Ma il suo aborto paradossalmente spinse sempre di più i Ds verso quella deriva centrista che ha poi dato origine al PD.
Ma tale deriva è stata favorita dall’assenza di un progetto seriamente socialdemocratico. L’alternativa alla deriva a destra dei Ds infatti è stata rappresentata dal bertinottismo. E dalla subcultura che ha prodotto: un sinistrismo movimentista senza progetto, fondato sulla proiezione mediatica del leader (e quindi su una personalizzazione esasperata), che esiste e si riproduce solo per denunziare la magagne dei “riformisti” . Intendiamoci di questo sinistrismo è stato interprete non solo Bertinotti, ma su altri piani, i “girotondini” , i verdi di Pecoraro Scanio.
Insomma centrismo strisciante veltroniano e sinistrismo insieme hanno congiurato per liquidare ogni prospettiva di sinistra di governo.
Per cui nel 2008 abbiamo da un lato il PD a “vocazione maggioritaria” (che però si carica Di Pietro) e dall’altro il confuso sinistrismo dell’Arcobaleno. La disfatta della sinistra era inevitabile.
L’esperienza storica serve anche per non commettere gli stessi errori. Per ricostruire una sinistra di governo nel socialismo europeo (dopo mi soffermerò) si dovrà uscire dai circoli viziosi del passato recente.
Oggi il PD ha una componente moderata molto forte. In essa non ci sono solo gli ex DC , ma una parte considerevole di post-comunisti: Veltroni, Morando, Ichino, Fassino, più D’Alema ed i suoi fedelissimi (soprattutto al sud). La feudalizzazione del partito (dove governa soprattutto) ha prodotto al demo cristianizzazione di fatto di molti post-comunisti. Così come sono molti (ma già l’abbiamo visto) gli ex comunisti diventati “liberal”.
Questa area centrista del PD (insieme al III Polo) è quella più entusiasta del governo Monti, perché esso favorisce l’aggregazione di una grande forza centrale (la DC del XXI secolo) arbitro della politica.
Le difficoltà di Bersani si comprendono. Se si arrivasse ad una scissione nel PD, l’ala sinistra non prenderebbe più del 15% dei voti. Sommati a quelli di SeL si arriverebbe intorno al 20% (faccio proiezioni molto arbitrarie sia ben chiaro). Ma probabilmente oggi tanto è il peso della sinistra. Se comunque questa nuova sinistra nasce su un chiaro progetto socialdemocratico avrebbe la capacità di espanderli partendo da una base non proprio disprezzabile.
Abbandonando la fanta-politica, è comunque evidente che se la sinistra del PD (Bersani, Damiano, Fassina) non desse battaglia proprio ora, essa verrebbe risucchiata in un vortice da cui sarebbe impossibile uscire fuori.
Ma si può aiutare questa parte del PD se ci si impegna (e SeL dovrebbe farlo in prima persona) in direzione del PSE. Ho già parlato della convenzione del Pse a Bruxelles e della conferma del pieno superamento del blairismo. E del chiaro ritorno di un progetto socialdemocratico.
I problemi che abbiamo di fronte sono di natura europea e solo a livello sovranazionale possono essere affrontati e risolti alla radice. Oggi il Pse è l’unica forza della sinistra in grado di costruire una alternativa organica al neoliberismo su scala continentale. La sinistra neocomunista è archeologia; altre forze della sinistra radicale rappresentano anche pezzi importanti di società (in alcuni paesi), ma hanno vocazione minoritaria, possono essere alleati ma è difficile prospettare una strategia comune.
In SeL ho visto pezzi importanti dare grosso significato all’adesione al Pse. Altri sono recalcitranti ed ancora pensano di poter costruire arcobaleni. Altri vogliono le elezioni subito (e magari con questa legge) perché pensano di poter essere eletti in parlamento.
Vendola è persona saggia e sa che è più importante ricostruire la sinistra che approfittare di un vantaggio virtuale.
Ma anche lui deve sciogliere il nodo Pse nel più breve tempo possibile. Proprio per stanare e stimolare la sinistra del PD. Da questo punto di vista io ed altri compagni (per quel che può valere); socialisti iscritti a seL ci faremo promotori di un documento dei socialisti in SeL per chiedere l’adesione del partito al PSE.
E comunque la situazione attuale richiede che quel patto di unità di azione tra le associazioni dei socialisti di sinistra sia al più presto attivato.
PEPPE GIUDICE
Credo che nessuno di noi si aspettasse miracoli da Monti. Ma le misure prese sono molto più inique e squilibrate socialmente di quello che forse qualcuno si aspettava. E’ una manovra che colpisce, per far cassa, la parte più debole del paese, quella che ha già pagato tanto in termini di riduzione di diritti sociali, di precarietà, di abbassamento del tenore di vita. Non c’è traccia di una vera imposta patrimoniale che vada a riequilibrare il dato vergognoso di un 10% della popolazione che è in possesso del 45% della ricchezza.
E’ una manovra recessiva (e questo non farà che ri-scatenare la speculazione), che mette il paese in ginocchio.
Quindi i socialisti non possono che stare in prima fila contro questa politica. Ma ci devono stare non per fare la solita lagna di sinistra che non serve a niente, ma per aiutare a dare uno sbocco positivo nel senso della costruzione di un progetto di riformismo forte socialista alla deriva attuale.
Per questo oggi è essenziale il pieno sostegno alla CGIL della compagna Camusso perché è l’unico punto di riferimento di chi vuole fare una battaglia di sinistra; ma non di una sinistra qualunque: di una sinistra incardinata in una prospettiva di socialismo democratico. Per questo motivo occorre che il malcontento non sia gestito da forze demagogiche (Lega e Di Pietro) e che SeL si mobiliti (pur con i suoi limiti organizzativi) a sostegno della Cgil.
Ma al tempo stesso occorre costruire un rapporto serio con l’ala del PD che certo non si entusiasma per Monti. Penso non solo a Fassina, ma anche a Damiano.
Stamattina un autorevole dirigente del PD mi diceva che comunque difficilmente il partito uscirà indenne da questa fase che ridisegna probabilmente la geografia politica nazionale.
Insomma il governo Monti accentua la crisi e le profonde contraddizioni del PD.
Ho sempre detto che la rottura del PD è la via maestra per ricostruire una sinistra con una chiara identità socialista democratica, con il grosso di SeL e l’area socialista dispersa.
Ma dobbiamo riconoscere che la situazione attuale è il corollario di una profonda crisi della politica che ha caratterizzato tutta la II Repubblica; non solo per colpa del centrodestra, ma anche del centrosinistra.
Alla fine degli anni 80 avevamo in Italia una sinistra al 45% (solo la somma tra PCI e PSI giungeva al 41%). Nel 1996 (vittoria dell’Ulivo) la sinistra era al 30% (-15 rispetto a dieci anni prima). Nel 2006 era al 25%. La scomparsa del Psi si è sentita eccome, insieme alla migrazione a destra di vasti settori di elettorato popolare ed operaio.
Il carattere moderato e centrista del CS di Prodi e D’Alema è in larga parte frutto di questo declino inarrestabile della sinistra politica. Si cercò di porre rimedio a questo declino con la “Cosa 2”. Ma il suo aborto paradossalmente spinse sempre di più i Ds verso quella deriva centrista che ha poi dato origine al PD.
Ma tale deriva è stata favorita dall’assenza di un progetto seriamente socialdemocratico. L’alternativa alla deriva a destra dei Ds infatti è stata rappresentata dal bertinottismo. E dalla subcultura che ha prodotto: un sinistrismo movimentista senza progetto, fondato sulla proiezione mediatica del leader (e quindi su una personalizzazione esasperata), che esiste e si riproduce solo per denunziare la magagne dei “riformisti” . Intendiamoci di questo sinistrismo è stato interprete non solo Bertinotti, ma su altri piani, i “girotondini” , i verdi di Pecoraro Scanio.
Insomma centrismo strisciante veltroniano e sinistrismo insieme hanno congiurato per liquidare ogni prospettiva di sinistra di governo.
Per cui nel 2008 abbiamo da un lato il PD a “vocazione maggioritaria” (che però si carica Di Pietro) e dall’altro il confuso sinistrismo dell’Arcobaleno. La disfatta della sinistra era inevitabile.
L’esperienza storica serve anche per non commettere gli stessi errori. Per ricostruire una sinistra di governo nel socialismo europeo (dopo mi soffermerò) si dovrà uscire dai circoli viziosi del passato recente.
Oggi il PD ha una componente moderata molto forte. In essa non ci sono solo gli ex DC , ma una parte considerevole di post-comunisti: Veltroni, Morando, Ichino, Fassino, più D’Alema ed i suoi fedelissimi (soprattutto al sud). La feudalizzazione del partito (dove governa soprattutto) ha prodotto al demo cristianizzazione di fatto di molti post-comunisti. Così come sono molti (ma già l’abbiamo visto) gli ex comunisti diventati “liberal”.
Questa area centrista del PD (insieme al III Polo) è quella più entusiasta del governo Monti, perché esso favorisce l’aggregazione di una grande forza centrale (la DC del XXI secolo) arbitro della politica.
Le difficoltà di Bersani si comprendono. Se si arrivasse ad una scissione nel PD, l’ala sinistra non prenderebbe più del 15% dei voti. Sommati a quelli di SeL si arriverebbe intorno al 20% (faccio proiezioni molto arbitrarie sia ben chiaro). Ma probabilmente oggi tanto è il peso della sinistra. Se comunque questa nuova sinistra nasce su un chiaro progetto socialdemocratico avrebbe la capacità di espanderli partendo da una base non proprio disprezzabile.
Abbandonando la fanta-politica, è comunque evidente che se la sinistra del PD (Bersani, Damiano, Fassina) non desse battaglia proprio ora, essa verrebbe risucchiata in un vortice da cui sarebbe impossibile uscire fuori.
Ma si può aiutare questa parte del PD se ci si impegna (e SeL dovrebbe farlo in prima persona) in direzione del PSE. Ho già parlato della convenzione del Pse a Bruxelles e della conferma del pieno superamento del blairismo. E del chiaro ritorno di un progetto socialdemocratico.
I problemi che abbiamo di fronte sono di natura europea e solo a livello sovranazionale possono essere affrontati e risolti alla radice. Oggi il Pse è l’unica forza della sinistra in grado di costruire una alternativa organica al neoliberismo su scala continentale. La sinistra neocomunista è archeologia; altre forze della sinistra radicale rappresentano anche pezzi importanti di società (in alcuni paesi), ma hanno vocazione minoritaria, possono essere alleati ma è difficile prospettare una strategia comune.
In SeL ho visto pezzi importanti dare grosso significato all’adesione al Pse. Altri sono recalcitranti ed ancora pensano di poter costruire arcobaleni. Altri vogliono le elezioni subito (e magari con questa legge) perché pensano di poter essere eletti in parlamento.
Vendola è persona saggia e sa che è più importante ricostruire la sinistra che approfittare di un vantaggio virtuale.
Ma anche lui deve sciogliere il nodo Pse nel più breve tempo possibile. Proprio per stanare e stimolare la sinistra del PD. Da questo punto di vista io ed altri compagni (per quel che può valere); socialisti iscritti a seL ci faremo promotori di un documento dei socialisti in SeL per chiedere l’adesione del partito al PSE.
E comunque la situazione attuale richiede che quel patto di unità di azione tra le associazioni dei socialisti di sinistra sia al più presto attivato.
PEPPE GIUDICE
lunedì 5 dicembre 2011
Claudio Bellavita: Tre spunti di riflessione sulla crisi
Invece di un articolone sistematico e lunghissimo offro tre argomenti su cui qualcuno può provare a ragionare, probabilmente meglio di me
- il margine di sfruttamento sui consumatori ha superato di molto, in quasi tutto il mondo, quello sui lavoratori: è una faccenda meritevole di qualche riflessione teorica per una rifondazione della sinistra, anche perché siamo tutti consumatori mentre i lavoratori dipendenti, per lo meno in occidente, sono una minoranza, forse neanche la più grande.
E non è un caso che il movimento in difesa dei beni comuni raccolga tanta partecipazione volontaria nonostante l'ostilità della stampa e dei partiti.
La politica non ha ancora affrontato il problema, ma la finanza si, e con la bolla del credito al consumo basato alla fine sull'allargamento dei mutui sulla bolla edilizia, ha fatto detonare la crisi finanziaria in cui ci troviamo e da cui certo non si esce riducendo i consumi con misure di austerità
-mentre in Europa ci scontriamo con la cocciutaggine tedesca di non trattare l'euro come tutte le altre monete del mondo fanno per difendersi dalle speculazioni, sempre dall'Europa non partono neanche richieste di mettere sotto controllo internazionale i nuovi prodotti finanziari, che di fatto creano moneta fittizia per chi vuol speculare sulle merci, sulle valute e sui debiti.
Mentre la creazione di moneta a mezzo di credito bancario è attentamente vigilata dalle banche centrali di ogni paese, dalla BCE e dalle regole di Basilea., i futures, i derivati, gli swaps, i cds (credit default swaps) non hanno regole condivise e accettate, ogni borsa, banca e assicurazione si regola come gli pare , e nessuna agenzia si sogna di assegnare un rating ai loro stimati clienti che stan bidonando il mondo.
Anzi, dopo che l'ondata della Thatcher e di Bush ha lanciato lo slogan "più mercato meno stato", fino ad arrivare alle parole d'ordine demenziali dei tea party, il sistema finanziario mondiale si preoccupa di più di tenere in piedi le banche e gli assicuratori che hanno corso rischi esagerati piuttosto che gli stati che han speso troppo in stipendi e Welfare. E' questo il mondo che vogliamo?
-il provincialismo della sinistra italiana, che rifiuta le periodiche occasioni di incontro a livello europeo, ha fatto si che gli amministratori dei nostri enti locali siano stati i più polli d'Europa a farsi riempire di derivati. Ma erano tanto di moda, gli spacciatori sono stati scambiati per "società civile" e vezzeggiati, figuriamoci farsi spiegare bene da un terzo professionista neutrale cosa c'era scritto nei loro contratti...
Bastava che qualche sindaco chiedesse ai suoi colleghi di Francia, Germania e soprattutto Scandinavia come si, regolavano loro, forse avrebbe trovato qualcuno che rispondeva "io avverto i carabinieri"....
- il margine di sfruttamento sui consumatori ha superato di molto, in quasi tutto il mondo, quello sui lavoratori: è una faccenda meritevole di qualche riflessione teorica per una rifondazione della sinistra, anche perché siamo tutti consumatori mentre i lavoratori dipendenti, per lo meno in occidente, sono una minoranza, forse neanche la più grande.
E non è un caso che il movimento in difesa dei beni comuni raccolga tanta partecipazione volontaria nonostante l'ostilità della stampa e dei partiti.
La politica non ha ancora affrontato il problema, ma la finanza si, e con la bolla del credito al consumo basato alla fine sull'allargamento dei mutui sulla bolla edilizia, ha fatto detonare la crisi finanziaria in cui ci troviamo e da cui certo non si esce riducendo i consumi con misure di austerità
-mentre in Europa ci scontriamo con la cocciutaggine tedesca di non trattare l'euro come tutte le altre monete del mondo fanno per difendersi dalle speculazioni, sempre dall'Europa non partono neanche richieste di mettere sotto controllo internazionale i nuovi prodotti finanziari, che di fatto creano moneta fittizia per chi vuol speculare sulle merci, sulle valute e sui debiti.
Mentre la creazione di moneta a mezzo di credito bancario è attentamente vigilata dalle banche centrali di ogni paese, dalla BCE e dalle regole di Basilea., i futures, i derivati, gli swaps, i cds (credit default swaps) non hanno regole condivise e accettate, ogni borsa, banca e assicurazione si regola come gli pare , e nessuna agenzia si sogna di assegnare un rating ai loro stimati clienti che stan bidonando il mondo.
Anzi, dopo che l'ondata della Thatcher e di Bush ha lanciato lo slogan "più mercato meno stato", fino ad arrivare alle parole d'ordine demenziali dei tea party, il sistema finanziario mondiale si preoccupa di più di tenere in piedi le banche e gli assicuratori che hanno corso rischi esagerati piuttosto che gli stati che han speso troppo in stipendi e Welfare. E' questo il mondo che vogliamo?
-il provincialismo della sinistra italiana, che rifiuta le periodiche occasioni di incontro a livello europeo, ha fatto si che gli amministratori dei nostri enti locali siano stati i più polli d'Europa a farsi riempire di derivati. Ma erano tanto di moda, gli spacciatori sono stati scambiati per "società civile" e vezzeggiati, figuriamoci farsi spiegare bene da un terzo professionista neutrale cosa c'era scritto nei loro contratti...
Bastava che qualche sindaco chiedesse ai suoi colleghi di Francia, Germania e soprattutto Scandinavia come si, regolavano loro, forse avrebbe trovato qualcuno che rispondeva "io avverto i carabinieri"....
domenica 4 dicembre 2011
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