Mi complimento vivamente con Peppe Giudice, come al solito lucidissimo nelle sue analisi. La questione dell'ideologia effettivamente è centrale se si vuole tentare di far risorgere partiti degni di questo nome, una politica degna di questo nome. Sperando di non annoiare troppo i compagni del PD (ma la battaglia dovrebbe essere anche la loro, anzi soprattutto la loro !), ricordo che l'errore di fondo che ha portato a generare quel partito non è stato quello di puntare ad un'unione tra diversi - laici e clericali, rappresentanza sociale del lavoro e rappresentanza sociale dell'imprenditoria, sinistra e centro .... - bensì quello di farlo senza avere costruito (ammesso e non concesso che fosse possibile) una piattaforma ideologica sia pur minima che tenesse insieme quei diversi. Si è preferita la scorciatoia, la furbata, di sostenere che da questo si potesse prescindere, assumendo il dogma post-ideologico di cui parla Giudice. Il problema è che, così come in natura vi è l'horror vacui, in politica vi è l'impossibilità di fare a meno di un sistema di principi e valori per interpretare la realtà. Dunque chi afferma di non avere alcuna ideologia, anche se non se ne accorge non opera in assenza di ideologie, ma mutua necessariamente le ideologie altrui. Con l'aggravante, in questo caso, di negare perfino che di ideologia si tratti e di scambiare dunque per leggi naturali indiscutibili i dogmi del pensiero dominante, lasciando atrofizzare ogni capacità critica. Se di questo processo perverso fosse rimasto vittima solo il nostro particolare orgoglio di vetero socialdemocratici la cosa sarebbe evidentemente irrilevante per il resto del mondo. Il problema è che la vera vittima è l'autonomia della politica. E con la fine prossima dell'era berlusconiana, in un inquietante scenario di recessione, i nodi stanno venendo al pettine. Siamo ridotti così male che resta quasi solo la speranza nella "divina provvidenza", e cioè in una riunificazione dei cattolici democratici centristi che obblighi tutti quanti a disaggregarsi e riaggregarsi secondo logiche politiche di qualche solidità. Ebbene sì: voto per Vendola, ma in questo momento spero in Casini.
Bravissimo Beppe Giudice ed anche Luciano Belli Paci. A loro un vivo grazie. Di molte delle loro tesi ero da tempo convinto, di altre avevo una confusa coscienza, ma non una chiara consapevolezza. Penso che l'impianto logico delineato sia un imprescindibile punto di partenza per i veri progressisti. Cari saluti. Giovanni Baccalini
Concordo con il riconoscimento a Peppe Giudice, e faccio mia la sua conclusione: "è essenziale che chi nel centro-sinistra crede in uno sbocco socialdemocratico alla crisi della sinistra possa e debba far massa critica nel dibattito interno al di là dei partiti di appartenenza".
Discordo invece dalla visione di Belli Paci. Credo che, non a caso, abbiamo visioni diverse della funzione del partito oggi - di qualunque partito ed in particolare del PD.
Occorrerebbe scrivere un trattato su questo punto, perdonerete la sintesi affrettata.
Nelle società articolate, a ciascun ruolo sociale (*) corrispondono specifici "interessi di ruolo" e questi hanno il pieno diritto di esprimersi nella azione politica; il riconoscimento di questo diritto è la base di qualunque atteggiamento liberale. Il partito è lo strumento organizzativo attraverso il quale una coalizione di interessi si organizza stabilmente per raggiungere scopi condivisi di medio termine. La definizione data chiarisce che il partito di cui stiamo parlando non è un partito ideologico, giustificato da una comunanza di valori profondi: si tratta invece di un partito di progetto, fondato su una comunanza di obbiettivi politici; ad esso possono aderire persone i cui sistemi di valori di riferimento siano anche significativamente diversi.
Non c'è bisogno quindi che il partito (es il PD) abbia una piattaforma ideologica, che vada al di là di alcune scelte di campo generalissime. C'è bisogno, invece, che la abbiano, ben forte e salda, i singoli aderenti. Personalmente, sono pienamente d'accordo con le affermazioni di Giudice e di Belli Paci circa il dogma post ideologico, l'ideologia del superamento delle ideologie, l'atrofizzazione della capacità critica, ecc. E, dentro il PD, questa è una battaglia aperta, che si combatte ogni giorno.
Ma, proprio per questo, se uno si ferma a fare un bilancio, dovrebbe chiedersi: cosa ho contribuito a FAR SUCCEDERE di utile? Credo che il dovere politico di ciascuno sia valutare quale sia lo strumento più utile per avvicinarsi alla realizzazione dei suoi obbiettivi, in accordo con i suoi valori.
Pare che la scelta di molti, invece, sia scegliere l'ambiente politico ove, con più chiarezza e purezza, vengono affermati i propri valori (evitando anche di essere infastiditi dalla vicinanza della Bindi, ecc). Ma serve a qualcosa?
caro paolo tu scrivi:"Il partito è lo strumento organizzativo attraverso il quale una coalizione di interessi si organizza stabilmente per raggiungere scopi condivisi di medio termine. La definizione data chiarisce che il partito di cui stiamo parlando non è un partito ideologico, giustificato da una comunanza di valori profondi: si tratta invece di un partito di progetto, fondato su una comunanza di obbiettivi politici" la costatazione mia è che il pd non riesce da quando è nato a comunicare il suo progetto e i suoi obiettivi politici,neppure ora in mezzo a una crisi drammatica.il mio dubbio è che questa incapacità derivi proprio dalla mancanza di una comunanza di valori di fondo(o se preferisci da una ideologia nel senso positivo del termine).Da qui il peso inerziale della ideologia già disponibile nell'ambiente,il cosiddetto pensiero unico.Come appunto dice Luciano.
Al contrario io penso che, senza un presupposto alto e chiaro di valori e di principi, le forze politiche finiscono per inciampare e aggrovigliarsi nelle proprie stesse premesse, come accade di continuo ed inevitabilmente al PD. Cari saluti. Giovanni Baccalini
Come quasi sempre sono d'accordo con Giovanni. Penso fermamente che se non diciamo chiaro (anche a noi stessi) cosa vogliamo, non se ne esce. Poi magari sbagi e devi correggerti, non sulle cose centrali però G
Avrei voglia di scrivere tante cose su quanto avete molto bene detto; provo a dire due cose sinteticamente, e con leggerezza, sperando che non venga fraintesa.
1. Il problema del pd nel non saper dire soluzioni sulla crisi drammatica che stiamo vivendo per mancanza di valori comuni, di un'ideologia condivisa (Turci e altri, mi pare): non è per difendere una squadra da cui anche io mi sento spesso lontano, ma mi pare che il problema sia comune a una buona fetta di globo terracqueo (non ho notizie delle discussioni economiche su Marte, ma fonti di intelligence mi dicono che anche lì non sono messi tanto bene...) Al momento attuale, chi sta proponendo una soluzione alla crisi attuale? Starebbe forse nella mitica parola "eurobond"? ne dubito...(http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it/2011/06/13/cambiamo_leuropa_un_appello_su.html) Ritroviamo Keynes? Ammesso e non concesso che le soluzioni di stampo keynesiano siano ripetibili, sono esse effettivamente risolutive, in questo momento? Personalmente dubito anche di questo, ma può essere un mio limite. In ogni caso, la/le soluzione/i a questa crisi sono molto più lente, molto più "prova-verifica-correggi - riprova", "un non esaltante processo di avanzamenti, rallentamenti e aggiustamenti", lo definisce Giuliano Amato in un articolo sul Sole24Ore; l'orizzonte deve certo essere quello della "economia sociale di mercato", ma anche questa formula va riempita di contenuti e concretizzata, tanto che - in modi molto diversi - viene utilizzata sia da Mario Monti che Giulio Tremonti (ne ho parlato qui più distesamente; Mario Monti lo trovate qui: http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it/2009/02/01/legoismo_delle_nazioni.html e qui http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it/2008/08/22/economia_sociale_di_mercato.html; scusate l'ineleganza di citare il mio blog, ma è semplicemente perché ritrovo più facilmente alcuni materiali...). Facile dire che i manchiamo di valori condivisi, che siamo vuoti di idee e cultura (cari compagni laici, vi siete accorti di quanto assomigliate ai preti, quando parlate così? Si fa per ridere, ma ve lo dice uno esperto del settore... ;-) Qualche proposta più concreta, che non sia il richiamo all'Islanda? (http://www.giornalettismo.com/archives/136541/il-modello-islandese-per-litalia-significa-fallimento/ )
2. Una battuta ancora sull'"autonomia della politica" (Belli Paci). E' più forte di me, ma quando sento questa espressione mi preoccupo: sarebbe troppo dirvi che l'Autonomia della Politica (metto le maiuscola facendo ovvia forzatura) è stato il segno visibile dell'orribile secolo breve. Più pacatamente (ops, mi è sfuggito l'avverbio veltroniano, che lapsus rivelatore!) mi viene in mente Cossiga, che - se non ricordo male - in una battuta di un'intervista, parlando della politica sociale della Dc (e non solo della Dc!) ebbe a dire (cito a memoria, se sbaglio, corriggetemi...): "pensavamo di essere la San Vincenzo, pensavamo di non avere limiti alla spesa". Ecco, io temo che da parte di molti di voi ci sia un sincero desiderio di una politica autorevole e capace di essere il contraltare del necessario rigore finanziario (anche Trichet e Draghi vorrebbero un vero interlocutore politico, e non è una battuta...); ma la traduzione italiana di tutto questo rischia di essere "Rimettiamo mano al portafogli degli italiani e non guardiamo al bilancio". Ecco, una tale "autorevole" politica io non la voglio più; anche perché non è semplicemente più possibile... ... Anzi sì; è possibile: potremmo uscire dall'Europa! Come ho fatto a non pensarci? Chiamiamo un paio di Colonnelli per gestire il passaggio?
Con affetto, sperando di non avervi fatto arrabbiare per la mia ironia...
economia sociale di mercato è una bella espressione, che dopo il passaggio di Thatcher e repubblicani USA assomiglia alla quadratura del cerchio. Per esempio, buona cosa sarebbe un dazio per parificare gli oneri sociali. Oggi la tendenza dei liberisti è di parificarli al ribasso, cioè togliere le coperture sociali ai lavoratori occidentali. Mettersi a parlare di un dazio (farlo è un altro paio di maniche, spesso siamo in attivo come bilancia dei pagamenti, salvo che coi paesi petroliferi) potrebbe aiutare chi vuole introdurre forme di welfare nei BRICS.
proprio nel link che proponevo ( http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it/2010/06/13/oltre_pomigliano_verso_dove.html ) dicevo quanto segue, che credo possa trovarti d'accordo: "(...) Tremonti ha voluto parlare di "Economia sociale di mercato"; la formula - che amo moltissimo - è nobile e bellissima in teoria, ma deve essere riempita di contenuti, e non deve essere un cappello sotto cui nascondere abbasssamento della dignità del lavoro, o sotto cui celare gli inevitabili conflitti sociali che questo frangente storico ci porterà a vedere. Reddito minimo di cittadinanza, infrastrutture materiali e educativo-culturali, una politica economica che guardi al sistema-paese e al sistema - Europa che ancora fatica a decollare; regole dei mercati finanziari, welfare-community (...); queste alcune delle possibili voci di un vocabolario che deve tornare a farsi comune e condiviso. Come spesso si è detto, anche se poco si è fatto in questo senso, più mercato non è alternativo a "più stato": si tratta di lavorare sulla qualità dell'intervento pubblico, rendendolo trasparente, condiviso, capace di portare risultati evidenti, che possano convincere i cittadini che la "mano visibile" dell'apparato pubblico è un elemento comunque essenziale nella costruzione di un paese moderno.(...) La sfida di guidare il paese e il continente europeo in una fase storica che è di fatto di impoverimento, richiede uno sforzo in più: locale e comunitario da un lato, globale dall'altro. E' notizia di pochi giorni fa che anche in Cina il costo del lavoro in alcuni distretti industriali si sta alzando, e le imprese vogliono delocalizzare ulteriormente, dopo aver approfittato del basso costo di quel paese. Non sarà possibile delocalizzare all'infinito, e l'economia sempre più integrata ci chiede di pensare che anche i diritti dei lavoratori sono universali. Su questo la voce dell'Europa - e in particolare delle forze progressiste, e di quelle cristiano-liberali - può e deve essere più forte. Per tutto il mondo."
Detto ciò, probabilmente hai ragione, Claudio: prima o poi attraverso accordi multilaterali (speriamo, l'alternativa sono le bombe, tanto per semplificare) Cina, USA, ed Europa - e non solo - arriveranno a decidere una fluttuazione controllata dei cambi monetari e a misure continentali di "protezionismo morbido", chiamiamolo così; a livello continentale, per salvare quel tanto di dinamicità interna, ma preservando alcuni "dazi" che serviranno a "calmare" la competizione globale e a dare tempo alle economie di ristrutturarsi.
Bene, questo può essere inevitabile. Il problema secondo me è che il rischio di questa "medicina" è che venga presa come cosa positiva in sé. E che il dazio per parificare gli oneri sociali (ma siamo sicuri che servirebbe? E siamo sicuri di non comprimere economie in espansione?) diventi in realtà SemplicementeDazio, scusa la formula...
Non può comunque essere quello il futuro dell'economia. Chi decide quando il Dazio si toglie? Quando tutti hanno la pensione a quale livello? quando tutti hanno l'infortunio coperto a quale livello? certo, regole sul lavoro devono essere presenti e elaborate a livello internazionale, ma non puoi neanche incastrare le realtà in schemi che abbiamo deciso Noi...
Insomma, va bene la medicina, va bene "mettere l'economia in ospedale"; ma per guarire. Non per rimanere in ospedale. E' su questo che ho dei dubbi, rispetto a molte proposte che stanno venendo sul come risolvere la crisi. Anche perché Ospedalizzando il mondo, lo rendiamo facilmente un Carcere...
Il problema non è la formula che descrive il sistema economico preferito. Economia sociale di mercato va bene, ma quale dovrebbe essere il modello di specializzazione industriale per il nostro Paese? Anche forme di limitato protezionismo sono comunque inutili quando il modello di specializzazione industriale è sbagliato!
L'Italia del boom economico presidiava con profitto tutti i settori industriali allora considerati strategici per lo sviluppo del paese. Acciaio, meccanica, chimica, petrolchimica, energia, telecomunicazioni, impiantistica industriale, cantieristica navale, e un po' tutte le branche dell'ingegneria hanno visto operare sui mercati nazionale e locale players anche di dimensioni rilevanti, in grado di reggere la competizione con concorrenti dagli altri paesi industrializzati dell'Occidente Questo modello è saltato tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90, e di fatto gli unici settori che riusciamo a presidiare sono quelli in cui l'italianità conta ancora qualcosa in termini di marketing: agroalimentare, moda e lusso.
Così non può funzionare. Basta leggersi gli ultimi report disponibili in rete (vedi http://www.osservatoriodistretti.org/) sullo stato semicomatoso dei nostri distretti industriali - cantati come un vanto del nostro ingegno ai tempi in cui si immaginava che l'impresa-rete potesse rappresentare un modello organizzativo vincente - per rendersi conto che la maggior parte di essi ha ceduto sotto la spinta della competizione globale. I distretti infatti coprivano settori industriali che sono stati tra i primi ad essere attaccati dai paesi di recente industrializzazione dell'Asia Orientale, e basta dare una scorsa a una lista dei distretti riconosciuti per legge per rendersi conto del motivo. Si trattava in massima parte di settori industriali relativamente poco sofisticati, con barriere all'ingresso di nuovi concorrenti bassissime o addirittura inesistenti. Sempre l'Osservatorio Nazionale Distretti Italiani mostra che il grosso di questi è raggruppabile nei settori abbigliamento-accessori, arredo casa, agroalimentare e, vivaddio, automazione meccanica (ma la lettura dell'elenco dei distretti appartenenti a quest'ultima categoria lascia sconsolati, visto che comprende anche i distretti del coltello (!!!) e delle valvole e rubinetterie, tutti manufatti che si possono comprare in Cina a prezzi ridicoli...)
Il nanismo della piccola media impresa italiana (nanismo dimensionale, finanziario, organizzativo e culturale) ha fatto il resto. La piccole e media impresa, almeno nella maggior parte dei casi, non ha né le risorse finanziarie né la testa per fare le tre cose che oggi contano: approcciare in maniera sistematica il tema dell'innovazione di prodotto/processo; stare sui mercati internazionali costruendo partnership con soggetti locali anziché adagiarsi nello schema anni '60 agente-fiera; delocalizzare con intelligenza almeno una parte dei cicli produttivi. Il fatto che il grosso delle attività sia in settori dove uno startup o uno spinoff, quindi nuove iniziative, non richiedono né grosse dotazioni di capitale, né ricerca e sviluppo troppo sofisticati, né personale troppo qualificato spiega molto.
Senza un'industria florida vengono a mancare posti di lavoro qualificati e ben retribuiti, e lo stesso settore dei servizi soffre.
Ora, è possibile immaginare che lo Stato ritorni ad avere un ruolo importante, come fu negli anni '30 e, più avanti, negli anni della ricostruzione e del boom economico, nel ridefinire e nel rimodulare un nuovo modello di specializzazione industriale per il Paese? Immaginare che questo venga trovato semplicemente per i miracoli compiuto dalla mano invisibile del mercato è una bestialità, non è successo negli ultimi vent'anni e non vi sono ragioni per ritenere che accada in futuro.
Intendiamoci, non è che si debbano per forza resuscitare le vecchie Partecipazioni Statali, ma le forme in cui lo Stato può operare per indirizzare e facilitare lo sviluppo industriale del Paese sono molteplici.
Di questo tema però non parla nessuno, probabilmente perché è più facile scatenare la caccia al moderno untore, l'evasore fiscale. Di fatto, se anche tutti pagassero le tasse, l'industria italiana collasserebbe ugualmente...
Carissimo compagno Claudio, come ti ho già detto a Volpedo hai fatto bene a rimettere in circolazione la questione "dazi" perché la parola non può essere più considerata tabù tantomeno a sinistra. L'unica cosa che mi sento di dire per raggiungere l'obiettivo che vogliamo, perecuare i costi dei prodotti, invece che di dazio parlerei di misure antidunping, peraltro misure già previste in oggi facendo ricorso al WTO. Certo ci vuole una azione corale dell'Europa per rendere efficace la contromossa liberalsocialista nei confronti del liberismo. Per approfondire il concetto vedasi "Antidunping"Parole chiave il Sole 24 Ore" Certamente sono misure tattiche e non certamente "il nuovo modo di produrre, cosa produrre e chi produce" ... ma assieme alla tassa sulle transazioni finanziarie intanto si può cominciare agire concretamente da subito a un riequilibrio dei mercati. Un socialista dialogante fraterno saluto.
ho netta l'impressione che anche i socialisti più a sinistra, cole lo sei tu, stiano lentamente scivolando verso una soluzione non precisamente buona: il nazionalismo protezionista.
Come ho avuto occasione di dire a Volpedo, rispondendo in parte all'intervento di Bellavita che mi aveva preceduto, non sono e non saranno i dazi che ci salveranno, per alti che li mettiamo ormai il disastro è fatto e le produzioni a basso contenuto tecnologico o dei settori maturi (uno per tutti l'auto) sono ormai prodotti a costi infinitamente minori nell'ex terzo mondo, che oltretutto ha un poptenziale mercato emergente potentissimo, te lo immagini mettere la piccola Italia (60 milioni di abitanti) competere con CINDIA che fanno 2,5 miliardi di potenziali consumatori?
Ai cinasi ed agli indiani, ma anche ai brasiliani ecc.ecc. ecc. interessa sempre meno esportare in Europa, il trend si è ormai rovesciato (se n'è accorto persino Tremonti).
La sfida dei prossimi anni per i socialist, se ci fosse un'Internazionale Socialista degna di tal nome sarebbe la ricostruzione delle regole dei mercati finanziari, è lì in quel settore della finanza deregolata che esistono i virus che distruggeranno l'economia mondiale, ormai i segni sono evidenti, così com'è evidente che i capetti dei vari Stati (Obama compreso) non sanno che fare perchè sono figli di una ideologia ormai vecchia e superata: il liberismo. Già Marx ci spiegava 150 anni fa che il progressivo accumularsi delle risorse in poche mani avrebbe creato qualche problema.
Gli Stati ancora oggi, Merkel e Sarkozy l'hanno ipotizzato due giorni fa, intendono continuare a gettare soldi pubblici nelle fornaci delle banche, è tempo di lasciar fallire qualche banca, così tanto per dare l'idea che il bel gioco della speculazione a rischio zero (tanto poi gli Stati ci salvano e così noi possiamo speculare sui debiti sovrani) sta finendo. Come opzione B è possibile pensare alla NAZIONALIZZAZIONE delle banche in procinto di fallire (ti salvo ma tu caro board della banca X te ne vai a casa e senza mega liquidazione).
Occorre ricostruire le regole di una economia liberale classica (Bretton Woods fu questo) ed occorre ridefinire ed in fretta le regole per il movimento dei capitali, sino a che restano liberi di muoversi con un semplice click di mouse abbiamo poche speranze.
Tutto il reto è un corollario, quali prodotti faremo, come li faremo e quando saremo in grado di farlo dipende solo da una scelta politica: riregolare i mercati finnanziari.
Dario
PS: sai cos'è la direttiva di Nixon sulle cipolle?
IL vecchio delinquente negli anni 50 del secolo scorso era Governatore di uno Stato che produceva cipolle, ad un certo punto scoppiò la febbre dei futures sul mercato delle cipolle, e trick Dick fece una cosa molto semplice: una direttiva che vietava i futures sulle cipolle (è ancora in vigore oggi) e la speculazione finì. È la Politica bellezza!!!!!
io continuo a dire che il dazio non è necessario metterlo, ma basta l'effetto annuncio per smuovere qualcosa negli stati senza welfare, che per quanto poco democratici non possono a lungo posporre il consenso sociale allo sviluppo economico. Quanto a metterlo perdavvero, credo che persino l'Italia abbia la bilancia dei pagamenti attiva con Cindia
Caro Dario, concordo pienemente con la tua analisi. Del resto, persino in America, il New York Times e il Nobel Paul Krugman dicono "sono pazzi questi europei". E aggiungono che la BCE è l'unica banca centrale al mondo e nella storia che non può approvvigionarsi e approvvigionare direttamente il suo Stato (che sarebbe la UE)ma deve finanziare le banche private lasciando che lo Stato (sempre la UE) si rivolga alla speculazione del mercato. Dicono che non solo Bernanke, ma anche i governatori delle Banche Centrali di Cina, Giappone, India, Brasile, ecc. siano sbalorditi dalle regole di liberismo demenziale sancite con e dopo Maastricht. A ridatece BENEDUCE!!! Marco
Sarà, ma anche con un fisco svizzero (aliquote basse e evasori bastonati) e con una finanza regolamentata il problema del modello di specializzazione industriale rimane. Se Marchionne distruggesse definitivamente l'industria automobilistica italiana che racconteresti (racconteremmo) agli operai di Mirafiori? Probabilmente le stesse cose che stiamo raccontando ai lavoratori qualificati di quello che, un tempo, fu il distretto dell'EST Milano delle TLC e dell'elettronica: è l'economia, bellezza...
Con il risultato che l'Italia scivola di rango nella classifica dei paesi industriali, con tutto ciò che ne consegue - ma io sono di sicuro uno sviluppista, e da ingegnere ci mancherebbe altro...
Compagne e compagni, c'è da rimanere esterrefatti da questa informazione ... posso capire che con la mia "altra cultura" mi sia passata inosservata questa demenzialità monetaristica ma tutti i compagni del PSE economisti monetaristi, deputati, senatori presidenti PSE, che hanno governato in Europa da Maastrich in poi è mai possibile che fossero ignoranti su questo punto ? Propongo di mettere a punto come GdV e quant'altri interessati, una lettera al presidente del PSE, a Pia Locatelli e magari anche il presidente del consiglio europeo Schultz per chiedere cosa pensano di fare come socialisti europei. Una urlante indignazione socialista. Ne parliamo il 18 p.v. ad Alessandria ? Luigi Fasce
La notte porta consiglio, e stamattina, ripensando a quanto emerso durante la riunione di ieri sera, mi sono ricordato che la risposta alla richiesta di dare un filo conduttore alla nostra azione politica è molto semplice. L'attenzione ai contenuti può essere soddisfatta riprendendo le elaborazioni e le proposte della nostra "casa madre", il Partito Socialista Europeo. Questa è la fonte di saggezza alla quale abbeverarsi. E sarebbe dispersivo fare altrimenti.
Se c'è un compito che possiamo darci, e per cui siamo adatti, è quello di diffondere sulla disperata e disperante scena politica milanese le idee e le proposte concrete del PSE. Se Dio vuole, "l'intendence suivra".
A questo proposito, e in vista dell'organizzazione delle "lezioni" di economia politica, vi segnalo questo interessantissimo documento. Si tratta della bozza di rapporto sulla crisi economica, finanziaria e sociale e sulle misure e iniziative da prendere, preparata da Pervenche Béris per il Parlamento Europeo (http://www.pes.org/en/system/files/Draft_report_PB_EN.pdf). Non l'ho ancora letto tutto, ma ad una prima scorsa mi pare interessante. Apriamo il dibattito?
In genere la proposta del PSE è semplice, e chi volesse farsi un'idea molto rapidamente troverà molto in queste pubblicazioni, in genere pieghevoli con informazioni molto sintetiche(http://www.pes.org/en/pes-action/pes-documents/publications). I temi sono sostanzialmente tre: la riconversione del nostro sistema industriale, il controllo del potere finanziario e la difesa del modello sociale europeo. Mi pare sia più che sufficiente per costruire una piattaforma di politica economica e sociale dignitosa e, come si chiedeva ieri, sufficientemente eterodossa, purtroppo, rispetto al miserrimo dibattito pubblico italiano.
Come è ovvio, la strategia di uscita dalla crisi si fonda sull'impiego di fondi europei (quindi pubblici!) per una riconversione del sistema economico, con l'obiettivo di generare energia, produrre beni, e movimentare beni e persone in modo maggiormente eco-compatibile. Secondo stime PSE un'azione di questo tipo potrebbe generare in Europa circa 8 milioni di posti di lavoro. Per riprendere una polemica di ieri, mi pare che il PSE sia più attento a ragionare su un nuovo modello di sviluppo industriale - il ragionamento che provavo a fare, sia pure in termini diversi, con riferimento all'Italia - che non all'introduzione di dazi e tariffe doganali.
direi quello che ho detto più o meno un anno fa, al convegno che come LabourBuozzi abbiamo organizzato sulla crisi dell'industria a Torino, è cioè che l'auto è un prodotto maturo, che il suo mercato è solo più di ricambio, che le uniche soluzioni possibili per questo settore a Torino sono:
1- la ricerca e la produzione di motori a basso consumo energetico, che già si fa, ma in cui FIAT si sta facendo un po' alla volta raggiungere da GM Powertrain che al Poli di Torino ha ormai un centro ricerche da 600 ricercatori;
2- l'apertura del settore auto ad altri produttori, valorizzando ad esempio l'esperienza di Cecomp che ha rilevato da Pininfarina il progetto del motore elettrico, che sta già producendo a San Giorgio Canavese per la Francia, utilizzando le batterie al litio brevettate da Bollorè,
3- il trasferimento a livello industriale di molte ricerche già messe a punto dal PoliTO.
Per ripensare però una politica industriale degna di tal nome occorre però avere a disposizione delle risorse finanziarie non piccole, ma sino a che le risorse vengono lasciate libere di muoversi per la speculazione non arriveranno mai all'economia produttiva, i tempi per l'accumulazione dei profitti sono infinitamente più rapidi nel campo finanziario che non nel campo industriale. É giusto ragionare su una nuova programmazione economica ed industriale, ma sino a che non ci saranno risorse disponibili parleremo sempre di aria fritta.
I dazi non risolvono nulla, arriviamo a proporli dopo che persino la Lega Nord ha abbandonato l'idea. Ormai i mercati emergenti non hanno più bisogno di esportare verso l'Italia per riempire i loro forzieri, quegli Stati stanno ormai sviluppando i loro mercati interni, che da soli valgono 20 volte quello italiano.
Come ammette lo stesso Nichi Vendola - a proposito di una discussione fatta ieri sera: "il socialismo europeo ed i partiti socialdemocratici hanno un livello di dibattito interno, di riflessione e di proposta globale infinitamente più avanzato di quello che si vede in Italia".
Sono sicuro che se SEL assumesse come piattaforma di politica economica questa relazione - che è espressione della sensibilità politica e della capacità di analisi ed elaborazione progettuale di partiti socialisti o socialdemocratici che presto torneranno, nei loro paesi, ad essere forze di governo - le accuse di radicalismo estremista si sprecherebbero.
Peraltro ribadisco quanto scritto stamattina: non c'è nessun bisogno di reinventare la ruota o l'acqua calda, se servono davvero i contenuti per caratterizzare una presenza socialista sulla scena politica italiana, il gruppo parlamentare a Strasburgo e, più in generale, il PES ce ne forniscono intere miniere.
Si tratta, piuttosto, di avere la capacità di analizzare, discutere e fare propri questi contributi, per poi cercare di metterli all'ordine del giorno nell'agenda del dibattito pubblico italiano.
Penso che senza idea forte di cooperativismo europeo originario invece che l'attuale libersimo di tutti contro tutti e conseguente programmazione europea, in special modo in campo economico, e pienezza di ruolo legislativo del parlamento europeo e presidente UE con poteri politici e ministri con reali poteri, BCE sotto la mano pubblica comunitaria, tutte le buone ricette indicate non avranno effetto alcuno. Ma prima di tutto il PSE ci deve credere, perseguirla e proporla con grande chiarezza agli elettori in ogni Stato e per le prossime elezioni Europee. Un socialista dialogante fraterno saluto. Luigi Fasce - cell.3391904417
Ufficio Internazionale del Lavoro (UIL) forte invece di forte WTO al quale nulla serve che tra i suoi compiti ci sia anche l'intervento sanzionatorio di antidumping (vedasi "Parola chiave Il Sole 24 Ore") ... se l'agire politico è sotto tutela di multinazionali e mondo finanziario l'UIL resta ancella impotente se non per sfornare diagnosi impietose senza peso. Anche l'ONU sotto Kofi Annan ha provato a mettere qualche freno alla globalizzazione liberista ma ha lascito il tempo che ha trovato. Passi avanti sono segnalati con "La relazione Berès alla Commissione Speciale del PE sulla crisi economica, sociale e finanziaria" ma si tratta di semplici indicazioni di commissione del parlamento EU. Quali le convergenze tra Programma Mountebourg e relazione Berès, quali le divergenze ? Lasciamo fuori per il momento l'Internazionale Socialista. Le sta valutando il PSE ? Quale sarà a questo riguardo il progetto PSE ? Purtroppo sappiamo il PSE è un coacervo di partiti nazionali che nelle politiche reali in molti casi perseguono ancore politiche liberiste. Un socialista dialogante fraterno saluto. Luigi Fasce
Trovo, in effetti, riconfortante il fatto che certe tematiche, come la difesa dei diritti dei lavoratori, al nord come al sud del mondo, stiano ritornando d’attualità tra i socialisti. D’altronde, se l’Internazionale si chiama così è perché i socialisti hanno storicamente creduto alla fratellanza degli uomini e ad i loro uguali diritti, aldilà di qualunque frontiera geografica. Come dicevi tu, occuparsi di queste cose sarebbe vocazione dell’Internazionale Socialista, se questa contasse ancora qualcosa – d’altronde, come scriveva Claudio Bellavita qualche giorno fa, basterebbe dare un’occhiata ai partiti membri di quest’organizzazione: fino a meno di un anno fa, ne faceva parte anche quello di Ben Ali...
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La destra, ma anche la sinistra liberal de noantri, tacciano di “protezionisimo” e di “colbertismo”, un po’ come se fosse un anatema, qualunque proposta che tenti, anche timidamente, di regolare questa globalizzazione selvaggia. In realtà, un abisso separa il protezionismo populistico della Lega Nord e di Marine Le Pen dalla demondialisation di Arnaud Montebourg, il fair trade di un Stiglitz, o anche, se vogliamo, il juste echange di Martine Aubry. I primi giocano con la xenofobia, i secondi cercano, a modo loro, magari talvolta anche sbagliandosi, di regolare questa giungla che è diventata l’economia e la finanza mondiale. Ma questo dovremmo spiegarlo a Giavazzi e compagnia...
Negli emendamenti alla Dichiarazione di principi del PSE approvati dal Gruppo di Volpedo e fatti propri anche dal PSI Lombardia e dal Network c'è un passaggio specifico su misure compensative della mancanza di libertà politica e sindacale e del rispetto delle norme ambientali
Io temo che alcuni discorsi che stiamo facendo siano inapplicabili, o pericolosi. Scusate il facile liberalismo da manuale, ma se controlliamo troppo non aiutiamo a crescere, bensì soffochiamo. Tutti....
Anche io vedo in un approccio multilaterale l'unica possibilità di temperare le dinamiche di questa crisi, ma al tempo stesso - mi rendo conto della contraddizione - sento che questo passaggio può essere pieno di rischi, rischi di forzatura e di eccessivo peso della politica, in nome del Bene
Chi parametra il Giusto livello di sicurezza sociale e di diritti a cui attestarsi da un punto di vista globale? E' possibile decidere tale livello a prescindere dalla ricchezza di un paese?
Vedo benissimo il "fine positivo" che questa regolamentazione vorrebbe perseguire, ma mi pare che ci sia il grave rischio che venga utilizzata solo per fini iperprotezionistici in senso bieco.
Il linguaggio è sintomatico di ciò: perché "demondializzare"? Il punto riportato in una delle mail "(...) 3) “creare un’agenzia francese che calcoli il costo sanitario, ecologico, e sociale dei prodotti stranieri (...)" è abbastanza rivelatore dell'ambiguità di alcuni "buoni propositi". Allo "straniero" va applicato il calcolo dei costi...
Il rischio che sinistra e destra estreme alla fine parlino la stessa lingua è altissimo, e forse non sarebbe così strano...
senza entrare troppo nel merito della tesi che difendi - "se controlliamo troppo non aiutiamo a crescere, bensì soffochiamo" - e che condivido se applicata ad un economia di stampo sovietico, ma che mi sembra eccessiva se si parla di regolare la giungla della globalizzazione odierna, vorrei giusto fare una precisazione sulla proposta di Montebourg che hai citato nella tua mail.
I prodotti stranieri i cui costi sanitari, ecologici, e sociali andrebbero calcolati, sono quelli che provengono dall'esterno dell'Unione Europea. Non c'è nessun intento "ambiguo", semplicemente si tratta di assicurarsi che le T-shirts made in China che si vendono in qualunque negozio italiano siano prodotte nel rispetto delle regole sanitarie, ecologiche, e sociali alle quali sono sottoposte le aziende che producono all'interno dell'Unione Europea. Il problema non è, dunque, lo straniero, il problema è il rispetto delle regole. Peraltro, la Cina, che è molto meno liberale e liberista di noi europei, non si fa problemi a mettere dazi e ad inquadrare la produzione e commercializzazione dei prodotti stranieri sul suo territorio. En passant, i cinesi esportano con una moneta al 30-40% al di sotto della naturale quotazione di mercato. In pratica, siamo solo noi europei che permettiamo alle nostre aziende di produrre a prezzi orientali e a vendere a prezzi occidentali. Questa è una forma di speculazione e su queste cose è normale che intervengano i socialisti. Mi sembra che questo non abbia niente a che vedere con i pregiudizi xenofobi dell'estrema destra.
il tuo discorso ha sicuramente elementi molto giusti, e abbiamo sofferto in passato di un liberismo che non ha fatto i conti con il problema delle regole da far rispettare a tutti: ma quando dico tutti, il primo esempio che mi vine in mente è un certo protezionismo di noi europei, nei confronti di altre nazioni europee (http://www.lavoce.info/articoli/pagina2028.html ). Ora, il problema del protezionismo - oltre al principale, e banale fatto che secondo me non fa crescere - è duplice, a mio modesto avviso: 1) quali sono i confini che si proteggono? 2) in una precedente mail, dicevo che il protezionismo era accettabile come cura temporanea: quando e come si "guarisce" riaprendo il mercato?
Sul punto 1, mi dici che i confini che vengono citati sarebbero quelli europei: e cioè? in quel punto in realtà si parla di "agenzia francese"... Secondo me in ogni caso protezionismo chiama protezionismo, e il rischio è che le nazioni europee, ancora poco integrate fra di loro, con la Grande Scusa della Crisi ricomincino (ma l'hanno mai cessata? vd. l'articolo della Voce citato poc'anzi) una pratica politica - comprensibile nel breve periodo - ma che rischia di portarci a maggiore povertà, e anche a qualche sbocco violento, a mio avviso...
Questo indipendentemente dalle buone intenzioni: sicuramente le intenzioni socialiste sono diverse da quelle della Le Pen. Ma siamo politici accorti, e non possiamo non vedere che se la parola d'ordine che passa è "protezione contro il mondo", la grideranno più facilmente i nazionalisti. E' già successo, mi pare...
Certo, la Cina gioca scorrettamente ed è un dovere politico tentare di riequilibrare questa posizione. Ma nulla è gratis: questo tentativo può essere fatto solo mettendo sul piatto il peso politico di Pechino, accettando quella nazione come interlocutore privilegiato; lo è già di fatto ma molto "sotto traccia". Siamo pronti ad accettare tutte le conseguenze del fatto di vedere la Cina pienamente protagonista? (vd. http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it/2011/08/24/africa_e_mo_costringere_la_cin.html)
E detta anche in maniera cruda: quando noi come paese e come continente nel dopoguerra siamo cresciuti economicamente, avevamo tutti gli standard di qualità che ora richiediamo ai paesi emergenti? mi sembra quanto meno "furbo" che ora chiediamo agli altri ciò che anche noi non avevamo, e a volte non abbiamo tuttora.
Io vorrei vedere le regole italiane - che comunque sono pesanti, Diego, chiediamolo a chiunque voglia investire in Italia, anche proveniente da paesi civilissimi, chiedete a chi si occupa di "tradurre" il diritto del lavoro italiano per le multinazionali... - applicate a tutti, cinesi e italiani, indifferentemente. Ma al tempo stesso vorrei maggiore capacità di costruire un tessuto produttivo.
(E - se posso dirla in una battuta, perché il ragionamento chiederebbe più spazio ed è in parte fuori tema: vorrei meno regole, ma più controlli, ed efficaci sanzioni... Da noi non c'è stata la Thatcer, da noi c'è l'art.18, da noi c'è la valutazione dello stress correlato... e poi da noi c'è la tragedia delle operaie di Barletta, e c'è un altissimo numero di incidenti sul lavoro.... Forse qualcosa non va sul Quanto Legiferiamo/Regoliamo e sul Quanto - e Come - Controlliamo... Non che le cose siano in contraddizione fra loro, ma è come se il nostro discorso fosse sempre "astratto e normativo", e poco "concreto")
Proteggerci dalla magliette "made in China" può essere un palliativo per i nostri sistemi economici, non la soluzione, temo.
E dovranno essere i cinesi - e gli indiani, e i brasiliani - a chiedere al loro interno regole sociali nuove. La loro crescita economica sta gettando semi per una crescita della domanda di protezione sociale e di benessere. Questa "mano invisibile" - gulp, scusatemi - è lo strumento con cui i costi di produzione possono riequilibrarsi, non certo qualche regolamento, capace - temo, ma magari esagero - di creare più mercato nero, se arriva "a cose fatte", come di fatto è già fra noi la penetrazione degli altri continenti nei nostri mercati.
E' forse inevitabile questo ritorno della mano pubblica a regolare il mercato, ma al tempo stesso molto pericoloso.
L'importante è avere chiaro l'obbiettivo: aprire di più, integrare di più i mercati; se posso prendere spunto da un Papa che usava l'immagine in altro contesto: Non alzare Muri (di regole, aggiunta mia), ma costruire ponti (di scambi; certo con semafori e corsie un minimo segnate, ma con pochi check point...)
c'è qualcosa di più complesso. La Cina e la Russia di Stalin sono l'esempio di quanto in fretta si può avanzare economicamente a forza di piani quinquennali in un paese dittatoriale. I cinesi, però hanno dato largo spazio all'iniziativa privata, che ha accelerato il processo: quando aumenteranno le vertenze sociali, l'onnipresente partito che ha l'obbiettivo di restare sempre al potere scaricherà questi privati, dando loro tutte le colpe, e ne creerà di nuovi... L'occidente è diventato ricco sfruttando i poveri senza voce: prima quelli di casa, poi quelli delle colonie e infine quelli immigrati. Quando finisce questo ciclo si passa al primato della truffa finanziaria, che ha potuto operare in un mercato privo di controlli per la moda liberista: dalla padella alla brace e adesso si cerca di tornare nella padella, portandosi però dietro troppa brace.
grazie per la tua mail. Senza voler essere a tutti i costi l'avvocato di Montebourg - come dicevo, alcune sue proposte andrebbero meglio precisate, se non corrette - penso che la sua idea di creare un'agenzia che calcoli il costo sanitario, ecologico, e sociale dei prodotti stranieri (cioè esterni all'UE) prima in Francia poi in seno all'UE, sia legata al fatto che ogni settimana nuove fabbriche sul territorio francese sono delocalizzate, mentre i tempi dell'Unione Europea, purtroppo, li conosciamo bene... Bisognerà, evidentemente, creare dei sistemi di protezione a livello europeo, ma con questi chiari di luna (24 su 27 dei governi dell'UE sono conservatori-liberali) penso che, per lo meno per quanto riguarda questa agenzia, sia già importante intervenire a livello nazionale.
Un altro punto: è vero che, per secoli, il modello di sviluppo occidentale è vissuto consapevolmente sullo sfruttamento delle risorse economiche, ecologiche, ed umane del terzo mondo. Si tratta evidentemente di un'ingiustizia - anche se sono esistite in seno al campo occidentale voci critiche in materia. Detto questo, non capisco perché, in ragione del fatto che i paesi occidentali hanno imposto delle ingiustizie agli altri, adesso dovrebbero accettare le stesse ingiustizie da parte altrui, un po' come se si dovesse accettare il principio lex talionis ("occhio per occhio...") applicato a miliardi di persone. Un'ingiustizia resta un'ingiustizia, in qualunque campo ci si trovi: era giusto denunciarla quando era a nostro vantaggio, è giusto denunciarla adesso che è nostro svantaggio.
30 commenti:
Mi complimento vivamente con Peppe Giudice, come al solito lucidissimo nelle
sue analisi.
La questione dell'ideologia effettivamente è centrale se si vuole tentare di
far risorgere partiti degni di questo nome, una politica degna di questo
nome.
Sperando di non annoiare troppo i compagni del PD (ma la battaglia dovrebbe
essere anche la loro, anzi soprattutto la loro !), ricordo che l'errore di
fondo che ha portato a generare quel partito non è stato quello di puntare
ad un'unione tra diversi - laici e clericali, rappresentanza sociale del
lavoro e rappresentanza sociale dell'imprenditoria, sinistra e centro .... -
bensì quello di farlo senza avere costruito (ammesso e non concesso che
fosse possibile) una piattaforma ideologica sia pur minima che tenesse
insieme quei diversi. Si è preferita la scorciatoia, la furbata, di
sostenere che da questo si potesse prescindere, assumendo il dogma
post-ideologico di cui parla Giudice.
Il problema è che, così come in natura vi è l'horror vacui, in politica vi è
l'impossibilità di fare a meno di un sistema di principi e valori per
interpretare la realtà.
Dunque chi afferma di non avere alcuna ideologia, anche se non se ne accorge
non opera in assenza di ideologie, ma mutua necessariamente le ideologie
altrui.
Con l'aggravante, in questo caso, di negare perfino che di ideologia si
tratti e di scambiare dunque per leggi naturali indiscutibili i dogmi del
pensiero dominante, lasciando atrofizzare ogni capacità critica.
Se di questo processo perverso fosse rimasto vittima solo il nostro
particolare orgoglio di vetero socialdemocratici la cosa sarebbe
evidentemente irrilevante per il resto del mondo. Il problema è che la vera
vittima è l'autonomia della politica.
E con la fine prossima dell'era berlusconiana, in un inquietante scenario di
recessione, i nodi stanno venendo al pettine.
Siamo ridotti così male che resta quasi solo la speranza nella "divina
provvidenza", e cioè in una riunificazione dei cattolici democratici
centristi che obblighi tutti quanti a disaggregarsi e riaggregarsi secondo
logiche politiche di qualche solidità. Ebbene sì: voto per Vendola, ma in
questo momento spero in Casini.
Luciano Belli Paci
Bravissimo Beppe Giudice ed anche Luciano Belli Paci. A loro un vivo grazie.
Di molte delle loro tesi ero da tempo convinto, di altre avevo una confusa
coscienza, ma non una chiara consapevolezza. Penso che l'impianto logico
delineato sia un imprescindibile punto di partenza per i veri progressisti.
Cari saluti. Giovanni Baccalini
Concordo con il riconoscimento a Peppe Giudice, e faccio mia la sua
conclusione: "è essenziale che chi nel centro-sinistra crede in uno sbocco
socialdemocratico alla crisi della sinistra possa e debba far massa critica
nel dibattito interno al di là dei partiti di appartenenza".
Discordo invece dalla visione di Belli Paci. Credo che, non a caso, abbiamo
visioni diverse della funzione del partito oggi - di qualunque partito ed in
particolare del PD.
Occorrerebbe scrivere un trattato su questo punto, perdonerete la sintesi
affrettata.
Nelle società articolate, a ciascun ruolo sociale (*) corrispondono
specifici "interessi di ruolo" e questi hanno il pieno diritto di esprimersi
nella azione politica; il riconoscimento di questo diritto è la base di
qualunque atteggiamento liberale. Il partito è lo strumento organizzativo
attraverso il quale una coalizione di interessi si organizza stabilmente per
raggiungere scopi condivisi di medio termine. La definizione data chiarisce
che il partito di cui stiamo parlando non è un partito ideologico,
giustificato da una comunanza di valori profondi: si tratta invece di un
partito di progetto, fondato su una comunanza di obbiettivi politici; ad
esso possono aderire persone i cui sistemi di valori di riferimento siano
anche significativamente diversi.
Non c'è bisogno quindi che il partito (es il PD) abbia una piattaforma
ideologica, che vada al di là di alcune scelte di campo generalissime. C'è
bisogno, invece, che la abbiano, ben forte e salda, i singoli aderenti.
Personalmente, sono pienamente d'accordo con le affermazioni di Giudice e di
Belli Paci circa il dogma post ideologico, l'ideologia del superamento delle
ideologie, l'atrofizzazione della capacità critica, ecc. E, dentro il PD,
questa è una battaglia aperta, che si combatte ogni giorno.
Ma, proprio per questo, se uno si ferma a fare un bilancio, dovrebbe
chiedersi: cosa ho contribuito a FAR SUCCEDERE di utile? Credo che il
dovere politico di ciascuno sia valutare quale sia lo strumento più utile
per avvicinarsi alla realizzazione dei suoi obbiettivi, in accordo con i
suoi valori.
Pare che la scelta di molti, invece, sia scegliere l'ambiente politico ove,
con più chiarezza e purezza, vengono affermati i propri valori (evitando
anche di essere infastiditi dalla vicinanza della Bindi, ecc). Ma serve a
qualcosa?
Cari saluti
Paolo Zinna
caro paolo tu scrivi:"Il partito è lo strumento organizzativo
attraverso il quale una coalizione di interessi si organizza stabilmente per
raggiungere scopi condivisi di medio termine. La definizione data chiarisce
che il partito di cui stiamo parlando non è un partito ideologico,
giustificato da una comunanza di valori profondi: si tratta invece di un
partito di progetto, fondato su una comunanza di obbiettivi politici"
la costatazione mia è che il pd non riesce da quando è nato a comunicare il suo progetto e i suoi obiettivi politici,neppure ora in mezzo a una crisi drammatica.il mio dubbio è che questa incapacità derivi proprio dalla mancanza di una comunanza di valori di fondo(o se preferisci da una ideologia nel senso positivo del termine).Da qui il peso inerziale della ideologia già disponibile nell'ambiente,il cosiddetto pensiero unico.Come appunto dice Luciano.
Al contrario io penso che, senza un presupposto alto e chiaro di valori e di
principi, le forze politiche finiscono per inciampare e aggrovigliarsi nelle
proprie stesse premesse, come accade di continuo ed inevitabilmente al PD.
Cari saluti. Giovanni Baccalini
Come quasi sempre sono d'accordo con Giovanni. Penso fermamente che se non
diciamo chiaro (anche a noi stessi) cosa vogliamo, non se ne esce. Poi
magari sbagi e devi correggerti, non sulle cose centrali però G
Ciao a tutti.
Avrei voglia di scrivere tante cose su quanto avete molto bene detto; provo a dire due cose sinteticamente, e con leggerezza, sperando che non venga fraintesa.
1. Il problema del pd nel non saper dire soluzioni sulla crisi drammatica che stiamo vivendo per mancanza di valori comuni, di un'ideologia condivisa (Turci e altri, mi pare): non è per difendere una squadra da cui anche io mi sento spesso lontano, ma mi pare che il problema sia comune a una buona fetta di globo terracqueo (non ho notizie delle discussioni economiche su Marte, ma fonti di intelligence mi dicono che anche lì non sono messi tanto bene...)
Al momento attuale, chi sta proponendo una soluzione alla crisi attuale? Starebbe forse nella mitica parola "eurobond"? ne dubito...(http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it/2011/06/13/cambiamo_leuropa_un_appello_su.html) Ritroviamo Keynes? Ammesso e non concesso che le soluzioni di stampo keynesiano siano ripetibili, sono esse effettivamente risolutive, in questo momento? Personalmente dubito anche di questo, ma può essere un mio limite.
In ogni caso, la/le soluzione/i a questa crisi sono molto più lente, molto più "prova-verifica-correggi - riprova", "un non esaltante processo di avanzamenti, rallentamenti e aggiustamenti", lo definisce Giuliano Amato in un articolo sul Sole24Ore; l'orizzonte deve certo essere quello della "economia sociale di mercato", ma anche questa formula va riempita di contenuti e concretizzata, tanto che - in modi molto diversi - viene utilizzata sia da Mario Monti che Giulio Tremonti (ne ho parlato qui più distesamente; Mario Monti lo trovate qui: http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it/2009/02/01/legoismo_delle_nazioni.html e qui http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it/2008/08/22/economia_sociale_di_mercato.html; scusate l'ineleganza di citare il mio blog, ma è semplicemente perché ritrovo più facilmente alcuni materiali...).
Facile dire che i manchiamo di valori condivisi, che siamo vuoti di idee e cultura (cari compagni laici, vi siete accorti di quanto assomigliate ai preti, quando parlate così? Si fa per ridere, ma ve lo dice uno esperto del settore... ;-) Qualche proposta più concreta, che non sia il richiamo all'Islanda? (http://www.giornalettismo.com/archives/136541/il-modello-islandese-per-litalia-significa-fallimento/ )
2. Una battuta ancora sull'"autonomia della politica" (Belli Paci). E' più forte di me, ma quando sento questa espressione mi preoccupo: sarebbe troppo dirvi che l'Autonomia della Politica (metto le maiuscola facendo ovvia forzatura) è stato il segno visibile dell'orribile secolo breve. Più pacatamente (ops, mi è sfuggito l'avverbio veltroniano, che lapsus rivelatore!) mi viene in mente Cossiga, che - se non ricordo male - in una battuta di un'intervista, parlando della politica sociale della Dc (e non solo della Dc!) ebbe a dire (cito a memoria, se sbaglio, corriggetemi...): "pensavamo di essere la San Vincenzo, pensavamo di non avere limiti alla spesa".
Ecco, io temo che da parte di molti di voi ci sia un sincero desiderio di una politica autorevole e capace di essere il contraltare del necessario rigore finanziario (anche Trichet e Draghi vorrebbero un vero interlocutore politico, e non è una battuta...); ma la traduzione italiana di tutto questo rischia di essere "Rimettiamo mano al portafogli degli italiani e non guardiamo al bilancio".
Ecco, una tale "autorevole" politica io non la voglio più; anche perché non è semplicemente più possibile...
... Anzi sì; è possibile: potremmo uscire dall'Europa! Come ho fatto a non pensarci? Chiamiamo un paio di Colonnelli per gestire il passaggio?
Con affetto, sperando di non avervi fatto arrabbiare per la mia ironia...
Francesco Maria
economia sociale di mercato è una bella espressione, che dopo il passaggio di Thatcher e repubblicani USA assomiglia alla quadratura del cerchio.
Per esempio, buona cosa sarebbe un dazio per parificare gli oneri sociali. Oggi la tendenza dei liberisti è di parificarli al ribasso, cioè togliere le coperture sociali ai lavoratori occidentali. Mettersi a parlare di un dazio (farlo è un altro paio di maniche, spesso siamo in attivo come bilancia dei pagamenti, salvo che coi paesi petroliferi) potrebbe aiutare chi vuole introdurre forme di welfare nei BRICS.
Caro Claudio,
proprio nel link che proponevo ( http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it/2010/06/13/oltre_pomigliano_verso_dove.html ) dicevo quanto segue, che credo possa trovarti d'accordo: "(...) Tremonti ha voluto parlare di "Economia sociale di mercato"; la formula - che amo moltissimo - è nobile e bellissima in teoria, ma deve essere riempita di contenuti, e non deve essere un cappello sotto cui nascondere abbasssamento della dignità del lavoro, o sotto cui celare gli inevitabili conflitti sociali che questo frangente storico ci porterà a vedere. Reddito minimo di cittadinanza, infrastrutture materiali e educativo-culturali, una politica economica che guardi al sistema-paese e al sistema - Europa che ancora fatica a decollare; regole dei mercati finanziari, welfare-community (...); queste alcune delle possibili voci di un vocabolario che deve tornare a farsi comune e condiviso.
Come spesso si è detto, anche se poco si è fatto in questo senso, più mercato non è alternativo a "più stato": si tratta di lavorare sulla qualità dell'intervento pubblico, rendendolo trasparente, condiviso, capace di portare risultati evidenti, che possano convincere i cittadini che la "mano visibile" dell'apparato pubblico è un elemento comunque essenziale nella costruzione di un paese moderno.(...) La sfida di guidare il paese e il continente europeo in una fase storica che è di fatto di impoverimento, richiede uno sforzo in più: locale e comunitario da un lato, globale dall'altro.
E' notizia di pochi giorni fa che anche in Cina il costo del lavoro in alcuni distretti industriali si sta alzando, e le imprese vogliono delocalizzare ulteriormente, dopo aver approfittato del basso costo di quel paese.
Non sarà possibile delocalizzare all'infinito, e l'economia sempre più integrata ci chiede di pensare che anche i diritti dei lavoratori sono universali. Su questo la voce dell'Europa - e in particolare delle forze progressiste, e di quelle cristiano-liberali - può e deve essere più forte. Per tutto il mondo."
Detto ciò, probabilmente hai ragione, Claudio: prima o poi attraverso accordi multilaterali (speriamo, l'alternativa sono le bombe, tanto per semplificare) Cina, USA, ed Europa - e non solo - arriveranno a decidere una fluttuazione controllata dei cambi monetari e a misure continentali di "protezionismo morbido", chiamiamolo così; a livello continentale, per salvare quel tanto di dinamicità interna, ma preservando alcuni "dazi" che serviranno a "calmare" la competizione globale e a dare tempo alle economie di ristrutturarsi.
Bene, questo può essere inevitabile. Il problema secondo me è che il rischio di questa "medicina" è che venga presa come cosa positiva in sé. E che il dazio per parificare gli oneri sociali (ma siamo sicuri che servirebbe? E siamo sicuri di non comprimere economie in espansione?) diventi in realtà SemplicementeDazio, scusa la formula...
Non può comunque essere quello il futuro dell'economia. Chi decide quando il Dazio si toglie? Quando tutti hanno la pensione a quale livello? quando tutti hanno l'infortunio coperto a quale livello? certo, regole sul lavoro devono essere presenti e elaborate a livello internazionale, ma non puoi neanche incastrare le realtà in schemi che abbiamo deciso Noi...
Insomma, va bene la medicina, va bene "mettere l'economia in ospedale"; ma per guarire. Non per rimanere in ospedale.
E' su questo che ho dei dubbi, rispetto a molte proposte che stanno venendo sul come risolvere la crisi.
Anche perché Ospedalizzando il mondo, lo rendiamo facilmente un Carcere...
Con affetto
Francesco Maria
Il problema non è la formula che descrive il sistema economico preferito. Economia sociale di mercato va bene, ma quale dovrebbe essere il modello di specializzazione industriale per il nostro Paese? Anche forme di limitato protezionismo sono comunque inutili quando il modello di specializzazione industriale è sbagliato!
L'Italia del boom economico presidiava con profitto tutti i settori industriali allora considerati strategici per lo sviluppo del paese. Acciaio, meccanica, chimica, petrolchimica, energia, telecomunicazioni, impiantistica industriale, cantieristica navale, e un po' tutte le branche dell'ingegneria hanno visto operare sui mercati nazionale e locale players anche di dimensioni rilevanti, in grado di reggere la competizione con concorrenti dagli altri paesi industrializzati dell'Occidente
Questo modello è saltato tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90, e di fatto gli unici settori che riusciamo a presidiare sono quelli in cui l'italianità conta ancora qualcosa in termini di marketing: agroalimentare, moda e lusso.
Così non può funzionare. Basta leggersi gli ultimi report disponibili in rete (vedi http://www.osservatoriodistretti.org/) sullo stato semicomatoso dei nostri distretti industriali - cantati come un vanto del nostro ingegno ai tempi in cui si immaginava che l'impresa-rete potesse rappresentare un modello organizzativo vincente - per rendersi conto che la maggior parte di essi ha ceduto sotto la spinta della competizione globale.
I distretti infatti coprivano settori industriali che sono stati tra i primi ad essere attaccati dai paesi di recente industrializzazione dell'Asia Orientale, e basta dare una scorsa a una lista dei distretti riconosciuti per legge per rendersi conto del motivo. Si trattava in massima parte di settori industriali relativamente poco sofisticati, con barriere all'ingresso di nuovi concorrenti bassissime o addirittura inesistenti. Sempre l'Osservatorio Nazionale Distretti Italiani mostra che il grosso di questi è raggruppabile nei settori abbigliamento-accessori, arredo casa, agroalimentare e, vivaddio, automazione meccanica (ma la lettura dell'elenco dei distretti appartenenti a quest'ultima categoria lascia sconsolati, visto che comprende anche i distretti del coltello (!!!) e delle valvole e rubinetterie, tutti manufatti che si possono comprare in Cina a prezzi ridicoli...)
Il nanismo della piccola media impresa italiana (nanismo dimensionale, finanziario, organizzativo e culturale) ha fatto il resto.
La piccole e media impresa, almeno nella maggior parte dei casi, non ha né le risorse finanziarie né la testa per fare le tre cose che oggi contano: approcciare in maniera sistematica il tema dell'innovazione di prodotto/processo; stare sui mercati internazionali costruendo partnership con soggetti locali anziché adagiarsi nello schema anni '60 agente-fiera; delocalizzare con intelligenza almeno una parte dei cicli produttivi. Il fatto che il grosso delle attività sia in settori dove uno startup o uno spinoff, quindi nuove iniziative, non richiedono né grosse dotazioni di capitale, né ricerca e sviluppo troppo sofisticati, né personale troppo qualificato spiega molto.
Senza un'industria florida vengono a mancare posti di lavoro qualificati e ben retribuiti, e lo stesso settore dei servizi soffre.
Ora, è possibile immaginare che lo Stato ritorni ad avere un ruolo importante, come fu negli anni '30 e, più avanti, negli anni della ricostruzione e del boom economico, nel ridefinire e nel rimodulare un nuovo modello di specializzazione industriale per il Paese? Immaginare che questo venga trovato semplicemente per i miracoli compiuto dalla mano invisibile del mercato è una bestialità, non è successo negli ultimi vent'anni e non vi sono ragioni per ritenere che accada in futuro.
Intendiamoci, non è che si debbano per forza resuscitare le vecchie Partecipazioni Statali, ma le forme in cui lo Stato può operare per indirizzare e facilitare lo sviluppo industriale del Paese sono molteplici.
Di questo tema però non parla nessuno, probabilmente perché è più facile scatenare la caccia al moderno untore, l'evasore fiscale.
Di fatto, se anche tutti pagassero le tasse, l'industria italiana collasserebbe ugualmente...
Pierpaolo Pecchiari
Carissimo compagno Claudio,
come ti ho già detto a Volpedo hai fatto bene a rimettere in
circolazione la questione "dazi" perché la parola non può essere più
considerata tabù tantomeno a sinistra.
L'unica cosa che mi sento di dire per raggiungere l'obiettivo che
vogliamo, perecuare i costi dei prodotti, invece che di dazio
parlerei di misure antidunping, peraltro misure già previste in oggi
facendo ricorso al WTO. Certo ci vuole una azione corale dell'Europa
per rendere efficace la contromossa liberalsocialista nei confronti
del liberismo.
Per approfondire il concetto vedasi "Antidunping"Parole chiave il
Sole 24 Ore"
Certamente sono misure tattiche e non certamente "il nuovo modo di
produrre, cosa produrre e chi produce" ... ma assieme alla tassa
sulle transazioni finanziarie intanto si può cominciare agire
concretamente da subito a un riequilibrio dei mercati.
Un socialista dialogante fraterno saluto.
Caro PPP
ho netta l'impressione che anche i socialisti più a sinistra, cole lo sei tu, stiano lentamente scivolando verso una soluzione non precisamente buona: il nazionalismo protezionista.
Come ho avuto occasione di dire a Volpedo, rispondendo in parte all'intervento di Bellavita che mi aveva preceduto, non sono e non saranno i dazi che ci salveranno, per alti che li mettiamo ormai il disastro è fatto e le produzioni a basso contenuto tecnologico o dei settori maturi (uno per tutti l'auto) sono ormai prodotti a costi infinitamente minori nell'ex terzo mondo, che oltretutto ha un poptenziale mercato emergente potentissimo, te lo immagini mettere la piccola Italia (60 milioni di abitanti) competere con CINDIA che fanno 2,5 miliardi di potenziali consumatori?
Ai cinasi ed agli indiani, ma anche ai brasiliani ecc.ecc. ecc. interessa sempre meno esportare in Europa, il trend si è ormai rovesciato (se n'è accorto persino Tremonti).
La sfida dei prossimi anni per i socialist, se ci fosse un'Internazionale Socialista degna di tal nome sarebbe la ricostruzione delle regole dei mercati finanziari, è lì in quel settore della finanza deregolata che esistono i virus che distruggeranno l'economia mondiale, ormai i segni sono evidenti, così com'è evidente che i capetti dei vari Stati (Obama compreso) non sanno che fare perchè sono figli di una ideologia ormai vecchia e superata: il liberismo. Già Marx ci spiegava 150 anni fa che il progressivo accumularsi delle risorse in poche mani avrebbe creato qualche problema.
Gli Stati ancora oggi, Merkel e Sarkozy l'hanno ipotizzato due giorni fa, intendono continuare a gettare soldi pubblici nelle fornaci delle banche, è tempo di lasciar fallire qualche banca, così tanto per dare l'idea che il bel gioco della speculazione a rischio zero (tanto poi gli Stati ci salvano e così noi possiamo speculare sui debiti sovrani) sta finendo. Come opzione B è possibile pensare alla NAZIONALIZZAZIONE delle banche in procinto di fallire (ti salvo ma tu caro board della banca X te ne vai a casa e senza mega liquidazione).
Occorre ricostruire le regole di una economia liberale classica (Bretton Woods fu questo) ed occorre ridefinire ed in fretta le regole per il movimento dei capitali, sino a che restano liberi di muoversi con un semplice click di mouse abbiamo poche speranze.
Tutto il reto è un corollario, quali prodotti faremo, come li faremo e quando saremo in grado di farlo dipende solo da una scelta politica: riregolare i mercati finnanziari.
Dario
PS: sai cos'è la direttiva di Nixon sulle cipolle?
IL vecchio delinquente negli anni 50 del secolo scorso era Governatore di uno Stato che produceva cipolle, ad un certo punto scoppiò la febbre dei futures sul mercato delle cipolle, e trick Dick fece una cosa molto semplice: una direttiva che vietava i futures sulle cipolle (è ancora in vigore oggi) e la speculazione finì. È la Politica bellezza!!!!!
io continuo a dire che il dazio non è necessario metterlo, ma basta
l'effetto annuncio per smuovere qualcosa negli stati senza welfare, che per
quanto poco democratici non possono a lungo posporre il consenso sociale
allo sviluppo economico.
Quanto a metterlo perdavvero, credo che persino l'Italia abbia la bilancia
dei pagamenti attiva con Cindia
Caro Dario, concordo pienemente con la tua analisi. Del
resto, persino in America, il New York Times e il Nobel Paul
Krugman dicono "sono pazzi questi europei". E aggiungono che
la BCE è l'unica banca centrale al mondo e nella storia
che non può approvvigionarsi e approvvigionare
direttamente il suo Stato (che sarebbe la UE)ma deve
finanziare le banche private lasciando che lo Stato (sempre
la UE) si rivolga alla speculazione del mercato. Dicono che
non solo Bernanke, ma anche i governatori delle Banche
Centrali di Cina, Giappone, India, Brasile, ecc. siano
sbalorditi dalle regole di liberismo demenziale sancite con
e dopo Maastricht.
A ridatece BENEDUCE!!!
Marco
Sarà, ma anche con un fisco svizzero (aliquote basse e evasori bastonati) e con una finanza regolamentata il problema del modello di specializzazione industriale rimane.
Se Marchionne distruggesse definitivamente l'industria automobilistica italiana che racconteresti (racconteremmo) agli operai di Mirafiori? Probabilmente le stesse cose che stiamo raccontando ai lavoratori qualificati di quello che, un tempo, fu il distretto dell'EST Milano delle TLC e dell'elettronica: è l'economia, bellezza...
Con il risultato che l'Italia scivola di rango nella classifica dei paesi industriali, con tutto ciò che ne consegue - ma io sono di sicuro uno sviluppista, e da ingegnere ci mancherebbe altro...
Pierpaolo Pecchiari
Compagne e compagni,
c'è da rimanere esterrefatti da questa informazione ... posso capire
che con la mia "altra cultura" mi sia passata inosservata questa
demenzialità monetaristica ma tutti i compagni del PSE economisti
monetaristi, deputati, senatori presidenti PSE, che hanno governato
in Europa da Maastrich in poi è mai possibile che fossero ignoranti
su questo punto ?
Propongo di mettere a punto come GdV e quant'altri interessati, una
lettera al presidente del PSE, a Pia Locatelli e magari anche il
presidente del consiglio europeo Schultz per chiedere cosa pensano di
fare come socialisti europei.
Una urlante indignazione socialista.
Ne parliamo il 18 p.v. ad Alessandria ?
Luigi Fasce
La notte porta consiglio, e stamattina, ripensando a quanto emerso durante la riunione di ieri sera, mi sono ricordato che la risposta alla richiesta di dare un filo conduttore alla nostra azione politica è molto semplice.
L'attenzione ai contenuti può essere soddisfatta riprendendo le elaborazioni e le proposte della nostra "casa madre", il Partito Socialista Europeo.
Questa è la fonte di saggezza alla quale abbeverarsi. E sarebbe dispersivo fare altrimenti.
Se c'è un compito che possiamo darci, e per cui siamo adatti, è quello di diffondere sulla disperata e disperante scena politica milanese le idee e le proposte concrete del PSE.
Se Dio vuole, "l'intendence suivra".
A questo proposito, e in vista dell'organizzazione delle "lezioni" di economia politica, vi segnalo questo interessantissimo documento. Si tratta della bozza di rapporto sulla crisi economica, finanziaria e sociale e sulle misure e iniziative da prendere, preparata da Pervenche Béris per il Parlamento Europeo (http://www.pes.org/en/system/files/Draft_report_PB_EN.pdf).
Non l'ho ancora letto tutto, ma ad una prima scorsa mi pare interessante. Apriamo il dibattito?
In genere la proposta del PSE è semplice, e chi volesse farsi un'idea molto rapidamente troverà molto in queste pubblicazioni, in genere pieghevoli con informazioni molto sintetiche(http://www.pes.org/en/pes-action/pes-documents/publications).
I temi sono sostanzialmente tre: la riconversione del nostro sistema industriale, il controllo del potere finanziario e la difesa del modello sociale europeo.
Mi pare sia più che sufficiente per costruire una piattaforma di politica economica e sociale dignitosa e, come si chiedeva ieri, sufficientemente eterodossa, purtroppo, rispetto al miserrimo dibattito pubblico italiano.
Come è ovvio, la strategia di uscita dalla crisi si fonda sull'impiego di fondi europei (quindi pubblici!) per una riconversione del sistema economico, con l'obiettivo di generare energia, produrre beni, e movimentare beni e persone in modo maggiormente eco-compatibile. Secondo stime PSE un'azione di questo tipo potrebbe generare in Europa circa 8 milioni di posti di lavoro.
Per riprendere una polemica di ieri, mi pare che il PSE sia più attento a ragionare su un nuovo modello di sviluppo industriale - il ragionamento che provavo a fare, sia pure in termini diversi, con riferimento all'Italia - che non all'introduzione di dazi e tariffe doganali.
Buona lettura...
Pierpaolo Pecchiari
Caro PPP
direi quello che ho detto più o meno un anno fa, al convegno che come LabourBuozzi abbiamo organizzato sulla crisi dell'industria a Torino, è cioè che l'auto è un prodotto maturo, che il suo mercato è solo più di ricambio, che le uniche soluzioni possibili per questo settore a Torino sono:
1- la ricerca e la produzione di motori a basso consumo energetico, che già si fa, ma in cui FIAT si sta facendo un po' alla volta raggiungere da GM Powertrain che al Poli di Torino ha ormai un centro ricerche da 600 ricercatori;
2- l'apertura del settore auto ad altri produttori, valorizzando ad esempio l'esperienza di Cecomp che ha rilevato da Pininfarina il progetto del motore elettrico, che sta già producendo a San Giorgio Canavese per la Francia, utilizzando le batterie al litio brevettate da Bollorè,
3- il trasferimento a livello industriale di molte ricerche già messe a punto dal PoliTO.
Per ripensare però una politica industriale degna di tal nome occorre però avere a disposizione delle risorse finanziarie non piccole, ma sino a che le risorse vengono lasciate libere di muoversi per la speculazione non arriveranno mai all'economia produttiva, i tempi per l'accumulazione dei profitti sono infinitamente più rapidi nel campo finanziario che non nel campo industriale. É giusto ragionare su una nuova programmazione economica ed industriale, ma sino a che non ci saranno risorse disponibili parleremo sempre di aria fritta.
I dazi non risolvono nulla, arriviamo a proporli dopo che persino la Lega Nord ha abbandonato l'idea. Ormai i mercati emergenti non hanno più bisogno di esportare verso l'Italia per riempire i loro forzieri, quegli Stati stanno ormai sviluppando i loro mercati interni, che da soli valgono 20 volte quello italiano.
Dario
Il link alla traduzione ufficiale in lingua italiana delle relazione che avevo segnalato stamattina è questo:
http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-%2F%2FEP%2F%2FNONSGML+COMPARL+PE-441.228+01+DOC+PDF+V0%2F%2FIT&language=IT
Come ammette lo stesso Nichi Vendola - a proposito di una discussione fatta ieri sera: "il socialismo europeo ed i partiti socialdemocratici hanno un livello di dibattito interno, di riflessione e di proposta globale infinitamente più avanzato di quello che si vede in Italia".
Sono sicuro che se SEL assumesse come piattaforma di politica economica questa relazione - che è espressione della sensibilità politica e della capacità di analisi ed elaborazione progettuale di partiti socialisti o socialdemocratici che presto torneranno, nei loro paesi, ad essere forze di governo - le accuse di radicalismo estremista si sprecherebbero.
Peraltro ribadisco quanto scritto stamattina: non c'è nessun bisogno di reinventare la ruota o l'acqua calda, se servono davvero i contenuti per caratterizzare una presenza socialista sulla scena politica italiana, il gruppo parlamentare a Strasburgo e, più in generale, il PES ce ne forniscono intere miniere.
Si tratta, piuttosto, di avere la capacità di analizzare, discutere e fare propri questi contributi, per poi cercare di metterli all'ordine del giorno nell'agenda del dibattito pubblico italiano.
Pierpaolo Pecchiari
Penso che senza idea forte di cooperativismo europeo originario
invece che l'attuale libersimo di tutti contro tutti e conseguente
programmazione europea, in special modo in campo economico, e
pienezza di ruolo legislativo del parlamento europeo e presidente UE
con poteri politici e ministri con reali poteri, BCE sotto la mano
pubblica comunitaria, tutte le buone ricette indicate non avranno
effetto alcuno.
Ma prima di tutto il PSE ci deve credere, perseguirla e proporla con
grande chiarezza agli elettori in ogni Stato e per le prossime
elezioni Europee.
Un socialista dialogante fraterno saluto.
Luigi Fasce - cell.3391904417
Ufficio Internazionale del Lavoro (UIL) forte invece di forte WTO al
quale nulla serve che tra i suoi compiti ci sia anche l'intervento
sanzionatorio di antidumping (vedasi "Parola chiave Il Sole 24 Ore")
... se l'agire politico è sotto tutela di multinazionali e mondo
finanziario l'UIL resta ancella impotente se non per sfornare
diagnosi impietose senza peso.
Anche l'ONU sotto Kofi Annan ha provato a mettere qualche freno alla
globalizzazione liberista ma ha lascito il tempo che ha trovato.
Passi avanti sono segnalati con "La relazione Berès alla Commissione
Speciale del PE sulla crisi economica, sociale e finanziaria" ma si
tratta di semplici indicazioni di commissione del parlamento EU.
Quali le convergenze tra Programma Mountebourg e relazione Berès,
quali le divergenze ?
Lasciamo fuori per il momento l'Internazionale Socialista.
Le sta valutando il PSE ?
Quale sarà a questo riguardo il progetto PSE ?
Purtroppo sappiamo il PSE è un coacervo di partiti nazionali che
nelle politiche reali in molti casi perseguono ancore politiche
liberiste.
Un socialista dialogante fraterno saluto.
Luigi Fasce
Trovo, in effetti, riconfortante il fatto che certe tematiche, come la difesa dei diritti dei lavoratori, al nord come al sud del mondo, stiano ritornando d’attualità tra i socialisti. D’altronde, se l’Internazionale si chiama così è perché i socialisti hanno storicamente creduto alla fratellanza degli uomini e ad i loro uguali diritti, aldilà di qualunque frontiera geografica. Come dicevi tu, occuparsi di queste cose sarebbe vocazione dell’Internazionale Socialista, se questa contasse ancora qualcosa – d’altronde, come scriveva Claudio Bellavita qualche giorno fa, basterebbe dare un’occhiata ai partiti membri di quest’organizzazione: fino a meno di un anno fa, ne faceva parte anche quello di Ben Ali...
*
* *
La destra, ma anche la sinistra liberal de noantri, tacciano di “protezionisimo” e di “colbertismo”, un po’ come se fosse un anatema, qualunque proposta che tenti, anche timidamente, di regolare questa globalizzazione selvaggia. In realtà, un abisso separa il protezionismo populistico della Lega Nord e di Marine Le Pen dalla demondialisation di Arnaud Montebourg, il fair trade di un Stiglitz, o anche, se vogliamo, il juste echange di Martine Aubry. I primi giocano con la xenofobia, i secondi cercano, a modo loro, magari talvolta anche sbagliandosi, di regolare questa giungla che è diventata l’economia e la finanza mondiale. Ma questo dovremmo spiegarlo a Giavazzi e compagnia...
Saluti socialisti,
Diego
Negli emendamenti alla Dichiarazione di principi del PSE approvati dal Gruppo di Volpedo e fatti propri anche dal PSI Lombardia e dal Network c'è un passaggio specifico su misure compensative della mancanza di libertà politica e sindacale e del rispetto delle norme ambientali
Io temo che alcuni discorsi che stiamo facendo siano inapplicabili, o
pericolosi.
Scusate il facile liberalismo da manuale, ma se controlliamo troppo
non aiutiamo a crescere, bensì soffochiamo. Tutti....
Anche io vedo in un approccio multilaterale l'unica possibilità di
temperare le dinamiche di questa crisi, ma al tempo stesso - mi rendo
conto della contraddizione - sento che questo passaggio può essere
pieno di rischi, rischi di forzatura e di eccessivo peso della
politica, in nome del Bene
Chi parametra il Giusto livello di sicurezza sociale e di diritti a
cui attestarsi da un punto di vista globale?
E' possibile decidere tale livello a prescindere dalla ricchezza di un paese?
Vedo benissimo il "fine positivo" che questa regolamentazione vorrebbe
perseguire, ma mi pare che ci sia il grave rischio che venga
utilizzata solo per fini iperprotezionistici in senso bieco.
Il linguaggio è sintomatico di ciò: perché "demondializzare"? Il
punto riportato in una delle mail "(...) 3) “creare un’agenzia
francese che calcoli il costo sanitario, ecologico, e sociale dei
prodotti stranieri (...)" è abbastanza rivelatore dell'ambiguità di
alcuni "buoni propositi". Allo "straniero" va applicato il calcolo dei
costi...
Il rischio che sinistra e destra estreme alla fine parlino la stessa
lingua è altissimo, e forse non sarebbe così strano...
Francesco Maria
Caro Francesco Maria,
senza entrare troppo nel merito della tesi che difendi - "se controlliamo
troppo non aiutiamo a crescere, bensì soffochiamo" - e che condivido se
applicata ad un economia di stampo sovietico, ma che mi sembra eccessiva se
si parla di regolare la giungla della globalizzazione odierna, vorrei giusto
fare una precisazione sulla proposta di Montebourg che hai citato nella tua
mail.
I prodotti stranieri i cui costi sanitari, ecologici, e sociali andrebbero
calcolati, sono quelli che provengono dall'esterno dell'Unione Europea. Non
c'è nessun intento "ambiguo", semplicemente si tratta di assicurarsi che le
T-shirts made in China che si vendono in qualunque negozio italiano siano
prodotte nel rispetto delle regole sanitarie, ecologiche, e sociali alle
quali sono sottoposte le aziende che producono all'interno dell'Unione
Europea. Il problema non è, dunque, lo straniero, il problema è il rispetto
delle regole. Peraltro, la Cina, che è molto meno liberale e liberista di
noi europei, non si fa problemi a mettere dazi e ad inquadrare la produzione
e commercializzazione dei prodotti stranieri sul suo territorio. En passant,
i cinesi esportano con una moneta al 30-40% al di sotto della naturale
quotazione di mercato. In pratica, siamo solo noi europei che permettiamo
alle nostre aziende di produrre a prezzi orientali e a vendere a prezzi
occidentali. Questa è una forma di speculazione e su queste cose è normale
che intervengano i socialisti. Mi sembra che questo non abbia niente a che
vedere con i pregiudizi xenofobi dell'estrema destra.
Un saluto socialista,
Diego
Caro Diego,
il tuo discorso ha sicuramente elementi molto giusti, e abbiamo
sofferto in passato di un liberismo che non ha fatto i conti con il
problema delle regole da far rispettare a tutti: ma quando dico tutti,
il primo esempio che mi vine in mente è un certo protezionismo di noi
europei, nei confronti di altre nazioni europee
(http://www.lavoce.info/articoli/pagina2028.html ).
Ora, il problema del protezionismo - oltre al principale, e banale
fatto che secondo me non fa crescere - è duplice, a mio modesto
avviso: 1) quali sono i confini che si proteggono? 2) in una
precedente mail, dicevo che il protezionismo era accettabile come cura
temporanea: quando e come si "guarisce" riaprendo il mercato?
Sul punto 1, mi dici che i confini che vengono citati sarebbero quelli
europei: e cioè? in quel punto in realtà si parla di "agenzia
francese"... Secondo me in ogni caso protezionismo chiama
protezionismo, e il rischio è che le nazioni europee, ancora poco
integrate fra di loro, con la Grande Scusa della Crisi ricomincino (ma
l'hanno mai cessata? vd. l'articolo della Voce citato poc'anzi) una
pratica politica - comprensibile nel breve periodo - ma che rischia di
portarci a maggiore povertà, e anche a qualche sbocco violento, a mio
avviso...
Questo indipendentemente dalle buone intenzioni: sicuramente le
intenzioni socialiste sono diverse da quelle della Le Pen.
Ma siamo politici accorti, e non possiamo non vedere che se la parola
d'ordine che passa è "protezione contro il mondo", la grideranno più
facilmente i nazionalisti. E' già successo, mi pare...
Certo, la Cina gioca scorrettamente ed è un dovere politico tentare di
riequilibrare questa posizione. Ma nulla è gratis: questo tentativo
può essere fatto solo mettendo sul piatto il peso politico di Pechino,
accettando quella nazione come interlocutore privilegiato; lo è già di
fatto ma molto "sotto traccia". Siamo pronti ad accettare tutte le
conseguenze del fatto di vedere la Cina pienamente protagonista? (vd.
http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it/2011/08/24/africa_e_mo_costringere_la_cin.html)
E detta anche in maniera cruda: quando noi come paese e come
continente nel dopoguerra siamo cresciuti economicamente, avevamo
tutti gli standard di qualità che ora richiediamo ai paesi emergenti?
mi sembra quanto meno "furbo" che ora chiediamo agli altri ciò che
anche noi non avevamo, e a volte non abbiamo tuttora.
Io vorrei vedere le regole italiane - che comunque sono pesanti,
Diego, chiediamolo a chiunque voglia investire in Italia, anche
proveniente da paesi civilissimi, chiedete a chi si occupa di
"tradurre" il diritto del lavoro italiano per le multinazionali... -
applicate a tutti, cinesi e italiani, indifferentemente. Ma al tempo
stesso vorrei maggiore capacità di costruire un tessuto produttivo.
(E - se posso dirla in una battuta, perché il ragionamento chiederebbe
più spazio ed è in parte fuori tema: vorrei meno regole, ma più
controlli, ed efficaci sanzioni... Da noi non c'è stata la Thatcer, da
noi c'è l'art.18, da noi c'è la valutazione dello stress correlato...
e poi da noi c'è la tragedia delle operaie di Barletta, e c'è un
altissimo numero di incidenti sul lavoro.... Forse qualcosa non va sul
Quanto Legiferiamo/Regoliamo e sul Quanto - e Come - Controlliamo...
Non che le cose siano in contraddizione fra loro, ma è come se il
nostro discorso fosse sempre "astratto e normativo", e poco
"concreto")
Proteggerci dalla magliette "made in China" può essere un palliativo
per i nostri sistemi economici, non la soluzione, temo.
E dovranno essere i cinesi - e gli indiani, e i brasiliani - a
chiedere al loro interno regole sociali nuove. La loro crescita
economica sta gettando semi per una crescita della domanda di
protezione sociale e di benessere. Questa "mano invisibile" - gulp,
scusatemi - è lo strumento con cui i costi di produzione possono
riequilibrarsi, non certo qualche regolamento, capace - temo, ma
magari esagero - di creare più mercato nero, se arriva "a cose fatte",
come di fatto è già fra noi la penetrazione degli altri continenti nei
nostri mercati.
E' forse inevitabile questo ritorno della mano pubblica a regolare il
mercato, ma al tempo stesso molto pericoloso.
L'importante è avere chiaro l'obbiettivo: aprire di più, integrare di
più i mercati; se posso prendere spunto da un Papa che usava
l'immagine in altro contesto: Non alzare Muri (di regole, aggiunta
mia), ma costruire ponti (di scambi; certo con semafori e corsie un
minimo segnate, ma con pochi check point...)
Con affetto
Francesco Maria
c'è qualcosa di più complesso.
La Cina e la Russia di Stalin sono l'esempio di quanto in fretta si può
avanzare economicamente a forza di piani quinquennali in un paese
dittatoriale.
I cinesi, però hanno dato largo spazio all'iniziativa privata, che ha
accelerato il processo: quando aumenteranno le vertenze sociali,
l'onnipresente partito che ha l'obbiettivo di restare sempre al potere
scaricherà questi privati, dando loro tutte le colpe, e ne creerà di
nuovi...
L'occidente è diventato ricco sfruttando i poveri senza voce: prima quelli
di casa, poi quelli delle colonie e infine quelli immigrati.
Quando finisce questo ciclo si passa al primato della truffa finanziaria,
che ha potuto operare in un mercato privo di controlli per la moda
liberista: dalla padella alla brace e adesso si cerca di tornare nella
padella, portandosi però dietro troppa brace.
Caro Francesco Maria,
grazie per la tua mail. Senza voler essere a tutti i costi l'avvocato di
Montebourg - come dicevo, alcune sue proposte andrebbero meglio precisate,
se non corrette - penso che la sua idea di creare un'agenzia che calcoli il
costo sanitario, ecologico, e sociale dei prodotti stranieri (cioè esterni
all'UE) prima in Francia poi in seno all'UE, sia legata al fatto che ogni
settimana nuove fabbriche sul territorio francese sono delocalizzate, mentre
i tempi dell'Unione Europea, purtroppo, li conosciamo bene... Bisognerà,
evidentemente, creare dei sistemi di protezione a livello europeo, ma con
questi chiari di luna (24 su 27 dei governi dell'UE sono
conservatori-liberali) penso che, per lo meno per quanto riguarda questa
agenzia, sia già importante intervenire a livello nazionale.
Un altro punto: è vero che, per secoli, il modello di sviluppo occidentale è
vissuto consapevolmente sullo sfruttamento delle risorse economiche,
ecologiche, ed umane del terzo mondo. Si tratta evidentemente di
un'ingiustizia - anche se sono esistite in seno al campo occidentale voci
critiche in materia. Detto questo, non capisco perché, in ragione del fatto
che i paesi occidentali hanno imposto delle ingiustizie agli altri, adesso
dovrebbero accettare le stesse ingiustizie da parte altrui, un po' come se
si dovesse accettare il principio lex talionis ("occhio per occhio...")
applicato a miliardi di persone. Un'ingiustizia resta un'ingiustizia, in
qualunque campo ci si trovi: era giusto denunciarla quando era a nostro
vantaggio, è giusto denunciarla adesso che è nostro svantaggio.
Un saluto dialogante,
Diego
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