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mercoledì 3 maggio 2017
Paolo Bagnoli: La lezione francese e i somari italiani
la lezione francese e i somari italiani
paolo bagnoli
Da Critica liberale
Quale lezione dobbiamo trarre dal primo turno delle elezioni presidenziali
francesi? La politica nostrana si è subito sbracciata guardando alla Francia per
traguardare l’Italia, ma la rappresentazione è stata più provincialistica che provinciale. Lo
è stato il campo partitico, ma anche quello politologico. Esso, infatti, si è affrettato a
dichiarare la fine della Quinta Repubblica con una certezza quasi assiomatica. Singolare.
Talora almanacca nell’analisi del sistema italiano che, al momento, è sempre più ciò che
resta di quello che era che non un qualcosa in via di assestamento positivo. Se le cose
stanno così non è certo responsabilità della politologia, ma se anche chi pensa non è esente
da critica, dobbiamo dire che certe derive propositive sulla riforma costituzionale e sul
battito di mani alla legge elettorale voluta da Matteo Renzi non hanno fatto fare una bella
figura alla disciplina dominante nelle tribune giornalistiche.
Il risultato del primo turno delle elezioni francesi è il frutto di un doppio fallimento:
dei socialisti al governo e della parabola discendente della destra repubblicana antifascista,
ossia del postgollismo. Il primo si chiama Francois Hollande; il secondo Nicolas Sarkozy. I
socialisti hanno pagato il prezzo più caro e, forse, occorre rendere l’onore delle armi a
Benoit Hamon fattosi carico – nonostante si presentasse con un programma di tutto
rispetto – della sconfitta. Francois Fillon è rimasto intrappolato nei propri guai
certificando un declino che già Sarkozy aveva incarnato. Marine Le Pen, nonostante fosse
la favorita, non ha portato a casa quanto si aspettava e, se scatterà la clausola repubblicana,
a casa rimarrà. Il quadro tuttavia è in movimento poiché, per la prima volta, si verifica
l’alleanza di un gollista con i petanisti. Infatti, Nicolas Dupont-Aignan, uscito dall’Ump nel
2007 , che ha raccolto alle elezioni il 4,7%, ha dichiarato che al ballottaggio voterà la Le
Pen non essendo più di estrema destra. Al di là di quanto ciò possa influire sull’esito della
scelta, si tratta di una novità su cui riflettere. Sia i socialisti che i repubblicani hanno pure
testimoniato come le primarie non servano a nulla; Enrico Letta, esiliatosi a Parigi, ma con
la testa sempre in Italia, lo ha detto per primo a supporto della propria viscerale avversità a
Matteo Renzi che fa delle tristi primarie del Pd il trampolino per la rivincita e il rilancio.
Piero Ignazi le ha definite “le primarie del nulla”.
Della crisi dei due poli storici della democrazia francese ha saputo trarre vantaggio
Emmanuel Macron il quale, dopoché alle primarie dei due partiti erano stati battuti i
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candidati ufficiali, Manuel Valls e Alain Juppé, si è trovato davanti una autostrada per
l’Eliseo. Bastava camminarci senza dire dove si voleva andare – fatta eccezione,
naturalmente, per la Presidenza – per egemonizzare l’incertezza del momento a proprio
vantaggio. Macron ha interpretato il proprio ruolo con grande professionalità. Si è tenuto
lontano da ogni contaminazione – compresa quella che poteva essere più che possibile del
proprio passato di ministro in un governo socialista – puntando sempre a distinguersi per
dare garanzia della novità che rappresentava. Su questo aspetto ha giocato la carta
dell’Europa con coraggio e bravura.
Dopo il primo turno il panorama francese dice alcune chiare cose. La prima è che la
sinistra quando non è unita quasi sempre perde. Basta sommare i consensi di Jean-Luc
Mélenchon e quelli di Hamon; il risultato l’avrebbe fatto vincere il primo turno. La lezione
di Francois Mitterrand se ne è andata in fumo; eppure già Lionel Jospin ne aveva fatto le
spese. Qui le responsabilità di Hollande sono veramente forti e, dall’altra parte, come
avrebbe potuto il Presidente in carica unire la sinistra non essendo nemmeno capace di
tenere unito il proprio Partito? Una cosa che Mitterrand aveva in grande cura e, se non
fosse stato così, non sarebbe stato all’Eliseo per ben quattordici anni. Verrà la resa dei
conti, vediamo cosa succederà. La destra – intendendo con ciò sia quella postgollista che
quella radicale – in Francia non può avere un’evoluzione simile a quella avvenuta in Italia
ove Silvio Berlusconi ebbe il coraggio di sdoganare i missini permettendogli di
conquistare il governo. Il solco tra le due destre, nonostante Dupont-Aignan, rimane
ampio e ciò dovrebbe far ragionare la sinistra. Se, però, per primi non ragionano i
socialisti, la sinistra si frantuma condannandosi alla sterilità. I socialisti, rinati ad Epinay,
rischiano nuovamente il destino della Sfio.
La vittoria di Macron ha naturalmente ridato colore al grigiore della politica
italiana. Uomo senza identità, senza un partito vero, “in marcia” per ora verso la conquista
della presidenza, nel caso vinca al secondo turno dovrà passare ancora l’esame vero
rappresentato dalle elezioni politiche per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale. E’ chiaro
che non si possono proiettare le percentuali dei candidati al primo turno sui possibili
risultati delle varie forze politiche nel nuovo Parlamento e sulle tendenze che
esprimeranno i nuovi deputati all’interno dei vari gruppi parlamentari. Non crediamo,
infatti, che la percentuale reale dei socialisti sia il poco più del 6% raccolto da Hamon.
Riteniamo che una volta archiviati sia Holland che Valls, il Psf possa ricostruirsi pensando
seriamente a se stesso e alla propria funzione con un nuovo gruppo dirigente capace di
ridare ai socialisti quanto Hollande e Valls hanno loro tolto.
Sbilanciarsi, quindi, su una definizione consacratoria di Macron è imprudente e
pure infantile. Ma la tentazione di arruolarlo nelle proprie “file” – come avviene un po’ per
tutti coloro che vincono - è troppo forte. E’ già successo con Bill Clinton, Tony Blair – il
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quale, sia detto tra parentesi, vede nell’andare oltre i partiti un’occasione per il ritorno alla
politica; speriamo ci ripensi – Barach Obama e Bernie Sanders. Niente di nuovo sotto il
sole; il vizio italico non ha limiti. Su tutti si è distinto Piero Fassino subito sbilanciatosi a
dichiarare: “Non mi convince la semplificazione di una sinistra che si avvicina al centro. Mi
convince di più l’idea che anche in Francia sia nato un centrosinistra come espressione di
un nuovo riformismo europeo. E in qualche modo con Macron nasce in Francia ciò che in
Italia è sorto con il Pd.(…) E’ la riconferma della necessità di un grande rinnovamento della
sinistra europea. Quando dieci anni fa fondammo il Pd, lo facemmo anche perché convinti
che era necessario un profondo cambiamento della sinistra, delle sue idee e della sua
identità. Dieci anni fa fummo guardati con sufficienza, oggi si può ben constatare che la
scelta fu lungimirante. E l’affermazione di Macron sollecita anche la sinistra francese a
ripensarci.” Bisogna riconoscere che la scuola del Pci era una cosa seria! Che dire? Che
Macron sia di centrosinistra – sempre ammesso che si sappia cosa significhi
“centrosinistra” che tutti dichiarano di volere per evocare un mitologico ritorno
all’ulivismo – è da vedere. Ma è clamoroso invocare il rinnovamento della sinistra
chiedendo il superamento e il cambiamento della propria identità la quale, non
dimentichiamolo, le proviene dalla storia. Una cosa sfugge a Fassino: che una cosa è
l’identità e una sono le politiche. Non ci stupiamo del ragionamento ricordando come, nel
periodo di gestazione del Pd, egli si affannasse a dire che veniva fatto un “partito di laici e
di cattolici” negando che questi ultimi possano essere “laici” e, pure, del fatto che, caso
mai, nei partiti convivono credenti e non credenti.
Vedremo cosa combinerà Macron. Per ora constatiamo che il suo essere in marcia
significa assorbire, da una posizione di centro, la destra e la sinistra; esse, quindi, in un
processo di indistinzione, vengono refluite in un centro il quale, essendo per sua natura già
concettualmente moderato non potrà che esserlo di più in una tendenza dinamica verso un
profilo conservatore. E’ un qualcosa che sempre avviene quando si afferma che destra e
sinistra sono superate, che non hanno più ragione di essere e così via. Di solito
un’operazione di camuffamento per superare solo la sinistra e, magari, ingentilire la destra.
Beato Fassino, beato lui. Ora, se gettiamo un occhio sulle primarie del Pd, ove il
tema del centrosinistra tiene banco, nessuno sa spiegare che cosa esso sia; non solo, ma i
tre candidati testimoniano -. ed è un giudizio politico non sulle persone – che il loro è il
partito della confusione. Fassino ragiona secondo la logica comunista che ha portato al Pd,
ma fa capire che sogna il blairismo, ossia il tacherismo sociale. Si vede che il renzismo non
gli basta.
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