La liberazione del socialismo
Il socialismo democratico ha rappresentato una alternativa concreta al capitalismo liberale fondato contestualmente sul rifiuto del collettivismo burocratico sovietico.
Massimo Salvadori mette in rilievo come il socialismo democratico non è affatto stato una “variante debole” del comunismo come sostengono molti teorici neoliberali ma una alternativa forte ad esso all’interno della sinistra.
La prima guerra mondiale e la crisi del 29 segnano la fine della civiltà liberale incapace di dare risposta alle gravi contraddizioni del capitalismo che provocano le due guerre mondiali, inframmezzate dalla crisi del 29 e dall’avvento del comunismo e del fascismo.
Un grande esponente del socialismo umanistico nonché fondatore di una nuova disciplina, quella dell’antropologia economica, Karl Polanyi, un ungherese che è poi vissuto in Austria, Inghilterra ed Usa, è quello che ha analizzato meglio il fenomeno della crisi del capitalismo liberale che di fatto fa terminare il lungo XiX secolo che si prolunga per parte del XX. E lo fa in un libro che ha avuto molta fortuna in Francia ed in Germania “La grande trasformazione”, meno in Italia dove lo ha fatto conoscere poco più di venti anni fa, Giorgio Ruffolo.
Polanyi sottolinea in aperta polemica con gli economisti liberali neoclassici il carattere storico e non naturale del mercato e dei suoi rapporti mutevoli con la società. Egli non identifica (come fecero i comunisti) mercato e capitalismo perché quest’ultimo non coincide con la pura esistenza di uno spazio di scambio mercantile quanto piuttosto nella cosiddetta “società di mercato” in cui il mercato diventa il centro della società e la misura di tutte le cose. Polanyi sottolinea il carattere umanamente distruttivo e socialmente disgregante del capitalismo. Ma in alternativa ad esso egli rifiuta (come abbiamo visto) il modello comunista, ma opta chiaramente per un socialismo democratico ed umanista che piuttosto che abolire il mercato lo sottopone ad una forte regolazione sociale per farlo essere non più il centro della società ma qualcosa che la società tiene sotto controllo per potersi autodeterminare liberamente senza essere eterodiretta dai rapporti di forza che si creano nel mercato capitalistico. Il socialismo di Polanyi è in forte sintonia con i suoi cari amici Otto Bauer (leader del socialismo austriaco) George H. Cole (ledaer della sinistra laburista inglese) che immaginavano un socialismo fondato sull’autogestione, lo sviluppo della cooperazione sociale partecipata, le comunità civiche ed il mutualismo e richiama le idee di un grande socialista utopista inglese, Robert Owen. Polanyi in un altro suo libro, “la libertà in una società complessa” mette in rilievo i forti limiti della idea di libertà dei liberali (la libertà negativa). Pur conservando il nucleo positivo della idea di libera esplicazione della personalità dell’individuo (più Kantiana che liberale) egli considera astratto ed inconcludente il meccanicismo atomistico e utilitaristico che informa la concezione della società propria dei liberali. Così come l’organicismo sociale del leninismo. La società complessa, per Polanyi fa giustizia di tali approcci unilaterali, in quanto gli individui non sono né atomi separati ne appendici di una megamacchina ma sono interdipendenti ed interagenti per cui libertà, coesione e giustizia sono strettamente connessi.
Il pensiero di Polanyi e di altri socialisti democratici, sia di matrice marxista che non, si incontra naturalmente con quello degli economisti postkeynesiani (i keynesiani di sinistra) – Nicholas Kaldor , Joan Robinson ed altri – i quali interpretano correttamente Keynes come esplicita rottura rispetto alla economia neoclassica liberale. Tra Marx ed i postkeynesiani c’è una convergenza esplicita nel rifiutare il capitalismo come sistema “naturale” ed eterno, sottolineando la sua transitorietà e storicità.
Marx ha insegnato ai socialisti a fare i conti con quelli che sono i reali rapporti di forza nella storia e nella società. La sua critica al socialismo utopistico (Fourier ed Owen) non sta nel contestarne il progetto, ma nel pensare che basti una idea giusta per trasformare la società. Occorre invece analizzare scientificamente la dinamica e le contraddizioni del capitalismo, insomma i concreti rapporti di forza che condizionano la nostra volontà. In modo errato si è creduto che Marx pensasse che l’agire umano fosse primariamente guidato da fattori economici. Niente di più falso: in realtà Marx vuole liberare l’uomo dalla necessità derivante dal primato dell’economia. Come ha spiegato Erich Fromm l’elemento economico è un fattore fortissimo di condizionamento in senso sociologico, ma non costituisce affatto la motivazione (in senso psicologico) dell’agire umano (che è la risultante di elementi complessi). Quest’ultima tesi è invece quella propria degli economisti liberali e borghesi.
Marx ha ben visto che il capitalismo non è un sistema in equilibrio; la sua tesi della concentrazione e centralizzazione dei capitali (fino alla comparsa degli oligopoli e dei monopoli) è stata confermata dai fatti, così come l’esistenza dei cicli economici che portano alle crisi strutturali. Il limite del marxismo è quello di aver inserito tale analisi nello schema deterministico e finalistico della filosofia della storia di Hegel. Ma probabilmente questo non è un limite di Marx quanto del pensiero marxista successivo ed in particolare dell’hegelo-marxismo che ha caratterizzato il comunismo della III Internazionale. In realtà molti ritengono che quelle di Marx siano leggi “di tendenza” e non leggi assolute dello sviluppo storico (come è in Hegel). Insomma la storia non è una costruzione arbitraria ma in essa non si sono affatto percorsi obbligati. E questo dà spazio alla capacità di scelta degli uomini ma senza ignorare gli elementi di condizionamento oggettivi.
Un altro limite in Marx è la non considerazione dei fattori antropologici (che ben analizza Polanyi) e del ruolo dell’immaginario sociale (Castoriadis) che Marx relega a fattori sovrastrutturali.
Per questo è necessario che il pensiero di Marx non venga considerato autosufficiente (come fanno i marxisti ortodossi di tutte le epoche) ma venga integrato e corretto dal pensiero keynesiano e dagli studi di Polanyi per meglio capire il capitalismo contemporaneo.
Il forte pregiudizio verso la socialdemocrazia e verso lo stesso stato sociale dei marxisti ortodossi è il frutto di questa pretesa autosufficienza (con tutto il dogmatismo che si porta appresso).
Ma facciamo un altro passo in avanti per capire il ruolo del socialismo democratico nel 900. E’ girata spesso la panzana o la leggenda metropolitana della matrice liberaldemocratica del Welfare. E questo perché Lord Beveridge (un liberale progressista inglese) presiedette la commissione che elaborò il progetto di stato sociale poi applicato dal governo laburista di Clement Attlee dal 1945 al 1951. In quella commissione, guarda caso, c’erano due autorevolissimi economisti socialisti Nicholas Kaldor (di cui abbiamo già parlato) e Tawney i quali furono quelli che materialmente svilupparono i contenuti del welfare inglese.
Ma dieci anni prima in Svezia il welfare moderno fu realizzato dai socialdemocratici sulla base delle idee del grande economista socialista Gunnar Myrdal , che nel suo pensiero sintetizza Keynes (alcuni lo ritengono un suo precursore) e Polanyi. Le radici del welfare sono profondamente socialiste.
Sono stato costretto a fare questo ampio escursus storico per smontare pregiudizi e mistificazioni che in Italia sono entrati nel senso comune. Insomma sia i comunisti che i liberali hanno profondamente distorto il significato del socialismo. I secondi (prigionieri dell’utilitarismo economicistico) hanno visto nel socialismo solo un modello economico fondato sulla collettivizzazione dei mezzi di produzione e sulla pianificazione centralizzata. I marxisti-leninisti hanno concepito invece il socialismo come un modo di produzione transitorio tra capitalismo e comunismo fase in cui con la distribuzione del prodotto secondo i bisogni lo stato si estingue – o meglio si trasforma da apparato politico ad apparato amministrativo.
Questa visione è figlia di quella filosofia della storia deterministico-finalistica hegeliana che è il principale limite del marxismo.
Marx usava i termini socialismo e comunismo come intercambiabili. Nella “critica al programma di Gotha” – era stato scritto in polemica con Lassalle – Marx delinea due stadi successivi di sviluppo della società socialista. Il primo in cui il prodotto sociale si distribuisce sulla base del lavoro prestato da ciascuno ed il secondo sulla base dei bisogni. C’è anche da dire che Marx questo secondo stadio lo vedeva molto lontano nel tempo “ quando le sorgenti della ricchezza sociale scorreranno liberamente ed il lavoro sarà diventato il primo bisogno dell’uomo, la società può scrivere sulle sue bandiere: “da ciascuno secondo le sue capacità; a ciascuno secondo i propri bisogni”. Lenin abusivamente definì socialismo la prima fase e comunismo la seconda. Il povero Marx non immaginava evidentemente che tale frase sarebbe stata ripetuta pappagallescamente da tribù di idioti (che non ne comprendevano magari il significato – Finardi quando faceva il rivoluzionario da strapazzo la inserì addirittura in una sua canzone).
In Italia Riccardo Lombardi è quello che mi ha fatto capire i limiti di tale idea di transizione. Lombardi mette in evidenza come una economia in grado di soddisfare tutti i bisogni emergenti deve fondarsi su uno sviluppo illimitato delle forze produttive “quando le sorgenti della ricchezza sociale scorreranno liberamente” . Il che presuppone un dominio totale ed assoluto dell’uomo sulla natura. Paradossalmente Lombardi rilevava che Marx in tale punto mostrava una sostanziale convergenza con gli economisti borghesi (anch’essi fautori dello sviluppo illimitato). Lombardi (come altri socialisti in Europa) fu uno dei primi a rendersi conto dei limiti sia sociali che fisici della crescita economica. Non occorre certo essere fautori della teoria estrema della decrescita per rendersi conto che non è possibile una crescita illimitata in un ambiente limitato.
Per Lombardi il fine del socialismo non è la crescita illimitata delle forze produttive, ma il mutamento qualitativo del meccanismo e degli obbiettivi dello sviluppo. Keynes, ottanta anni fa, aveva parlato dello “stato stazionario” dell’economia in cui il prodotto si modifica qualitativamente, ma resta stabile in termini quantitativi.
Il tema della distribuzione sociale del prodotto non può quindi essere affrontato tramite due fasi distinte nel tempo, ma contemperando i principi della distribuzione secondo il lavoro e secondo i bisogni. La più avanzata politica socialdemocratica ha infatti cercato questa mediazione. L’aggancio dei salari alla produttività soddisfa il principio della distribuzione secondo il lavoro, il welfare (assegni familiari, indennità di disoccupazione fino al reddito di cittadinanza, integrazioni al reddito) soddisfano quello del bisogno.
Quindi il socialismo non è definibile in termini economicistici. Anzi esso rappresenta il riequilibrio tra economia e società squilibrato dal capitalismo. Era del resto questo il senso delle prime teorie socialiste di Fourier ed Owen (espresso magari in forma primordiale). E questo senso è stato ribadito da Polanyi nel 900. Il superamento del capitalismo è il superamento della centralità del mercato nella società che definisce il capitalismo stesso.
Certo per operare questo superamento occorre trasformare l’economia, i rapporti di forza e di potere entro di essa. In questo la lezione di Marx resta ineguagliabile. Ma con l’obbiettivo di far sì che l’economia sia al servizio della società e non passi da un padrone ad un altro.
La stessa lotta di classe cos’è se non la battaglia dei lavoratori per superare la loro condizione di strumenti dell’economia?
Se siamo d’accordo su tale modo di definire il socialismo, possiamo guardare meglio alla esperienza socialdemocratica del 900. Io direi di distinguere il socialismo democratico come progetto dal modello socialdemocratico storicamente determinato.
La socialdemocrazia ha realizzato solo in parte il progetto socialista. Lo stesso programma di Bad Godesberg della SPD è stato realizzato molto, ma molto parzialmente. Nondimeno ha creato il modello sociale più avanzato mai visto. E soprattutto è stato essa un elemento costitutivo della identità europera e della sua coscienza sociale. Il socialismo reale ha invece prodotto solo macerie e gente come Putin.
Contro questo si è mosso la reazione capitalistica che ha utilizzato le teorie decrepite (e smentite dalla storia) dei Friedman e degli Hayek come copertura ideologica ad un processo radicale di mutamento dei rapporti di forza a favore di un capitalismo feroce.
Il fallimento del comunismo ha dato forza ideologica a questa mutazione capitalistica ma non ne è la causa.
In realtà il capitalismo ha preteso di mettere in discussione tutta la storia dal 1930 in poi e tutto il processo di evoluzione democratica che ne è seguito.
Ma i processi storici sono irreversibili. La globalizzazione , ha spiegato bene Gallino, è tutt’altro che un processo lineare e naturale; è una costruzione politica fondata su rapporti di forza determinati dal dominio strutturale del capitalismo finanziario. E questo, oltre a provocare un aumento terribile delle diseguaglianze, a svalorizzare e rimercificare il lavoro, ha innescato meccanismi autodistruttivi nel capitalismo stesso, fino a determinare una pesante crisi strutturale.
Ma c’è un altro elemento che da pianamente ragione alla analisi di Polanyi. Il carattere umanmente e socialmente distruttivo dell’economia di mercato non socialmente regolata.
La profonda regressione morale , culturale, sociale che riscontriamo nelle nostre società è il frutto avvelenato dei processi incontrollati di mercatizzazione, che incide fortemente sulla politica ridotta ad una variabile dipendente del mercato.
Il comunismo è stato un mito dei nostri tempi (Wallerstein), il liberalismo è l’ideologia della mercatizzazione. Il socialismo democratico ed umanistico è l’unica via concreta per uscire dalla grave crisi di civiltà ed all’imbarbarimento che l’Occidente sta vivendo.
Per questo al di là di PSE sì Pse no, il socialismo democratico è ciò che da senso alla speranza e cioè alla sinistra.
PEPPE GIUDICE
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