Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
sabato 30 luglio 2016
Franco Astengo: Il corporativismo dei forti
IL CORPORATIVISMO DEI FORTI di Franco Astengo
L’esito del cosiddetto stress – test cui sono state sottoposte le principali banche europee consente un’analisi, forse eccessivamente schematica ma sicuramente realistiche, sul rapporto tra economia e politica nell’Unione Europea.
Appare evidente, infatti, come questo tipo di operazioni altro non rappresenti che la difesa corporativa di poteri forti, in questo caso quelli bancari, che escono sempre indenni anche rispetto alle stesse logiche di mercato che pure sono sempre invocate a gran voce in questi casi.
La globalizzazione vale per la povera gente investita dalla guerra e costretta a migrare percorrendo a piedi i Balcani oppure annegando nel Mediterraneo: non vale certo per i banchieri ben rinchiusi nelle loro fortezze provviste di aria condizionata.
Quando, poi, lo “stress – test” fornisce esito (fintamente) negativo c’è sempre pronta una bella ricapitalizzazione finanziata ovviamente dal “parco buoi”, cui tra qualche anno, com’è capitato ai poveri correntisti veneti sarà comunicato il classico “bambole, non c’è una lira”.
Nel frattempo chi doveva ingrassare, si è ingrassato.
L’esempio delle banche è il più facile da farsi, ma pensiamo alla finanziarizzazione delle industrie, agli spostamenti dei domicili fiscali, alle leggi fatte ad hoc per intensificare lo sfruttamento, precarizzare il lavoro, spostare ancor di più l’asse delle risorse a disposizione verso l’alto.
Si discute della crisi della democrazia e delle difficoltà delle èlite: in realtà l’assetto politico – sociale appare ormai saldamente strutturato sulla base del corporativismo dei potenti.
La “politica” si è ben orientata in questo senso, non tanto e non solo nella costruzione di una nuova dimensione del proprio ceto, ma soprattutto nell’edificazione di strutture istituzionali da utilizzarsi proprio in funzione dell’utilità per le corporazioni.
Nasce da qui la modifica in senso autoritario degli stessi regimi liberal – democratici e i progetti di fuoriuscita dal quadro costituzionale repubblicano (come negli auspici avanzati qualche tempo fa da J.P. Morgan).
La sola risposta possibile sembra essere quella dell’arroccamento sugli elementi di una cattiva tradizione di egoismi singoli e collettivi espressi da moltitudini poste perennemente in guerra verso altre masse, in una gara folle verso l’espropriazione del senso comune di un equilibrio comunitario.
Il versante corporativo, quello degli establishment dominanti in Occidente (democratici USA, grosse koalition tedesca, conservatori e laburisti britannici, socialisti francesi )e quello populista (Trump, Brexit, Front National) sono omologati nel cancellare ogni identità solidale ed egualitaria e conservare l’attuale segmentazione del potere in modo da renderne impossibile l’identificazione e la contesa.
E’ questo, sia ben chiaro, il senso complessivo, nel “minimum” della situazione italiana, delle renziane deformazioni costituzionali: nascondere il potere per lasciarlo intangibile nella disponibilità delle corporazioni (quelle vere, non certo quelle di Monsù Travet).
E’ necessario non farsi fuorviare dall’infuriare della propaganda e rendersi conto che è questo l’oggetto vero del contendere: quello del ritorno a far sì che le idee di eguaglianza ricompaiano sulla scena della storia come oggetto dell’agire politico.
venerdì 29 luglio 2016
Lo sbarco dei giovani socialisti
Lo sbarco dei giovani socialisti: "Come Garibaldi"
In mille da 41 paesi diversi. In Sicilia il raduno più grande: tutti in piedi a cantare l'Internazionale e Bella ciao
TULLIO FILIPPONE la repubblica
Per un attimo, quando si sono alzati e hanno intonato in tante lingue "L'Internazionale" sembrava quasi di essere tornati nella Seconda Internazionale del secolo scorso. Tra di loro si chiamano compagni e sono arrivati martedì scorso a Città del Mare (Terrasini) in un migliaio da 41 paesi per discutere insieme di immigrazione, lavoro giovanile, diritti civili e socialismo nel tredicesimo Yes Summer Camp, il più grande raduno di sempre dei giovani socialisti europei. «Oggi sbarcate in Sicilia per cambiare l'Europa come fecero le mille camicie rosse di Garibaldi», dice Carlo Vizzini, presidente del consiglio nazionale del Psi e tra i fondatori nel 1992 del Partito Socialista Europeo. Prima di lui nell'anfiteatro del resort, dove è stata inaugurata la manifestazione, erano intervenuti l'ospite d'onore Massimo D'Alema, la presidente dei Yes laura Slimani e i segretari generali Marije Laffeber e Javier Sanchez Moreno. Sugli spalti sventolano le bandiere dei Jeunes Socialistes francesi, dei Giovani Socialisti (Fgs), gli organizzatori che insieme ai Giovani Democratici rappresentano l'Italia. E poi i simboli degli Jungsozialistinnen tedeschi della Spd e i Sozialistische Jugend Österreich austriaci, le delegazioni più numerose con oltre 100 partecipanti a testa. O ancora i belgi divisi tra fiamminghi e francofoni, il giovane come Rob Declerck, fiammingo che indossa la maglietta dei cugini valloni con la faccia dell'ex premier Elio Di Rupo.
«Per noi giovani socialisti è un premio di vent'anni di lavoro per uscire dalle catacombe », dice il palermitano Roberto Sajeva, presidente degli Fgs, «per me è un onore che questo camp sia in Sicilia». I più entusiasti però sono gli ultimi arrivati in Europa, i giovani croati della Sdp. «Vogliamo scambiare delle idee per salvare l'Europa, ma anche per socializzare in questa isola fantastica», dicono Marin e Frano. Con una cinquantina di compagni cantano "Bella Ciao" e sul retro delle loro magliette rosse è stampato il testo di "Insieme" di Totò Cutugno, brano che nel 1990 vinse il contest europeo Eurovision nella loro Zagabria. Dall'altra parte dell'emiciclo ci sono una ventina di britannici che, nonostante Brexit, non hanno rinunciato a incontrare con i cugini europei: «Siamo qui con una delegazione dei giovani del Labour e della Fabian Society perché ci sentiamo europei», dice la 22enne Zarah Sultana nata e cresciuta a Birmingham da una famiglia originaria del Kashmir. «È la prima volta che vengo in Sicilia, un posto incantevole», prosegue. «Ho seguito workshop sulla disoccupazione giovanile, il tema centrale della nostra Europa, ma adesso mi godo il blu profondo del mare siciliano », gli fa eco Patrick, austriaco di origini ghanesi che a 12 anni si è trasferito a Vienna.
La ventenne tedesca Laura seguirà i workshop sul femminismo nell'aula dedicata alla poetessa e scrittrice statunitense Audre Lorde e come la finlandese Tuulia è molto «spaventata dalla crescita dei partiti xenofobi di estrema destra in tutta Europa». Temi caldi che i giovani affronteranno sino a lunedì con ospiti d'eccezione nelle aule che portano nomi dell'attualità e della storia, dai fondatori del Psi Filippo Turati e Anna Kuliscioff al cancelliere Willy Brandt, sino a Jo Cox, deputata laburista uccisa da un fanatico prima del referendum di Brexit, sino al "migrante ignoto". Tema del quale i giovani socialisti parleranno molto e motivo per cui il più grande meeting della classe dirigente del futuro si svolge proprio in Sicilia, porta d'ingresso dell'Europa che sognano di cambiare.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Vogliamo scambiare delle idee per salvare l'Europa Il lavoro è un tema centrale
Peppino Caldarola: Solo un nuovo socialismo potrà salvare l'Occidente
Solo un nuovo socialismo…
…potrà salvare l’Occidente
(Peppino Caldarola, Lettera43) Alcuni filosofi - Roberto Esposito, Giacomo Marramao e Biagio De Giovanni - si stanno interrogando pubblicamente sul senso da dare a questa crisi globale. De Giovanni sull’Unità pronuncia la sentenza più amara: siamo di fronte a una crisi del liberalismo come frutto del fallimento della seconda globalizzazione (la prima fu alla fine dell’Ottocento). L’analisi di De Giovanni è dura e convincente, non contiene nostalgie né propone l’abbandono dei traguardi raggiunti dal liberalismo, tuttavia prende atto che quella prateria di diritti nella quale tutti, dopo l’89, saremmo stati più liberi, più felici, più cosmopoliti - soprattutto noi europei avviati verso l’unificazione - si è rimpicciolita al punto da non intravvedersi più. Il tema è centrale, anche se la politica lo ignora.
La peggiore politica da 70 anni. La critica vera da fare alla politica di oggi, che in questo senso è la peggiore degli ultimi 70 anni, è che non solo non si interroga sugli scenari dell’economia ma li subisce; non solo non si pone il problema della crisi della democrazia, occupandosi invece di questioni regolamentari o procedurali (le primarie, il voto in Rete, la riforma in senso governista delle assemblee legislative), ma soprattutto non sa dare un senso a se stessa. Quando De Giovanni proclama la crisi strutturale del liberalismo, molti avranno il timore che il filosofo stia per pronunciare parole palingenetiche che alludano a esperimenti sociali improponibili (per tacere di quelli che stiamo già vivendo con l’estremizzazione islamica del mondo arabo-mussulmano e la fascistizzazione dei movimenti populistici in gran parte dell’Europa). Invece De Giovanni ripropone il liberalismo, anche se non ci dice come ridare linfa a questa straordinaria conquista del pensiero politico.
Una sinistra moderna. Dovrebbe invece porsi il tema di come si può andare oltre la crisi del liberalismo e quella della democrazia. La frase è impronunciabile oggi perché già sento il borbottio dei benpensanti, di destra e di sinistra, ma va detta: dobbiamo tornare a ragionare su come superare le colonne d’Ercole del capitalismo. Ovvero, se il tema messo così appare esposto alla critica di essere nostalgico, su come si possa immaginare un’altra storia per un capitalismo che sappia rinnovarsi, come del resto ha fatto in questi tempi, avendo, come diceva una vecchia battuta, i secoli contati.
Comunismo morto e sepolto. È del tutto evidente che sono improponibili soluzioni palingenetiche intese a creare l’uomo nuovo dentro società autoritarie in cui il bene comune è nelle mani di una casta burocratica che soffoca gli individui. In questo senso il comunismo è morto e sepolto. Dobbiamo però avere l’ardire di pensare che oltre il liberalismo, nella ricerca di un capitalismo riformato, non ci imbatteremo nel faccione di Stalin e neppure in quello sorridente e imbelle di Gorbaciov. Oltre quelle colonne d’Ercole potremmo-dovremmo imbatterci in un nuovo socialismo, cioè in una nuova idea comunitaria in cui libertà economica, ruolo dello Stato, rafforzamento delle misure anti-diseguaglianza, libertà individuale, progetto di comunità capaci di privilegiare il “con” nel definire il vivere collettivo, possano prendere il sopravvento.
I tre volti della crisi. È una idea che va lavorata e messa alla prova, ma che parte dalle migliori esperienze riformistiche del socialismo e le cala in un mondo, soprattutto europeo, che fa i conti con l’intreccio fra crisi dell’economia, crisi di valori e crisi della democrazia. È per questa esigenza di dare una risposta all’altezza della crisi dei tempi che il dibattito di oggi, sul referendum, su Renzi, su Di Maio, lascia il tempo che trova. Se posso dirlo così, ci stiamo occupando de minimis, di fenomeni passeggeri, privi di spessore, che saranno travolti da altri fenomeni similari fino a che non entreranno in campo una destra che ci spiegherà come salvare il liberalismo politico e una sinistra che ci dirà (era la domanda di Aldo Moro a Berlinguer) quali sono gli elementi di socialismo da introdurre nella società. La destra e la sinistra moderne devono partire da qui. La destra, ignorando Brunetta e Salvini. La sinistra considerando Renzi e l’antirenzismo ormai anticaglie. Decenni fa si diceva che chi ha più filo tesserà più tela: io penso che oggi si dovrà dire che chi avrà più capacità di unire le società, lasciando intatte dialettica e conflitti, potrà alla fine vincere.
giovedì 28 luglio 2016
Franco Astengo: La caduta della diversità
LA CADUTA DELLA DIVERSITA’ di Franco Astengo
Le pagine centrali di Repubblica sono dedicate, oggi, al ricordo della famosa intervista rilasciata trentacinque anni fa dal segretario generale del PCI, Enrico Berlinguer, al direttore Scalfari attraverso la quale fu lanciato il grido d’allarme sulla “questione morale” e sull’invadenza dei partiti all’interno di ogni articolazione dello Stato.
Scalfari, oggi, dopo aver lavorato a lungo per “normalizzare” la diversità del PCI (ben affermata, invece, proprio da Berlinguer nella fase politica contrassegnata dalla proposta di “alternativa democratica”), la riscopre oggi pronunciando una frase per certi versi sorprendente: “non esiste più la diversità della sinistra, nessuno ha seguito la cura”.
In verità la diversità della sinistra non esiste più perché non esiste più la sinistra, quella storica, di derivazione dalla tradizione del movimento operaio e delle grandi articolazioni politiche che proprio da quella storia derivarono a confronto con i grandi tornanti del ‘900: la Rivoluzione d’Ottobre, l’antifascismo, la Resistenza, la Repubblica e la Costituzione.
Il ruolo del PCI risultò, in allora, decisivo (come, in allora, quello degli altri soggetti politici dal PSI, allo PSIUP, al PdUP, pur nella diversità delle dimensioni all’interno di quella che Pietro Scoppola ha definito la “Repubblica dei Partiti”).
Vale la pena soffermarsi ancora oggi su quella storia, sulle ragioni della sua conclusione, su come e quanto quel Partito influì nella storia del nostro Paese e dell’intero movimento operaio internazionale, avendo assunto per un lungo periodo la dimensione del più grande ed importante Partito Comunista dell’Occidente?
Una domanda alla quale è molto difficile fornire una risposta mentre i rischi di cadere nella ripetitività dell’analisi e in una sorta di agiografia di second’ordine sono molteplici.
Pur tuttavia è ancora il caso di soffermarci su quella storia cercando di partire da un assunto di fondo: quello del PCI forma politica del comunismo italiano (pur in presenza di una complessità di soggetti che al movimento comunista e alle dimensioni critiche presenti al suo interno si sono richiamati) e soggetto centrale del sistema politico imperniato sui partiti, la centralità del Parlamento, il sistema elettorale proporzionale nel quadro del vincolo esterno prodotto dalla logica dei blocchi, collegando quel livello d’analisi con la riproposizione di una ricerca sulle ragioni del declino e della perdita d’identità.
La ragione per la quale si può considerare il PCI quale forma politica originale del comunismo italiano all’interno di un peculiare (rispetto al modello occidentale) sistema dei partiti. risiede in una ragione teorica, tutta interna al pensiero gramsciano: Gramsci, infatti, rifonda l’autonomia del marxismo basandone le coordinate di fondo su di una “filosofia della prassi” divenuta sinonimo di produzione di soggettività politica, di critica della concezione del mondo della classe dominante ed elaborazione di un’ideologia congrua alle condizioni di vita dei gruppi sociali subalterni.
Questo tipo di elaborazione consentì l’operazione portata avanti dal gruppo dirigente del Partito nell’immediato dopoguerra, per specifico impulso soprattutto di Palmiro Togliatti.
Il prestigio acquisito dal PCI nell’organizzazione dell’antifascismo militante e nella guerra di Liberazione, nonché l’essenziale contributo dell’Unione Sovietica alla sconfitta del nazismo, furono all’origine, in quel periodo, di un rinnovato interesse per il marxismo.
La ripresa del marxismo, pur traendo alimento da forti referenti storico – sociali, fu processo non facile sul piano teorico.
Nell’URSS di Stalin, durante gli anni ’30 – ’40 la sintesi engelsiana del marxismo era stata trasformata in dottrina dello Stato fondata sull’opposizione tra teoria materialistica e teoria idealistica della conoscenza.
Le leggi scientifiche del materialismo storico furono considerate un’applicazione particolare del materialismo dialettico, in quanto filosofia che compendiava le leggi di movimento della realtà naturale e sociale.
La marxiana critica dell’economia politica fu sostituita da una scienza economica socialista capace di calcolare i prezzi e di allocare razionalmente le risorse nell’ambito di un sistema pianificato.
Le sorti del socialismo furono, così, identificate con i sostenuti ritmi di sviluppo delle forze produttive e i successi politici ed economici della “patria del socialismo” furono chiamati a verificare la validità della teoria marxista-leninista.
L’autonomia teorica del marxismo italiano, e di conseguenza della sua forma-partito, rispetto al quadro fin qui disegnato fu avviata da Togliatti con la pubblicazione dei “Quaderni del Carcere” avvenuta tra il 1948 e il 1951: principiò, in allora, la costruzione di una genealogia del marxismo italiano partendo addirittura da Vico, passando da De Sanctis, Bertrando Spaventa, Labriola, Croce fino a pervenire a Gramsci.
Questa operazione culturale conseguì almeno tre risultati: mise in ombra il materialismo dialettico sovietico, fornì la piattaforma per l’elaborazione strategica del “partito nuovo” aprendo il solco teorico su cui basare la “via italiana al socialismo” tesa alla costruzione della “democrazia progressiva” e difendeva, infine, bel clima ideologico della guerra fredda, la continuità della cultura democratica progressista italiana, conquistando una generazione di intellettuali di cultura laica, storicista e umanistica a posizioni genericamente marxiste, senza provocare “lacerazioni troppo nette”.
Al primo convegno di studi gramsciani Eugenio Garin, Palmiro Togliatti e Cesare Luporini sottolinearono che Gramsci aveva tradotto in italiano l’eredità valida di Marx e che il suo pensiero era profondamente radicato nella cultura e nella realtà nazionale.
In quella sede fu fortemente criticato l’economicismo, attribuendo importanza alle ideologie e alla funzione degli intellettuali.
Gramsci collocava, infatti (almeno nella stesura togliattiana dei “Quaderni” antecedente all’edizione integrale curata da Gerratana nel 1977) la politica al vertice delle attività umane, sviluppando la dottrina leninista del partito estendendo lo storicismo integrale in direzione di un’originale teoria delle sovrastrutture e respingendo la teoria della conoscenza come riflesso.
La concezione del marxismo in Gramsci è quella di considerarlo non un metodo, ma una concezione del mondo rivolta a cogliere le possibilità storicamente date nella prassi sociale.
Il più valido spunto critico a questo tipo di impostazione venne, dopo il ’56 da Raniero Panzieri e dal gruppo dei “Quaderni Rossi”: Panzieri fu promotore di una riscoperta della democrazia consiliare e del primato del “soggetto classe” sul predicato partito, critico tanto dell’ideologia della stagnazione quanto dell’ideologia tecnocratica della programmazione, che riduceva la questione sociale a un problema tecnico e identificava il capitalismo con la società industriale e l’illimitato sviluppo della produttività.
Panzieri era fortemente critico con l’impostazione togliattiana della celebrazione del nazional-popolare, del recupero storico-culturale della tradizione democratica e soprattutto dello “scarto evidente, nei partiti storici della sinistra, fra il primato esteriore dell’ideologia e la pratica quotidiana di pura amministrazione”.
La scomparsa prematura di Panzieri, il disinteresse del PSI ormai impegnato nell’operazione centrosinistra (la “politique d’abord” di Nenni) la debolezza teorica e politica dello PSIUP non consentirono a questi importanti spunti di analisi di rappresentare la base per una soggettività politica rappresentativa di un vero e proprio contraltare teorico allo storicismo togliattiano.
Non risultò neppure all’altezza di quel confronto il punto di dibattito apertosi al momento della scomparsa di Togliatti, ad iniziativa di quella che poi sarebbe stata definita “sinistra comunista”: iniziativa avviata essenzialmente grazie ad una riflessione di Rossana Rossanda e Lucio Magri che rimproverava, sostanzialmente, allo storicismo di aver oscurato il nocciolo teorico di Labriola e Gramsci (Magri riprende il tema nel “Sarto di Ulm”) e di aver annacquato il marxismo nel quadro di una tradizione dai contorni imprecisi rivendicando un primato del politico sull’economico.
Un primato della politica che avrebbe smarrito il nesso tra teoria e prassi, tra scienza e storia, oscillando così tra il riferimento di una realtà di pura empiria (attribuita all’ala amendoliana del partito) e di un semplice finalismo volontaristico.
Restarono così punti irrisolti di dibattito che forse avrebbero dovuto essere sviluppati con una capacità critica portata molto più a fondo.
Emersero così limiti forti di vero e proprio politicismo al punto che, con gli anni’70, si sviluppò una sorta di “primato dell’autonomia del politico” che portò, sulla base del prevalere del concetto di governabilità, al collasso della teoria: ben in precedenza alla stagione degli anni’80 che portò alla liquidazione del partito.
Per questi motivi di fondo: autonomia teorica dal modello sovietico, primato della politica sull’economia senza alcuna visione meccanicistica in questo senso, assunzione della concezione gramsciana del rapporto tra struttura e sovrastruttura, sovrapposizione del partito alla classe (nella versione togliattiana del partito nuovo) il PCI è stato un solo soggetto politico autonomo rispetto al panorama presente nel movimento comunista internazionale, specificatamente presente con la sua impronta all’interno del sistema politico italiano. Il resto (anche nella critica di Panzieri) ha ruotato attorno.
Come scrisse Rossanda: “ è stato il PCI di Berlinguer l’erede di quello di Togliatti, e non altri, noi compresi”.
Vale allora la pena di capire meglio perchè, a distanza di tanti anni, vale ancora la pena di ragionare sul declino di quella forma politica.
Intendendo questa analisi come paradigmatica di un declino complessivo di sistema.
Dall'inizio degli anni'80 l'emergere di questioni e problemi sui quali sarebbe stato giusto sollecitare un più audace e coraggioso rinnovamento, così come nell'elaborazione che nella proposta furono, invece, assunti come fattori da interpretare in senso di una maggiore omologazione, sia nei comportamenti politici, sia negli orientamenti culturali ed ideali che, in quel momento, raccoglievano i più facili consensi.
Cominciava, in sostanza, a far breccia, anche nel PCI o almeno in settori rilevanti del Partito, la grande offensiva ideale e politica neoconservatrice che, proprio in quegli anni'80, favorita del precipitare della crisi del sistema comunista in tutto l'Est europeo, sia dal logoramento e dall'esaurimento anche delle migliori esperienze socialdemocratiche dell'Europa Occidentale, si sviluppò con impeto in Europa come in America (sotto l'insegna del reaganian – tachterismo), e i paesi dell'Est come in quelli dell'Ovest.
Andò cosi' maturando, anche nella realtà italiana, una sconfitta che, prima ancora che politica, risultò essere culturale ed ideale.
A questo punto debbono essere richiamate almeno tre posizioni (le più esemplificative) che hanno posto in luce come in pochi anni, anche in un paese come l'Italia considerato paradigmatico di un “caso” proprio perché vi si trovava presente il più grande partito Comunista d'Occidente, questa offensiva “neocons” avesse modificato, in modo radicale, idee e convinzioni diffuse nell'area dell'opinione pubblica progressista, compresa buona parte della sinistra d'opposizione, con conseguenze fortemente negative che poi si sarebbero manifestate, anche sul piano delle scelte e dei comportamenti politici:
1) In primo luogo cominciò a raccogliere consensi, trovando ascolto anche in larghi settori della sinistra politica e sindacale, la tesi che la crisi delle politiche di pianificazione e di programmazione (sia nelle forme della pianificazione centralizzata dei paesi di “socialismo reale” dell'Europa dell'Est, sia nelle forme programmatorie delle politiche keynesiane e delle esperienze di Stato Sociale, sviluppatesi ad Ovest e nel Nord Europa , per impulso delle grandi formazioni socialdemocratiche) non solo poneva alle forze riformatrici seri problemi di ripensamento, ma costituiva una prova quasi definitiva dell'impraticabilità di serie alternative alle regole dominanti del liberismo, del privatismo, del cosiddetto “libero mercato”, dell'individualismo consumistico. Non a caso l'idea di riaffermare o ricostruire un “punto di vista di sinistra” in economia ( a partire, per esempio, dai problemi dell'occupazione o della tutela ambientale o del definire una diversa gerarchia di priorità e di finalità nella produzione e dei consumi) incontrava difficoltà via, via, più estese ed anzi veniva rigettata, quasi pregiudizialmente, nell'opinione più diffusa, come astratta e velleitaria. La conseguenza è che diventava quasi un luogo comune affermare che il banco di prova per dimostrare la maturità di governo della sinistra risiedeva, ormai, nella capacità di far valere come scelta prioritaria, senza concessioni a ideologismi solidaristici o a interessi corporativi, il rispetto dei vincoli “oggettivi” delle compatibilità finanziarie e monetarie (da ciò è derivata l'accettazione acritica dei parametri imposti per l'unificazione europea, dal trattato di Maastricht: acriticità che impedito di vedere in tempo le possibilità di rivedere il patto di stabilità, fino alla crisi che oggi investe, appunto, gli equilibri politici ed economici del processo di allargamento dell'Europa a 28).
Tornando però al periodo di avvio del declino del PCI deve essere, ancora, fatto rilevare che il diffondersi di queste posizioni di accettazione dell'impostazione neo-liberista ben al di là della tradizionale area moderata, avvenuta tanto più in una fase di intense ristrutturazioni (a partire dai 35 giorni della Fiat del 1980) che già tendevano, in allora, a ridurre e a rendere più precaria l'occupazione, ad accentuare la flessibilità della risorsa lavoro (fino alle esasperazioni attuali) e della risorsa ambiente, a diminuire i vincoli e i costi sociali che pesavano sulla produzione, abbia avuto il risultato pratico di contribuire a indebolire la tutela del mondo del lavoro e a modificare, a svantaggio della sinistra, i rapporti di forza nella struttura produttiva e sociale.
Non a caso, proprio a partire da quella fase, è stato possibile parlare dell'affermazione di quello che è stato definito “pensiero unico” ispirato, appunto, dalla teoria neoliberista;
2) In secondo luogo non si può sottovalutare il peso che ebbe, nel corso degli anni'80 l'insistente campagna sulla “crisi” e sulla “morte” delle ideologie.
Una campagna che ebbe effetti rilevanti sugli orientamenti di larga parte dell'opinione pubblica.
E' quasi inutile ricordare quanto di ideologico vi fosse, e continui ad esserci, alla base della tesi della “crisi” e della “morte” delle ideologie.
Rimane il fatto che proprio quella campagna propagandistica appena ricordata finì con l'essere largamente accettata anche a sinistra, non solo come critica dei “partiti ideologici” ( e partiti ideologici per eccellenza erano considerati,in Italia, la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista), ma anche come demistificazione dell'idea stessa di una finalizzazione ideale e morale dell'azione politica.
Alle “finalità”, e al loro presunto retroterra ideologico, andava così contrapposta l'idea della presunta “concretezza” dell'apertura al nuovo, al moderno.
Al punto da presentare, sulla scena del confronto politico, una inedita contraddizione tra “vecchio” e “nuovo”.
Una contraddizione assunta, al punto, da considerare il cosiddetto “nuovismo” come criterio di commisurazione della validità dell'iniziativa politica.
Non c'è bisogno di ricordare, sia pure a distanza di quindici anni, quanto peso abbia avuto una simile posizione nella fase di passaggio del PCI al PDS, cioè dal vecchio “partito ideologico di massa” alla “cosa” di cui non si riconosceva né il nome, né il programma, e neppure le finalità ed i contenuti;
3) Il terzo punto riguarda, infine, il fatto che la critica alla degenerazione del sistema dei partiti avesse assunto, via, via ,nel corso del decennio, anche in settori, via, via più estesi del gruppo dirigente comunista, un mutamento di segno.
Si era passati, infatti, dalla domanda di “rinnovamento della politica”, così come era stata formulata da Berlinguer, ad una proposta di mutamento del solo “sistema politico” (inteso in senso stretto) attraverso il cambiamento delle regole istituzionali ed elettorali.
Si spalancò così, in quel modo, la porta alla deriva decisionista, in particolare all'idea che bastasse “sbloccare” il sistema politico per realizzare l'alternanza e mettere così fine alla spartizione dello Stato, alla corruzione, al malgoverno.
Per “sbloccare il sistema politico” il PCI avrebbe dovuto, così, mettere in discussione se stesso, ponendo fine al “partito diverso”, omogeneizzandosi agli altri partiti.
Erano dunque mature le condizioni per portare a compimento la storia del Partito Comunista Italiano.
Tutto questo è avvenuto mentre la crisi della democrazia italiana era giunta, verso la fine degli anni'80, a un punto di estrema gravità.
La grande occasione che si era pur presentata nel corso del decennio precedente era andata perduta, per cause oggettive e soggettive, senza che si riuscisse a dispiegare quella capacità di promuovere un radicale rinnovamento nel modo di governare, del costume, dello spirito pubblico, del senso dello Stato di cui il paese avrebbe avuto estremo bisogno, ma che, ancora una volta era stato mancato.
La caduta della “diversità”
Lo scioglimento del Partito, compiuto con la svolta del 1989, non è dunque avvenuto nell'affermazione di una necessità di una innovazione radicale, che segnasse nelle forme più risolute possibili il più netto distacco da quel sistema sociale e politico, che stava franando in Unione Sovietica e negli altri paesi dell'Est.
Lo scioglimento del PCI è avvenuto, invece, senza approfondire e sviluppare quegli aspetti peculiari dell'elaborazione e della politica dei comunisti italiani che erano sostanzialmente alternativi al modello sovietico, ma , al contrario, ponendo in atto una generica rottura con la tradizione comunista.
La liquidazione del PCI fu compiuta, a questo modo, oscurando anche ciò che aveva rappresentato la specificità e l'originalità dell'esperienza del PCI e quanto questa specificità avesse rappresentato nell’insieme dell’architettura del sistema politico, collegato a due punti essenziali: la centralità del Parlamento e il sistema elettorale proporzionale, fondamento della rappresentatività dei partiti politici.
Ma le vere ragioni della scelta di liquidare il PCI e con esso l’insieme del sistema politico furono, probabilmente, ancora più profonde: stavano nella crescente subalternità ideale e culturale, e di conseguenza anche politica, che già negli anni precedenti era venuta caratterizzando le posizioni del gruppo dirigente comunista.
E' stato come se, conclusa la fase convulsa del “compromesso storico e dell'affermazione della “diversità” berlingueriana fondata sulla “questione morale”, si fossero andate, a poco, a poco, inaridite le stesse fonti della peculiare identità del PCI.
La preoccupazione fondamentale, per larga parte del gruppo dirigente comunista, sembrava essere diventata quella di trovare un decoroso approdo nella grande famiglia dei partiti socialdemocratici europei e di riuscire, finalmente, ad infrangere in Italia la “conventio ad excludendum”.
In questa prospettiva fu sottovalutata la crisi complessiva del sistema politico italiano, già prossimo a franare su se stesso per ben diversi motivi dalla mancata alternanza, ossia a a causa del montare dell'onda di Tangentopoli, dalla crescita ogni altra previsione della protesta leghista, dell'esplodere del deficit pubblico al di là di ogni ragionevole livello di guardia.
Mentre il PCI si scioglieva l'Italia si apprestava ad essere dominata da una politica fondata sulla personalizzazione, sull'uso spregiudicato dei mass – media, sul liberismo più aggressivo intrecciato ad un populismo di basso profilo: proprio nel momento in cui la “diversità” dei comunisti italiani avrebbe potuto rappresentare un argine a questo dilagare di mediocrità culturale e politica, questa veniva dismessa aprendo la strada alla più completa omologazione “governista” della sinistra storica italiana.
Lo scioglimento del PCI rappresentò un punto di vero squilibrio per l’intero sistema politico, cui seguirono altri momenti di sconvolgimento determinati dall’implosione dei grandi partiti di massa avvenuta poco tempo dopo: i suoi eredi, mutate diverse denominazioni da PDS, a DS e PD e collegandosi con alcuni dei residui del vecchio apparato del partito cattolico, hanno accettato “in toto” i meccanismi fondamentali di quell’eterna “transizione italiana” apertasi con lo scioglimento del partito, dal maggioritario, al presidenzialismo (esercitato direttamente, ponendosi ai limiti della Costituzione Repubblicana dal primo Capo dello Stato proveniente dalla storia del PCI quale esponente della destra interna, ben più legata – è bene ricordarlo – alla tradizione sovietica rispetto alle altre sensibilità presenti nel partito), all’accettazione delle formule liberiste che sono state e stanno all’origine della grande crisi che stiamo vivendo, fino al tentativo in atto di far uscire la Repubblica dalla dimensione parlamentare definita dalla cornice della Costituzione antifascista.
Il PD, infatti (usando addirittura ed incredibilmente la struttura delle “primarie” per la selezione del gruppo dirigente, inteso come gruppo “elettorale”) si è reso pienamente competitivo sul terreno di quella concezione esaustiva della “governabilità” facendola sconfinare definitivamente, come dimostrano gli ultimi episodi in una vera e propria “questione morale”, ultima e definitiva tappa di una degenerazione dell’agire politico che attanaglia il sistema politico italiano.
Dalla logica delle primarie è uscito così un abbozzo di gruppo dirigente capace di riesumare addirittura il concetto di “giovanilismo” e di attivismo purchessia, che stanno alla base di una involuzione del sistema politico simile a quella già attraversata nella storia d’Italia in momenti particolarmente drammatici di costruzione di regime.
E’ rimasta così soffocato l’idea della necessità di un partito capace insieme di sviluppare pedagogia, radicamento sociale, rappresentatività politica della classe: è questo il vuoto più grande che, pur nella consapevolezza di un declino forse irreversibile attraversato nell’ultima fase della sua esistenza, il PCI ha lasciato.
Pensiamo al vuoto lasciato da una assenza della vocazione internazionalista nel momento in cui, come nell’attualità, si è trascinati all’interno della logica dello “scontro di civiltà”, dopo aver assistito inerti all’affermazione per via bellica del concetto di “esportazione della democrazia” e delle sue conseguenze in termini di quel razzismo propedeutico all’instaurazione del regime di terrore sul quale gli establishment, in Occidente come in Oriente, puntano per mantenere il proprio dominio.
Si tratta di un punto di riflessione da sviluppare proprio al fine di poter riprendere un discorso che non risulti, come sta avvenendo da qualche parte compreso il ricordo di Scalfari e di “Repubblica”, meramente caricaturale.
Giovanni Scirocco: A 35 anni dall'intervista di Berlinguer a Scalfari sulla "questione morale"
Oggi su Repubblica viene commemorata (non saprei usare altro termine...) l'intervista di Scalfari a Berlinguer sulla "questione morale". Ora, a parte il fatto che il rapporto tra etica e politica è qualcosa di complesso (lo è stato anche per il Pci, ma di questo non c'è traccia...) e, al limite, dovrebbe essere un prerequisito, il passaggio centrale nell'intervista di Simonetta Fiori al "fondatore" mi sembra questo: "Mi piacevano le sue idee, la questione morale innanzitutto". E le altre idee? C'erano? Quali erano? Hanno prodotto qualcosa, soprattutto nella società italiana? O il fatto che non vi fosse quasi nulla (soprattutto per quanto riguardava i reali assetti di potere della società italiana) in fondo andava bene a Scalfari e a quell'establishment economico-finanziario che lui stesso rappresentava? Anche questo è un discorso complesso, ma che andrebbe ripreso, senza dimenticare che quando Scalfari parla delle sue ascendenze azioniste parla della "destra" azionista (La Malfa, Visentin ecc.), non certo di Riccardo Lombardi e di quelli che discutevano l'essenza stessa del capitalismo
mercoledì 27 luglio 2016
martedì 26 luglio 2016
Emanuele Macaluso: VIVA IL COMPAGNO SOCIALISTA SANDERS!
VIVA IL COMPAGNO SOCIALISTA SANDERS!
Bernie Sanders oggi dà un esempio e una lezione a tutta la sinistra, anche a quella italiana, radicale e non radicale. La sua campagna elettorale, della quale mi sono occupato spesso in questo spazio, è stata esemplare. Ha, infatti, posto temi di cui nessun altro parlava, negli Usa e anche in Italia e nel mondo globalizzato: la crescente diseguaglianza tra gli uomini, la rivendicazione del welfare nell’epoca di oggi, anche negli States, la condanna del razzismo, delle violenze delle guerre, mostrando una straordinaria capacità di parlare direttamente al popolo, soprattutto ai giovani.
La sua era un’alternativa democratica alla Clinton e lo ha dimostrato senza infingimenti e con determinazione. Sanders non ha vinto ma, a mio avviso, non ha perduto perché ha ricordato a tutti noi che la sinistra è tale se conduce una battaglia su questi temi. Certamente, ha vinto Hillary Clinton nel quadro di un partito, il Democratico, che rappresenta anche larghi strati di ceto medio e parte della borghesia democratica, ma sempre borghesia.
Sul fronte opposto ha vinto Trump con tutto ciò che significa non solo per gli Usa ma anche per il mondo intero, quindi anche per noi. Ecco perché Sanders non ha esitato a schierarsi, senza se e senza ma, a sostegno della Clinton. E lo ha fatto contrastando una parte dei suoi seguaci, radicalizzati sino al punto di non capire che ormai la scelta è tra la Clinton e Trump: una democratica e uno della destra razzista e nemico di ogni progresso.
Conosciamo anche in Italia pezzi di sinistra radicale che preferiscono fare vincere la destra o i grillini per contrastare il Pd che, con tutti i suoi limiti e magagne che conosciamo, rappresenta ancora un’alternativa, anche se limitata, alla destra; un partito che può e deve essere anche contrastato senza che però si ceda il passo alla destra e al grillismo. È quel che negli Usa ha fatto Sanders, uno che conosce bene i limiti e le magagne del gruppo dei Clinton e dei suoi soci, ma come ogni riformista non intende giocare al tanto peggio tanto meglio. Uno che sceglie la strada che lascia aperta la possibilità di condurre una battaglia salvando il Paese da una rovinosa avventura.
W il compagno socialista Sanders!
(26 luglio 2016
Franco Astengo: Ribellarsi
RIBELLARSI SAREBBE GIUSTO : UN PICCOLO SPACCATO DELLE GRANDI INGIUSTIZIE ITALIANE a cura di Franco Astengo
Di seguito, prendendo da varie fonti troverete i dati relativi alla disoccupazione, alle pensioni, alle retrbuzioni dei lavoratori a tutti i livelli a confronto con gli stipendi RAI, la fabbrica del consenso per il “tutto va bene” del Governo Renzi, dopo esserlo stata anche per il Governo dei “Ristoranti pieni” del Governo Berlusconi.
Senza alcuna indulgenza verso presunte demagogie e/o populismi di varia natura si tratta di un quadro che dovrebbe suscitare indignazione e senso di repulsione non tanto a livello di “lotta di classe”, ma di semplice convivenza civile.
Quando si scrive di forze politiche che dovrebbero organizzarsi sulla base delle concrete contraddizioni sociali in atto di questo, molto banalmente, si cerca di parlare.
Senz’altro commento, con l’auspicio di aver contribuito a suscitare un minimo passaggio di riflessione
DISOCCUPAZIONE
Il tasso di disoccupazione nel mese sale all'11,7% (era all'11,5% a marzo secondo il dato rivisto). Rispetto ad aprile 2015 il tasso di disoccupazione diminuisce invece di 0,4 punti percentuali. I disoccupati sono 2.986.000, in crescita di 50.000 unità su marzo e in calo di 93.000 unità su aprile 2015. Ad aprile cresce anche la disoccupazione giovanile, che risale al 36,9%.
Ad aprile disoccupazione giovani sale al 36,9%
Cresce ad aprile anche la disoccupazione giovanile. Secondo le stime dell'Istat, il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è pari al 36,9%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente. L'incidenza dei giovani disoccupati tra 15 e 24 anni sul totale dei giovani della stessa classe di età è pari al 9,8% (cioè meno di un giovane su 10 è disoccupato). Tale incidenza è in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto a marzo
PENSIONATI
Il bilancio sociale 2014 presentato da Tito Boeri mostra la difficile situazione in cui si trovano molti pensionati. Quasi un pensionato su due, il 42,5%, pari a circa 6,5 milioni di individui, percepisce un reddito pensionistico medio inferiore a mille euro mensili. Tra questi, il 12,1% non arriva a 500 euro al mese. E le sorprese non finisco qui perché l’Inps ha comunque il bilancio ancora in rosso. Il saldo tra entrate ed uscite evidenzia un disavanzo complessivo di 7 miliardi, benchè nel 2014 abbia erogato 20.920.255 pensioni, tra cui 17.188.629 pensioni previdenziali, ossia invalidità, vecchiaia e superstiti, per circa 243,514 miliardi di euro e 3.731.626 pensioni assistenziali. Il reddito medio più basso è dei pensionati residenti al Sud: 1.151 euro; al Nord si sale a 1.396 euro, mentre al Centro si arriva a 1.418 euro.
È stato presentato qualche tempo fa il bilancio sociale 2014 redatto dall'istituto di previdenza. La fotografia non è delle migliori.
L'Inps tramite il suo Presidente Tito Boeri fotografa l'attuale situazione delle pensioni pubbliche e offre riscontri numerici destinati a far discutere non solo la politica, ma gli stessi cittadini.
La situazione previdenziale che viene messa in luce mostra abbastanza chiaramente quali siano le difficoltà di molti italiani.
Infatti, secondo il bilancio sociale 2014 pubblicato dall'Inps, oltre il 40% dei pensionati italiani percepisce una pensione inferiore alle 1000 euro al mese, mentre il 10% faticherebbe addirittura a raggiungere la cifra minima delle 500 euro.
Dei 15,5 milioni di pensionati, 724 mila, pari al 4,6%, hanno un reddito medio mensile di oltre 4.300 euro.
LAVORATORI DIPENDENTI
La distribuzione dei redditi: solo il 5,7% dei lavoratori supera i 40mila euro lordi l’anno
Tutti i numeri sulle retribuzioni in Italia
Media
Dirigenti euro 105.390 (lordi) 1,3% della popolazione lavorativa
Quadri euro 53.245 (lordi) 4,2% della popolazione lavorativa
Impiegati 30.689 (lordi) 35,3% della popolazione lavorativa
Operai euro 23.753 (lordi) 59,2% della popolazione lavorativa
STIPENDI RAI (da comparare con attenzione con i dati precedenti)
Raffaele Agrusti, Cfo e presidente Rai Way, 340mila euro
Eleonora Andreatta, Direttrice Rai Fiction, 272mila euro
Antonio Bagnardi, Direttore del Centro Italiano di Studi Superiori per la Formazione e l’Aggiornamento in Giornalismo Radiotelevisivo, 240mila euro
Luca Balestrieri, responsabile Struttura Satelliti, 215.280 euro
Fabio Belli, Cfo Rai Pubblicità, 245.900 euro
Biancamaria Berlinguer, direttrice Tg3, 280mila euro
Daria Bignardi, direttrice Rai3, 300mila euro
Paolo Bistolfi, vicedirettore Rai Gold, responsabile del canale Rai Premium, 203.360 euro
Giovanna Botteri, corrispondente-responsabile dell’ufficio di New York per i servizi giornalistici radiofonici e televisivi dagli Stati Uniti, meno di 200mila euro
Silvia Calandrelli, direttrice Rai Cultura, 223.898 euro
Antonio Campo Dall'Orto, direttore Generale, 650mila euro
Maria Canessa Sattanino, responsabile Rai Quirinale, inferiore ai 200mila euro
Gianfranco Cariola, direttore Internal Auditing, 352mila euro
Alessandro Casarin, vicedirettore Rai News, 240mila euro
Roberto Cecatto, direttore Produzione TV e Deputy Chief Technology Officer, 237mila euro
Nicola Claudio, direttore Segreteria del Consiglio di Amministrazione, direttore ad interim Staff del Presidente, 227.796 euro
Adriano Coni, responsabile Sostenibilità e Segretariato Sociale, 242.176 euro
Piero Alessandro Corsini, direttore Rai World, 216.834 euro
Pierpaolo Cotone, direttore Affari Legali e Societari, 292mila euro
Pasquale D'Alessandro, direttore Rai 5, 247.578 euro
Ilaria Dallatana, direttrice Rai 2, 300mila euro
Eugenio De Paoli, corrispondente e Responsabile ufficio per i servizi giornalistici dal Brasile, 290.603 euro
Paolo Del Brocco, Ad Rai Cinema, 307.578 euro
Antonio Di Bella, direttore Rai News, 308.500 euro
Fabio Di Iorio, responsabile Intrattenimento Rai 2, inferiore ai 200mila euro
Anna Donato, vicedirettrice Testata Giornalistica Regionale, 200.979 euro
Tiziana Ferrario, corrispondente dagli Stati Uniti, 238.044 euro
Massimo Ferrario, responsabile sede Rai Liguria, 235.304 euro
Valerio Fiorespino, direttore, alle dirette dipendenze del Direttore Generale per il supporto ai progetti speciali, 303.678 euro
Emanuele Fiorilli, corrispondente e Responsabile dell’ufficio per i servizi giornalistici dalla Turchia e dai Paesi dell’Europa sud orientale, 211.394 euro
Luciano Flussi, direttore Generale Rai Pubblicità, 242mila euro
Pier Francesco Forleo, direttore Diritti Sportivi, 242mila euro
Pietro Gaffuri, Ambito Digital, 242mila euro
Paolo Galletti, direttore Risorse Umane e Organizzazione, 300mila euro
Roberto Giacobbo, vicedirettore di Rai2 con la responsabilità dei programmi divulgativi, 200.109 euro
Gerardo Greco, autore e conduttore di Agorà, programma televisivo in onda su Rai3, inferiore ai 200mila euro
Anna La Rosa, caporedattrice, alle dirette dipendenze del Direttore di Rai 3, 240mila euro
Carmen Lasorella, ultimo incarico: vicedirettore della Direzione Web, 204.611 euro
Lorenza Lei, è alle dirette dipendenze del Direttore Generale, 243.678 euro
Giancarlo Leone, direttore del Coordinamento Editoriale dei Palinsesti Televisivi, 360mila euro
Massimo Liofredi, direttore Rai Ragazzi, 242mila euro
Monica Maggioni, Presidente, 270mila euro
Antonio Marano, Presidente Rai Pubblicità, 392mila euro
Pietro Marrazzo, corrispondente e responsabile ufficio per i servizi giornalistici radiofonici e televisivi dal Medio Oriente, 244.062 euro
Marcello Masi, direttore del Tg2, 280mila euro
Mauro Mazza, responsabile di progetto in RAI Vaticano, 340mila euro
Luigi Meloni, direttore Coordinamento Sedi Regionali ed Estere, 214.897 euro
Alfredo Meocci, è alle dirette dipendenze del Direttore Generale, 240mila euro
Massimo Migani, responsabile Gestione Grandi Eventi e Attività Produttive Estero della Direzione Produzione TV, 247.578 euro
Massimo Enrico Milone, responsabile Rai Vaticano, inferiore ai 200mila euro
Alberto Morello, direttore Centro Ricerche e Innovazione Tecnologica (ambito Chief Technology Officer), inferiore ai 200mila euro
Vincenzo Morgante, direttore Testata Giornalistica Regionale, 228.334 euro
Flavio Mucciante, direttore Giornale Radio e Radio1, 239.365 euro
Carlo Nardello, direttore, in staff al Cfo, 302mila euro
Roberto Nepote, responsabile Centro di Produzione TV di Torino, 240.299 euro
Gianfranco Noferi, vicedirettore Rai Ragazzi con delega sul canale Rai Yoyo, inferiore ai 200mila euro
Mario Orfeo, direttore Tg1, 320mila euro
Claudio Pagliara, corrispondente, responsabile per i Servizi Giornalistici Radiofonici e Televisivi dalla Cina, dal Giappone e dai Paesi del Sud-Est asiatico, 212.740 euro
Giovanni Parapini, direttore Comunicazione, Relazioni Esterne, Istituzionali e Internazionali, 260mila euro
Giuseppe Pasciucco, direttore Pianificazione Strategica e Controllo di Gestione, 245.927 euro
Susanna Petruni, vicedirettrice Tg1, 240mila euro
Francesco Pinto, responsabile Centro di Produzione Televisiva di Napoli, 210.242 euro
Francesco Pionati, giornalista inquadrato nel Tg1, è attualmente distaccato presso Rai Com, alle dirette dipendenze dell’Ad, 203.673 euro
Fabrizio Piscopo, Ad di Rai Pubblicità, 322 euro
Antonio Preziosi, caporedattore corrispondente per i servizi giornalisti radiofonici e televisivi dal Belgio, 245.448 euro
Maurizio Rastrello, vicedirettore Staff del Direttore Generale con responsabilità dell’unità organizzativa Analisi Economiche, Tecnico-Specialistiche e Contrattuali, 200.330 euro
Antonio Rizzo Nervo, presidente del Centro italiano di Studi Superiori per la formazione e l’aggiornamento in giornalismo radiotelevisivo, 200mila euro
Alberto Romagnoli, corrispondente responsabile dell’ufficio per i servizi giornalistici radiofonici e televisivi dal Belgio, 208.781 euro
Gabriele Romagnoli, direttore Rai Sport, 230mila euro
Carlo Romeo, direttore Generale San Marino RTV, inferiore ai 200mila euro
Guido Rossi, direttore Staff del Direttore Generale, 200mila euro
Scipione Rossi, direttore di Rai Parlamento, 240mila euro
Andrea Sassano, direttore Risorse Televisive, 224.636 euro
Danilo Scarrone, direttore Canali Radio di Pubblica Utilità, 200.697 euro
Federica Sciarelli, conduttrice di Chi l’ha visto?, inferiore ai 200mila euro
Roberto Serafini, direttore Pianificazione Frequenze e Gestione dello Spettro, 203.494 euro
Roberto Sergio, vicedirettore Radio, responsabile per i rapporti con le consociate del gruppo Rai, 243.678 euro
Nicola Sinisi, direttore Radio Rai, 228mila euro
Gian Stefano Spoto, capo Redattore Centrale presso Rai Parlamento, con l’incarico di coordinare gli approfondimenti giornalistici, inferiore ai 200mila euro
Giuseppe Sturiale, direttore Generale di Rai Cinema, 206.834 euro
Gian Paolo Tagliavia, Chief Digital Officer Rai e Presidente Rai Com, 292mila euro
Angelo Teodoli, direttore Rai Gold, 325.900 euro
Sandro Testi, è alle dirette dipendenze del Direttore Generale, 231.119 euro
Stefano Tura, corrispondente per i servizi giornalistici radiofonici e televisivi dal Regno Unito, 205.673 euro
Marco Varvello, corrispondente responsabile dell’ufficio per i servizi giornalistici radiofonici e televisivi dal Regno Unito, 219.327 euro
Carlo Verdelli, direttore Editoriale per l’Offerta Informativa, 320mila euro
Andrea Vianello, editorialista per le tematiche politiche ed internazionali (Tg2), 320mila euro
Stefano Ziantoni, corrispondente per i servizi giornalistici radiofonici e televisivi dalla Francia, 201.427 euro
Valerio Zingarelli, Chief Technology Officer, 232mila euro
Alessandro Zucca, vicedirettore di Rai Sport per le attività non giornalistiche, 239.674 euro
Marco Zuppi, direttore Canone, 242mila euro
lunedì 25 luglio 2016
domenica 24 luglio 2016
sabato 23 luglio 2016
Franco Astengo: Democrazie
RAZZISMO, SOPRAFFAZIONE, DOMINIO: CRISI DELLE DEMOCRAZIE E DELLE ELITE GOVERNANTI di Franco Astengo
Siamo di fronte ad una crisi verticale delle èlite a livello globale e, contemporaneamente,emergono di scontro civile, politico, sociale che stanno conducendo a momenti di conflitto molto aspro come ci dimostra la cronaca di tutti i giorni.
La stessa vicenda della crisi turca è parte integrante di questo processo che sta assumendo dimensioni difficilmente razionalizzabili all’interno di un disegno politico.
La ragione del presentarsi di questa “logica del disordine” risiede proprio in quella crisi verticale delle élite governanti sulla quale andrebbe prestato il massimo possibile dell’attenzione.
Se vogliamo cercare una delle ragioni, forse la più importante, di questo drammatico stato di cose dobbiamo, prima di tutto, analizzare il degrado culturale che investe l’insieme di quelle che furono considerati i settori più avanzati della politica.
Non regge più quella che abbiamo definito “democrazia borghese” le cui forme vigenti appaiono ridotte allo scheletro nudo di una governabilità che garantisce soltanto l’ingiustizia perenne insita nel predominio della tecnica finanziaria sulla politica.
“Democrazie” escludenti perché prive al loro interno di vere soggettività politiche e che, nella necessità dell’incontro sovranazionale (non globale, beninteso) producono mostri di inanità politica come nel caso dell’ONU o soggetti dimostranti nel concreto dell’egemonia della tecnica finanziaria fine a se stessa (obiettivo: ingrassare i già ricchi) come nel caso dell’UE.
Ci si nasconde dietro l’ottimismo di maniera del presidente degli USA che non guarda alla drammaticità dei contenuti sui quali si aprirà il confronto elettorale per la sua successione e addirittura parla di “paese non diviso” rispetto alla profondità concreta della frattura razziale.
Obama fa finta di ignorare – come invece ha fatto rilevare lo stesso reverendo Jackson – che la “faglia” che attraversa la società USA è ancora quella, intrisa di violenza, che separò schiavismo e antischiavismo.
Una divisione mai assorbita nel suo esplicitarsi nella continuità del dominio e che segna gran parte della stessa divisione che, proprio sotto l’aspetto della ferocia razziale, contraddistingue questa fase storica con gli USA da svolgere il ruolo di negativo esempio globale.
Addirittura c’è ancora chi si è fermato a descrivere un illusorio confronto tra “libertà”e dittatura, ponendo dalla parte della “libertà” le asfittiche democrazie occidentali: proprio quelle i cui sistemi hanno garantito nel corso degli ultimi 25 anni la crescita di enormi privilegi per pochi, sono risultate l’incubatrice della crescita di enormi disuguaglianze, hanno offerto il modello della sopraffazione.
Per ovviare a questa vera e propria, profonda, crisi del pensiero si sente nell’aria persino il rilancio del vecchio slogan sullo “scontro di civiltà”.
Si cerca di fare in modo che sia ignorato nodo vero rappresentato dal dominio.
Un nodo da sempre ignorato dagli eterni corifei di una comunicazione di massa gestita esclusivamente dal ceto dei dominatori.
Classi politiche ed economiche ripiegate su loro stesse quelle delle cosiddette “democrazie occidentali”, feroci propugnatrici di vere e proprie macchine da guerra neo – coloniali, capaci soltanto di schiacciare i più deboli e di costruire, al loro interno, falsi antagonismi.
Sono così cresciute indefinite istanze ribellistiche, magari capaci di mascherarsi dietro antichissimi stilemi come quello religioso, in un crescendo drammatico di guerre, attentati terroristici, esercizio della violenza.
Istanze che abili manipolatori delle nuove tecniche di comunicazione riescono ad includere all’interno di progetti di eversione virtualmente promotori delle azioni distruttive che riempono le cronache di questi giorni.
Non c’è nessuno scontro tra “libertà” e dittatura: anzi la dittatura dell’inganno appare essere ormai estesa alla globalità delle istanze sociali e politiche.
Così come non c’è nessuno scontro tra centro e periferie, nelle metropoli e nei punti più marginali del Pianeta.
Lo scontro, invece, riguarda la condizione materiale, la stessa prospettiva sociale e politica.
Lo scontro ancora una volta è tra diversità insopprimibili che hanno necessità di essere rappresentate a pieno titolo, e non serve il pietismo di fittizie unità per uscire da quello che sembra proprio il vicolo cieco della disperazione umana.
L’unità che viene richiesta (anche dai pulpiti delle Chiese e dall’insieme dei ceti dominanti) è sempre quella da realizzarsi attorno ai privilegiati.
Un’unità da stringere attorno a chi detiene denaro e potere, a chi per interesse affama, inquina il mondo, tiene la donna nell’atavica soggezione, sopraffà per indiscriminato diritto di razza.
Se non si comprende appieno come ci si trovi dentro questa gigantesca trasversalità delle contraddizioni, non si rintracciano neppure i luoghi della costruzione di questo enorme divario sociale.
Se non si comprende tutto ciò allora non resterà altro che rifugiarsi nell’illusione del sempre uguale, del vantaggio per chi già domina gli altri e creare illusioni per conservare il proprio odioso potere.
Prima di tutto è venuta a mancare completamente la funzione dello Stato.
Questo punto non è stato compreso nel momento in cui è stato accettato un globalismo senza limiti che sarebbe dovuto essere affrontato attraverso un indistinto “movimento dei movimenti” organizzato attraverso il fluttuarsi delle moltitudini.
A quindici anni da “Genova 2001” questa lezione deve essere assunta da chi intende ancora muoversi sul terreno dell’idea della trasformazione sociale perseguendo obiettivi radicalmente avanzati sul piano dell’uguaglianza.
Lo Stato rinchiuso nella costrizione della governabilità fine e a se stessa non svolge più alcuna funzione sociale e pressato dalle esigenze di cessione di sovranità derivanti dalle nuove condizioni imposte dal ciclo capitalistico finisce con l’abdicare il proprio compito storico.
Le classi dirigenti, nella loro incapacità di produrre davvero un’impronta sovranazionale alle loro azioni hanno ceduto all’egemonia tecnocratica prodotta dalla velocità oggettivamente insita nei processi di finanziarizzazione dell’economia.
Pseudo classi dirigenti che si limitano ormai alle dichiarazioni senza seguito.
Il personale che si muove in questo scenario svolge, in sostanza, la funzione degli antichi imbonitori da fiera degli ingannatori delle masse.
Paradossalmente, ma non troppo, il rinchiudere la politica nel recinto della governabilità fine a se stessa e l’abbandono di un’idea dell’agire politico come fattore di inclusione , porta, come ben dimostra anche lo stesso “caso italiano”, a una sostanziale assenza di decisionalità e all’affastellarsi di scelte incongrue rispetto a un quadro coerente di trasformazione sociale e politica.
Non si può colmare la divisione prodotta dalle grandi contraddizioni sociali con l’autoritarismo della paura.
Si tratta di scelte incoerenti proprio con la realtà perché dettate semplicemente dall’affannosa ricerca di un consenso del tutto virtuale.
Le agende di élite ormai superate nel tempo appare ormai dettata semplicemente dallo scandirsi delle percentuali (inventate) dei sondaggi alla ricerca proprio attraverso questi strumenti di pure illusioni da smerciare al facile mercato di un potere apparentemente dominante ma inesistente nella sua incapacità di disegnare uno scenario per il futuro.
Lo scontro non è tra presunte democrazie della disuguaglianza e altrettanto presunte dittature della sopraffazione.
Il conflitto da individuare, ricercare, aprire risiede in ben altri luoghi da quelli delle classiche “arene politiche”.
I luoghi del conflitto sono quelli della sofferenza imposta dalla ferocia dei pochi che pretendono di gestire il destino di grandi maggioranze.
Le moltitudini composte di emarginati ed esclusi, migranti e abitatori delle periferie prive di organizzazione si abbandonano alla rivolta, al gesto eclatante, al colpire insensatamente nel mucchio, nella follia di incontrollati processi imitatori della dannazione dell’ “altro”.
Intanto qualcuno discute di cicli della storia e di ritorni all’indietro.
Non bastano però gli slogan del 99% versus l’1%.
La realtà del conflitto è molto più complessa e articolata nella determinazione del confronto sociale.
Dovrebbe stare al centro delle nostre riflessioni un’idea di recupero della “politica”: non si intravedono, però, sotto questo aspetto segnali appena sufficienti per poter immaginare un diverso futuro.
Francesco Maria Mariotti: Monaco (e non solo)
Forse è brutto dirlo, anzi è sicuramente brutto, ma dobbiamo un po' "abituarci" ad attacchi come quello di Monaco, quale che sia la loro matrice.
Non so se è il modo giusto di esprimerlo; vado "a spanne" e sono quasi certo che io per primo non sarei in grado di reagire con "saggezza"; ma possiamo farci forza con le cose quotidiane, cercando di convincere noi stessi che la nostra vita ha senso anche se dovesse concludersi in modo tragico, per colpa di un criminale neonazista, di un fondamentalista islamico, o cos'altro.
Anche se ci venisse annunciato che questo è l'ultimo dei giorni, insomma, continuiamo a "giocare" come stavamo facendo poco fa.
Senza farci travolgere dalle edizioni speciali dei tiggì, che alimentano la sensazione di insicurezza oltre misura;
senza farci prendere dalla retorica della guerra (guerra che c'è; ma la retorica è tipica di chi non ha mai visto un vero campo di battaglia...);
senza farci conquistare dal ricatto dell'"o con me o con il terrorismo", tentazione spesso presente in politica.
Scansando il cinismo, ma anche lo stravolgimento del quotidiano.
Lo ha detto molto meglio di me - dopo l'11 settembre 2001 - Tommaso Padoa-Schioppa, in un articolo che ripropongo.
Buon gioco a tutti, dunque. Qualcuno sta distribuendo nuove carte, ancora.
Francesco
***
"Parte della risposta ai tragici fatti dell' 11 settembre dev' essere un intrepido e assorto ritorno al quotidiano operare, alla fiducia a scuola e in Borsa, alle normali conversazioni in casa e in ufficio. La capacità di liberarsi dalla minaccia del terrore che ha improvvisamente colpito il mondo dipenderà anche da come ciascuno, nel mondo, vivrà questo ritorno. Ciascuno nel mondo, perché miliardi di persone di tutte le età hanno visto le immagini del disastro, centinaia di milioni conoscono New York e ne hanno visitato le torri. In quello stesso martedì di settembre, nei minuti e nelle ore che seguirono l' attacco, in innumerevoli sedi pubbliche e private, dentro e fuori gli Stati Uniti, ci si riunì sgomenti, non sapendo che fare. Si decise che «il lavoro continua», business as usual. Per i più non era insensibilità, ma bisogno di una norma sicura, dunque di normalità. (...) Il lavoro è necessità e fatica; ma è anche sicurezza e riflessione. Nel ritorno al quotidiano vi sono consolazione e sostegno, ma anche difesa e riaffermazione della saggezza e della civiltà. Il ritorno al quotidiano diventerà una risposta intrepida se sapremo evitare l' insidia di due tentazioni, due forme di evasione dalla realtà, ugualmente pericolose: l' indifferenza nel quotidiano e lo sconvolgimento del quotidiano. Dovremo invece fare il possibile perché il pensiero di ciò che è avvenuto, la ricerca delle cause, la volontà di fare fronte impregnino il nostro quotidiano, facendone riconoscere insieme il valore e le mancanze, dunque le correzioni necessarie. Quando, durante un gioco, Ignazio di Loyola e alcuni suoi compagni si chiesero come avrebbero speso quell'ora se avessero appreso che era l'ultima della loro vita, chi disse che si sarebbe ritirato a pregare, chi che sarebbe corso dai suoi cari o avrebbe donato ogni suo bene ai poveri. Ignazio disse: continuerei questo gioco. A ciò che è accaduto occorrerà dare una risposta che si muova contemporaneamente su piani diversi: militare, politico, civile, culturale, economico. Comprendere quale debba essere la giusta risposta in ciascun campo è impresa ardua. Ancor più ardua e lunga sarà l' attuazione delle risposte. (...)"
http://www.tommasopadoaschioppa.eu/mondo/ciascuno-nel-mondo
Aldo Penna: Turchia
In Turchia dopo il golpe del 12 settembre 1980 che consegnò un paese, percorso da decine di omicidi politici e un durissimo confronto tra formazioni di destra e di sinistra, a tre anni di dittatura militare, la repressione del dissenso raggiunse livelli altissimi.
Centinaia di migliaia di arresti, duecentomila persone processate nelle corti marziali, oltre duecento morti per tortura, quasi cinquecento scomparsi mentre erano in carcere, 50 giustiziati, licenziamenti di massa per gli insegnanti furono la conseguenza devastante di un golpe che si impresse profondamente nella cultura della società turca.
Nel 2012, a distanza di oltre 30 anni e solo come conseguenza dell’abolizione di un articolo della Costituzione che ne garantiva l’immunità, furono portati alla sbarra il vecchio generale Evren poi morto nel 2015 e Tahsin Şahinkaya ultimi supersiti del gruppo di cinque generali che capeggiarono il colpo di stato.
Quello che sorprende analizzando la vastità, l’immediatezza, la profondità della reazione di Erdogan è la scientificità con cui le liste dei proscritti sono state redatte.
Di solito come insegna l’analisi comparata dei colpi di stato in tutto il mondo sono i golpisti ad avere pronte le liste degli individui da epurare. E una volta preso il potere procedono con spietatezza a radere al suolo l’infrastruttura sociale loro invisa.
Il fatto che queste liste oltre ai golpisti li avesse Erdogan è una spia su quello che probabilmente è accaduto il 15 luglio e nei mesi che precedono questa data.
Se non si vogliono giudicare pivelli o sprovveduti uomini che hanno avuto al loro comando decine di migliaia di uomini e con una salda tradizione di colpi di stato alle spalle, allora forse il golpe in preparazione era conosciuto da tempo. Generali di altissimo rango avevano dato le loro coperture, gli stessi che probabilmente hanno spinto i golpisti all’azione per poi ritirarsi, solidali con il governo, lasciandoli al fallimento e favorendo lo scatenarsi del vero golpe contro la democrazia: la resa dei conti di Erdogan nei confronti dei seguaci di Gulen, della magistratura, del mondo della cultura, dei militari e dei corpi di polizia che se realmente avessero preso parte attivamente al complotto avrebbero certamente vinto.
Ma questo non è solo un golpe del governo contro la dialettica democratica, le opposizioni sociali questo è un golpe che mira al ridisegno della società turca e pensa ad Erdogan come a un nuovo Ataturk, anzi all’uomo che sostituirà Ataturk (da lui in diverse occasioni dileggiato) come padre della patria. D’altra parte il modello del primo presidente della Repubblica Turca nata dalle ceneri dello sconfitto impero ottomano è un modello che a Erdogan piace: partito unico, legislazione che rivede alle fondamenta gli assetti sociali, culturali ed economici.
E se l’attuale padre della patria transitò a tappe forzate un paese immerso nelle tradizioni alla modernità, il nuovo presidente della Repubblica che vuole soppiantarlo come padre dei turchi imporrà lo stesso ritmo per demolire quanto novanta anni fa Kemal ha edificato. Se le gigantesche immagini di Ataturk andranno gradualmente in soffitta sostituite da nuove gigantografie il processo diverrà irreversibile.
Aldo Penna
giovedì 21 luglio 2016
mercoledì 20 luglio 2016
martedì 19 luglio 2016
Alberto Negri: Il controgolpe di Erdogan
Controgolpe di Erdogan
di Alberto Negri, inviato speciale de Il Sole 24 Ore
Analisi scritta per la Newsletter del CIPMO
Il contro-golpe di Erdogan inizia con un paradosso: dallo scampato pericolo di una dittatura militare dei golpisti si passa alla fase di una sorta di dittatura “elettorale”, ovvero a un regolamento di conti che sta cambiando il volto dello Stato turco. Seimila i militari arrestati, silurati 8mila tra poliziotti e dipendenti del ministero dell’Interno, licenziati 30 governatori, rimossi 2.800 giudici. Un terzo di tutta la magistratura del Paese è entrata nel mirino delle purghe dirette dal presidente, dai servizi segreti del fedelissimo Hakan Fidan e da un partito in maggioranza da 14 anni, l’Akp, che ha l’imperdibile occasione di prendere in mano oltre alle leve della politica e del governo centrale anche quelle di tutta l’amministrazione e della burocrazia. Terra bruciata per l’opposizione.
Erdogan ha accusato il suo ex alleato Fetullah Gulen, in esilio negli Usa, di avere costituito uno “stato parallelo infiltrando tutti in gangli dell’amministrazione e ne reclama l’estradizione agli Stati Uniti. Ma lo stesso presidente, con il fallito colpo di stato di venerdì scorso, sta trasformando la Turchia in uno Stato-Erdogan.
E’ questa situazione, per altro prevedibile, che ha fatto avanzare l’ipotesi dell’”autogolpe”: in realtà questo è stato un putsch quasi suicida animato non soltanto dai gulenisti, ma anche da frange di kemalisti che sapevano di non avere altra scelta. I segnali si erano avuti nelle settimane precedenti quando si erano diffuse le voci di nuove purghe nell’Alto consiglio (Yas) e il primo agosto si aspettava il rimpasto dei vertici delle forze armate.
“Non è stato un autogolpe e neppure solo un tentativo di colpo di stato dei gulenisti”, dice Yavuz Baydar, giornalista di primo piano, entrato più volte nel mirino della censura di Erdogan. Alcuni dei protagonisti del golpe erano già consapevoli che sarebbero stati fatti fuori dalle forze armate come Muharrem Kose, membro dello stato maggiore che era stato rimosso dall’incarico di consulente legale ma era ancora in ruolo nell’esercito. Tra i capi della ribelli ci sono Aikin Ozturk, 64 anni fino al 2015 capo dell’aviazione e tre alti ufficiali dell’aereonautica: tutti questi sarebbero stati probabilmente liquidati o pensionati nel prossimo consiglio convocato il primo agosto.
Questa partecipazione dell’aereonautica spiega perché sia stata coinvolta anche la base di Incirlik, dove partono gli aerei per i raid Nato sul Califfato. Da questa base, dove sono di stanza due squadroni americani con armi nucleari tattiche, è decollato un aereo cisterna che riforniva in volo gli F-16 dei ribelli.
Qui è il punto forse più oscuro della vicenda con alcuni interrogativi ancora senza risposte. Cosa sapevano gli Stati Uniti del golpe e come mai i due caccia F-16 che hanno affiancato l’aereo di Erdogan in fuga dal resort di Marmaris nella notte di venerdì non l’hanno abbattuto.
“Credo che il colpo di stato sia stato preparato a lungo ma male organizzato: è probabile che la decisione di entrare in azione si stata accelerata e che non avessero il sostegno che si aspettavano dagli alti gradi militari”, sostiene Baydar. Anzi questo è lo scenario dei partiti di opposizione come il Chp repubblicano che come è noto rappresenta da sempre l’ala kemalista dentro le forze armate.
Un’azione precipitosa che adesso però apre nuovi scenari dentro e fuori la Turchia. Nei rapporti con gli Stati Uniti, perché l’estradizione di Fetullah Gulen richiesta da Erdogan aumenta la tensione tra Washington e Ankara che pure ha riaperto la base di Incirlik. Erdogan si giocherà questa carta per negoziare con gli Usa ormai nel pieno della campagna elettorale per le presidenziali.
Ecco cosa c’è dietro a questo golpe, tra cause dirette e indirette: la rottura degli interessi strategici della Turchia, che puntava a diventare un Paese leader del mondo musulmano annettendosi economicamente la Siria e l’Iraq e quando nel 2011 il piano è naufragato, tra guerre e rivolte, Erdogan ci ha provato con altri mezzi, lasciando via libera alla guerriglia jihadista, all’inizio comunque approvata dagli americani i funzione anti-Assad e anti-Iran.
L’ambiguità americana ed europea consiste nell’avere appoggiato Ankara in questa avventura spericolata per poi fare marcia indietro quando il Califfato è dilagato portando il terrorismo di ispirazione jihadista dentro casa. Poi sono venute le intese con Teheran sul nucleare e l’intervento della Russia del settembre 2015 a cambiare i dati strategici. Non solo: sia gli Usa che la Russia hanno appoggiato i curdi siriani in chiave anti-Isis, vero incubo strategico per la Turchia Il leader turco sa di avere perso la guerra per abbattere Assad in Siria e teme la costituzione di uno stato curdo ai suoi confini. Per questo ha ricercato vecchi e nuovi alleati riappacificandosi con Israele e con Putin. Sono anche più stretti i rapporti con l’Arabia Saudita, che fa da mediatrice con l’Egitto di Al Sisi, nel tentativo di costituire un fronte sunnita anti-Assad e soprattutto anti-Iran.
Dall’anatomia di questo golpe emerge soltanto una certezza: un’altra Turchia sta per sorgere con un Erdogan più forte e una democrazia sempre più debole in un Medio Oriente in disgregazione.
lunedì 18 luglio 2016
Aldo Penna: I due golpe
Il golpe di Erdogan che usa come gradino della sua perfezione il vecchio golpe militare completerà la demolizione di tutti gli istituti democratici in Turchia. Il fascismo divenne regime imponendo il giuramento di fedeltà ai docenti universitari. Erdogan con i giudici turchi è andato oltre.
Il fallito golpe di una frazione dei militari turchi ha dato il via al dispiegarsi accelerato dell’altro golpe, il golpe di Erdogan, che da anni era in atto. Un golpe moderno che non ha bisogno dei carri armati e oggi si conclama con la defenestrazione di gran parte del corpo giudiziario di quel paese, il bavaglio alla stampa, la criminalizzazione del dissenso, le modifiche alla Costituzione per modellarla a immagine e somiglianza del leader, la proposta di introdurre la pena di morte.
L’essenza delle democrazie è la reversibilità del potere, consentire a chi si trova all’opposizione di divenire forza di governo e viceversa, una neutralità delle istituzioni che assicuri per tutti la libertà di critica e dissenso, l’indipendenza del sistema giudiziario che possa essere argine alle degenerazioni del potere stesso.
Quando questi cardini sono compromessi la democrazia diviene solo la forma di un’autocrazia.
In Turchia interi pezzi del sistema mediatico sono stati costretti a cambiare radicalmente giudizio sul governo sotto la minaccia del licenziamento e della chiusura. Le Tv di stato asservite e prone, le tv commerciali ricattate sulla revocabilità della licenza, i giornalisti perseguiti per oltraggio alle istituzioni, vilipendio della bandiera o minacciati di querele milionarie ed è in atto una gigantesca autocensura della società civile nel timore di vedere compromessi lavoro, carriera e forse la libertà.
Il golpe moderno che usa come gradino della sua perfezione il vecchio golpe militare completerà la demolizione di tutti gli istituti democratici. Quale prova ha il governo che quasi tremila giudici abbiano complottato contro Erdogan per rimuoverli con un atto d’imperio? Sono forse stati accanto ai militari che presidiavano le strade di Istanbul e Ankara? Hanno plaudito nella notte con dichiarazioni ufficiali? Hanno fatto atto di sottomissione all’antagonista in esilio dell’AKP? Eppure il primo atto di reazione accanto alla carcerazione dei tremila militari scesi in armi contro il governo è stata la loro cacciata. Il fascismo all’atto del suo divenire regime impose il giuramento di fedeltà ai docenti universitari. Erdogan con i giudici turchi è andato oltre, li ha allontanati, ha decapitato l’organismo che si frappone tra le leggi e il loro abuso. Così mentre il vecchio e usurato golpe naufraga, il nuovo dispiega i suoi effetti sotto il plauso di gran parte dell’opinione pubblica turca che in piazza pensa di difendere la sua fragile democrazia.
La leadership turca sta fuggendo velocemente dall’Europa, spostando l’asse dei suoi interessi in direzione mediorientale. In quel contesto l’autoritarismo di Erdogan verrà visto come normale e l’UE avrà ancora una volta mancato l’occasione di consolidare le pratiche democratiche ai suoi confini.
domenica 17 luglio 2016
sabato 16 luglio 2016
Franco Astengo: Proposta per l'assemblea di Sinistra italiana
PROPOSTA PER L’ASSEMBLEA DI SINISTRA ITALIANA DEL 16 LUGLIO 2016
FUORI DAL MINORITARISMO: VOLARE ALTO, AGIRE NEL CONCRETO di Franco Astengo
Nell’impossibilità di poter partecipare, per motivi di salute, all’assemblea del 16 Luglio mi permetto inviare un contributo scritto che mi auguro possa risultare utile.
I fenomeni determinanti nel mutamento della fase politica possono essere così riassunti:
a) La crisi (nel senso classico di “krisis”) dello “Stato – Nazione” (il filosofo tedesco Teubeuer scrive di “sistema aperto del nuovo mondo");
b) La qualità nuova della situazione economico-finanziaria a livello globale e i suoi specifici risvolti europei, dei quali vanno disvelati alcuni punti – chiave (debito pubblico/ debito privato, ecc.)
c) L’evidenziarsi di un vero e proprio mutamento di paradigma nell’“agire politico” con l’emergere di una sorta di ideologia della “politica tecnica”, che trova in un “caso Italiano” di segno ben diverso da quello che eravamo abituati storicamente a considerare, un rilevante punto di saldatura .
Si tratta di fenomeni interconnessi che hanno dato origine a quello che risulta essere, dal nostro punto di vista, l’elemento centrale da affrontare nella fase: Il recupero del nostro antico bagaglio, in un’idea di intreccio tra rinnovamento e recupero.
Sotto quest’aspetto:
1) E’ necessario partire da noi, dalla nostra autonomia, dalla capacità di far politica della sinistra, in rapporto con i settori sociali, più avanzati in Italia e in Europa;
2) Nella crisi che stiamo vivendo (della quale abbiamo enucleato i fenomeni sopra accennati ai punti a,b,c) sta arrivando a compimento, infatti, un gigantesco processo storico di integrazione di massa, nel segno della “rivoluzione passiva”;
3) Per leggere questa crisi con gli occhiali giusti è necessario assumere tre avvertimenti “profetici” che hanno avuto il torto di essere stati lanciati con anticipo rispetto alle dinamiche della storia e aver cozzato “contro” l’impatto fornito dal processo di “rivoluzione avvenuta” in URSS: Hilferding e la finanziarizzazione dell’economia; Luxemburg socialismo e barbarie (un fenomeno che vediamo svilupparsi impetuosamente nell’attualità, proprio sotto i nostri occhi); Gramsci “americanismo e fordismo” (certo il fordismo è finito, ma è rimasto in piedi il concetto devastante di asservimento al ciclo produttivo nella forma di una nuova qualità di intreccio tra struttura e sovrastruttura”);
4) IL cuore dello scontro è ancora qui, nell’Occidente sviluppato, il cui meccanismo di produzione è ancora regolato dai rapporti di classe e dall’intreccio tra questi con lo sviluppo più avanzato delle contraddizioni post-materialiste (platea degli sfruttati che si allarga fino a comprendere settori dei produttori; i livelli di consumo acquisiti – qui sta il nodo dell’intreccio appena citato – impediscono di pensare di poter far leva su di un avanzamento della pauperizzazione che porterà, invece, a un ulteriore sfrangiamento e all’emergere di nuove contraddizioni sociali sempre più complicate da regolare (verrebbe alla mente il maoista “contraddizioni in seno al popolo”);
5) Dobbiamo uscire dal pantano della crisi attraverso la politica. L’Italia è stata il luogo dove la presenza politica della sinistra, attorno ai temi fin qui sommariamente descritti, aveva raggiunto lo sviluppo più avanzato sia sul piano teorico, sia su quello politico, rispetto soprattutto al tentativo di inveramento statuale di fraintendimento del marxismo che avevano attraversato il ‘900 in una dimensione anche tragica;
6) In questo quadro è necessario riprendere i temi di fondo della nostra elaborazione “storica” senza nessuna concessione di facciata a una presunta “modernità”: serve una lettura adeguata dello stato di cose in atto, una corretta analisi della crisi e delle prospettive del capitalismo (per fare un riferimento storico, qualsivoglia ipotesi di carattere programmatico dovrebbe partire da un dibattito del livello di quello svolto, proprio sul tema delle tendenze del capitalismo, nel 1962 dall’Istituto Gramsci);
7) Su queste basi la costruzione di un nuovo soggetto politico, senza aver paura di chiamarlo partito, da edificarsi, come è già stato richiamato, attraverso una strategia di tipo “consiliare” senza concessioni al movimentismo e comprendendo anche le ragioni, non meramente propagandistiche, di rinnovamento del gruppo dirigente centrale e periferico e con un’idea precisa di soggetto di acculturazione di massa e di creazione di un nuovo quadro dirigente “diffuso”.
8) Fondamentale importanza avrà, nella costruzione di questa nuova soggettività, lo schierarsi dalla parte di una certa idea del “far politica” che coincida con quanto indicato dalla Costituzione Repubblicana: in questo senso il NO nel referendum confermativo collegato con la più ferma opposizione alla legge elettorale “Italikum”
NELLA SOSTANZA DELLA PROPOSTA POLITICA:
1) Emerge, in Italia e fuori d’Italia, l’esigenza di lavorare sia sul terreno teorico sia su quello immediatamente politico, per la ricostruzione di una soggettività di sinistra per l’alternativa collegata a precise istanze che derivano dalla nostra storia, all’identificazione nell’attualità di precisi filoni culturali di riferimento, alla progettazione di adeguate iniziative politiche sia al riguardo della struttura del soggetto sia sul piano progettuale – programmatico. La qualità stessa della gestione capitalistica della crisi impone un discorso di questo tipo;
2) Un lavoro da impostare seguendo filoni ben precisi di orientamento proprio sul piano teorico tenendo fermi due punti: il prevalere della tensione etico – politica sulla banalità dell’economicismo e la capacità, sempre e comunque, di un’espressione piena di “critica della modernità”. “Critica alla modernità” che deve essere espressa anche rispetto all’utilizzo di massa dell’innovazione tecnologica che sta verificandosi all’interno del filone del “consumismo individualistico” e dell’isolamento soggettivo;
3) Per quel che riguarda il “caso italiano” (dizione da rivalutare: in senso opposto però al significato che aveva assunto tra gli anni’60 – ’70) sono almeno tre i punti sui quali soffermarci prioritariamente: il primo riguarda l’omologazione culturale tra le forze maggioritarie del sistema politico, sulla base del quale si sta costruendo un vero e proprio “regime; il secondo riguarda la degenerazione nella qualità della democrazia italiana, sia rispetto al tema europeo (che va affrontato specificatamente come non faccio in quest’occasione) sia rispetto alla logica della riduzione del rapporto tra politica e società in nome dell’eccesso di domanda (presidenzialismo, centralità del governo, legge elettorale: tanto per toccare i punti nevralgici di questa strategia riassumibile, alla fine, nella logica espressa da JP Morgan al riguardo della Costituzione e nella sostanziale indifferenza o malcelata soddisfazione di tutti per la verticale espressione di disaffezione al voto. Il terzo riguarda il deserto politico esistente nell’area della sinistra alternativa. Ma movimentismo e rivendicazionismo che appaiono essere, alla fine, l’altra faccia della medaglia ( o forse la complementarietà degli elementi, davvero rozzi, che hanno portato al successo del movimento 5 stelle) debbono essere affrontati con rigore sulla base di un’analisi delle nuove dimensioni di classe e con la precisione dei riferimenti teorici e politici.
PER CONCLUDERE
Il solo punto di partenza possibile al fine di inquadrare questo obiettivo risiede nell’espressione piena di un’identità dalla quale è possibile far discendere una visione di egemonia politica.
La visione dell’egemonia che s’intende qui richiamare è quella della capacità di individuare le forme che devono regolare i comportamenti delle diverse soggettività politiche a partire dalla comprensione piena della loro funzione, delle loro caratteristiche morali, delle loro capacità progettuali.
Una visione opposta a quella della politica intesa come potenza, che individua la direzione che la classe operaia è in grado di esercitare sulla società.
Non sono parole vuote o antiche: rappresentano ancora oggi, nel senso dell’indicazione di un filone, di una precisa direttrice di marcia, l’intendimento al riguardo del quale è necessario muoverci, a partire dall’opposizione a questa società per arrivare a trasformare davvero “lo stato di cose presenti”.
venerdì 15 luglio 2016
Felice Besostri: Quale sinistra per quale Europa?
Quale sinistra per quale Europa? Contributo di Felice Besostri 14 luglio 2016
Care compagne e cari compagni putroppo non posso essere presente all'assemblea dell 16 luglio, manon posso essere estraneo. E' un momento di un processo di discussione cui ho partecipato a Milano( Fattore umano) e a Roma, l'ultima come Comopolitica. Il mio punto di vista è quello di un socialista di sinistra, una precisazione non necessaria perché trovo inconcepibile essre un socialista di destra, nel senso che per quando a disagio per derive estremiste e velleitario un socialista è parte della sinistra, parte insostituibile. Se in Italia stiamo male, non migliore è la sitauazione nel resto d'Europa
Il declino della socialdemocazia è innegabile e non risparmia nessuna delle sue varianti da quella scandinava( sorprendente la sconfitta in Norvegia malgrado la strage di Utoya e la saggia politica di mettere al riparo i proventi petroliferi degli anni migliori,) a quella austro tedesca, per non parlare del laburismo britannico con la perdita del bastione scozzese, dalla francese alla spagnola: i liberalsocialisti e i socialisti liberali non sono risparmiati. I fattori sono complessi compresi problemi demografici e culturali, direi antropologici l'homo socialdemocraticus lavoratore dipendente privato o pubblico, sindacalizzato o artigiano qualificato è in diminuzione numerica. Ma gli aspetti più rilevanti sono tre il rallentamento prima e la stasi poi della crescita economica, la globalizzazione e, infine, a medio termine, il fattore più importate, la rivoluzione tecnologica. Gli anni d'oro della socialdemocrazia si sono sviluppati grazie alla ricostruzione conseguente ai disastri provocati dalla Seconda Guerra Mondiale, in cui hanno giocato un ruolo determinante le politiche keynesiane rese possibili dal Piano Marshal e l'intervento pubblico nell'economia. All'ingrosso la crescita del reddito annuo pro-capite è stato in Europa Occidentale del 4% tra il 1950 e il 1973, dal 1974 al 2003 del 2% da allora al 2015 vicino allo 0%. dati che andrebbero disaggregati perché la parte di salari e stipendi è diminuita rispetto a rendite e profitti aumentando le disuguaglianze. In questi anni di crisi i ricchi son diventati ancora più ricchi e i pioveri ancora piùà poveri. Questi fatti hanno colpito l'elettorato tradizionale socialdemocratico, ma non a beneficio di formazioni alla loro sinistra.fino a poco tempo fa pensavo che ogni regola avesse bisogno per essere confermata da un'eccezione e che questa fosse costituita da SYRIZA. Questo è vero se si guarda al fatto che la forza egemone a sinistra era il PASOK ed ora è SYRIZA, un fatto unico perché in nessun altro paese alla perdita di egemonia socialista/socialdemocrazia, ne è sorta un'altra più a sinistra. Tuttavia, se prescindiamo dai partiti e ragioniamo per aggregazioni, anche la Grecia presenta caratteristiche comuni, che i livelli più alti di consenso con la predominanza socialista non si sono mai più raggiunti. Per sinistra intendo la somma di PASOK-KKE-SYRYZA nell'arco 2004-2015. Tra il 2004 e il 2015 mancano all'appello a sinistra più di 1.000.000 di voti: un milione di cittadini che hanno perso la speranza di cambiare le cose con il loro voto. Capisco le obiezioni, che non è possibile sommare i voti di partiti in competizione tra loro, ma il problema è appunto quello della impossibilità di sommare. Quel che manca è la consapevolezza , che se non si ha un progetto comune la sinistra è perdente, perché si è perduta nell'inseguire l'egemonia di partito piutosto che l'interesse della popolazione, che si pretenderebbe di rappresentare. Le alternative sono chiare e si è potuto sperimentarle proprio nel paese egemone in Europa, Paradossalmente la sconfitta della SPD nel 2005 aveva creato un'inedita maggioranza rosso-rosso-verde con 327 seggi(222 SPD-51 Verdi-54 Linke) contro 287(Union-FDP). Ne risultò, invece, una Grosse Koalition che nel 2009 vide la più grossa sconfitta socialdemocratica del dopo guerra. Ebbene i voti persi andarono soltanto per un terzo a Verdi e Linke, 2/3 aumentarono l'astensione. L'opposizione ha beneficiato la SPD, che passa da 146 a 193 seggi nel 2013, in parte recuperati da Verdi (-5) e Linke (-12) creando ancora una volta sulla carta una maggioranza rosso verde che porebbe contare su 320 seggi contro i 311 della Union, perché i liberali era usciti dal Bundestag, cannibalizzati dalla Merkel, che nella legislatura precedente aveva cannibalizzato i socialdemocratici. Per amore di verità le coalizioni a sinistra non sono sempre state premiate dagl elettori, come la sconfitta di Berlino nel 2011 testimonia. Ebbene Berlino che vota il prossimo 18 settembre potrebbe essere il banco di prova di nuove alleanze rosso-rosso-verdi, che teoricamente c'era anche dopo le elezioni del 2011, ma impercorribili anche perché contrassegnate dal tentativo dei Verdi di sorpassare la SPD per grosse differenze programmaiche. La Grande Coalizione tedesca è in crisi, sia per ragioni di politica estera( rapporti con la Russia) che interna ( crisi della banca regionale controllata da 2 Land a guida socialdemocratica.
Ci sono da esaminare le maggioranze plurali rosso verdi in Danimarca e Norvegia e l'esperimento islandese, che non sono sopravvisuti, il Portogallo ancora in corso e la Spagna del dicembre 2015 del “Volemos ma no Podemos”(Queremos pero no Podemos). Momenti di emozione sono state le elezioni presidenziali francesi e legislative del 2012, dopo 4 anni resta niente, se non la compassione per le vittime del terrorismo, e, forse, lo scampato pericolo alle regionali del 2015. Finita la contrapposizione tra riformisti e rivoluzionari la scelta del metodo democratico per conquistare e gestire il potere non è più una linea di divisione ideologica, ma senza trarne le conseguenze, che per governare occorre conquistre la maggioranza dei seggi dove c'è un sistema elettorale maggioritario ovvero la maggioranza dei voti e dei seggi nei sistemi proporzionali puri o corretti. Nella UE , tranne Malta,nessun partito di sinistra è in grado di vincere le elezioni da solo, al massimo può conquistare un Presidente dove è prevista l'elezione diretta. Che fare? Se non cambia la politica ci sono scelte inevitabili, come puntare ad una presenza di testimonianza nei parlamenti ovvero essere il partner minore di coalizioni, che, quando sono grandi, significa che sono dominate da un partito del PPE. La sostituzione del partito socialista come potenziale partito di sinistra di governo è fallita, tranne che in Grecia, ma questo paese non traccia una strada, perché è comunque fallito il disegno di poter imporre un'altra politica economica, finché stiamo in questa Europa. Allora c'è la tentzione della scorciatoia nazionale, ma su questa strada il populismo di destra è più avanti e credibile della sinistra. Anche in questo il laboratorio Germania darà il suo responso nelle elezioni federali del 2017, ci sarà ancora una alternativa sulla carta rosso-rosso-verde o l'entrata di Alternativa per la Germania (AfD) e la sua percentuale sopra il 5% sarà una sconfitta della Grande Coalizione come il successo alle presidenziali del candidato liberale ha messo in crisi quella austriaca?
Neppure la Gran Bretagna è messa meglio, pur essendo l'unico paese europeo dove l'egemonia a sinistra del Labour Party non sia mai stata messa in discussione,né da sinistra né dalla scissione socialdemocratica. In Gran Bretagna le diverse sfumature, che non sempre sono di rosso, della sinistra si combattono dentro il Labour Party per conquistarne la leadership, ma la sua aspirazione a governare in solitario è messa in crisi dall fine del sistema bipartitico, non grazie ai liberal-democratici, ma per colpa della UKIP in Inghilerra e dello SNP, il partito indipendentista di sinistra, in Scozia: senza il bastione scozzese il LP non può avere la maggioranza nel parlamento di Westminster. C'è una sola strada per ricomporre la sinistra e far vincere le elezioni: un programma comune sostenuto da un fronte ampio e plurale di sinistra democratica, in cui la leadership non è preassegnata a nessuno, ma sarà conquistata dalla forza più determinata e coerente nella difesa della democrazia e per una poltica di coesione sociale e quindi di lotta alle diseguaglianze crescenti e alla disoccupazione e precarizzazione.del lavoro. Un sfida in cui il terreno comune è costituito dall'ntegrazione del livello nazionale ed europeo, senza semplificazioni sovraniste. Tuttavia se a sinistra prevale la tentazione di regolare vecchi conti, cioè di dividersi nella ricerca dei traditori e degli estremisti, e di stabilire nuove egemonie, chi sorpassa a sinistra, in un contesto di partiti non ideologici, la sconfitta è assicurata e in Italia non ci sono le condizioni neppure di dare inizio al processo. La battaglia referendaria sarà il banco di prova della capacità di una grande mobilitazione democratica, plurale ed ampia per impedire una deforma costituzionale. Questa è la priorità che non può essere barattata con modifiche cosmetiche all'Italikum, come il premio di maggiornza dato ad una coalizione, invece che ad una lista. Dovrà essere anche l'occasione per verificare che un'alternativa di governo possa essere costruita con il coinvolgimento del M5S.
Felice Besostri
giovedì 14 luglio 2016
Franco Astengo: La Repubblica riconosce
LA REPUBBLICA RICONOSCE di Franco Astengo
Principi fondamentali della Costituzione Italiana:
Articolo 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo come singolo ….
Articolo 3 secondo comma: E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando, di fatto, la libertà e l’uguaglianza dei cittadini ….
Articolo 4: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto di lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto ….
Articolo 5: La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali …
Articolo 6: La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche
Articolo 9: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica …
Forse la cultura politica, istituzionale, giuridica corrente in questo Paese ha dimenticato il significato profondo di questi articoli della Costituzione riguardanti – appunto – i principi fondamentali della nostra convivenza civile, sociale, politica.
La Repubblica, infatti, riconosce, garantisce, rimuove ostacoli, tutela, promuove: tutto questo è compito della Repubblica, non del Governo dal quale nulla promana ma i cui compiti sono di semplice esecuzione.
La Repubblica riconosce, garantisce, rimuove ostacoli, tutela, promuove come suo compito complessivo che esegue attraverso l’operato legislativo che è compito della rappresentanza politica dei cittadini: attraverso, cioè, l’operato del Parlamento.
La Repubblica riconosce e non il Governo elargisce come si vorrebbe far credere con queste deformazioni del dettato costituzionale: La Repubblica riconosce è il filo sottile che lega la prima e la seconda parte della nostra Carta Fondamentale. Non si racconti la favola che si tocca soltanto la seconda, non comprendere il legame che esiste tra le due parti (o peggio colpevolmente far finta che non esista) è pura ignoranza.
Il nesso tra prima e seconda parte della Costituzione è costituto dalla centralità del Parlamento che molti, oggi, cercano colpevolmente di far fraintendere come una presunta centralità autoreferenziale dei partiti.
Centralità del Parlamento che, per decenni, fra grandi contraddizioni, ingiustizie, difficoltà che nessuno può negare è risultata comunque determinante nel processo di ricostruzione e di modernizzazione di un Paese uscito in macerie dalla guerra provocata dal fascismo: questo elemento non deve essere dimenticato mai.
Non è il Governo l’asse portante della Repubblica,tanto meno il Presidente del Consiglio dei Ministri (era la Costituzione della Repubblica di Salò che parlava di Capo del Governo) ma il Parlamento (e l’insieme dei consessi elettivi, anche a livello locale. Consessi elettivi a livello locale oggi sviliti nella loro funzione dal meccanismo dell’elezione diretta di Sindaci e Presidenti).
Nei principi fondamentali della Costituzione Italiana, nella precisione assoluta dei primi 12 articoli che ne trattano (nella Commissione dei 75 ne furono relatori Giorgio La Pira e Lelio Basso) risiede il nocciolo vero della sovranità popolare che oggi, attraverso le deformazioni costituzionali che saranno sottoposte al referendum confermativo, viene pesantemente messa in discussione attraverso l’espressione di due concetti che proprio queste deformazioni in combinato disposto con la legge elettorale Italikum tendono ad affermare: quello della governabilità come sola espressione possibile dell’agire politico e quella di una “vocazione maggioritaria” di stampo totalitario.
Individualismo competitivo, personalizzazione, rifiuto del confronto politico, arroganza rappresentano le componenti di questo stravolgimento che è necessario rifiutare con grande determinazione.
In quella che è la vera e propria “poesia politica” contenuta nei primi 12 articoli della Costituzione sta l’essenza della democrazia italiana, dell’antifascismo che rappresenta l’elemento che deve tenere assieme tutte le sue istanze istituzionali e sociali, della prospettiva di uguaglianza che la Repubblica avrebbe dovuto garantire.
Siamo ancora lontani da ottenere quel risultato : per questo motivo la Costituzione non va semplicemente difesa ma riaffermata con grande forza esaltandone soprattutto l’espressione di equilibrio tra le diverse parti che la compongono.
In realtà oggi si cerca di superare il senso di quei principi fondamentali oltrepassando, attraverso la sostituzione della centralità del parlamento con quella del governo, il dato riguardante la funzione di indirizzo politico che deve essere esercitata dal governo in collaborazione con il parlamento: in fase di attuazione dell’indirizzo politico deve essere tenuto conto dell’orientamento delle forze di maggioranza e della capacità di controllo delle minoranze.
Questo è il senso del ruolo del Parlamento nelle sue distinzioni politiche che si intende superare riunificando, in pratica, funzione legislativa ed esecutiva in un governo non più emanazione di una maggioranza politica, ma di una minoranza “popolare” attraverso la quale verrebbe assegnato un premio di maggioranza assolutamente illegittimo.
Un principio di minoranza assoluta illegittimo perché siamo ancora di fronte al concetto inalienabile di “Repubblica che riconosce”.
Iscriviti a:
Post (Atom)