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domenica 16 luglio 2017
Franco Astengo: un contributo alla riflessione
UN CONTRIBUTO ALLA RIFLESSIONE
Il testo che segue, suddiviso in tre capitoli riguardanti il rapporto tra l’etica e l’estetica; l’autonomia del politico e la necessità di aggiornamento della teoria delle fratture rappresenta un contributo, assolutamente non all’altezza delle esigenze di riflessione teorica che si imporrebbero in questa fase, al rilancio di un dibattito di fondo sul tema della costruzione di una nuova soggettività della sinistra italiana.
Dibattito che si impone abbandonando la pericolosissima strada dei discorsi sulle leadership vere o presunte, sulla “governabilità” e le liste elettorali: ci troviamo in una situazione molto più difficile, complicata, arretrata per permetterci di questa divagazioni soltanto apparentemente concrete.
Grazie per la pazienza e l’attenzione
Franco Astengo
ETICA, ESTETICA: LO STRIDERE DELLE CONTRADDIZIONI
Le vicende interne al magma che si sta agitando attorno alla varietà di progetti attraverso i quali si intende tentare di ricostruire la sinistra italiana appaiono, almeno dell’esterno, contrassegnate da una ricerca dell’estetica che prevale su quella – essenziale- riguardante i fattori etici che dovrebbero invece presiedere a questa ipotetica ricostruzione.
In questo lavoro che appare tutto raccolto attorno al nodo: governabilità versus rappresentanza pare non si riesca a porre la domanda principale: se cioè, al centro del dibattito teorico non ci sia ormai il dilemma tra la “contraddizione post-moderna” dell’esaurimento dei margini del dominio del genere umano sulla natura oppure permanga la centralità di quella che è stata definita “contraddizione principale” riguardante lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (quella contraddizione principale verso la quale alla fine è stata sempre stato assunto il limite della “compatibilità del sistema”).
E come la risoluzione della prima (dando per scontato il superamento del “classico” schema elaborato da Stein Rokkan) non stesse dentro la risoluzione della seconda, con il superamento del capitalismo e la trasformazione del modo e delle finalità del produrre: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.
Non si è ancora riusciti ad addentrare il dibattito nella ricerca dei meccanismi possibili d’intreccio tra le due contraddizioni da realizzarsi attraverso la “politica”.
Fino a questo punto sono state analizzate tutte le distorsioni della politica fattasi potere e da potere a dominio nella sua forma più evidente: lo Stato.
L’analisi ha così riguardato le varie forme di dominio fattesi Stato attraverso l’azione politica e con grande vigore, è stata criticata, giudicandone impossibile una qualche riedizione, l’inveramento statuale realizzato attraverso alcuni fraintendimenti novecenteschi dell’etica marxiana: quello che è stato, tanto per intenderci al meglio, il cosiddetto “socialismo reale”.
Una critica molto più netta, è il caso di sottolineare, di quella che ha investito, nell’occasione, i cosiddetti regimi liberal-democratici, con le loro deviazioni colonialiste, razziste, totalitarie.
Agli autori di quei “fraintendimenti dell’etica marxiana” che hanno dato origine agli inveramenti statuali del ‘900 forse il rimprovero più severo che, forse inconsciamente, (recuperando tra l’altro, termini ormai del tutto desueti come “capitalismo di stato”) possa essere rivolto è ancora del “tradimento dell’Utopia”.
Dimenticando che U-topos significa “luogo che non c’è”. Se non c’è, però è soltanto perché non lo si è trovato e, dunque, bisognerebbe continuare a cercarlo, senza far sfoggio di ottimismo ma anche al di fuori dal ripiegamento da un pessimismo passivo.
Se si riuscisse a fare sul serio questa discussione l’esito, preso atto delle grandi difficoltà di espressione delle grandi ideologie che hanno caratterizzato ‘800 e ‘900, potrebbe portarci a riflettere su alcune categorie probabilmente non analizzate a sufficienza, fin qui, esaminando – appunto – la materialità del crollo di molte parti dell’ “involucro politico” dentro al quale abbiamo vissuto le nostre esistenze di militanti.
“L’agire politico”, ben oltre le regole dettate dalla politologia ufficiale, appare ancora stretto nel confronto tra l’etica e l’estetica.
Da un lato il rapporto tra l’estetica e la politica, che appare oggi – almeno nell’Occidente capitalistico sviluppato – quello prevalente anche in relazione allo sviluppo di una certa innovazione tecnologica destinata a stravolgere l’utilizzo dei mezzi di comunicazione.
L’estetica intesa come “visibilità” del fenomeno politico portato nella dimensione pubblica”.
Meglio ancora, nell’esercizio di riti collettivi e consensuali portati alla mostra della scena pubblica.
La prospettiva è quella della teatralità della scena politica e il ruolo di “attori” degli agenti politici.
Si valorizza l’aspetto ludico del politico, nel senso del non utilitaristico, l’agire comunicativo in luogo di quello strategico.
Una “forma del politico” armoniosa e composta nella cornice da un conflitto al più agonistico: laddove anche la più stridente contraddizione rimane “sovrastruttura” e il pubblico può essere oggetto soltanto di un processo di gigantesca “rivoluzione passiva” (altri più pratici scriverebbero: le pecore al pascolo).
Un’estetica il cui obiettivo è quello dell’anestetizzazione del “dolore sociale”.
Il confronto, però, a questo punto non può davvero che essere tra l’estetica e l’etica: l’etica intesa come il termine che designa le regole della condotta umana relativamente alla sfera del dovere, di ciò che è giusto/lecito fare, contrapposto a ciò che è ingiusto e/o illecito.
E’ soltanto l’etica che può consentire di guardare alla politica attraverso un costante confronto critico.
La nostra tradizione ci dice , però, che i rapporti tra etica e politica non sono necessariamente conflittuali, perché l’etica può ricevere una incarnazione teorica nello Stato (Hegel) o nella classe oggettivamente rivoluzionaria (Marx): nelle forme, cioè, che apparivano mature nel divenire storico.
Come abbiamo visto, seguendo anche il dibattito tra quei militanti in quella lontana periferia dell’impero, l’esito del ‘900 ha dimostrato che il nodo teorico non è stato risolto.
Un nodo che riguarda ancora la dimensione etica degli scopi del “governo”, poiché proprio l’esito del ‘900 ha posto il problema di verificare fin dove potesse spingersi l’azione di un governo che volesse salvaguardare non solo i diritti negativi (di non interferenza: si può fare tutto quello che non è vietato) dei cittadini, ma anche i diritti positivi, ossia l’estensione a fasce sempre più vaste della popolazione dei diritti di tutela sociale, salute, istruzione, assistenza, fino all’eguaglianza nell’accesso alle risorse disponibili (salvo il grande interrogativo orwelliano, sugli alcuni più eguali degli altri).
L’interrogativo sarebbe questo: chi espande e tutela i diritti della natura, già così fortemente compromessi dall’antropizzazione esasperata? Come questi diritti della natura possono intrecciarsi, o restare irrimediabilmente conflittuali, con quelli della tensione all’eguaglianza e alla fine dello sfruttamento umano? Come può la politica trasformare questi interrogativi in una nuova “incarnazione storica”?
Le risposte non possono star dentro al vecchio recinto della ricerca sulla priorità delle contraddizioni ma nella ripresa del confronto tra etica ed estetica.
Ricostruire, perché è il caso di ricostruire, l’idea dell’etica pubblica, dell’idea portante che vi siano dei criteri morali cui l’azione pubblica, l’agire politico, che riguarda la conduzione della vita dei cittadini dovrebbe ispirarsi.
Beninteso, ispirarsi non a ideali generici, ma ad un “progetto di società” che riguarda il rinnovato rivolgersi all’Utopia da ricercarsi attraverso il conflitto, inteso come solo veicolo per l’avanzamento delle idee sulle quali fondare l’identità dei soggetti destinati a tramutarli in azione.
Una riconnessione in sostanza tra principi ispiratori e pratica corrente: ciò che oggi sembra proprio essere venuto a mancare anche nelle stesse proposizioni di una filosofia politica unicamente legata all’estetica di cui la “governabilità” è l’espressione più rassicurante per chi esercita “l’autonomia del politico”.
LA QUESTIONE DELL’AUTONOMIA DEL POLITICO di Franco Astengo
Risalta il ritorno del dibattito sul concetto di “autonomia del politico” in una fase apparentemente dominata dal prevalere della tecnica e dell’assunzione della funzione politica esclusivamente come fatto amministrativo di “gestione” del presente mediandone gli elementi oggettivi di funzione nella sopraffazione di massa con il ritorno alla democrazia diretta e al dialogo tra il Capo e la Masse.
La semplificazione costituzionale tentata proprio per realizzare operativamente questo predominio appare come un vero e proprio punto d’arrivo di questa fase: l’ha invocata J.P. Morgan, l’ha tentata vanamente il PD italiano, sembrano essere riusciti nell’intento almeno provvisoriamente Macron e Trump.
Come può essere contrastato questo disegno e quali sono gli elementi da mettere in campo come alternativi?
Dal nostro punto di vista Il problema è pur sempre quello gramsciano della conquista dell’egemonia politica.
Si tratta di riuscire ad esprimere, come a suo modo già sapeva Gramsci, l’antagonismo della classe dentro e contro il capitale,
C’è bisogno, a questo punto, di uscire fuori dal rapporto di produzione capitalistico, di natura esclusivamente economica e quindi oggettivamente subalterno alla tecnica e quindi controllabile e gestibile dalla posizione dominante del capitale. Affinché ci sia politica, la classe deve andare contro se stessa, contro la sua stessa natura economica: «È propriamente la separazione della classe operaia da se stessa, dal lavoro, e quindi dal capitale. È la separazione della forza politica dalla categoria economica». E deve rendersi autonoma: «Una separata autonomia politica dei movimenti di classe delle due parti è tuttora il punto di partenza da imporre alla lotta: di qui, di nuovo, tutti i problemi di organizzazione della parte subalterna. Lo sforzo del capitale è di chiudere entro la relazione economica il momento dell’antagonismo, incorporando –come è già in larga parte accaduto - il rapporto di classe nel rapporto capitalistico, come suo oggetto sociale. Lo sforzo di parte operaia deve all’opposto tendere continuamente a spezzare proprio la forma economica dell’antagonismo».
Il problema politico diventa discriminante per portare l’antagonismo nella società.
L’autonomia del politico deve agire in modo da superare, nel concetto teorico e nella pratica di movimento e di organizzazione il rapporto economico che lega alle masse al capitale facendo s’ che esse non si trasformino immediatamente un soggetto politico.
E’ questo il punto della corrispondenza di un’organizzazione politica dove possa aver luogo la soggettivazione dell’agire politico senza neutralizzarne – come popolo – la peculiarità dell’antagonismo.
Qual è dunque il nodo che ci troviamo di fronte e che deve essere affrontato rinnovando l’intreccio autonomia / egemonia
Quello dell’ “l’economics” al posto della “policy”.
Ne risulta così completamente spiazzato il concetto di “autonomia del politico” che aveva egemonizzato, almeno a partire dagli anni’80 del XX secolo, qualsiasi prospettiva teorica riguardante l’azione politica e di governo della società, accompagnando – appunto – il ciclo liberista con il compito, anteposta la funzione di “governabilità” a quella di “rappresentanza”, di sfoltire la domanda sociale, riducendone al minimo il rapporto proprio con la politica, ridotta al ruolo dello Stato, sulla linea del funzionalismo strutturale di Luhmann.
Una vittoria piena, all’apparenza, della riflessione di Heidegger sull’essenza della tecnica e di naturale conseguenza dell’economia.
Una sconfitta, altrettanto piena, per chi pensava di costruire un’ipotesi diversa, attraverso una strategia di “contenimento” del prevalere dell’economia sulla politica, dimenticando la lezione di Hilferding sul prevalere del fenomeno della finanziarizzazione che è quello che sta alla base dello stato di cose in atto, come qui si è cercato di descrivere.
Siamo di fronte sul piano politico alla creazione di una nuova oligarchia, indifferente alla realtà democratica e alle istanze sociali.
Come può essere possibile contrastare questa egemonia, attraverso la quale sul piano concreto si sta cercando di porre quasi “al di fuori dalla storia” milioni di persone considerate semplicemente come oggetti da sfruttare esclusivamente in funzione della creazione e dell’appropriazione del plusvalore ?
Non sarà sufficiente riproporre la realtà di un’organizzazione politica degli “sfruttati” posta al di fuori e “contro” la realtà dell’unificazione tra economia e politica: una realtà di organizzazione politica della quale, comunque, si sono smarrite le coordinate nel corso di questi anni.
Riprendendo Claudio Napoleoni nel suo “Discorso sull’economia politica” (Bollati Boringhieri 1985) l’obiettivo dovrebbe essere quello di riguadagnare tutta intera la dimensione politica dell’economia rovesciando completamente l’impostazione oggi egemone.
Per avviare, però, un processo di costruzione di una soggettività politica posta in grado di porsi, nel tempo, questo tipo di obiettivo è necessario tornare a introdurre, nel rapporto tra il contesto sociale e quello politico, il principio di “contraddizione sistemica”, in una visione di “distinzione – opposizione” che non riguardi soltanto le finalità, per così dire, “ultime” nella prospettiva di costruzione di una società diversa, ma nell’immediato la ricostruzione di un principio di dialettica politica.
Una dialettica politica non annullata dall’egemonia dominante, ma che, anzi, pur nella scansione obiettiva di finalità limitate all’interno di successivi passaggi di transizione, si risulti in grado di proporre un diverso, alternativo, edificio sociale.
In questi anni le forze della sinistra hanno finito con l’acconciarsi al ribadimento della catastrofe, senza riuscire in qualche modo ad allontanarla: se si pensa che sia ancora possibile, invece, un movimento di liberazione da quella stessa catastrofe che stiamo vivendo allora bisogna porsi, ancora, il tema del guardare in modo diverso al rapporto tra l’uomo e il mondo rispetto a quello stabilito, e apparentemente obbligato, dalla triade sfruttamento- appropriazione – dominazione.
DAL CONFRONTO TRA L’ETICA E L’ESTETICA E LA CONQUISTATA PREVALENZA DELL’AUTONOMIA DEL POLITICO: TEORIA DELLA FRATTURE
L’intervento conclusivo riguarda l’eventualità di fornire un contributo, sia pure limitato, alla riflessione generale partendo da almeno due considerazioni critiche: la prima riguarda il fatto che un partito da solo non possa bastare a rendere la complessità del rapporto tra movimenti, società, politica nell’ottica della trasformazione sociale.
Pare ormai accantonato, sotto quest’aspetto, il concetto di egemonia dell’agire politico e quello del ruolo della struttura politica quale riferimento anche sociale, di vera e propria “espressione di comunità”: sembra proprio che ci si arresi alla reciproca autonomia, quella del “politico” e quella del “sociale.
Con tutto quello che è accaduto di degenerativo sul terreno dell’autonomia del politico, a partire dall’esaltazione inconsulta del personalismo che, a sinistra, ha compiuto disastri facendo smarrire il senso dell’identità collettiva e della capacità di rappresentanza.
L’altro punto riguarda la necessità, a mio giudizio almeno, rispetto al “caso italiano” (che esiste, sia pure in forma direttamente rovesciata rispetto a quello che era stato fino agli anni’80: siamo passati, insomma, da avanguardia a retroguardia, tanto per semplificare), di sciogliere i soggetti esistenti e di far ripartire un processo aggregativo nuovo e diverso basato su due punti fondamentali: quello dell’opposizione “sistematica” e quella di una forma della struttura politica che, a questo punto, per far presto definisco della “via consiliare”.
E’ necessario richiamare la brutta vicenda della “Sinistra Arcobaleno” e della sudditanza alle logiche politiciste che ne sono derivate: soprattutto quella della marginalità e irrilevanza di tutti i soggetti che ne sono seguiti per via di diaspora, rispetto al cuore dello scontro e che tali rimarranno nel tempo.
Non certo per un deficit di “estremismo oppositivo” sia ben chiaro ma perché entrambi non rispondono più a contribuire a risolvere l’interrogativo che, tempo fa, sulle colonne di “Sbilanciamoci” poneva Paolo Gerbaudo : “Unire la sinistra o costruire il popolo”.
C’è , invece, da costruire la soggettività che unisca il popolo.
Per questo motivo la mia proposta è quella di ripartire da un punto di riflessione teorica che appare necessario esplorare.
Provo a procedere con ordine.
La proposta che si sta tentando da tempo di avanzare per la formazione di una nuova soggettività politica della sinistra italiana ha necessità di essere motivata andando “oltre”, per quanto possibile, alle pur evidenti ragioni legate al fallimento dei soggetti esistenti, risultati incapaci di promuovere e realizzare quel livello di presenza politica che sarebbe risultata necessaria per fronteggiare l’emergenza della controffensiva dell’avversario e il mutamento complessivo di scenario verificatosi nell’insieme del sistema politico.
Queste ragioni, però, non sono sufficienti: occorre, infatti, andare alle radici del meccanismo dell’aggregazione politica, recuperandone insieme significati ed effetti aggiornandoli ai cambiamenti culturali, sociali, tecnologici, di costume verificatisi nel tempo.
Gli scienziati politici, al proposito, hanno sempre usato due prospettive definite l’una come primordiale e l’altra come strumentale.
La prospettiva primordiale ha visto nei partiti i rappresentanti naturali di persone che hanno interessi comuni.
Con il formarsi di gruppi intorno a queste fratture d’interesse i partiti politici sono emersi e si sono evoluti proprio per rappresentarle.
La visione strumentale della formazione dei partiti li considera, invece, squadre di persone interessate a ottenere cariche pubbliche: questo tipo di visione è stato così focalizzato sul ruolo delle élite e dei cosiddetti “imprenditori politici”.
Queste due prospettive della formazione dei partiti ricordano da vicino quelli che gli economisti chiamerebbero fattori della domanda e fattori dell’offerta.
La prospettiva primordiale dà per scontata la domanda sociale di rappresentazione di determinati interessi e spiega l’esistenza dei partiti politici come risposta a queste istanze.
Per contro, la prospettiva strumentale, sulla falsariga della “legge di Say” in economia, afferma che “l’offerta crea una sua domanda”.
Così come il marketing e la pubblicità possono influenzare i gusti dei consumatori, gli imprenditori politici (come abbiamo ben visto, in particolare, nell’ultima fase storica) contribuiscono a creare la domanda di determinate politiche e di determinate ideologie.
Come avviene per l’offerta e per la domanda, si scopre che capire le origini dei partiti politici significa riconoscere l’interazione tra le forze primordiali e delle forze strumentali.
In larga misura sono state le domande sociali di rappresentazione a ispirare la formazione dei partiti politici.
Queste domande, tuttavia, sono state incanalate con modalità efficaci e significative da istituzioni politiche che hanno strutturato l’ambiente degli aspiranti imprenditori politici e degli elettori.
Si tratta quindi di analizzare com’è avvenuta, e come può avvenire nel futuro, l’interazione tra le forze sociali (primordiali) e le forze istituzionali (strumentali) per determinare le possibili identità delle formazioni politiche.
Prestando attenzione a un punto fondamentale: la funzione principale del partito politico rimane quella di rappresentare, formulare e promuovere gli interessi e le cause dei suoi appartenenti.
Con buona pace delle proclamazioni relative al “superamento dei concetti di destra e di sinistra” questi interessi e questa cause, al di là della retorica, sono sempre condivisi, per loro stessa natura, solo da una parte della popolazione complessiva.
Per questo motivo la classificazione “classica” delle diversità tra i partiti politici si è sempre realizzata usando quella che è stata definita “teoria delle fratture”, via via attualizzata nel tempo con il mutare delle condizioni culturali, sociali, tecnologiche.
Quella “teoria delle fratture” che si chiede oggi di aggiornare alla luce di quanto avvenuto negli ultimi tempi.
E’ evidente, in questo, che il riferimento non è soltanto semplicisticamente al sistema politico italiano, ma è a questo che dal nostro punto di vista ci rivolgiamo per inserire la nostra proposta di nuova soggettività politica della sinistra d’alternativa e di opposizione: questo intervento è dunque rivolto a promuovere questa precisa eventualità.
Il più importante aggiornamento nella “teoria delle fratture” è avvenuto nel 1967 per opera di Lipset e Rokkan, attraverso la divisione tra “fratture post-industriali” e la “frattura di classe” che aveva assunto assoluta rilevanza durante la rivoluzione industriale alla fine del XIX secolo.
Con la “frattura di classe” gli attori sociali si contrappongono in base a interessi economici divergenti provocando un conflitto di tipo “verticale” tra attori che si guadagnano da vivere con il proprio lavoro e attori che si guadagnano da vivere attraverso lo sfruttamento della proprietà o del capitale.
La definizione più netta e precisa della “frattura di classe” è sicuramente quella di Karl Marx contenuta nel testo “La povertà della filosofia” del 1847 “gli individui fanno parte di una classe in sé in virtù della relazione obiettiva che intrattengono con i mezzi di produzione”.
Si può dire che per gran parte del XX secolo la “frattura di classe” abbia rappresentato un punto di riferimento stabile nelle dinamiche dei diversi sistemi politici, anche oltre le differenziazioni teoriche e ideologiche e del formarsi di “ceti politici” di tipo professionale che, alla fine, hanno potuto perseguire obiettivi distinti da quelli della classe che intendevano rappresentare, come ben descritto da Michels nella sua elaborazione circa “la legge ferrea dell’oligarchia” e nelle analisi sulla politica come professione elaborate da Max Weber.
Era così emersa un’ipotesi di “congelamento” delle fratture esistenti anche per spiegare perché i partiti politici che dominavano le elezioni negli anni’60 del XX secolo erano gli stessi partiti che avevano dominato le elezioni decenni prima, negli anni’20 o ’30 ed egualmente per spiegare l’accumulo di consenso realizzato, comunque, dai partiti al potere nei regimi dell’Est europeo a cosiddetta “rivoluzione avvenuta” o di “socialismo reale”.
L’ipotesi del “congelamento” viene messa in discussione a partire dalla fine degli anni’80 con l’emergere di nuovi fenomeni sociali quali quelli dell’ambientalismo, del femminismo, dell’immigrazione al punto che Inglehart nel 1997 afferma come si sia di fronte a un mutamento di valori all’interno delle società industriali avanzate, passando da valori “materialisti” a valori “post materialisti”.
Da allora si è assistito ad un declino nella rilevanza delle fratture più tradizionali e all’emergere appunto di una non meglio definita frattura “post-materialista”, in quadro di generale richiesta di espansione della libertà umana.
A questo punto è facile individuare, sotto questo profilo, le ragioni teoriche di ciò che è accaduto nell’ultimo decennio del secolo scorso rispetto allo sconvolgimento di sistemi politici consolidati, alla caduta dei regimi dell’Est europeo, al mutamento complessivo di paradigma nella natura dei partiti politici con il rovesciarsi del rapporto tra gli interessi dei ceti politici professionalizzati (governabilità, personalizzazione) e quelli dei rappresentati in nome delle “fratture sociali” persistenti.
Nel frattempo si è realizzato un altro rovesciamento “storico” sul piano della comunicazione di massa e del rapporto tra questo e il consumo individuale: una novità fondamentale che ha dato vita al fenomeno della cosiddetta “globalizzazione”, esplosa in particolare nella prima parte di questo decennio del X XI secolo.
Su questa base si sono verificati due fenomeni di portata assolutamente epocale: quello del passaggio da un’idea del collettivo sociale all’individualismo di massa (sulla base del quale la democrazia ha assunto le vesti della cosiddetta “democrazia del pubblico”) e dello smarrimento da parte dei partiti politici dell’idea della rappresentanza.
Due fenomeni che hanno determinato il formarsi di nuove élite e di nuovi intrecci tra economia e politica al fine di determinare livelli diversi da quelli della governabilità democratica novecentesca.
Si stanno così affermando nuovi modelli di governabilità autoritaria in economia come in politica e su questa base, è stato attuato, il tentativo della sola superpotenza rimasta in campo per un lungo periodo di “esportazione della democrazia” attraverso la guerra.
All’interno di questo quadro, sommariamente descritto, l’opposizione è stata affidata, in generale e a prescindere dalla diversa qualità e composizione dei sistemi politici, alla protesta movimentista, all’idea che le “moltitudini” potessero provocare con i loro sommovimenti un mutamento di equilibri, spostando, sul piano teorico, la realtà della “frattura di classe” verso una ricerca di richiesta di restituzione di non meglio precisati “beni comuni”, intesi soprattutto come valori ambientali e di disponibilità essenziali per la vita umana.
Mentre questo quadro sta mutando e la globalizzazione sembra essersi arrestata tornando d’imperio sulla scena del mondo il primato della geopolitica e la contrapposizione a livello planetario non si è riusciti ad invertire la tendenza proprio nel definire un aggiornamento teorico relativo proprio alla realtà delle “fratture” esistenti, sulla base del quale riaggregare primordialmente interessi specifici.
Sembrano tre le grandi questioni sul tappeto:1) quello del rapporto tra consumo del pianeta in termini complessivi di suolo e di risorse e la prospettiva di vivibilità del genere umano ;2) quella della capacità cognitiva, in termini globali di formazione, informazione, capacità di trasmissione di notizie e cultura (e quindi di educazione globale) come sta accadendo sia nell’utilizzo delle nuove tecnologie, sia nel ritorno a pericolosissimi fondamentalismi posti non tanto e non solo sul piano bellico ma – addirittura – su quello “storico”, capaci ciò di informare un’intera epoca futura ottundendo la complessità delle contraddizioni 3) quella della contraddizione di genere nel senso della mancata risoluzione del dato di modernità caratterizzata dalla supremazia dell’ordine da produrre unico, certo, patriarcale, autoritario. I movimenti femministi sono i primi a denunciare la falsità di questo ordine precostituito. Il potere patriarcale ha fondato la pretesa di universalità sull’esclusione di tutti quei soggetti “altri” che non corrispondono all’ideale maschio –etero –borghese -bianco: ma questo tema è stato sollevato ma ancora non solo non è stato posto in via di risoluzione ma neppure collocato nell’ordine dei cleavages da affrontare.
Sono questi i punti di riflessione sui quali soffermarsi: nel momento in cui appare necessario muoversi sul terreno di una nuova dimensione collettiva dell’agire politico da strutturare organizzativamente qui ed ora dove ci troviamo concretamente, come riuscire a far sì che il contesto di interessi che legano la classe che s’intende rappresentare a questo tipo di fenomeni appena descritti assuma una veste politica definita, sia sul piano teorico di riferimento sia rispetto ad un progetto di radicale trasformazione sociale e politica.
A questo punto appare indispensabile lavorare su di un aggiornamento della “teoria delle fratture” del livello di quello che appunto fu elaborato al momento della comparsa dell’insostituibile e comunque fondamentale “frattura di classe”.
“Frattura di classe” che, oggi, nell’esplicitarsi della ferocia della gestione del ciclo capitalistico, trova un suo rafforzamento e una sua capacità di inglobare l’insieme delle discriminazioni sociali (pensiamo al tema della differenza di genere) tale da renderla agente dell’insieme delle contraddizioni che “spaccano” la società moderna.
Non possiamo però arrenderci a questa ineluttabilità: abbiamo bisogno di fare opposizione subito ma prefigurando la prospettiva di una società alternativa, di una trasformazione radicale dello stato di cose presenti.
Per questo serve il nuovo soggetto: nuovo soggetto che non accetta la “filosofia della crisi” e il minoritarismo ma esprime, da subito, un nesso inscindibile tra autonomia ed egemonia.
Questo lavoro, come posto in premessa, è stato compilato soltanto con l’intento di fornire un contributo all’ordine dei lavori individuando la necessità di procedere nella costruzione di una soggettività politica.
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