Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
martedì 31 marzo 2020
Europa in mezzo al guado | Angelo Baglioni e Massimo Bordignon
Europa in mezzo al guado | Angelo Baglioni e Massimo Bordignon: In Europa si continua a rimpallare una decisione sulla risposta comune alla crisi creata dal coronavirus. Ma quali sono le diverse opzioni? Dai corona-bond al prestito del Mes fino a un intervento della Bei i vantaggi e svantaggi delle diverse soluzioni.
Coronabond, titoli di cittadinanza europea | A. Boitani, R. Tamborini
Coronabond, titoli di cittadinanza europea | A. Boitani, R. Tamborini: L’emissione di coronabonds è la strada giusta per recuperare risorse sufficienti ad affrontare la crisi economica generata in tutta Europa dalla pandemia. Qui la proposta per un intervento adeguato e capace di superare le obiezioni dei paesi del Nord
intervista ad Andrew Arato | Una Città
intervista ad Andrew Arato | Una Città: Il populismo, categoria molto problematica, vede tra i suoi tratti distintivi l’appello al “vero” popolo e il binomio amico/nemico, ma anche una sorta di “debolezza” intrinseca...
lunedì 30 marzo 2020
L'impatto del coronavirus sull'economia: previsioni su occupazione e mercato del lavoro
L'impatto del coronavirus sull'economia: previsioni su occupazione e mercato del lavoro: Senza una risposta rapida e convincente del governo sull'erogazione di liquidità, l'emergenza da nuovo coronavirus potrebbe mettere a rischio circa 1.500.000 posti di lavoro, minacciando soprattutto l
Franco Astengo: Non basterà la sociologia dei numeri
NON BASTERA’ PIU’ LA SOCIOLOGIA DEI NUMERI di Franco Astengo
Quando ci sarà la ripresa non sarà sufficiente lo studio basato sulle statistiche.
Le statistiche funzionano quando i mutamenti hanno un ritmo lento, ma perdono efficacia dinanzi a svolte improvvise e radicali come quelle in corso.
Bisognerà anche rompere la gabbia della subalternità del pensiero alla tecnica e della rinuncia , avvenuta nel corso di questi anni almeno dalla caduta del muro in poi, all’articolazione che la storia ha sempre offerto al pensiero umano.
Sul piano della soggettività è entrato in crisi l’individualismo esasperato mentre sarà del tutto insufficiente occuparci di alcuni temi politici che pure sono emersi all’interno di questa crisi come punti nevralgici: la fiscalità, il decentramento dello Stato, il valore complessivo del “pubblico” rispetto al “privato”.
Ci sarà da riflettere sull’acquisizione di una nuova nozione di “senso del limite” che ci arriva dall’aver vissuto una tragedia epocale ma non basterà neppure quella riflessione per giungere a un livello di elaborazione sulla quale poggiare una prospettiva di “pensiero lungo”.
Servirà una ripresa di costruzione dell’ideale.
Un ideale che rompa l’idea dell’ineluttabile soggezione all’esistente proponendo anche di riappropriarci del senso del limite, senza che ciò significhi ritorno all’indietro.
Non basterà richiamarci ai canoni novecenteschi.
Sarà necessario lavorare, usando tutti gli strumenti disponibili, intorno al rapporto tra cultura e politica.
Il rapporto tra cultura e politica accusa ormai da molti anni un ritardo particolarmente vistoso rispetto alle necessità dei tempi.
Un rapporto quello tra cultura e politica che è stato infatti ormai ridotto all’assemblaggio di un insieme di tecnicismi.
Ciò è avvenuto in diversi campi da quello accademico, per arrivare a quello istituzionale, economico e soprattutto della comunicazione laddove la politica appare ormai confusa con l’economicismo e il giurisdizionalismo astratto.
Si tratta invece di ripartire per una ricognizione di fondo, prescindendo dal proposito di sviluppare una “ricerca di parte”.
L’ambizione di questa ripresa di ricerca dovrebbe esssere quella – prima di tutto – di intrecciare i diversi insegnamenti che ci vengono dalla storia della “filosofia politica”.
Il risultato dovrebbe essere quello di provocare una riflessione complessiva con il superamento delle settorializzazioni e degli schematismi oggi imperanti.
Schematismi imposti appunto dall’egemonia della “sociologia dei numeri”.
Schematismi che, alla fine, hanno danneggiato non soltanto la qualità degli studi e delle ricerche, ma soprattutto la qualità dell’“agire politico”.
Nel compiere questa operazione intellettuale il primo traguardo dovrà essere quello di ricostruire una sorta di percorso nella storia del pensiero politico, cercando di riassumerne le fasi più importanti, individuare i passaggi al fine di orientare l’idea di una dialettica possibile.
L’esigenza di ricercare questo equilibrio tra “storia del pensiero politico” e realtà “dell’agire politico”, nasce dalla convinzione che il pensiero politico sia un “pensiero concreto”, coinvolto attivamente nel mondo, sia come critica dell’esistente, cioè come de-costruzione, sia come costruzione, cioè come progetto di edificare un ordine migliore, ovvero rispondente a criteri di legittimità diversi da quelli dell’ordine presente.
Servirà legarsi a un filo conduttore, coscienti del fatto che il pensiero politico non si sia rivolto sempre ai medesimi problemi attraverso le medesime categorie.
Insomma, è necessario mettere in rilievo che la concretezza del pensiero politico consiste proprio nel fatto che esso aderisce alle drammatiche discontinuità dell’esperienza storica, e anzi le riconosce, le interpreta, le mette in forma.
Sarà importante anche sottolineare la coesistenza della storia del pensiero con la geografia del pensiero, rivolgendosi quindi all’illustrazione tanto dell’evolversi delle tradizioni intellettuali che innervano la riflessione politica quanto alle specificità, rilevanti e riconoscibili, con cui ciascuna delle grandi aree geografiche le ha sviluppate e interpretate.
Occorre mostrare, come, di volta, in volta nel corso della storia si sia strutturato quello spazio nel quale si sono attuate le relazioni tra i sistemi politici; la globalità nelle scelte, il rapporto tra la politica e la guerra (o la pace), la relazione fra l’ordine interno e l’ordine (o disordine) esterno.
Si deve avere fiducia, ed è questa l’unica nota di ottimismo permessa, nell’importanza e nell’efficacia formativa della storia del pensiero politico, nel suo senso più vasto, lavorando per costruire strumenti che ci mettano in grado di decifrare i momenti di crescita e di crisi, di dramma e di trionfo, di chiusura localistica e di apertura universale della nostra civiltà intellettuale e politica.
Sarà necessario accingersi ad affrontare la complessità assolvendo a un compito rispetto al quale, dal mio modestissimo punto di vista, ben pochi altri possono essere giudicati più importanti e affascinanti .
Un lavoro da cui deve sortire la riattualizzazione nella capacità di individuazione della qualità delle contraddizioni sociali favorendo così l’elaborazione di una teoria del cambiamento all’altezza del presente e del futuro.
Una teoria del cambiamento appare indispensabile per affrontare ancora il senso dei nostri inalterabili richiami storici alla relazione tra democrazia e uguaglianza e dell’evocazione di un adeguato concetto di progresso morale, sociale, economico evitando le trappole di cui appare disseminato il futuro.
Ricostruire l’idea di progresso: questa la sola sintesi possibile per indicare la necessità e l’urgenza di aprire un discorso molto difficile in questo momento di apparente invisibilità dell’orizzonte.
sabato 28 marzo 2020
Qualche riflessione sulla vicenda delle primarie USA
Qualche riflessione sulla vicenda delle primarie USA: di Davide Lovisolo -- L’esito, pur parziale, delle primarie è chiaro. Dopo il successo iniziale, Bernie Sanders esce di scena. È paradossale che in un momento come questo, il candidato che ha fondato la sua battaglia sul servizio sanitario universale sia fuori gioco. Ma questo rivela problemi e contraddizioni che non riguardano solo gli USA.
Gli investimenti pubblici nella sanità italiana 2000-2017: una forte riduzione con crescenti disparità territoriali - Menabò di Etica ed Economia
Gli investimenti pubblici nella sanità italiana 2000-2017: una forte riduzione con crescenti disparità territoriali - Menabò di Etica ed Economia: Gianfranco Viesti fornisce elementi utili per comprendere le difficoltà che oggi incontra il Sistema Sanitario Nazionale. Analizzando la spesa per investimenti, non quella corrente, nella sanità in Italia fra il 2000 e il 2017 trova che essa si è fortemente contratta a partire dal 2010 (con conseguente indebolimento del sistema sanitario nazionale). Inoltre, tale contrazione è stata di diversa intensità, risultando maggiore al Sud e in generale nelle regioni che già presentavano valori più bassi delle dotazioni, con l’eccezione di Umbria e Lazio.
Le conseguenze macroeconomiche del SARS-CoV-2: incertezza e scenari di policy - Menabò di Etica ed Economia
Le conseguenze macroeconomiche del SARS-CoV-2: incertezza e scenari di policy - Menabò di Etica ed Economia: Massimiliano Tancioni propone una valutazione degli effetti macroeconomici a breve termine del contagio SARS-CoV-2 (e degli interventi di contenimento epidemiologico), sotto diversi scenari di azione (o inazione) di politica economica. L'idea centrale è che, in presenza di forte incertezza sulla dimensione, durata ed efficacia degli interventi di contenimento, l'ancoraggio delle aspettative di famiglie ed imprese ad una politica di sostegno illimitata e incondizionata rappresenta la strategia più efficace per ridurre i danni economici. Come sostiene Knight, la consapevolezza degli stati futuri del mondo incide sulle capacità di adattamento delle specie razionali.
venerdì 27 marzo 2020
Paolo Bagnoli: Dov'è il socialismo?
"DOV’E? IL SOCIALISMO?" di Paolo Bagnoli
23-03-2020 - EDITORIALE
Da La Rivoluzione democratica
I tempi sono di grande immensa paura. Un nemico mortale ha attaccato l'umanità dilagando in tutto il mondo. L'Italia sta pagando un prezzo altissimo. Tutti si sono dimostrati impreparati ad affrontare l'emergenza; il mondo, di fronte alla prima vera prova del male globale, ha dimostrato quanto sia fragile e come l'architettura politica e sociale su cui si fonda sia debole. Essa scricchiola in un affannato correre ai ripari. Ci consoliamo e ci facciamo forza, com'è naturale che sia, ripetendoci che ce la faremo e che tutto andrà bene. Siamo sicuri - la storia lo dimostra - che le mortali epidemie non uccidono l'umanità per cui tutto andrà bene; alla fine, però, la vita avrà pagato a se stessa un prezzo altissimo. E' su ciò che bisognerà riflettere. C'è da dubitare che avverrà in maniera adeguata.
Ogni giorno che passa è segnato dalla statistica del male e inflazionato dalle notizie che riguardano il decorso del fenomeno esiziale, ma anche da un profluvio di riflessioni letterarie, filosofiche, sociologiche, politiche cui è veramente difficile stare dietro. Eppure, sono necessarie. Di riflettere, infatti, c'è bisogno; domani ce ne sarà ancora di più. Interrogandoci sul futuro ci consoliamo col fatto che esso naturalmente ci sarà. Intanto si comincia a mettere sul tavolo le tante cose che non vanno e che, invece, potrebbero andare se vi fosse la consapevolezza dei limiti cui è giunto il mondo dalla globalizzazione glorificata, della produzione sproporzionata del superfluo, della corsa ai profitti, dell'agire asociale dei mercati finanziari. Di riflettere sull'indebolimento della democrazia oramai rimasti sospesi in un vuoto di remissione, rimpiangendo una realtà che non c'è più; accettando un contesto mondiale che sembra aver smarrito il valore primario della civiltà: vale a dire, l'uomo, la concretezza del suo essere e della vita.
L'attacco massiccio da parte di un virus potentissimo ha portato alla ribalta la perdita del senso morale nell'affermarsi di un caos. Si ha la sensazione che i canoni tradizionali della politica non siano più nella democrazia e nella condizione di governare le sorti dei popoli; cosa tanto più necessaria quanto più l'affermarsi della globalizzazione ha fatto saltare le legittimità vere del potere. Al contrario, occorrerebbe una loro ridefinizione nel segno dell'interesse collettivo; ossia, del sempre maggior numero di persone che hanno necessità di assistenza e tendono a essere emarginate; che sono condannate a stare sotto per posizione sociale, patiscono le incertezze del lavoro in società che si pensa di governare con la comunicazione, ricorso alle app, con le supposte ricette di una falsa modernizzazione dietro la quale si nascondono solo ritardi, insufficienze, egoismi, negligenze istituzionali e violazione dei diritti primari.
Non vogliamo, anche noi, aggiungerci a coloro che la sanno lunga; anzi, siamo scettici che la lezione vera che ne deriva venga elaborata. Una cosa, però, vogliamo dirla; forse ingenua, ma siamo sinceri. La storia ci ha dimostrato che i vari virus che via via hanno preso la scena riducendola a un immenso cimitero, sono stati sconfitti, ma non annientati per sempre. Una volta battuti questi virus hanno preso la via del ritorno nei loro accampamenti e lì sono rimasti, ma poiché sono entità sempre viventi, non essendo scomparsi, fino a che non sono stati – diciamo così – disturbati, hanno seguito il loro corso con le modificazioni del caso senza creare danno alcuno. Quando, poi, il loro habitat segreto è stato devastato, allora hanno ripreso il loro attacco; hanno ripreso a fare il loro lavoro poiché, infettare, è il lavoro che la natura assegna ai virus. Hanno ripreso a girare dentro gli uomini una volta che hanno sentito minacciato il loro ambiente. Non abbiamo naturalmente prove di quello che diciamo, ma crediamo che l'epidemia sia legata allo stravolgimento dell'ambiente dovuto, a sua volta, allo sfruttamento che di esso viene fatto per esigenze produttive; per cui, chiudendo l'equazione progettista, crediamo che il grande problema dei tempi moderni, quelli segnati da una globalizzazione senza regole, riguardi in primis, la questione della produzione. Quanto da ciò ricada sulle condizioni sociali dell'umanità non è difficile capire; basta farci mente locale per un solo attimo. Questione della produzione che produce sfruttamento degli uomini e dell'ambiente, corsa sfrenata e senza regole a conseguire supremazie costi quel che costi, finanziarizzazione di tutto ciò che crea ricchezza, travolgimento di tutto quanto vi si può opporre. Non importa con quali conseguenze; ma se il nostro ragionamento ha una qualche oggettività, ecco che si è arrivati alla conseguenza ultima: la sopravvivenza dell'umanità, che certo non muore del tutto, ma lascia sul terreno centinaia di migliaia di vite umane. L'avidità che uccide l'uomo uccide la civiltà e se il futuro vorrà avere un senso occorrerà che l'uomo prenda tutte le sue difese perché non sia egli stesso l'artefice della propria caduta.
Crediamo che occorra una riprogettazione della convivenza globalizzata. Se non altro perché sia i singoli Stati, sia le strutture sovranazionali, usciranno dalla prova a pezzi; l'Europa comunitaria per prima e pensare di continuare così è puro masochismo. Certo non è un problema di esperti, ma di élites politiche e culturali consapevoli ovunque esse siano. Ora, ammesso che tale consapevolezza sia avvertita, sarà un processo lungo qualora dovesse, anche se non sappiamo come, mettersi in moto. In fondo, a pensarci bene, dopo un conflitto, per quanto bestiale esso sia stato, le strade per rialzarsi non sono poi così difficili da intraprendere.
Ognuno è chiamato a fare la sua parte. Noi auspicheremmo che anche il socialismo assumesse la sua parte per gli ideali di solidarietà, democrazia, giustizia sociale e libertà che gli sono propri da sempre. Già, ma dov'è il socialismo?
Tags: AMBIENTE, CRISI, EPIDEMIA, EUROPA, LA RIVOLUZIONE DEMOCRATICA, LRD, PAOLO BAGNOLI, SFRUTTAMENTO RISORSE, SOCIALISMO, VIRUS
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La tempesta perfetta. Gli Stati Uniti di fronte al Covid-19 - Sbilanciamoci - L’economia com’è e come può essere. Per un’Italia capace di futuro
La tempesta perfetta. Gli Stati Uniti di fronte al Covid-19 - Sbilanciamoci - L’economia com’è e come può essere. Per un’Italia capace di futuro: La risposta del governo Trump alla crisi scatenata da Covid-19 vale il 13% del Pil Usa: un intervento senza precedenti. Basterà l’aumento previsto di 2.500 miliardi di dollari di spesa pubblica a evitare la recessione? E chi viene premiato da queste misure, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali?
Franco Astengo: Economia di guerra
ECONOMIA DI GUERRA di Franco Astengo
In un suo articolo, pubblicato dal “Manifesto” il 27 marzo,sotto il titolo “Rathenau e Keynes, due grandi voci sull’economia di guerra” ,Tonino Perna invita a distinguere proprio tra l’economia di guerra e la situazione che stiamo vivendo sotto l’aspetto dell’emergenza sanitaria nei risvolti economici e sociali.
Sotto questo aspetto è bene precisare alcuni punti: non ci troveremo di fronte alla ricostruzione materiale di città colpite dalle distruzioni belliche (bombardamenti e altro) , non ci sarà da riempire un vuoto anche dal punto di vista “fisico” della presenza di milioni di persone scomparse e la riconversione industriale dovrà seguire linee diverse in base a scelte politiche riguardanti l’adozione di un diverso modello di sviluppo, a partire dal discorso della conversione ecologica, pure opportunamente ricordata nell’articolo citato.
Sono due i punti riassuntivi che si rilevano nell’operato dei due grandi economisti.
Perna, al riguardo di Rathenau riassume: “ l’opportunità di costruire una “Economia nuova” fondata su un allargamento del mercato locale, una minore dipendenza dall’export, e un ruolo di pianificazione e di regista da parte dello Stato”. Concludendo che “la guerra ha fatto maturare in pochi anni ciò che avrebbe dovuto maturare in qualche secolo”.
Di Keynes, invece, si cita un saggio che si trova nella parte finale della “Teoria Generale”, laddove il grande economista del new deal e del welfare si interroga sotto il titolo di un saggio: “Si può far pagare la guerra ai ricchi? Affermando che riusciremo così a cogliere l’occasione della guerra per realizzare un progresso sociale positivo”. Come in effetti avvenne non solo in Gran Bretagna con l’avvio tra il 1945 e il 1980 (più o meno i “trenta gloriosi”) , nel mondo rigidamente diviso in blocchi a modelli sociali contrapposti e l’avvio di fondamentali processi di cambiamento sul piano complessivo delle relazioni internazionali.
Nell’articolo si cerca così di raccogliere questo messaggio che oggi è ripreso da più parti invocando una redistribuzione del reddito e la giustizia sociale per cogliere proprio l’occasione di quella conversione ecologica dell’economia già citata poco sopra.
Lo scontro, conclude l’articolo, è in già in atto contro gli speculatori di borsa, i rentier, i privilegiati dal mantenimento dell’attuale distorcente modo di produzione.
E’ la lotta da condurre contro la centralizzazione del capitale finanziario (già in atto da tempo) che rievoca anche le analisi di Hilferding.
In sostanza l’articolo di Perna contiene un richiamo ad un riformismo radicale che avrebbe bisogno di un’adeguata soggettività politica.
Soggettività politica che manca perché dal dibattito sono fin qui risultati assenti due punti fondamentali:
1) quello della indispensabile dimensione sovranazionale della capacità di programmazione dell’economia. Lo scontro in atto in queste ore a livello europeo ne è testimonianza diretta;
2) La conseguenza di questo scontro sarà quella di un ritorno all’indietro sul piano della cessione di sovranità dello “Stato – Nazione”? Cessione di sovranità fin qui utilizzata, nella dimensione dell’Unione Europea, per imporre l’austerità che ha caratterizzato la fase della lunga crisi aperta nel 2007 negli USA? Austerità oggi smentita e riconvertita nella causa del “deficit spending” da alimentare con gli “eurobond” e osteggiato dalla Germania, in un quadro tale da far presagire la rottura totale di un giocattolo costruito a suo tempo con la fretta di un ottimismo derivante dall’idea della “fine della storia” e della sconfitta finale del “grande nemico”.
Il tema di oggi è quello dell’internazionalizzazione della crisi e di una necessità di risposta posta a quel livello, tanto più che una dimensione diversa nel caso probabile del “raccorciamento della filiera” potrebbe provocare, almeno a giudizio di molti esperti, il rischio di una esplosione dell’inflazione con conseguenze sociali devastanti in una condizione nella quale il post – epidemia verificherà una crescita esponenziale della disoccupazione, con interi settori produttivi in assoluta difficoltà.
Esistono questioni gigantesche da affrontare ad esempio i trasferimenti di tecnologia e quelli energetici.
Trasferimenti che hanno segnato la fase culminante di quella che abbiamo definito “globalizzazione”.
Se vogliamo continuare a pensare a una soggettività politica riformista così radicale da essere capace di fronteggiare concretamente ciò che si sarà venuto a creare nel post – emergenza sarà necessario riflettere su quattro punti ( definito però preventivamente il campo della dimensione sovranazionale):
1) Il mutato rapporto tra autonomia della scienza e della tecnica e i diversi livelli di decisionalità politica. Il contenimento dell’egemonia della scienza e della tecnica appare fattore determinante nel definire gli equilibri a livello geopolitico (in questo echeggiano richiami che tornano d’assoluta attualità come quello riguardante come possa essere possibile intrecciare l’autonomia della scienza, la finalità del produrre e la decisionalità politica);
2) L’intreccio tra politica e vita biologica, come stiamo osservando nell’attualità, favorisce il provocare uno spostamento delle procedure democratiche ordinarie verso disposizioni di carattere emergenziale. Ciò avviene in una fase di forte crisi della democrazia liberale tra l’altro dovuta al già ricordato processo di cessione di sovranità da parte dello “Stato – Nazione”;
3) Appare determinante affrontare il tema tra consumo in termini complessivi di suolo e risorse naturali e la stessa prospettiva di vivibilità del genere umano (ritorna anche qui un antico interrogativo sul produrre, come produrre, con quali finalità ,tra valore d’uso e valore di scambio);
4) Emerge il tema della capacità cognitiva in termini globali di formazione, informazione, capacità di trasmissione di notizie e cultura e quindi di educazione globale.
Questi 4 punti richiamano all’esigenza di definire quella che, nei termini dell’oggi e non come richiamo a linee passate e fallite come quella del blairismo, può essere definita “terza via”: una via posta al centro della prospettiva di una società alternativa a quella fondata su di una “economia dell’arricchimento progressivo”
Non possiamo stare fermi a contemplare ciò che accade senza disporre di idee e di organizzazione per poter attaccare, come sarebbe necessario, il muro della separatezza tra i popoli e tra i ceti sociali.
Il Coronavirus travolge il liberismo. La sinistra riconosca i suoi errori ora serve un'altra idea di società - Strisciarossa
Il Coronavirus travolge il liberismo. La sinistra riconosca i suoi errori ora serve un'altra idea di società - Strisciarossa: Per venti anni la sinistra ha coltivato un'ideologia liberal spingendo per la riduzione della presenza dello Stato e del Welfare. E' ora di cambiare.
La politica e il virus: due lezioni che potremmo apprendere dal dramma della pandemia - micromega-online - micromega
La politica e il virus: due lezioni che potremmo apprendere dal dramma della pandemia - micromega-online - micromega: di Fabio Armao La pandemia di COVID-19 sta mettendo a dura prova i governi in ogni parte del pianeta e le loro rispettive capacità di affrontare il diffondersi della malattia. Tra le democrazie, non a caso, serpeggia una qualche invidia nei confronti di quei paesi autoritari (leggi Cina), ch
giovedì 26 marzo 2020
L’Europa dovrebbe avere coraggio e ripartire dai coronabond - Pierre Haski - Internazionale
L’Europa dovrebbe avere coraggio e ripartire dai coronabond - Pierre Haski - Internazionale: Nove paesi dell’Unione chiedono di adottare uno strumento di debito pubblico europeo: proprio quello che non si è voluto fare durante la crisi greca. Non tutti i leader sono d’accordo, ma c’è in gioco il futuro dell’Ue di fronte alla pandemia. Leggi
Has the coronavirus brought back the nation-state? – Jan Zielonka
Has the coronavirus brought back the nation-state? – Jan Zielonka: The coronavirus crisis has remade the case for public authority—but that can only work in a complex network of multi-level governance.
The coronavirus crisis calls for internationalism, not isolationism - LabourList
The coronavirus crisis calls for internationalism, not isolationism - LabourList: The coronavirus pandemic is a critical moment for the world – when we choose to pull together, or…
mercoledì 25 marzo 2020
Eurobond, appello di nove premier ai colleghi - Eunews
Eurobond, appello di nove premier ai colleghi - Eunews: L'appello al presidente del Consiglio europeo per rilanciare i titoli di debito contro la crisi. Conte, Macron e Sanchez guidano la pattuglia contro i rigoristi
Edmondo Rho: La comunicazione ai tempi del Covid
LA COMUNICAZIONE AI TEMPI DEL COVID-19
Nei tempi di guerra, si sa, è basilare la comunicazione: lo teorizzò bene Goebbels, che era un criminale ma non un cretino. Lo so, il paragone è un po’ forte ma anche ora siamo in guerra contro un virus, il Covid-19, e l’Italia è il Paese con più vittime al mondo: perciò Conte (presidente italiano del Consiglio dei ministri, detto ‘Giuseppi’ dal suo fan Donald Trump) usa la comunicazione in modo assai efficace. E ha come suo ‘spin doctor’ il celebre Rocco Casalino che viene, tramite la Casaleggio & Associati, dal ‘Grande Fratello’: sinceramente, credevo si trattasse di un format tv e non della riedizione ‘de noantri’ del romanzo di George Orwell...
Conte, autodefinitosi a suo tempo come ‘avvocato del Popolo’ quando guidava un governo di centro/destra con la Lega, ora presiede un governo di centro/sinistra con il Pd (acronimo di Partito dimenticato, cioè non pervenuto nella battaglia per comunicare in tempo di guerra) ed è un premier forte, anzi fortissimo: infatti, secondo i sondaggi, l’indice di gradimento di Conte oscilla tra il 61% e il 70% della popolazione con diritto di voto, comunque ben oltre la maggioranza assoluta!
Forse il successo gli ha dato alla testa? Di sicuro, Conte fronteggia il virus governando a colpi di Decreti vari, in particolare di DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, ovvero atti amministrativi non soggetti al vaglio parlamentare) ai quali si aggiungono, nel sempre più confusionario semi-federalismo all’italiana, le Ordinanze delle Regioni (in prima fila la Lombardia guidata dal leghista Fontana con la mascherina e il Piemonte dove impera il forzista Cirio) e del ministro della Salute (perché finché c’è vita c’è Speranza, inteso come il buon Roberto). Insomma, un gran caos nel quale il premier Conte può ergersi facilmente a Salvatore della Patria: e lo fa comunicando per esempio (a volte, non sempre per fortuna) in diretta su Facebook e a reti tv unificate, senza contraddittorio e quindi evitando le domande di quei noiosi giornalisti che vogliono fare il loro mestiere! Protestano Fnsi, Ordine dei Giornalisti e Associazione Stampa Parlamentare ma tutto ciò a ‘Giuseppi’ e al suo spin doctor Rocco del Grande Fratello non importa: fanno spallucce e Conte, forte del suo consenso, è ormai divenuto l’avvocaticchio del popolino, davvero invincibile...
Ci sarebbe anche da dire, sottovoce, un’altra cosa: sembra quasi un ‘golpe’ dolce all’italiana, all’amatriciana anzi, la pratica di restringere le libertà garantite dalla Costituzione della Repubblica a colpi di DPCM e di Ordinanze! Certo, l’italica tendenza a fregarsene delle regole non aiuta... E la politica fa il suo mestiere in modo molto contraddittorio. Chi mi conosce sa che non amo affatto Matteo Salvini, il quale anche in questa crisi sanitaria si è comportato in modo assai discutibile: ma la richiesta di Salvini di portare il dibattito su come afffontare questa guerra al Covid-19 in Parlamento mi pare giusta.
Scusate se l’ho fatta un po’ lunga, qualche mio amico dirà che, mentre prima ero renziano, ora sono diventato salviniano: non è vero, naturalmente. Sono solo un giornalista con oltre 40 anni di mestiere, quindi con un grande avvenire dietro le spalle, e credo sulla comunicazione di avere imparato, in questo lungo periodo, qualcosina... In tal senso, mi permetto (parlo a titolo strettamente personale, sia chiaro) qualche consiglio non richiesto ai miei colleghi giornalisti in attività:
1. verificate sempre le notizie,
2. cercate di informare correttamente i cittadini con l’incrocio di più fonti (anche se il tempo è tiranno e spesso dite che non avete tempo),
3. evitate di diventare semplici megafoni di tutto ciò che corre veloce sul web, comprese le dirette su Facebook da Palazzo Chigi!
Sono davvero molto preoccupato per il futuro dell’Italia, e per un possibile contagio autoritario nel mondo intero.
Edmondo Rho
Ps. IN GUERRA LA PRIMA A MORIRE È LA VERITÁ
(Eschilo)
UNIONE EUROPEA: QUO VADIS? |
UNIONE EUROPEA: QUO VADIS? |: “A partire dall’anno 1 d.C. (dove d.C. non significa “dopo Cristo”, ma “dopo Coronavirus”) l’Europa risulta frammentata in tanti staterelli”: così le generazioni future leggeranno sui libri di storia. Il…
IL “BRAND” LOMBARDO E COVID-19 |
IL “BRAND” LOMBARDO E COVID-19 |: Da un mese la parola Lombardia ha oscurato ogni altra espressione territoriale italiana. Sarà un imprevisto segnale per i cultori di “country brand” che non avevano più una risposta da…
martedì 24 marzo 2020
La crisi del #Covid19 è l’occasione per ripensare il capitalismo | Keynes blog
La crisi del #Covid19 è l’occasione per ripensare il capitalismo | Keynes blog: di Mariana Mazzucato da The Guardian (trad. Keynesblog.com) Viviamo una crisi di portata mondiale. La pandemia di Covid-19 si sta rapidamente diffondendo in tutti i paesi, con una scala e una grav…
Roberto Biscardini: Sulla questione dei nostri anziani una lettera ai sindaci
SULLA QUESTIONE DEI NOSTRI ANZIANI UNA LETTERA AI SINDACI
Lettera aperta Sindaco di Milano
Caro sindaco,
scrivo a lei così come, dopo aver sentito tanti amici in giro per l’Italia, potrei scrivere a tanti altri sindaci italiani.
Il Coronavirus sta mettendo in ginocchio il paese e in grande difficoltà tutti i cittadini, in un momento in cui le “misure” di limitazione delle attività e delle libertà personali, imposte ai cittadini dalle istituzioni, appaiano peraltro con il passare dei giorni, sempre più incerte, tra loro spesso contradditorie e a volte anche irrazionali. In questo quadro confuso un’attenzione particolare va rivolta agli anziani che vivono nelle nostre città.
D’altra parte se è vero che il Coronavirus mette a rischio soprattutto loro, per loro bisogna fare molti di più. Non basta dire “state in case” e poi non metterli nella condizione di starci veramente e in tranquillità. Non contando che la politica ossessiva, del terrore e della paura, pesa su di loro, anche psicologicamente, in modo maggiore che non su una persona giovane. Non basta chiedere di “state a case” a guardare i Tg che ogni giorno ci ammorbano l’esistenza sul numero dei morti, sul numero dei morti delle persone anziane, sul numero dei contagiati, con le immagini macabre delle bare in file nella case mortuarie o con i camion militari che portano morti nei forni crematori.
“La vecchiaia è un tema non accademico” diceva Norberto Bobbio in un suo importante saggio. E’ un tema che richiede delle politiche attive, un’attenzione molto particolare e precisa, politiche concrete ed anche segnali simbolici, al fine di dimostrare loro la vicinanza di qualcuno, e in particolare della propria amministrazione comunale e del proprio sindaco.
Leggiamo in queste ore che qualcosa si muove. Il comune ha dato vita ad un coordinamento tra coloro che offrono la loro solidarietà, si chiama “Milano aiuta”. C’è il numero del centralino del Comune con un servizio dedicato per tutti coloro che hanno bisogno di informazioni (anche se 5 o 10 minuti di attesa per un anziano che ha un bisogno urgente sono un eternità). I medici di base si sono attivati per la mappatura a distanza dei contagi e ci sono giovani che fanno consegne a domicilio (nonostante alcune grandi catene hanno persino interrotto quel servizio). Tutte cose bellissime, ma che per un anziano solo, magari senza assistenza o con un assistenza rallentata rispetto a prima, rallentata da familiari e badanti, non sono comunque cose semplici.
Quindi, al di là di rilevare come i tempi di reazione del sistema di assistenza locale non siano stati certamente dei migliori, adesso si potrebbe fare di più. Perché il comune non si fa sentire direttamente? Perché non fa sentire la sua vicinanza, magari con una semplice lettera, personalizzata, nella quale siano date le coordinate dei servizi a disposizione, dei numeri verdi, di chi chiamare e a chi rivolgersi per ogni necessità?
Il Comune sa tutto, ha gli strumenti per sapere chi vive solo e chi no, sa dove vivono i singoli anziani soli, e a loro dovrebbe , anche se in ritardo, arrivare il segnale della propria esistenza. Come si vede non è un problema sanitario, che pur esiste, quello che manca, sul quale il Comune dovrebbe intervenire, sta nella sfera delle attenzioni sociali, verso una popolazione che a parole consideriamo utile e ancora indispensabile ed ora non solo è lasciata alla maggiore esposizione del virus, ma è anche lasciata sola. Tendenzialmente segregata e abbandonata.
Un’azione del genere chi la fa, in modo organico, se non la mettono in campo i Comuni?
Si tratta di mettere a disposizione degli anziani difese attive di sostegno. Aiutandoli con ogni mezzo. Impedendo loro di uscire ed esporsi al rischio di contagio e facendo in modo che sia proprio il Comune ad essere il punto di riferimento organico dell’organizzazione degli approvvigionamenti di alimentari, di medicinali e di quanto altro sia necessario. Assistenza, solidarietà e vicinanza che un anziano, soprattutto se solo, ha bisogno di avere proprio dal suo Comune e del suo Sindaco.
La ringrazio per l’attenzione
Roberto Biscardini
Le coronavirus tuerait-il le populisme en Italie? - Telos
Le coronavirus tuerait-il le populisme en Italie? - Telos: Plus l’Italie fait nation, plus elle s’éloigne de l’UE. Autant de points marqués par la Ligue. / Marc Lazar
A eurozone reform northern and southern countries can share – Andrea Boitani and Roberto Tamborini
A eurozone reform northern and southern countries can share – Andrea Boitani and Roberto Tamborini: Eurozone reform has appeared stymied by the tension between purportedly abstemious northern and spendthrift southern members. It needn’t be.
Luca Michelini: Economia di guerra - micromega-online - micromega
Economia di guerra - micromega-online - micromega: di Luca MicheliniCon l’emergenza coronavirus siamo agli esordi di un’economia di guerra. Ma come ottenere l’immensa quantità di risorse necessarie? Con la monetizzazione del debito pubblico, come ci insegnano gli economisti più avveduti. Non ci sono alternative reali
lunedì 23 marzo 2020
Tutti uguali davanti alla pandemia? - Sbilanciamoci - L’economia com’è e come può essere. Per un’Italia capace di futuro
Tutti uguali davanti alla pandemia? - Sbilanciamoci - L’economia com’è e come può essere. Per un’Italia capace di futuro: Siamo davvero tutti uguali di fronte al coronavirus? Gli effetti diretti, e ancor più indiretti, ci stanno mostrando differenze a seconda delle condizioni socio-economiche e tra le imprese. E la guerra contro il nemico invisibile, se persistente, non potrà essere lasciata al mercato. Da “Scienza in rete”.
Franco Astengo: La sintesi spetta al Parlamento
LA SINTESI TOCCA AL PARLAMENTO di Franco Astengo
Mi permetto di ritornare sul tema dello stato della democrazia in Italia, in tempi di emergenza come quelli che stiamo vivendo con grande difficoltà pubblica e personale.
Le esigenze di decisionalità sovra nazionale si stanno imponendo come necessariamente da riflettere in maniera diversa rispetto al passato.
Ciò premesso e da non dimenticare per il futuro, occorre approfondire alcuni aspetti riguardanti il sistema politico italiano e i profili di vera e propria “difficoltà democratica” che questo sistema sta incontrando proprio in queste ore.
Abbiamo constatato il ridursi dell’attività di governo alle esternazioni via Facebook del presidente del consiglio dei ministri, attraverso le quali si sono sommate in un volgere di brevissimo spazio temporale le enunciazioni di provvedimenti diversi anche contrastanti tra loro.
Si è così causato sconcerto (assalto ai treni, code ai supermercati, moltiplicazione delle occasioni di contagio in una società fragile, sfrangiata, corrosa dell’individualismo e dal familismo e resa ancora più debole dall’insufficienza dei corpi intermedi ormai succubi di una comunicazione in gran parte negativa, veicolata soprattutto dai nuovi social network e da una televisione, pubblica e privata, sterilmente retorica e inutilmente ridondante.
Il ruolo del Parlamento è stato ulteriormente messo in discussione: addirittura si è aperto un dibattito intorno alla necessità o meno di tenere aperte le Camere e si sono compiute scelte di riduzione dell’attività parlamentare in totale contrasto con la Costituzione repubblicana.
Non è stato minimamente affrontato un punto che invece risulta del tutto decisivo per l’equilibrio democratico in frangenti come questi: quello del rapporto tra esecutivo e legislativo con la comunità scientifica, al fine di portare al dibattito pubblico gli elementi concreti che si ritengono utili per assumere decisioni della portata di quelle che si sta cercando di attuare in queste ore.
Si è mostrata per intero la carenza di relazioni tra Stato centrale e sistema delle autonomie locali, in primis le Regioni.
Le diverse parti d’Italia sono state colpite diversamente dall’emergenza e la frantumazione del sistema ha portato all’espressione di una conflittualità non soltanto tra il Centro e la Periferia, ma anche tra le diverse parti della Periferia, facendo mostrare la corda del rapporto, già storicamente complicato (per usare un eufemismo) esistente tra Nord e Sud.
Sono emerse le grandi contraddizioni del nostro sistema economico impostato in maniera sbagliata nel corso degli anni nel rapporto tra pubblico e privato, tra esportazione e domanda interna, nell’adeguamento tecnologico, nell’affidare intere parti del Paese a una economia precaria come quella del turismo, dal peso dell’evasione fiscale, del lavoro nero, di intere zone e settori economici in mano alla criminalità organizzata. Tutto questo è emerso in dimensione rafforzata rispetto al passato, almeno agli occhi dell’opinione pubblica in un quadro generale di assenza di programmazione e di forte carenza nella capacità di intervento pubblico in particolare nel campo delle infrastrutture e degli strumenti necessari per il welfare state.
La sanità , sottoposta nel suo complesso ad uno stress incredibile, ha dimostrato tutta la difficoltà nel rapporto pubblico /privato, una difficoltà che ha messo in luce punti di vera e propria caduta della logica di affidamento del settore alle Regioni.
Torno però al punto centrale che intendevo sollevare con questo intervento: quello dell’esercizio della democrazia in linea con il dettato Costituzionale.
Il primo dato è quello della necessità di affermare la centralità delle Camere nell’assunzione di decisioni riguardanti l’insieme della nostra Comunità.
In secondo luogo serve chiarezza nel rapporto con la Comunità scientifica: non basta l’esternazione quotidiana in conferenza stampa dei tragici numeri dell’epidemia.
E’ necessario subito un dibattito parlamentare nel corso del quale il Governo espliciti al Paese tutti i dati in proprio possesso, le valutazioni su questi degli Istituti pubblici di sanità e le relative determinazioni proposte.
Dev’essere il Parlamento, rovesciando l’impostazione di ratifica dei decreti – legge, a concedere al Governo una delega ad agire nei tempi dell’emergenza: una delega circoscritta nel tempo, con l’obbligo di riferire in aula a scadenze precise.
Una delega del Parlamento al Governo ben determinata nel suo articolato e che dovrebbe contenere un’articolato molto preciso circa possibilità concessa e limiti imposti (anche rispetto all’uso degli strumenti di comunicazione).
L’Italia soffre di una crisi della propria democrazia palesatasi nel tempo attraverso una riduzione del rapporto tra politica e società nel senso della concentrazione del potere che, alla fine, ha significato una riduzione del carico di responsabilità collettiva e di conseguenza una limitazione della democrazia.
Ci sarebbero tanti capitoli da aprire: quello sul ruolo dei partiti, sulla personalizzazione, sulla necessità di riaprire il discorso riguardante la democrazia rappresentativa, sulle forme del dibattito pubblico e sull’uso – in questo – delle strumentazione tecnologiche, sull’elezione diretta delle cariche monocratiche a livello locale
Cercheremo di far ripartire il confronto su questi temi non appena l’emergenza avrà allentato la sua morsa .
Adesso si presentano però tutti gli elementi utili per far emergere posizioni che contribuiscano a un recupero di presenza democratica nelle istituzioni e nel Paese all’interno del quadro tracciato dalla Costituzione.
Ribadisco una riflessione già avanzata nel giorni scorsi: deve essere capovolta l’impostazione fin qui data nel rapporto tra Governo e Parlamento,
In questa fase deve essere riaffermato lo strumento fiduciario: non basta il voto di fiducia espresso a suo tempo.
E’ necessario stabilire con chiarezza i margini di manovra dell’esecutivo, anche nel necessario rapporto con le parti sociali .
E’ evidente che risaltino spinte contrastanti sommate assieme alle divergenze che si stanno esprimendo tra centro e periferia.
La mediazione non deve spettare al governo che, appunto, è esecutivo, ma al Parlamento che rappresenta per intero l’iter legislativo e, di conseguenza, la decisionalità attraverso il veicolo della rappresentanza politica complessiva del Paese.
“Ue e Bce, non è così che si supera la crisi”. L’appello di 67 economisti
“Ue e Bce, non è così che si supera la crisi”. L’appello di 67 economisti: La Banca centrale prima archivia Draghi, poi fa marcia indietro costretta dalla reazione dei mercati, ma intanto ha perso l’arma decisiva della credibilità. La Ue prende alcune misure ma non rinnega – anzi di fatto conferma – la l
domenica 22 marzo 2020
Paolo Borioni: Germania anno zero
Germania anno zero: Le stragi di matrice nazista in Germania dell'ultimo periodo non sono casi isolati, si inseriscono in una fase politica di profondi stravolgimenti per tutti i partiti. Anche la Spd cerca nuovi sbocchi con la nuova dirigenza di Walter-Borjans
Coronavirus: Macron riscopre la socialdemocrazia?
Coronavirus: Macron riscopre la socialdemocrazia?: di Gloria OriggiUn passaggio del discorso a reti unificate del presidente francese Macron del 12 marzo scorso fa riflettere:
“Miei cari compatrioti, domani dovremo trarre le lezioni necessarie dal momento che attraversiamo, mettere in question
“Miei cari compatrioti, domani dovremo trarre le lezioni necessarie dal momento che attraversiamo, mettere in question
Gianna Fracassi:Il decreto Cura Italia
http://www.jobsnews.it/2020/03/gianna-fracassi-il-decreto-cura-italia-va-nella-giusta-direzione-ma-passata-lemergenza-bisogna-cambiare-paradigma/
sabato 21 marzo 2020
Marianna Mazzuccato: The Covid 19 crisis is achance to do capitalism differently
https://www.theguardian.com/commentisfree/2020/mar/18/the-covid-19-crisis-is-a-chance-to-do-capitalism-differently
Mario Del Pero: Coronavirus e disordine globale
Coronavirus e (dis)ordine globale
Mario Del Pero 21 Marzo 2020 0 Generale
In tempi di crisi dell’ordine internazionale e delle forme – parziali e spesso assai obsolete – della sua governance, studiosi e commentatori si sbizzarriscono in analisi e previsioni radicali, provocatorie e non di rado apocalittiche. È esercizio che faccio sempre con i miei studenti, quello di andare a vedere i dibattiti intellettuali che accompagnarono i grandi tornanti della storia internazionale recente. Alla fine della guerra fredda, ad esempio, quando diffusa e popolare era l’idea che il vero vincitore, e futura potenza egemone, fosse il Giappone e si preconizzavano scontri di civiltà, declini americani e nuove guerre intra-europee. Il momento attuale costituisce, a tutti gli effetti, un tornante dal quale gli equilibri globali di potenza e la struttura dell’ordine mondiale usciranno profondamente alterati. Ed ecco quindi scatenarsi i commenti e, appunto, le previsioni: sulla futura egemonia cinese; sulla fine dell’Europa; sulla crisi degli Usa. Commenti e previsioni che lasciano il tempo che trovano, ovvio. Proprio il dramma del coronavirus ci mostra infatti quanto imprevedibili siano le dinamiche storiche; quanto fragili possano risultare impalcature sistemiche all’apparenza solide e inscaflibili. E allora, più che avventurarsi in previsioni impossibili e pericolose, è utile provare a fare alcune riflessioni su cosa questa crisi riveli del contesto internazionale, della sua fragilità e delle sue intrinseche contraddizioni. Tre aspetti meritano di essere sottolineati.
Il primo è l’evidente scarto tra la profondità dell’integrazione globale degli ultimi decenni e la parzialità dei meccanismi attivati per gestirla. Viviamo in un sistema fattosi vieppiù interdipendente, che lega soggetti lontani e vicini in un reticolo di vincoli cui nessuno si può sottrarre; dove un virus sorto in un mercato di animali di una città cinese può provocare effetti devastanti su scala planetaria. Il volto oscuro e pericoloso dell’interdipendenza è noto e studiato da tempo. Nel rimarcarlo, questa crisi è rivelatrice non dell’eccesso di globalizzazione, ma del deficit di globalità: dello scarto tra integrazione e collaborazione globale, profondità dell’interdipendenza e parzialità della sua regolamentazione.
E però, secondo aspetto, tutto ciò convive con la persistente illusione della ritirata nazionale; con il potere immaginifico di frontiere che poco o nulla possono fare oggi, a maggiore ragione contro un virus, ma dietro le quali pensiamo ancora di poterci barricare. Chi, come il sottoscritto, vive in un paese europeo altro dall’Italia, ha osservato con sgomento, rabbia e incredulità la totale passività del governo francese di fronte al propagarsi del contagio: il suo sprecare dolosamente le due settimane di vantaggio che la storia gli aveva regalato rispetto all’Italia. Una passività assecondata dall’opinione pubblica, sedata dal convincimento che il virus potesse essere circoscritto all’Italia: fermato da frontiere Maginot, ormai superflue e inefficaci, ma ancora onnipotenti nell’immaginario nazionale.
Terzo e ultimo: da questa crisi si esce collettivamente o non se ne esce. Si chiudono frontiere; si congela la mobilità; si dà sfogo a tutto un campionario di grossolani stereotipi nazionali e nazionalisti. In assenza di azione collettiva, non vi saranno però vincitori e vinti, ma solo sconfitti. Sconfitta sarà la Cina, il cui autoritarismo potrà anche affascinare, ma che è il paese che per primo non ha saputo gestire e contenere l’emergenza, rivelando ancora una volta le falle e l’inefficienza del suo modello. Sconfitti saranno gli Usa, trovatisi a dover gestire la crisi con una leadership a dir poco inadeguata e un sistema sanitario indegno della prima potenza mondiale. E sconfitti saranno infine l’Europa e il progetto europeo, travolti dall’incapacità di seguire una linea comune, di capire in tempo che non di sola Italia si trattava e di agire collettivamente di fronte a una delle sfide più grandi e drammatiche che la storia li aveva posto.
Il Giornale di Brescia, 21.3.2020
venerdì 20 marzo 2020
giovedì 19 marzo 2020
Gim Cassano: Alcune riflessioni sul coronavirus
ALCUNE RIFLESSIONI
Quanto sta avvenendo dovrebbe indurre ogni persona in buona fede, ed almeno da un punto di vista empirico, a qualche ragionamento riguardante i criteri che da cinquanta anni a questa parte hanno improntato lo sviluppo delle democrazie industriali. Il dilagare dell’epidemia ha indotto molti a sottolineare la fragilità della società tecnologica: basti constatare come, di fronte ad un’epidemia la cui rapidità di diffusione è direttamente proporzionale alla facilità e rapidità di spostamento di merci e persone del mondo moderno, l’unica misura oggi possibile stia nel ricorso alle quarantene ed a pratiche di isolamento già messe in campo nel corso delle epidemie di secoli addietro.
Ma si tratta di una constatazione solo parziale, che si limita ad esaminare gli effetti, senza cercar di capire quali siano le cause, e che rischia di degenerare in una acritica ripulsa del mondo moderno. Le fragilità della società tecnologica, di fronte ad un virus, come di fronte al degrado ambientale e climatico, non sono un dato di fatto strutturale ed ineludibile, connaturato allo sviluppo tecnologico ed economico. Sono invece il risultato di scelte politiche che, superato il ciclo di evoluzione economica e sociale seguito alla IIa guerra mondiale, hanno caratterizzato le dinamiche ed i caratteri delle società industriali, subordinando il sapere, la scienza, la tecnologia, lo sviluppo economico, alla logica dell’interesse dei pochi e dei più forti (a prescindere dal fatto che si trattasse di individui, aziende, aree geografiche, stati), espressa attraverso l’ideologia di un mercato senza regole né controlli, per i quali peraltro mancavano –e mancano- strumenti ed istituzioni.
Lo si è visto, in tutto il mondo occidentale, nel degrado della democrazia, nel venir meno di ogni criterio di equità sociale, nello svilirsi del lavoro, nell’incapacità di adottare politiche ambientali e climatiche condivise, nel disinteresse nei confronti degli innumerevoli confitti regionali, a meno che questi vengano a toccare rilevanti interessi economici o militari, in pratiche di delocalizzazione e globalizzazione condotte al ribasso.
Lo vediamo oggi nell’esplodere di un’epidemia, di fronte alla quale le società industriali si trovano impreparate ed a dover competere tra loro per l’accesso a presidi sanitari la cui produzione, in nome della globalizzazione e della produzione al minor costo possibile, è stata delocalizzata. Lo vediamo nell’affidare la cura dei malati a medici ed infermieri che operano in condizioni di assoluta precarietà, dopo che intere Regioni hanno visto nel recente passato contrarsi le strutture e gli operatori sanitari, che si è ridotto il peso della sanità pubblica in favore di quella privata, che la mancanza di mezzi delle Amministrazioni Locali ha contratto l’assistenza ai più deboli, solo in parte compensata dal pur più che meritorio volontariato.
Bisognerà pure che, cessata l’emergenza sanitaria, si rifletta seriamente su come affrontare quella economico-sociale che già si sta manifestando, e che sarà molto più duratura. E bisognerà riflettere seriamente sui criteri che dovranno presiedere alla necessaria riorganizzazione del mondo moderno. Non si tratterà di immaginare un mondo che respinga scienza, tecnologia, evoluzione economica, ma di stabilire i criteri ai quali queste dovranno essere finalizzate, e di stabilire come andranno ripartiti i necessari sacrifici ed i futuri benefici. Se si vorranno salvare le conquiste che, dall’Illuminismo in avanti hanno caratterizzato, in nome delle libertà, della democrazia, del socialismo, l’evoluzione delle nostre società, occorrerà introdurre solidi meccanismi redistributivi e di tutela sociale, e che a pagare per tutti non siano i soliti. Andranno rivalutate parole cadute nel dimenticatoio, come eguaglianza non solo giuridica, internazionalismo, programmazione e controllo, priorità dell’interesse sociale rispetto a quello individuale. Non sono novità, queste; ad esempio, sono scritte nella nostra Costituzione: occorrerà che trovino una coscienza collettiva ed una classe dirigente in grado di tradurle in prassi politica.
GIM CASSANO, 19-03-2010
La vicesegretaria generale della Cgil Fracassi sul decreto Cura Italia: “va nella giusta direzione, ma sugli ammortizzatori sociali è necessario fare di più. Una volta passata l’emergenza bisogna cambiare paradigma” | Jobsnews.it
mercoledì 18 marzo 2020
Emanuele Macaluso: «La sanità è un’eredità anche per chi butta la nostra storia» - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
Franco Astengo: Cosa servirebbe in politica
COSA SERVIREBBE IN POLITICA di Franco Astengo
Una proposta da discutere:
Laura Pennacchi dalle colonne del “Manifesto” scrive cose giuste che in tanti ,da epoche precedenti a questa dell’emergenza, andavamo ripetendo più o meno inascoltati.
Riassumo: Eurobond, abbandono del modello fondato sulle esportazioni, domanda interna, welfare, riconversione ecologica. In sostanza keynesismo aggiornato.
Nello stesso numero del giornale Emanuele Macaluso invoca il ritorno dell’ONU per un governo del “globale”: è il discorso della sovranazionalità e di conseguenza, dal nostro punto di vista, dell’internazionalismo.
Ci sarebbe da aggiungere, al testo di Pennacchi, il discorso riguardante l’intervento pubblico sull’economia e le infrastrutture e l’esigenza che il welfare torni ad avere un indirizzo universalistico e non individualistico, oltre alla riduzione drastica delle spese militari.
Di fronte a questo quadro è necessario però parlare chiaro su due punti:
1) La cornice di queste proposte non può che essere quella di una assoluta inversione di rotta al riguardo del modello di società “affluente” che ha caratterizzato la crisi dell’Occidente nel corso di questi anni. Riduco all’osso per non rubare spazio: è necessario disegnare un modello di società”sobria” nella produzione e nei consumi con conseguente riequilibrio a livello planetario. Su questo punto va superato il “keynesismo” e la “società dei 2/3” e affermato un principio (mi scuso per la vaghezza) di “terza via” (non certo quella blairiana beninteso);
2) Il discorso di una “società sobria” richiede un’ iniziativa politica. Servirebbe sotto questo aspetto una immediato sviluppo di tensione rivolta almeno al livello europeo. Limitiamoci all’Italia: fermo restando il disegno istituzionale presente nella Costituzione e la necessità di mantenere la centralità di un Parlamento plurale va affermato con chiarezza che è necessario ricostruire un partito socialista, erede delle grandi tradizioni del movimento operaio del ‘900 ma capace di riflettere e operare nelle contraddizioni dell’oggi. Un partito socialista che ponga come centrale della sua riflessione e della sua operatività proprio quel modello di “società sobria” di cui si è accennato, combattendo così lo sfruttamento dell’uomo, di genere, del territorio.
La attuali forze politiche della sinistra dovrebbero cominciare a rendersi conto della loro complessiva insufficienza rispetto allo stato di cose in atto e avviare una forte discussione di merito: il “Manifesto” dovrebbe offrire una tribuna stabile a questo progetto e ,forse data la storia del giornale, anche qualcosa di più.
martedì 17 marzo 2020
Il coronavirus mette la globalizzazione con i piedi per terra - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
Franco Astengo: Democrazia e conflittualità sociale
Il long read del weekend: viaggiare per la West Coast con Gramsci per capire Sanders e Biden (un magnifico reportage sulle maledizioni della sinistra)
(Gianluca Mercuri) «Il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati».
Se un long reading del Financial Times inizia con una citazione di Antonio Gramsci — la bibbia del capitalismo che rende omaggio all’unico grande pensatore comunista il cui pensiero sia sopravvissuto al comunismo — si capisce subito che sarà un grande articolo. E lo è, anche perché l’autore — Edward Luce, che segue l’America per il giornale inglese — non sbaglia un pezzo. Qui spiega perché Bernie Sanders, anche se sarà sconfitto da Joe Biden nella corsa alla nomination democratica, ha già vinto la battaglia più importante — la modificazione genetica del partito, che si è spostato a sinistra. Il senatore socialista deve solo decidere se usare questa vittoria per Biden (facendolo votare dai suoi con convinzione) o per Trump (facendo la guerra a Biden in un modo che renderà difficile ai suoi sostenerlo). Temi di cui ci siamo occupati nella rassegna di venerdì — sì, ci appassionano molto, infatti qui ci dilunghiamo parecchio, ma ne vale la pena — e che Edward Luce affronta con un magnifico reportage. Una sorta di guida a tutte le sinistre del mondo (moderate e radicali) perché curino i loro difetti. Quelli che le fanno perdere.
L’America e il socialismo. Da tempo «socialismo americano» suona come un ossimoro. Ma non è sempre stato così, premette il giornalista. Sapevate che nelle elezioni comunali del 1917 il Partito socialista d’America prese un quarto dei seggi a New York e un terzo a Chicago? Poi non si riprese dall’ondata repressiva scattata dopo la Rivoluzione russa e l’ingresso degli Usa nella Prima guerra mondiale. Se ne riparlò giusto un secolo dopo, con lo scontro tra Bernie e Hillary Clinton, così duro da avvelenare il partito. Un elettore di Sanders su otto finì per votare per Trump, altri per la verde Jill Stein. Sono i voti che fecero perdere Hillary.
Il revival tra i giovani. Rispetto ad allora sono cambiate due cose. Gli under 39 che hanno «un’opinione positiva del socialismo» sono quasi il 50 per cento. E Joe Biden sa che non può ignorare l’agenda sandersiana, quindi più tasse a ricchi e «green new deal» stanno entrando nella sua. Il dubbio è se basterà, perché il refrain di Bernie sul «sistema corrotto» tende a dissuadere dal votare altri se non lui. E allora, con Gramsci, bisogna chiedersi se il socialismo americano, ovvero la versione americana della socialdemocrazia europea, sia uno dei «sintomi morbosi» che caratterizzano i passaggi epocali. O se il passaggio epocale sia proprio lui, Sanders, che sta conquistando il Paese al suo verbo.
Marin County, California. Per capirlo, Edward Luce è andato in California, terra simbolo di tutte le conquiste e le contraddizioni della sinistra americana e mondiale, dove Sanders le primarie le ha vinte con un vantaggio del 7%. Se la California anticipa le tendenze nazionali, Marin County anticipa quelle californiane. In questa città tra San Francisco e i vigneti della Napa Valley, dove c’è pure il ranch di George Lucas, il reddito medio è di 93 mila dollari, il quinto più alto d’America. Qui invece ha vinto Biden, ma solo perché gli ispanici che sono la spina dorsale della forza lavoro non possono permettersi di risiederci. Se San Francisco è la città con più miliardari e più senzatetto, Marin County è il suo cortile: il prezzo medio delle case è di un milione e 200 mila dollari, e che il comune abbia stanziato solo 6 milioni per l’«edilizia sostenibile» dà l’idea dell’ipocrisia di fondo della sinistra agiata. Il responsabile del programma Leelee Thomas lo denuncia con chiarezza: «Al momento, il nostro sistema è concepito per favorire i ricchi e lasciare le briciole a chi stenta». Il risultato è che un sacco di famiglie vivono in camion piazzati nei parcheggi.
Ma il posto simbolo di Marin County è Good Earth Natural Foods, catena di cibo biologico che fa la guerra al gigante Amazon e alla sua Whole Foods con la retorica di Davide e Golia. Sandersiano il proprietario, sandersiani i commessi. Che però la spesa la devono fare altrove, perché il negozio va bene per chi può lasciarci 400 dollari a botta. Inutile far notare al titolare che Henry Ford considerava decisivo, per la tenuta del contratto sociale americano, che i suoi operai potessero comprarsi le macchine che costruivano.
Quando i dem mollarono gli operai. Marin County è poco distante dal Golden Gate. Il giornalista attraversa l’altro grande ponte, il Bay Bridge, per andare a Berkeley e incontrare Robert Reich. Lo fa per due motivi: «È un influente sostenitore di Sanders ed è un vecchio amico dei Clinton. Nessun altro al mondo ha entrambe le caratteristiche». Reich, ex fidanzatino di Hillary e compagno di studi di Bill, fu il ministro del Lavoro del presidente dem. Incarnava l’ala sinistra del clintonismo — aveva costruito lui la campagna del ‘92 sulla promessa di aprire ai colletti blu «le autostrade verso il 21° secolo» — ma perse la battaglia con Robert Rubin, il capo dell’ala moderata. Dopo gli slanci iniziali, l’amministrazione tagliò la spesa sociale, deregolarizzò la finanza e aumentò i sussidi all’industria, al punto che Reich coniò con sarcasmo l’espressione «welfare aziendale». Dice oggi: «Capii che ci eravamo trasformati da partito della classe operaia a partito della classa universitaria. Eravamo schiavi di Wall Street». Anche quella fu una mutazione genetica, ma verso destra: scollò i dem da Roosevelt, il cui New Deal aveva creato le protezioni sociali dell’America, e li fece «danzare alla musica di Reagan». I colletti blu cominciarono a usare le loro case come salvadanai, giocandosele in cambio di prestiti. La «Rubinomics», Reich ne è convinto, fu all’origine del disastro dei mutui subprime: «Ogni protezione era saltata, la forza era tutta dalla parte dei datori di lavoro, i meccanismi anti-bancarotta c’erano solo per i ricchi. È così sorprendente che la gente si sia votata ai politici anti establishment?».
Il viaggio del giornalista lungo la West Coast prosegue verso Nord. Seattle, Stato di Washington, patria di Microsoft e Amazon. Ma anche patria elettiva di Kshama Sawant, indiana di nascita, marxista per scelta, ingegnera elettronica, consigliera comunale più longeva — dei 140 mila dollari di stipendio se ne tiene solo 40 mila, gli altri li dà a un fondo di sostegno agli scioperi — e artefice del salario minimo a 15 dollari che la città ha adottato nel 2017 e ora è una questione nazionale, tanto che sia Biden sia Sanders vogliono imporlo per legge federale. La sua nuova battaglia si chiama «Amazon tax» perché incredibilmente il gigante di Jeff Bezos — che vale un trilione di dollari — paga zero tasse cittadine e statali e quasi zero a livello nazionale. L’assemblea statale vuole ora una legge preventiva che impedisca future tasse ad Amazon, con cui Sawant vuole finanziare l’edilizia sociale. Il che la porta a questa posizione: fan di Sanders — è lei a introdurre i suoi comizi in zona — e arcinemica dei democratici, «il partito dei miliardari», mentre «i socialisti sono l’opposizione». Chiederle di votare Biden è l’unica cosa che può farla arrabbiare. Vuole portare un milione di persone alla Convenzione democratica di Milwaukee, in luglio, per «convincerla» a nominare Sanders. Altrimenti, spera che Sanders «corra da indipendente», e pazienza se questo vorrebbe dire regalare la vittoria a Trump.
California dreaming. L’ultimo incontro di Luce è con un simbolo del sogno californiano, il quattro volte governatore Jerry Brown, oggi 81enne, primo politico americano a citare Gramsci, l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. Brown ha fatto tutto il percorso classico dall’idealismo al pragmatismo e oggi Sanders non è la sua tazza di tè. Non sa esprimersi su cosa succederà, anche se «i sintomi morbosi» gramsciani, tra virus e fermento politico, ci sono tutti. Più incisiva la testimonianza di Alice Waters, proprietaria del luogo che ospita l’incontro, il ristorante Chez Panisse di Berkeley, dove nacque il movimento «slow food» americano su ispirazione del nostro Carlin Petrini. Un santuario della sinistra fighetta mondiale insomma, ma Waters non è per niente fighetta: «L’America ha due grandi problemi. Il primo è lo svuotamento di senso del lavoro. Tante persone fanno lavori che distruggono l’anima. Il secondo è la solitudine. La vedi dappertutto. Le comunità si sono spezzate». Poi gela il suo vecchio amico Jerry: «Da governatore non avevi promesso esperimenti di edilizia comunale per gli anziani? Stiamo ancora aspettando».
Edward Luce conclude il suo incredibile lavoro — che da solo varrebbe un Pulitzer — con due considerazioni.
La prima è pro Biden. Sbagliano i sandersiani arrabbiati a pensare che siano state le élite del partito, con trucchi e manovre, a farlo resuscitare: «Sono stati gli elettori afroamericani del Sud, a partire dalla South Carolina». L’establishment non ha scelto Biden, ma si è precipitato a salire sul suo carro.
La seconda è pro Sanders. I democratici centristi lo paragonano ossessivamente a McGovern, il radicale che li portò alla disfatta contro Nixon nel 1972. Ma Robert Reich gli ha ricordato il caso del 1968, quando a stra-perdere contro Nixon era stato il vicepresidente Humphrey, un moderato alla Biden.
Quello che è incontrovertibile è ciò che il giornalista afferma nella sua conclusione: «Con o senza Sanders, i democratici si muovono costantemente verso sinistra. Anche prima di un eventuale accordo con Sanders per unire il partito, il programma di Biden è notevolmente più di sinistra che nei suoi anni con Obama. Il partito di Clinton e perfino di Obama sta svanendo. Nemmeno Robert Rubin obietta più alla tassa sulla ricchezza. Anche mentre perde, Sanders sta vincendo».
Se poi resterà Trump, sarà la vittoria più bella e inutile della storia.
La mail dei lettori
La canzone dal terrazzo, il saluto da lontano e il male che non viene solo per nuocere
Adesso che siete arrivati in fondo a questa rassegna stampa e state per richiudere la finestra, una cosa sul coronavirus ve la vogliamo dire. Non l’abbiamo trovata su un sito o su un giornale, ma nella mail. Ce l’ha scritta un lettore, Roberto Pilato, imprenditore di Conegliano Veneto: «È una sorta di purgatorio. Cresce però un po’ alla volta il senso civico e quello di appartenere a una grande comunità. Saluto il vicino muovendo il braccio, mentre da un terrazzo qualcuno intona una canzone. Altri si uniscono. Non importa se è stonato, è un magnifico coro ed è emozionante ascoltarlo. Si comincia a pensare che non tutto questo male è arrivato per nuocere, scoprendo che la distanza paradossalmente ci riavvicina».
L'America e il socialismo
Il long read del weekend: viaggiare per la West Coast con Gramsci per capire Sanders e Biden (un magnifico reportage sulle maledizioni della sinistra)
(Gianluca Mercuri) «Il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati».
Se un long reading del Financial Times inizia con una citazione di Antonio Gramsci — la bibbia del capitalismo che rende omaggio all’unico grande pensatore comunista il cui pensiero sia sopravvissuto al comunismo — si capisce subito che sarà un grande articolo. E lo è, anche perché l’autore — Edward Luce, che segue l’America per il giornale inglese — non sbaglia un pezzo. Qui spiega perché Bernie Sanders, anche se sarà sconfitto da Joe Biden nella corsa alla nomination democratica, ha già vinto la battaglia più importante — la modificazione genetica del partito, che si è spostato a sinistra. Il senatore socialista deve solo decidere se usare questa vittoria per Biden (facendolo votare dai suoi con convinzione) o per Trump (facendo la guerra a Biden in un modo che renderà difficile ai suoi sostenerlo). Temi di cui ci siamo occupati nella rassegna di venerdì — sì, ci appassionano molto, infatti qui ci dilunghiamo parecchio, ma ne vale la pena — e che Edward Luce affronta con un magnifico reportage. Una sorta di guida a tutte le sinistre del mondo (moderate e radicali) perché curino i loro difetti. Quelli che le fanno perdere.
L’America e il socialismo. Da tempo «socialismo americano» suona come un ossimoro. Ma non è sempre stato così, premette il giornalista. Sapevate che nelle elezioni comunali del 1917 il Partito socialista d’America prese un quarto dei seggi a New York e un terzo a Chicago? Poi non si riprese dall’ondata repressiva scattata dopo la Rivoluzione russa e l’ingresso degli Usa nella Prima guerra mondiale. Se ne riparlò giusto un secolo dopo, con lo scontro tra Bernie e Hillary Clinton, così duro da avvelenare il partito. Un elettore di Sanders su otto finì per votare per Trump, altri per la verde Jill Stein. Sono i voti che fecero perdere Hillary.
Il revival tra i giovani. Rispetto ad allora sono cambiate due cose. Gli under 39 che hanno «un’opinione positiva del socialismo» sono quasi il 50 per cento. E Joe Biden sa che non può ignorare l’agenda sandersiana, quindi più tasse a ricchi e «green new deal» stanno entrando nella sua. Il dubbio è se basterà, perché il refrain di Bernie sul «sistema corrotto» tende a dissuadere dal votare altri se non lui. E allora, con Gramsci, bisogna chiedersi se il socialismo americano, ovvero la versione americana della socialdemocrazia europea, sia uno dei «sintomi morbosi» che caratterizzano i passaggi epocali. O se il passaggio epocale sia proprio lui, Sanders, che sta conquistando il Paese al suo verbo.
Marin County, California. Per capirlo, Edward Luce è andato in California, terra simbolo di tutte le conquiste e le contraddizioni della sinistra americana e mondiale, dove Sanders le primarie le ha vinte con un vantaggio del 7%. Se la California anticipa le tendenze nazionali, Marin County anticipa quelle californiane. In questa città tra San Francisco e i vigneti della Napa Valley, dove c’è pure il ranch di George Lucas, il reddito medio è di 93 mila dollari, il quinto più alto d’America. Qui invece ha vinto Biden, ma solo perché gli ispanici che sono la spina dorsale della forza lavoro non possono permettersi di risiederci. Se San Francisco è la città con più miliardari e più senzatetto, Marin County è il suo cortile: il prezzo medio delle case è di un milione e 200 mila dollari, e che il comune abbia stanziato solo 6 milioni per l’«edilizia sostenibile» dà l’idea dell’ipocrisia di fondo della sinistra agiata. Il responsabile del programma Leelee Thomas lo denuncia con chiarezza: «Al momento, il nostro sistema è concepito per favorire i ricchi e lasciare le briciole a chi stenta». Il risultato è che un sacco di famiglie vivono in camion piazzati nei parcheggi.
Ma il posto simbolo di Marin County è Good Earth Natural Foods, catena di cibo biologico che fa la guerra al gigante Amazon e alla sua Whole Foods con la retorica di Davide e Golia. Sandersiano il proprietario, sandersiani i commessi. Che però la spesa la devono fare altrove, perché il negozio va bene per chi può lasciarci 400 dollari a botta. Inutile far notare al titolare che Henry Ford considerava decisivo, per la tenuta del contratto sociale americano, che i suoi operai potessero comprarsi le macchine che costruivano.
Quando i dem mollarono gli operai. Marin County è poco distante dal Golden Gate. Il giornalista attraversa l’altro grande ponte, il Bay Bridge, per andare a Berkeley e incontrare Robert Reich. Lo fa per due motivi: «È un influente sostenitore di Sanders ed è un vecchio amico dei Clinton. Nessun altro al mondo ha entrambe le caratteristiche». Reich, ex fidanzatino di Hillary e compagno di studi di Bill, fu il ministro del Lavoro del presidente dem. Incarnava l’ala sinistra del clintonismo — aveva costruito lui la campagna del ‘92 sulla promessa di aprire ai colletti blu «le autostrade verso il 21° secolo» — ma perse la battaglia con Robert Rubin, il capo dell’ala moderata. Dopo gli slanci iniziali, l’amministrazione tagliò la spesa sociale, deregolarizzò la finanza e aumentò i sussidi all’industria, al punto che Reich coniò con sarcasmo l’espressione «welfare aziendale». Dice oggi: «Capii che ci eravamo trasformati da partito della classe operaia a partito della classa universitaria. Eravamo schiavi di Wall Street». Anche quella fu una mutazione genetica, ma verso destra: scollò i dem da Roosevelt, il cui New Deal aveva creato le protezioni sociali dell’America, e li fece «danzare alla musica di Reagan». I colletti blu cominciarono a usare le loro case come salvadanai, giocandosele in cambio di prestiti. La «Rubinomics», Reich ne è convinto, fu all’origine del disastro dei mutui subprime: «Ogni protezione era saltata, la forza era tutta dalla parte dei datori di lavoro, i meccanismi anti-bancarotta c’erano solo per i ricchi. È così sorprendente che la gente si sia votata ai politici anti establishment?».
Il viaggio del giornalista lungo la West Coast prosegue verso Nord. Seattle, Stato di Washington, patria di Microsoft e Amazon. Ma anche patria elettiva di Kshama Sawant, indiana di nascita, marxista per scelta, ingegnera elettronica, consigliera comunale più longeva — dei 140 mila dollari di stipendio se ne tiene solo 40 mila, gli altri li dà a un fondo di sostegno agli scioperi — e artefice del salario minimo a 15 dollari che la città ha adottato nel 2017 e ora è una questione nazionale, tanto che sia Biden sia Sanders vogliono imporlo per legge federale. La sua nuova battaglia si chiama «Amazon tax» perché incredibilmente il gigante di Jeff Bezos — che vale un trilione di dollari — paga zero tasse cittadine e statali e quasi zero a livello nazionale. L’assemblea statale vuole ora una legge preventiva che impedisca future tasse ad Amazon, con cui Sawant vuole finanziare l’edilizia sociale. Il che la porta a questa posizione: fan di Sanders — è lei a introdurre i suoi comizi in zona — e arcinemica dei democratici, «il partito dei miliardari», mentre «i socialisti sono l’opposizione». Chiederle di votare Biden è l’unica cosa che può farla arrabbiare. Vuole portare un milione di persone alla Convenzione democratica di Milwaukee, in luglio, per «convincerla» a nominare Sanders. Altrimenti, spera che Sanders «corra da indipendente», e pazienza se questo vorrebbe dire regalare la vittoria a Trump.
California dreaming. L’ultimo incontro di Luce è con un simbolo del sogno californiano, il quattro volte governatore Jerry Brown, oggi 81enne, primo politico americano a citare Gramsci, l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. Brown ha fatto tutto il percorso classico dall’idealismo al pragmatismo e oggi Sanders non è la sua tazza di tè. Non sa esprimersi su cosa succederà, anche se «i sintomi morbosi» gramsciani, tra virus e fermento politico, ci sono tutti. Più incisiva la testimonianza di Alice Waters, proprietaria del luogo che ospita l’incontro, il ristorante Chez Panisse di Berkeley, dove nacque il movimento «slow food» americano su ispirazione del nostro Carlin Petrini. Un santuario della sinistra fighetta mondiale insomma, ma Waters non è per niente fighetta: «L’America ha due grandi problemi. Il primo è lo svuotamento di senso del lavoro. Tante persone fanno lavori che distruggono l’anima. Il secondo è la solitudine. La vedi dappertutto. Le comunità si sono spezzate». Poi gela il suo vecchio amico Jerry: «Da governatore non avevi promesso esperimenti di edilizia comunale per gli anziani? Stiamo ancora aspettando».
Edward Luce conclude il suo incredibile lavoro — che da solo varrebbe un Pulitzer — con due considerazioni.
La prima è pro Biden. Sbagliano i sandersiani arrabbiati a pensare che siano state le élite del partito, con trucchi e manovre, a farlo resuscitare: «Sono stati gli elettori afroamericani del Sud, a partire dalla South Carolina». L’establishment non ha scelto Biden, ma si è precipitato a salire sul suo carro.
La seconda è pro Sanders. I democratici centristi lo paragonano ossessivamente a McGovern, il radicale che li portò alla disfatta contro Nixon nel 1972. Ma Robert Reich gli ha ricordato il caso del 1968, quando a stra-perdere contro Nixon era stato il vicepresidente Humphrey, un moderato alla Biden.
Quello che è incontrovertibile è ciò che il giornalista afferma nella sua conclusione: «Con o senza Sanders, i democratici si muovono costantemente verso sinistra. Anche prima di un eventuale accordo con Sanders per unire il partito, il programma di Biden è notevolmente più di sinistra che nei suoi anni con Obama. Il partito di Clinton e perfino di Obama sta svanendo. Nemmeno Robert Rubin obietta più alla tassa sulla ricchezza. Anche mentre perde, Sanders sta vincendo».
Se poi resterà Trump, sarà la vittoria più bella e inutile della storia.
La mail dei lettori
La canzone dal terrazzo, il saluto da lontano e il male che non viene solo per nuocere
Adesso che siete arrivati in fondo a questa rassegna stampa e state per richiudere la finestra, una cosa sul coronavirus ve la vogliamo dire. Non l’abbiamo trovata su un sito o su un giornale, ma nella mail. Ce l’ha scritta un lettore, Roberto Pilato, imprenditore di Conegliano Veneto: «È una sorta di purgatorio. Cresce però un po’ alla volta il senso civico e quello di appartenere a una grande comunità. Saluto il vicino muovendo il braccio, mentre da un terrazzo qualcuno intona una canzone. Altri si uniscono. Non importa se è stonato, è un magnifico coro ed è emozionante ascoltarlo. Si comincia a pensare che non tutto questo male è arrivato per nuocere, scoprendo che la distanza paradossalmente ci riavvicina».
Il rischio che l'Italia si senta abbandonata
Financial Times
Il rischio che l’Italia si senta abbandonata: come l’irresponsabilità europea e quella dei sovranisti si alimentano a vicenda
(Gianluca Mercuri) «Senza il supporto della Banca centrale europea, più italiani - non solo l’estrema destra - si chiederanno se debbano lasciare l’eurozona e riassumere il controllo del tasso di cambio e dell'inflazione. Gli italiani hanno ragione a sentirsi abbandonati da Lagarde e dall’Ue (...) L'Italia non ha dimenticato la riluttanza degli altri Stati membri ad accogliere i profughi che sbarcavano sulle loro spiagge. L'Italia riemergerà dall'incubo del Covid-19 in un mondo diverso. È bene che l'Ue non finisca per inimicarsi uno Stato fondatore».
Finalmente un allarme serio dalla stampa europea. Da parte di Wolfgang Münchau, in realtà, non è una novità. La grande firma del FT - un tedesco che ragiona da europeo, con la razionalità che gli deriva dal primo requisito e la visione ampia che gli assicura il secondo - ha sempre disperatamente descritto il corto circuito che rischia di travolgerci tutti, italiani ed europei. C’è un’Europa passiva, inerte, prigioniera dei suoi egoismi e delle sue paure, tra cui spicca quella di un'Italia insolvente e in preda a un sovranismo che la porti prima o poi a un'uscita dall'euro che sarebbe devastante per tutti. E c'è un'estrema destra italiana che gioca ambiguamente sul tema dell’Italexit ed è pronta farci la prossima campagna elettorale, se annuserà tra gli elettori la percezione che l'Italia è stata abbandonata. In un classico circolo vizioso, le due irresponsabilità — quella dell’Ue e quella dei sovranisti italiani — si autoalimentano. E il rischio è gigantesco.
Lo spunto stavolta a Münchau l'ha dato l'ormai celebre gaffe della presidente della Bce Christine Lagarde, che la scorsa settimana ha distrutto con una frase - «Non è nostro compito regolare lo spread» - il fortino costruito in otto anni da Mario Draghi. La ritrosia degli Stati membri a coordinare le politiche fiscali - anche nell'emergenza virus - ha fatto il resto. Forse il giornalista sottovaluta l'importanza dello sforzo della sua connazionale Ursula von der Leyen, che con le sue parole - «Daremo all’Italia tutto quello che chiede» - ha fatto capire che nel buio degli egoismi nazionali la Commissione europea può essere un faro. Münchau non la cita nemmeno, preoccupato com'è dalla corsa impazzita dei singoli governanti a fare ognun per sé, cosa che finirà per ampliare i deficit di Italia, Spagna e Francia e dunque anche il gap tra nordici e mediterranei.
Ma al centro di tutto c’è la Bce, perché lì siamo abituati a vederla dal 2012. Forse Draghi - azzarda Münchau - «aveva inavvertitamente fornito ai leader dell'Ue la scusa per non fare nulla sull'unione fiscale». Ma anche lì vale il contrario: con sua credibilità, quella che manca a Lagarde, Draghi aveva rimediato alla paralisi dei leader e salvato l’euro. Il genio italiano, in sostanza, «aveva rimosso una motivazione chiave perché i Paesi prendessero in considerazione l'abbandono dell'eurozona». Ma ora, «senza quel freno, gli argomenti perché l'Italia resti nella moneta unica diventeranno più facili da controbilanciare». Salvini, dopo mesi di digiuno, ha l'acquolina in bocca.
In tempi di crisi scopriamo quanto sia importante avere fiducia nello Stato
Frankfurter Allgemeine
In tempi di crisi scopriamo quanto sia importante avere fiducia nello Stato
(Sandro Orlando) Quando scoppia un'infezione di massa come quella del Covid-19, è importante potersi fidare dello Stato. Altrimenti nessuno seguirà le indicazioni che vengono date, che si tratti di lavarsi le mani o non uscire di casa. «Ecco un alibi per mascherare la propria incapacità di far fronte all'emergenza», penserà il cittadino. «Dovrei stare in stare a casa perché il sistema sanitario è inadeguato, e lo Stato non ha saputo prepararsi in tempo per rispondere a questa pandemia»? Chi non si fida dello Stato, sarà inevitabilmente portato a pensare così.
Negli Stati Uniti, nel 2015, neanche un cittadino su quattro (il 23%) dichiarava di avere fiducia nello Stato. D'altronde sono più di 40 anni che gli americani sono bombardati da un'ideologia conservatrice che ha esaltato il primato della responsabilità individuale, a scapito di tutto ciò che è pubblico. Le teorie di Milton Friedman hanno formato intere generazioni, osservano i premi Nobel per l'economia Esther Duflo e Abhijit Banerjee in un intervento sulla Frankfurter Allgemeine, guastando così il rapporto che abbiamo con lo Stato.
Lo Stato è diventato sinonimo di inefficienze, sprechi, lungaggini, corruzione. E tuttavia è proprio il ruolo dello Stato farsi carico di quei compiti che nessuno è in grado di assolvere. La sanità, la scuola, il fisco e la giustizia sono alcuni dei settori che non si possono gestire solo con l'affidamento alle leggi di mercato, come l'esperienza ha dimostrato. Il privato, in questi casi funziona peggio del pubblico, e non porta a minori malversazioni.
Il punto è che il pensiero liberista che ha dominato il dibattito pubblico dai tempi di Ronald Reagan ha creato un circolo vizioso da cui sembra difficile uscire (ne abbiamo parlato anche nella rassegna stampa di ieri). Siccome non ci si fida dello Stato, nessuna persona qualificata vuole lavorare per lo Stato. «In oltre vent'anni di esperienza universitaria non abbiamo incontrato un solo studente che aspirasse ad una carriera nell'amministrazione pubblica», scrivono i due economisti, che nella vita privata formano una coppia. E se i migliori talenti non vogliono lavorare per lo Stato, lo Stato sarà inevitabilmente debole e inefficace.
Soprattutto in tempi di crisi vediamo quanto bisogno ci sia nelle nostre istituzioni di professionisti competenti. In assenza di figure così, siamo spinti a non dare troppo potere decisionale a chi deve gestire la cosa pubblica. E quel è peggio, ci rassegniamo all’inevitabile malfunzionamento dello Stato, e non ci scandalizziamo più davanti a nulla. Non sappiamo quanto durerà questa crisi - concludono Duflo e Banerjee - ma quando tutto sarà finito, dovremo ricordarci di quanto importante è avere uno Stato che funzioni. Oggi paghiamo il prezzo del costante disprezzo dello Stato e delle sue istituzioni. Ma perché lo Stato sia efficiente, dobbiamo essere innanzitutto noi a pretenderlo.
lunedì 16 marzo 2020
Franco Astengo: Rappresentanza, internazionalismo, sovranazionalità
RAPPRESENTANZA, INTERNAZIONALISMO, SOVRANAZIONALITA’ di Franco Astengo
Vivere nell’isolamento forzato, come sta capitando adesso a molti di noi, non deve significare l’abbandono della possibilità di incrementare la riflessione politica.
E’ il caso allora di rilanciare, sia pure a distanza, quel confronto ,che pure ci era capitato di avviare nei mesi scorsi, ad esempio con l’apertura del “Dialogo Gramsci – Matteotti per la ricostruzione della sinistra”.
Anzi, proprio ciò che ci sta capitando addosso rende sempre più indifferibile l’apertura di una discussione di fondo.
Molte delle categorie politiche che si ritenevano assolutamente affermate e incontrovertibili sono andate in discussione e , nell’augurabile post di questa vicenda, sarà necessario ripartire sia sul piano dell’analisi di fase sia su quello dell’intervento diretto al riguardo delle nuove dinamiche che sicuramente si evidenzieranno sia nel sistema politico italiano, sia sul piano internazionale.
Provo allora a fornire un minimo di contributo a un dibattito possibile esaminando tre termini, molto importanti per la sinistra.
Termini che hanno assunto un peso molto diverso, almeno sul piano teorico, rispetto alla dimensione da essi avuta nel recente passato:
1) RAPPRESENTANZA
Ci siamo accorti, nel frattempo, che un livello di decisionalità come quello richiesto dall’emergenza non può essere sopportato se non attraverso l’espressione di un corrispondente adeguato livello di rappresentanza politica.
Infatti l’emergere delle contraddizioni sociali acuite dalle priorità imposte dalla situazione di eccezionalità ( eccezionalità del tipo di quelle che si affrontano solitamente in periodi bellici) si sommano necessariamente con le contraddizioni già presenti nella società .
Si è reso così difficile lo stabilire un ordine di priorità che non fosse sia quello imposto dall’urgenza della quotidianità, con un totale assorbimento in quella direzione del meccanismo comunicativo.
In questi giorni abbiamo sentito gridare “Non si può chiudere il Parlamento” mentre la commistione tra le espressioni della comunità tecnico – scientifico si intrecciavano e la “occasionale” espressione della governabilità (e del rapporto tra questa e le rappresentanze parlamentari) hanno fornito alla fine una sostanziale opacità nelle definizione delle scelte (molto pesanti per una società impostata sul consumismo individuale) .
L’unico supporto alla chiarezza nelle scelte è stata quella fornita da una sorta di” indefinizione statistica”.
Un’opacità alimentata da un sistema di comunicazione di massa vorace di presenzialismo (a tutti i livelli) ma incapace di uscire dalla banalità dell’esortazione.
Si è così sentita molto forte la mancanza di una rappresentanza politica fondata sulla qualità complessiva delle contraddizioni sociali, autonoma nella sua ricerca d’identità, capace di sorreggere sul piano politico la necessità di confronto e di rivendicazione sociale che pure sarebbe apparsa, proprio in questo frangente, quanto mai necessaria.
Va riaperta quindi, con ancora maggiore pregnanza rispetto al passato, la discussione sul tipo di soggettività politica che la sinistra deve sapere esprimere, anche in previsione dell’avanzamento di una radicalità di richiesta nella modifica profonda dell’organizzazione sociale fondata su liberismo e relativo individualismo che pure dovrà essere immediatamente avanzata;
2) INTERNAZIONALISMO
Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di genere, del territorio è proseguito imperterrito nell’esercizio da parte dei suoi abituali propugnatori, nonostante l’angoscioso “stand by” generale.
Nell’aggiungersi della contraddizione legata alle condizioni sanitarie gli operai delle fabbriche si sono immediatamente ribellati, dimostrando che l’antico senso di rivolta verso le sopraffazioni non è ancora morto.
Non qui è il caso, se non di sfuggita, rilevare il ritardo delle grandi centrali sindacali nell’interpretazione di questo fatto: forse il fatto più importante accaduto nel periodo dell’emergenza.
Appare invece opportuno far notare come, sotto questo aspetto, sia completamente mancato un collegamento a livello internazionale, una capacità di visione che oltrepassasse (come era, invece, facilmente intuibile fosse necessario) i confini, in una comune visione del mondo del lavoro rispetto alla qualità dell’emergenza .
Una comune visione del mondo che ci mettesse tutti in grado di esprimere la necessità di proporre livelli di solidarietà anche nelle proposte di lotte non riservate allo specifico di quel settore o di quella nazione.
Una visione internazionalista (mi scuso del linguaggio d’antan ma il mio limitato vocabolario soggettivo non mi ha suggerito altra espressione) dei diritti dei lavoratori in questa fase emergenziale avrebbe consentito di fornire una ancora diversa capacità di lotta.
Una lezione questa che, nell’idea di ricostruzione a sinistra dovrebbe essere assunta a pieno.
Al di fuori da una visione internazionalista della lotta dei lavoratori non può esistere l’eredità del movimento operaio del ‘900 e di conseguenza non può esistere la sinistra.
3) SOVRANAZIONALITA’
Il tema dell’internazionalismo richiama immediatamente quello della sovranazionalità, della gestione oltre lo “Stato – Nazione” di diverse problematiche in una fase nella quale il sovranismo assume un ruolo molto forte nell’influenza sulle scelte delle politiche pubbliche e sulla capacità di aggregazione del consenso all’interno del sistema.
La globalizzazione si è già arrestata almeno da un paio d’anni rilanciando gli scacchieri della geopolitica e del gioco delle guerre “locali/globali” ma lasciando comunque spazio all’innalzamento del peso complessivo dei processi di finanziarizzazione dell’economia, non si sono fermate le guerre con il carico conseguente del drammatico problema dei migranti, l’ONU ha perso peso e capacità d’intervento, l’Unione Europea ha mostrato la corda del suo fallimento, sono tornate e si sono moltiplicate le chiusure sia sul piano economico che su quello politico.
Il sistema fondato sul “turbocapitalismo” e la finanza sostituta dell’economia ha sicuramente fallito, com’era facilmente prevedibile, mandando in crisi verticale tutte quelle espressioni politiche già progressiste (socialdemocratiche o ex-comuniste post -muro) che avevano cercato di allinearsi al “trend dominante”: dal Labour di Blair al PDS – DS - PD di D’Alema e Veltroni.
Pur tuttavia oggettivamente (considerato anche il quadro complessivo della realtà dell’innovazione tecnologica, in particolare nel campo della comunicazione di massa) il processo di cessione di sovranità da parte dello “Stato – Nazione” è proseguito.
Si rende quindi indispensabile, nel discorso di ricostruzione a sinistra, un ripensamento complessivo del concetto di “sovranazionalità” e di proposta di recupero, in questo senso, di strutture e istituzioni a partire dalla dimensione europea.
In conclusione ho cercato di indicare tre temi che, in questo momento mi appaiono assolutamente evidenti da affrontare sul piano del dibattito all’interno di quel discorso di ricostruzione a sinistra che pure ci auguriamo di poter riprendere al più presto.
Un discorso di ricostruzione a sinistra che dobbiamo intendere di portare avanti soprattutto attraverso l’utilizzo dei tradizionali strumenti di confronto, cui non dobbiamo intendere minimamente rinunciare per cedere all’assoluto predominio di una tecnologia il cui utilizzo possa essere inteso come strumento esaustivo dell’agire sociale e politico.
Rimane evidente come il ritorno dall’emergenza ci imporrà un livello di riflessione politica molto più profondo di quanto non ci si potesse immaginare soltanto qualche mese fa.
domenica 15 marzo 2020
Paolo Bagnoli: Nel ventennale della scomparsa di Craxi
Nel ventennale della scomparsa di Craxi
5 Marzo 2020 pubblicato da Il Ponte
Bettino Craxidi Paolo Bagnoli
Il ventesimo anniversario della morte di Bettino Craxi, scomparso ad Hammamet il 19 gennaio 2000, ha riempito non solo per alcuni giorni le pagine dei giornali e gli schermi televisivi, ma ha visto una considerevole produzione letteraria e anche un film. Per giorni pertanto di Craxi si è parlato molto. Era scontato che così fosse, ma, a ben vedere, agli atti non rimane alcun giudizio politico di fondo. È prevalso il personaggio: soprattutto si è parlato dei suoi ultimi mesi di vita, ma non si può dire che si siano fatti i conti con ciò che egli ha rappresentato per le sorti del socialismo italiano che con lui è praticamente scomparso. Non si è affrontato ciò che ha rappresentato e prodotto l’esperienza craxiana, ma oggettivare la stagione di Craxi è assolutamente necessario per rimuovere un immenso macigno che ha reso praticamente impossibile rimettere in discussione le possibilità di ripresa – meglio sarebbe dire di rinascita – di un soggetto socialista cui si lega, necessariamente, la sinistra, sia quella di origine classista sia quella di matrice laica.
Va detto inoltre che la questione socialista si intreccia in Italia con il problema della democrazia che, fallimento dopo fallimento di soggetti politici e di alleanze, vaga sbandata sotto gli urti forti del populismo, in un clima sociale caratterizzato da razzismi, rigurgiti fascisti, disgregazione di corpi dello Stato, disprezzo del parlamento, marginalità della Costituzione, nonché da una crisi sociale acuta, dovuta alla mancata crescita e all’aumento della povertà. Insomma, una situazione segnata dallo sfarinamento della Repubblica e dello Stato di diritto.
La vicenda Craxi ha rappresentato il tourning point della cosiddetta Prima repubblica. Dopo, nulla è stato più come prima, poiché con Craxi – fu egli stesso a denunciarlo nel suo ultimo discorso in parlamento – questione politica e questione giudiziaria si intrecciano. La prima cade sotto l’incalzare della seconda, forte e martellante, avendo la magistratura assunto un vero e proprio ruolo politico nella sua autorappresentazione di riserva morale della Repubblica. Naturalmente si trattava di un’autorappresentazione che, con il caso Palamara, che ha messo in crisi il Csm, sembra essersi notevolmente sgonfiata, anche se la questione propria del Csm è rimasta aperta.
Che il sistema politico si finanziasse con la malversazione del denaro pubblico era cosa nota: questo era il problema politico che andava tenuto diviso dal problema giudiziario. Da qui la questione morale di cui, soprattutto dopo il 1989, ci fu una sottovalutazione, dato il peso che questa aveva assunto. Naturalmente i giudici avevano l’obbligo di perseguire i reati e chi li compiva, restando negli ambiti propri della giurisdizione e non assumendo comportamenti impropri. La prima questione, quella politica, doveva essere affrontata dalla classe politica che, invece, si rese latitante, segnando la sua subalternità alla magistratura. Craxi disse quanto era noto a tutti: rimase solo e divenne il simbolo del male morale che aveva colpito la politica italiana.
Alla guida del Psi Craxi era venuto via via accentuando un proprio profilo carismatico che, a ben vedere, andò a suo danno e a danno di una struttura di partito debole sul piano organizzativo. Ciò favorì la nascita di tanti potentati locali che perseguivano il rafforzamento di un potere personale, con le conseguenze cui abbiamo assistito. Mario Chiesa, definito da Craxi un «mariuolo», altro non era che un esempio di tale degenerazione. E la ricerca di risorse per le correnti, sia a livello centrale che periferico, provocò una specie di bulimia. Il sistema era malato e la gestione dei finanziamenti, che da sempre era data per scontata, nel corso degli anni ottanta subì una torsione personalistica che andava di pari passo con l’idea che Craxi aveva del rapporto tra il partito e il governo. Per dirla in breve, il naufragio del partito e del suo leader non fu un qualcosa di inconsapevole, ma quasi la logica conseguenza di un meccanismo consolidato.
Nella “craxeide” di libri e di articoli, cui abbiamo accennato, sorprendentemente il Psi è assente, dando per scontato che, essendo praticamente Craxi il Psi, era naturale che, caduto lui, cadesse anche il partito. Questo è il punto da cui partire per fare i conti con Craxi, ossia con le ragioni per cui sotto la sua leadership il Psi divenne amorfo e non riuscì a vivere quale entità autonoma, tanto che, al momento dello schianto, quando oramai era chiaro a tutti che si andava verso il baratro, non ci fu nessuno del gruppo dirigente che cercasse di salvare il partito. E questo perché forse il partito si era “schiantato” ancor prima di Craxi.
Fatto si è che oggi appare praticamente scontata la riduzione di un secolo di vita del partito ai diciassette anni nei quali Craxi è stato un dominus sempre più incontrastato. Ora, se a partire dal Congresso di Torino del 1978 – quello dell’autonomia e dell’alternativa – il partito, nella sua quasi totalità, si era sempre più “craxizzato”, ciò può voler dire una cosa sola: che si era via via abbandonata la sua missione storica, cioè quella di una forza che lotta per ideali che ne giustificano il nome; che si dovevano allargare gli spazi di libertà e di democrazia e inserire elementi di socialismo nel sistema per una positiva evoluzione della giustizia sociale; che l’interesse collettivo dovesse prevalere sui particolarismi, contro ogni sfruttamento dovuto all’egoismo del profitto o della rendita.
Se questo è il parametro proprio di ogni soggetto socialista, va detto che Craxi non lo seguì. Se il partito fosse stato su questo binario, non ne avrebbe condiviso la sorte e, per quanto nelle riflessioni fatte su di lui si sia per lo più esaltato un percorso di vita politica teso a dimostrarne la coerenza, alla fine, ciò che conta è il saldo finale che ci dice due cose. La prima, che il Psi non c’è più; la seconda, che non si può più dire, come una volta, che “socialista” equivale a “galantuomo”. Aggiungiamo che oramai il termine “socialista” è per lo più bandito dal dibattito pubblico perché continua, nel parlare comune, a essere adoprato con valenza spregiativa.
Questo è il saldo finale caricato dal fatto che, nel pieno rispetto degli aspetti umani, l’essersi rifugiato Craxi in Tunisia non è giustificabile da nessun punto di vista. Il lascito, in ultima analisi, è quello di un’ipoteca negativa assai pesante e lunga a durare, che renderà molto difficile poter riparlare di socialismo. Nel saldo c’è la cancellazione dalla politica, dalla storia e dalla democrazia italiana di una forza che tanto ha dato e molto ha significato.
Tralasciamo ogni considerazione sul senso dell’autonomismo perseguito da Craxi. L’uomo è stato ritenuto un po’ da tutti il delfino di Pietro Nenni, ma questi su di lui dà nei Diari giudizi molto cauti. Come ha ricordato Ugo Intini, fu sotto la segreteria del Psi milanese di Guido Mazzali che Craxi crebbe politicamente e, a nostro avviso, l’autonomismo nenniano fu assai diverso dal suo, così come la politique d’abord, di nenniana memoria, fu altra cosa dal suo comportamento politico e dalla sua “maestria tattica”. Nella politique d’abord di Nenni sta, infatti, un intento strategico: cogliere l’obiettivo principale, senza curarsi di nient’altro se non di centrare l’obiettivo medesimo.
Poiché i declini politici si preparano in anticipo, a quando possiamo far risalire l’inizio del declino del Psi? Vediamo: Craxi conquista, grazie all’alleanza con la sinistra lombardiana, la segreteria nel 1978 sulla linea del progetto socialista per l’alternativa. Tale progetto è abbandonato tre anni dopo, nel 1981 – anno della vittoria delle sinistre in Francia con Mitterrand e dell’avvio della presidenza Reagan negli Usa – al congresso di Palermo in cui si abbandona la linea dell’alternativa a favore dell’alternanza e della governabilità: un congresso che segna l’accentuazione leaderistica di Craxi. È da qui che si origina l’involuzione del Psi. Secondo Rino Formica, l’errore politico fu quello di scegliere Scalfaro e Amato, mentre per Claudio Martelli l’errore decisivo fu l’essersi legato dal 1987 alla Dc.
Dal 1983 al 1987 Craxi è alla guida del governo, ma questo periodo andrebbe analizzato a parte. È il Congresso di Palermo che segna l’inizio del declino poiché la nuova linea marca l’abbandono di ogni esigenza ideologica e di ogni strategia, portando il Psi, guidato da un leader padrone del partito, a chiudersi nel gioco dei partiti e a puntare sia sull’“alternanza” nella guida del governo sia sulla “governabilità”, facendosi forte del potere di interdizione. Tuttavia Craxi – cosa sorprendente per un uomo che da sempre aveva avuto attenzione alla politica internazionale – non si rese conto che dopo il crollo del Muro di Berlino e dopo il trattato di Maastricht il mondo aveva cambiato paradigma e non era più governato dai partiti politici. E il Psi – da sempre carente di un’organizzazione solida e di una forte strutturazione e reso ancor più fragile dalla decisione di puntare tutto sulla personalità del proprio leader – ebbe un crollo veloce che, a ben vedere, non era proprio imprevedibile.
I motivi della crisi strutturale del Psi, i fattori della sua involuzione politica, cioè gli effetti della leadership craxiana, vengono denunciati da Tristano Codignola su «Il Ponte» (Una protesta una proposta, dicembre 1981), a motivazione del dissenso di fondo che lo portano alla rottura con il partito. Codignola denuncia lo stato del partito, individuando nella «condizione della democrazia interna, da un lato» e nella «questione morale dall’altro» i due fattori degenerativi del Psi. Sono i dati negativi che imputa a Craxi e al partito, con un’opposizione interna di comodo perché quella reale ha subito uno «strangolamento». Giudizi duri sulla condizione reale del partito che, secondo Riccardo Lombardi, ha subito una «mutazione genetica». E Codignola condivide il giudizio, lanciando l’iniziativa per un’alternativa di sinistra con la ricostruzione di un polo identitario socialista. Nella mancanza di democrazia interna Codignola identifica un rischio che si proietta, nell’idea craxiana della Grande Riforma, su tutta la democrazia italiana, già gravata da un ulteriore squilibrio per lo «spostamento del Psi nell’area moderata, in omaggio al principio della governabilità».
Codignola non poteva prevedere quello che sarebbe accaduto al Psi, ma la prevista «mutazione genetica» non poteva non comportare la perdita degli ideali caratterizzanti il socialismo con le conseguenti derive dissolutorie del partito. Egli è stato il primo socialista a fare i conti con il fenomeno Craxi e, a considerare quello che si è pubblicato nel ventesimo della sua scomparsa, è rimasto anche l’unico. Codignola era mosso dalla preoccupazione per il futuro del socialismo italiano, al di là delle forme organizzative o delle sigle che questo potesse assumere. Una preoccupazione culturale prima ancora che politica, non presente sulla scena, al di là di rarissime eccezioni. E tuttavia fare i conti con il craxismo è fondamentale per una rinascita della sinistra.
Il Psi non può rinascere, ma il socialismo italiano non deve morire. Socialismo, ha scritto Carlo Rosselli, è «la filosofia della libertà».
Dal ventennale della scomparsa di Craxi invero non ci aspettavamo grandi cose e dubitavamo che si desse vita a un ripensamento critico. Speravamo tuttavia che si affermasse che non tutta la storia del Psi è finita con Craxi e, soprattutto, che, rispetto alla sua vicenda, il socialismo è altra cosa.
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