mercoledì 11 maggio 2011

Renato Fioretti: I sessant'anni di errori della cgil e le bugie di pietro ichino

I sessant’anni di errori della Cgil e le bugie di Pietro Ichino

di Renato Fioretti

Da sempre, in qualità di convinto sostenitore del principio secondo il quale a chiunque debba essere consentito e garantito di esprimere le proprie opinioni, anche di fronte a proposte non condivise, mi sono (semplicemente) limitato a esporre i motivi del mio dissenso. Tentando, contemporaneamente, di evitare qualsiasi tipo di commento irriguardoso nei confronti dell’interlocutore di turno.
Ci sono, però, momenti in cui anche il più determinato e convinto sostenitore della famosa massima volterriana corre il concreto rischio di cadere preda del dubbio, circa la bontà dei suoi convincimenti.
Personalmente, non esente da tale limite, comincio a nutrire grandi perplessità circa l’opportunità di limitare le mie proteste a una politically correct interlocuzione nei confronti di chi, invece, appare sempre teso (e particolarmente determinato) a provocare reazioni “sopra le righe”.
E’ questo il (ricorrente) caso di Pietro Ichino. Un interlocutore del quale, a mio parere, si rende necessario cominciare a dubitare della buona fede.
Una delle sue ultime “perle” risale all’ennesimo articolo pubblicato, appena qualche giorno fa, sul Corriere della Sera.
Nel merito, a prescindere dal fatto che - a questo punto - la sua ossessiva riproposizione del “Contratto a tempo indeterminato con garanzie crescenti nel tempo”, temo proponga (ormai) aspetti meritevoli di approfondimenti di carattere patologico, piuttosto che “tecnici”, rilevo un’affermazione che merita di essere risolutamente smentita; perché falsa e strumentale. Se, come suo costume, aduso alle esasperazioni, parlerei di falsità storica!
Mi riferisco al contenuto della risposta a un lettore che contestava l’affermazione secondo la quale, negli ultimi 60 anni, sulle questioni in cui vi era stata contrapposizione tra Cgil e Cisl, era quest’ultima ad avere avuto sempre ragione.
Nel replicare al lettore, Ichino, tra l’altro, affermava: ” In questo secolo, poi, lo scontro si è spostato sulla legge Biagi, accusata dalla Cgil di essere la fonte principale del precariato; ma quando, nei dibattiti pubblici, chiedo al mio interlocutore Cgil di indicarmi un solo tipo di contratto di lavoro precario che sia stato introdotto ex novo (oppure la cui disciplina sia stata allentata) dalla legge Biagi, nessuno me ne sa indicare neppure uno solo. Dunque, anche su questa scelta le accuse roventi mosse a Cisl e Uil, erano sbagliate”.
Naturalmente, rispetto ai (sostanziali ed ininterrotti) sessant’anni di errori della Cgil, è solo il caso di rilevare che appare preoccupante scoprire che un senatore della Repubblica (considerato grande esperto di questioni sindacali) abbia bisogno di oltre quarant’anni - tra iscrizione, militanza e servizio - prima di scoprire una verità così scontata ed appariscente da meritare di essere liquidata (in poche battute) con assoluta e semplicistica certezza!
Quanto all’aggravio di precarietà: è opportuno chiarire che qualsiasi interlocutore Cgil - dotato della capacità (minima) di intendere e di volere - non avrebbe alcun problema a dimostrare l’assoluta infondatezza delle dichiarazioni di Ichino rispetto alle responsabilità della legge-delega 30/03 e del suo decreto applicativo 276/03.
Personalmente, ritenevo aver archiviato la questione dopo un “franco e serrato” confronto ospitato, appena qualche mese fa, dal sito web di Micromega.
Purtroppo, la monotona insistenza con la quale Ichino persevera, nel cercare di “negare anche l’impossibile”, m’induce a ribadire alcune considerazioni di merito.
Allo scopo, è sufficiente rilevare che il D. Lgs. 276/03 - e, quindi, non la legge-delega 14 febbraio 2003, nr. 30, che (strumentalmente) Ichino continua a richiamare quale legge “Biagi” - ha, viceversa, introdotto almeno una tipologia contrattuale ex novo e, contemporaneamente, “allentato”, in modo rilevante, la disciplina di molte altre.
La nuova forma di rapporto di lavoro è (certamente) rappresentata dal c.d. “contratto d’inserimento” che, a differenza di quanto previsto dalla stessa legge 30/03 - circa l’esigenza di procedere al “riordino dei contratti a contenuto formativo” - rappresenta tutt’altra cosa rispetto al noto contratto di formazione e lavoro.
Infatti, rispetto ai Cfl, il contratto d’inserimento - contrariamente a quanto sostenuto da Ichino: ” Si tratta sostanzialmente della stessa cosa, sia pure disciplinata in modo marginalmente diverso” - presenta una serie di caratteristiche che lo differenziano in modo sostanziale.
Nel merito: non è un “contratto a causa mista” (la formazione non è più obbligatoria, ma solo “eventuale”), non è più uno strumento riservato esclusivamente ai giovani fino ai 32 anni di età, è reiterabile presso un diverso datore di lavoro ed è applicabile anche ai casi di “reinserimento” nel mondo del lavoro - autorizzando una sorta di sotto-salario - per lavoratori già provvisti di ampia esperienza professionale e lavorativa.
Tra l’altro, per i portatori di handicap, la sua durata massima passa dai 18 ai 36 mesi e, poiché la legge non vieta espressamente una seconda, terza o ulteriore assunzione - sempre attraverso la stessa tipologia contrattuale - è sin troppo facile immaginare quale sorte (peregrina) si prospetta (anche) per i soggetti più deboli del nostro mercato del lavoro.
Altro che “Marginalmente diverso”! L’unica cosa (negativa) in comune con i Cfl, è rappresentata dalla possibilità di sotto-inquadrare il lavoratore di ben due livelli categoriali.
Rispetto al c.d. “lavoro ripartito” - appena accennato da una circolare ministeriale (la nr. 43 del 7 aprile 1998, dell’allora ministro del lavoro Tiziano Treu) - ancora una volta, è appena il caso di rilevare che, contrariamente a quanto sostiene Ichino: “E’ una clausola del contratto di lavoro che non incide sulla sua durata, bensì sulla disciplina dell’estensione e collocazione temporale della prestazione …….”, il legislatore nazionale, attraverso il 276/03, è intervenuto molto pesantemente.
Infatti, a palese sconfessione delle affermazioni di Ichino - secondo il quale la legge 30/03 non ha “allentato” alcuna disciplina previgente - è a tutti noto che l’art. 41, comma 5, del suddetto decreto legislativo, prevede che: ”Salvo diversa intesa tra le parti, le dimissioni o il licenziamento di uno dei due lavoratori coobbligati comportano l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale”. Lo stesso provvedimento è previsto anche nel caso in cui entrambi i lavoratori siano impossibilitati a fornire la prestazione lavorativa.
E’ quindi evidente che, in un solo colpo, in seguito ad un’eventuale assenza contemporanea dei due soggetti - anche per cause a loro non imputabili, quali: malattia, infortunio o, addirittura, maternità - si produce un grave vulnus alla garanzia del posto di lavoro.
La cosa incredibile è che Ichino sostiene che il lavoro ripartito: ”Non è una forma di lavoro precario”, e, contemporaneamente, che: ”La sua disciplina (come prevista dal 276/03) corrisponde esattamente, parola per parola, a quella contenuta nella circolare Treu del 1998”. Nulla di più falso!
Al riguardo, giova ricordare che, dalla suddetta circolare ministeriale - a parte alcune considerazioni di carattere generale - si rilevavano due soli aspetti.
E cioè: la presa d’atto della mancanza di una normativa di merito: ”La figura del lavoro ripartito non ha ancora trovato una compiuta e specifica regolamentazione nel nostro ordinamento” e l’indicazione di (alcuni) criteri di massima che avrebbero dovuto regolare lo specifico rapporto di lavoro.
Nessuna corrispondenza, quindi, al fantomatico “parola per parola” richiamato da Ichino.
Anche il contratto di lavoro “intermittente” non sfugge alla stessa logica.
Infatti, le affermazioni dell’esponente Pd: ”La legge Biagi si è limitata ad attribuire a questa fattispecie (la reiterazione nel tempo del contratto di lavoro a termine di durata inferiore ai 12 giorni) un nome nuovo e a regolarla in modo più restrittivo rispetto alla disciplina precedente”, non corrispondono al vero.
Nello specifico, se è vero che la previgente disciplina dei rapporti a tempo determinato prevedeva l’utilizzo di lavoratori per brevi periodi, senza l’obbligo della forma scritta, è altrettanto vero che ciò era limitato ad alcune tipologie di attività lavorative - camerieri per banchetti, hostess per convegni e figure similari - e non, come impropriamente previsto oggi, indipendentemente dal carattere intermittente o discontinuo della prestazione.
Inoltre, nella sua strenua “difesa anche dell’indifendibile”, Ichino dimentica che il Legislatore nazionale, nel varare la disciplina del lavoro intermittente, ha (colpevolmente) omesso di prevedere alcuna sanzione a carico di quei datori di lavoro che dovessero ricorrervi al di fuori delle ipotesi previste o violarne i divieti!
Così come (ancora oggi, a distanza di sei anni) fa finta di ignorare che - come previsto da una circolare dell’allora ministro del lavoro (Maroni) - la chiamata del lavoratore intermittente può essere effettuata anche in forma “orale”!
Anche rispetto alla somministrazione di lavoro (ex “interinale”, di cui alla legge 196/97), Ichino tenta di “raggirare” gli sfortunati (e, preferibilmente, disinformati) interlocutori.
Infatti, egli insiste nel sostenere che il c.d. “staff-leasing” (somministrazione di lavoro a tempo indeterminato) non sia da considerare una forma di lavoro precario e, a sostegno delle sue affermazioni rileva: ”Si tratta di una forma di organizzazione del lavoro nella quale il rapporto è a tempo indeterminato, con applicazione dell’art. 18 dello Statuto e, addirittura, con divieto di licenziamento collettivo: lo staff leasing non può dunque in alcun modo qualificarsi come un rapporto di lavoro precario”.
Al riguardo, è opportuno sottolineare che, anche se è vero che esiste il divieto di licenziamento collettivo (di cui alla legge 223/91), il lavoratore in somministrazione a tempo indeterminato - contrariamente a quanto vorrebbe far intendere Ichino - è comunque soggetto al licenziamento per “motivo oggettivo” (giusto art. 3, legge 604/66, come espressamente previsto dall’art. 22, comma 4, del decreto legislativo 276/03).
Quindi, “licenziamenti individuali plurimi” piuttosto che collettivi!
Tra l’altro, lo stesso lavoratore ha un duplice motivo per temere di incorrere in un licenziamento per motivi oggettivi: per cause legate all’agenzia dalla quale dipende e, nel secondo, nel caso in cui venga meno, per qualsiasi motivo, il contratto di somministrazione a tempo indeterminato (tra l’agenzia ed il soggetto “utilizzatore”).
Senza dimenticare che - rispetto all’affermazione secondo la quale la legge “Biagi” non avrebbe aumentato i casi in cui il lavoro temporaneo (esclusivamente nella forma del tempo determinato) era già ammesso dalla legge Treu - Ichino finge di ignorare che, già da alcuni anni, grazie alla circolare ministeriale 7/05, l’ambito applicativo del ricorso a tale tipologia contrattuale (per tutte le funzioni “connesse”) è stato notevolmente ampliato!
Per chiudere sull’argomento: è anche il caso di evidenziare che, se attraverso il lavoro interinale Treu aveva inteso operare una (limitata) deroga alla legge 1369/60 - attraverso l’individuazione di precise causali, la determinazione della durata massima del rapporto e la definizione di percorsi contrattuali ben definiti per il ricorso alla somministrazione a tempo determinato - la scelta operata dal governo Berlusconi nel 2003, di abrogazione della 1369/60, ha prodotto la legalizzazione della funzione di “interposizione” (l’agenzia di somministrazione), a scopo di lucro, tra il lavoratore e colui il quale gode, in concreto, della sua prestazione professionale (azienda utilizzatrice).
Anche relativamente alle norme che, attraverso l’art. 14 del 276/03, hanno, a mio parere, reso ulteriormente precari i rapporti di lavoro dei soggetti svantaggiati e disabili, “parcheggiati” presso le cooperative sociali - dai datori di lavoro soggetti al rispetto dell’obbligo della c.d. “riserva di legge” (giusta legge 68/99) - la posizione di Ichino mostra una straordinaria superficialità, dettata, evidentemente, da una (errata) sottovalutazione dell’entità del problema per tanti lavoratori “svantaggiati”.
Infatti, al rilievo secondo il quale le nuove disposizioni avrebbero cancellato il precedente obbligo di assunzione a tempo indeterminato (da parte del datore di lavoro soggetto a rispetto dell’obbligo della riserva), oltre a rendere possibile la reiterazione del “parcheggio” del lavoratore presso le cooperative - ipotesi espressamente vietata dalla previgente disciplina - Ichino replica ignorando i termini della questione e cercando di “sviare” l’attenzione dell’interlocutore di turno: ” In questo campo contano i risultati: la nuova norma ha, o no, aumentato le possibilità effettive di accesso al lavoro per i disabili”?
Al riguardo, resta inteso che, anche se la nuova norma avesse realmente aumentato (in misura consistente) le possibilità di accesso al lavoro dei soggetti svantaggiati e disabili, ciò non eliminerebbe la gravità del problema conseguente all’entrata in vigore della nuova disciplina: il consistente aggravio del tasso di precarietà.
Al di fuori di ogni logica, è, poi, la replica di Ichino all’affermazione secondo la quale il 276/03 - nel procedere alla nuova formulazione dell’art. 2112, comma 5, del c.c. -abbia prodotto ulteriore precarietà nell’escludere la necessità che, in caso di cessione di ramo dì azienda, l’autonomia organizzativa dell’attività da trasferire - come previsto dalla previgente disciplina - sia precedente al trasferimento e conservi la sua identità all’atto dello stesso.
Infatti, il senatore Pd si limita a, sostanzialmente, tentare di dimostrare la mancanza di un legame reale tra le due questioni.
L’impresa è, evidentemente, ardua e Ichino, pur di riuscirci, corre il rischio di sottoporsi al ridicolo arrivando, addirittura, a sostenere: ” La norma sulla cessione del ramo d’azienda si colloca in tutt’altro capitolo, rispetto all’accusa di aumento della precarietà prodotto dalla legge “Biagi”.
La stessa sorte tocca alla contestazione secondo la quale (ancora) il suddetto decreto legislativo abbia introdotto ulteriori elementi di precarietà al rapporto di lavoro a tempo parziale.
Anche qui, la replica di Ichino è semplicemente sconcertante.
“Quello del par - time è tema del tutto diverso da quello del lavoro precario”!
Come se il 276/03 non fosse pesantemente intervenuto al fine di:
a) abolire la possibilità che la contrattazione collettiva potesse regolare il c.d. “consolidamento” (delle ore normalmente eccedenti quelle previste dal contratto);
b) rendere sostanzialmente obbligatorio il lavoro “supplementare”: perché, se previsto dal contratto di lavoro, il lavoratore potrà dichiarare la propria indisponibilità, ma, a differenza della previgente disciplina, non è più escluso che il datore di lavoro possa adottare un provvedimento disciplinare a suo carico;
c) introdurre le c.d. “clausole elastiche” (espressamente vietate dalla precedente disciplina), al fine di aumentare la durata della prestazione lavorativa inizialmente concordata;
d) abrogare il diritto del lavoratore al “ripensamento” (dopo un certo periodo dalla variazione della collocazione temporanea della sua prestazione lavorativa);
e) “declassare” - nel part - time verticale - a lavoro “supplementare” quello che, in virtù della precedente disciplina, era considerato (e pagato) lavoro “straordinario”;
f) non prevedere più che il lavoratore, in caso di trasformazione del rapporto di lavoro - da tempo pieno a tempo parziale - possa essere assistito da un rappresentante sindacale che ne tuteli i diritti e verifichi che si tratta di una scelta realmente “condivisa”.
In conclusione, se neanche uno di tutti questi elementi rappresenta un motivo sufficiente affinché il senatore Ichino valuti l’opportunità di abbandonare le sue insostenibili certezze, prendendo atto che non tutti gli occasionali interlocutori sono “timidi” frequentatori del primo anno del suo corso di studi o sprovveduti lettori, quanto, piuttosto - anche se iscritti o dirigenti Cgil - soggetti dotati di media capacità intellettiva, renderà giustizia, soprattutto, alla sua intelligenza!

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