venerdì 6 gennaio 2012

Peppe Giudice: Riscattare la migliore tradizione del socialismo italiano

Perché oggi è importante per l’intera sinistra riscattare la

Migliore tradizione del socialismo italiano.







Sul sito di SeL c’è stato, finora, un interessante dibattito sulla ipotesi di SeL dentro al PSE (che traspare da un articolo di Migliore) . Devo sottolineare che la maggioranza degli interventi mi è parsa chiaramente favorevole alla ipotesi, sia pure con articolazioni di giudizio. I contrari non fanno che ripetere i soliti stereotipi contro la socialdemocrazia tipica di una consunta cultura funeral-comunista. Ma costoro, probabilmente non sono iscritti a SeL. Spesso il sito di SeL diviene il campo di battaglia in cui si inseriscono gli elementi più ottusi di Rifondazione per cercare di tirare dalla propria parte gli eventuali delusi da Vendola. E certo: il tema del PSE è pregnante in tal senso.

E’ comunque positivo che si sviluppi un dibattito serio ed intenso, anche contrastato. Solo in tal modo la eventuale scelta del PSE si sottrae ad una specie di obbligo burocratico e diventa scelta politica condivisa.

Nel dibattito non sono mancati accenni al dover andare oltre gli attuali steccati della sinistra europea e che SeL potrebbe favorire questo processo dando magari indicazioni al PSe ed alla GUE.

Mi permetto di dissentire da tali affermazioni.

Non perché non pensi che il PSE si debba magari allargare (a sinistra e non al centro) ad esperienze di sinistra socialista e libertaria che oggi non sono nel PSE. Ma perché sinceramente credo che la sinistra italiana (soprattutto quella di oggi) non sia proprio in grado di dare lezioni a nessuno.

Non dimentichiamo che nel 2008 la sinistra italiana è stata azzerata con la sua dissoluzione nel centro clerical-confindustriale con il PD di Veltroni e con la marginalizzazione minoritaria nell’Arcobaleno.

In nessuna altra parte di Europa è successo ciò. E non a caso.

Il fallimento della sinistra italiana è in larga parte frutto del fallimento politico del post-comunismo della II Repubblica. Nel senso, che pur avendone avuto occasione ed opportunità, la classe politica ed un pezzo stesso della militanza del PDS-DS da un lato e di Rifondazione dall’altro non sono stati in grado di affrontare, dirimere e sciogliere quei nodi politici, culturali ed ideologici che era loro dovere compiere per essere una sinistra credibile.

Dopo il 93 prevalse il seguente “racconto” (uso questa efficace espressione di Vendola) sulla sinistra. Racconto scritto a più mani da Occhetto, Veltroni e D’Alema.

Ecco il racconto: “nella sinistra italiana c’era una parte marcia che era rappresentata dal PSI. La storia (magari tramite magistratura) ha liberato l’Italia da questa sinistra degenerata ed ha affidata agli eredi della “vera” sinistra mai esistita in Italia (il PCI naturalmente) il compito di costruire una nuova Italia liberata dal malcostume, dalla P2, dalla mafia, dalla corruzione…. Certo il PCI nominalmente era comunista. Ma diciamo che era comunista per finta , non veramente. Allora c’era la contrapposizione dei blocchi e qualcuno doveva pur far finta di prendere le parti della Unione Sovietica. Insomma era un gioco delle parti necessario a mantenere in piedi il gioco della democrazia. Già prima dell’89 il PCI aveva preso le distanze dal “comunismo cattivo” (anzi loro volevano redimere l’URSS ma poiché erano troppo cattivi non vi è riuscito) e dopo l’89 gli ex comunisti italiani prendono in mano la bandiera di una sinistra tutta nuova che va oltre sia il comunismo che la socialdemocrazia – entrambi ruderi del 900. I socialisti italiani sono stati puniti perché erano o erano massimalisti-anarcoidi o erano senza spina dorsale, per cui alla fine è arrivato il cattivissimo Craxi che ha preso in mano il partito e lo ha riempito di delinquenti, magari anche di gente che stava nella banda della Magliana. E comunque il Psi ha fatto la fine che si meritava (si salvava solo Pertini – perché era stato al funerale di Berlinguer). Così alla fine gli eredi del PCI e gli eredi della DC insieme si adopereranno per salvare l’Italia dalle grinfie di Berlusconi amico di Craxi”

La mia ovviamente è una ricostruzione molto caricaturale con elementi di evidente sarcasmo .

Però il succo, il nucleo di questo “racconto” è entrato nella testa e nella identità politica di diversi militanti e dirigenti postcomunisti di allora. Certo non di tutti. Vi sono molti compagni che non solo non si riconoscono affatto in questa rappresentazione ma la contestano.

E però degli elementi fondanti di questo racconto sono passati e comunque hanno fortemente condizionato il modo di essere.

Riprenderemo dopo il ragionamento su questo punto.

Oggi molti (ed io dico giustamente) contestano l’operato di Napolitano che di fatto ha costruito il governo Monti ed ha difeso nel suo messaggio di fine anno una concezione tipicamente liberal-liberista della economia (richiamando addirittura l’eredità di Einaudi). Io personalmente non credo che le elezioni sarebbero state una soluzione. Un centrosinistra con un PD spaccato su temi rilevanti e Di Pietro non sarebbe stato in grado di governare. E poi non si poteva andare a votare con l’attuale legge elettorale.

Ma è evidente che questo governo non lo si può considerare come nostro in quanto è responsabile di una impostazione di politica economica e sociale chiaramente conservatrice ed antipopolare.

Molti attribuiscono (ad iniziare da Sansonetti) l’atteggiamento di Napolitano al fatto che fosse un migliorista seguace di Amendola e quindi di una visione per cui l’interesse nazionale (o ciò che si maschera quale interesse nazionale) viene prima della giustizia sociale. E’ in parte vero. Ma D’Alema, Veltroni, Fassino nonché tutti coloro che hanno diretto i DS (e sono ex berlingueriani) negli anni 90 non mi paiono certo più a sinistra di Napolitano, anzi.

Ed allora il problema non riguarda solo il migliorismo ma probabilmente un pezzo più grande della storia e della tradizione del PCI.

Io ho iniziato a fare politica nel 1973 a 17 anni. Nel 1974 mi iscrissi alla Fgsi e nel 1975 al PSI (era De Martino il segretario).

Proprio perché quegli anni rappresentarono la mia iniziazione alla politica di essi ho un ricordo chiaro.

Allora la Fgsi era più a sinistra della FGCI. Nel Psi Lombardi e molti demartiniani come Bertoldi o Querci erano molto più a sinistra degli amendoliani del PCI. Lombardi era certo più a sinistra del Berlinguer anni 70.

A chi gli chiedeva: “ma vuoi scavalcare a sinistra il PCI?”, Riccardo Lombardi rispondeva tranquillamente: “io dal 1948 sono sempre rimasto più o meno sulle stesse posizioni; sono gli altri che mi girano intorno”. In effetti, negli anni della Unità Nazionale, molti vecchi dirigenti socialisti si meravigliavano per il moderatismo di grossa parte del gruppo dirigente del PCI. “Negli anni 60 ci accusavano di essere subalterni alla DC, oggi loro lo sono molto più di noi” questo dicevano.

Ora se è vero che la “politica dei sacrifici” degli anni 70, impostata da La Malfa e condivisa da Amendola furono i miglioristi ad elaborarla per il PCI , fu la grande maggioranza del partito a farla propria ed a convincere i propri militanti ad accettarla. Con l’eccezione di Ingrao, il quale dopo il 1976 fu impegnato dalla presidenza della camera. Ma Ingrao dopo l’espulsione dei suoi allievi del Manifesto rimase alquanto isolato nel gruppo dirigente.

Ricordo il forte antiberlinguerismo di allora da parte dei gruppi della sinistra extra (che però nel 1976 entrò in parlamento con la lista DP). C’era certo esagerazione da parte di costoro, ma non c’è dubbio che in quegli anni, il PCI si giocò gran parte dei voti conquistati nel 1976. Nel 1979 perse il 4,4% rispetto a tre anni prima. In effetti il forte aumento del PCI del 1976 vi fu perché si catalizzò il voto di protesta contro la DC ed il sistema politico bloccato. Insomma quel voto chiedeva lo sblocco del sistema e l’alternativa. Quel voto non andò al Psi perché esso fino al 1974 era stato al governo con la DC. Ma invece dell’alternativa vi fu il compromesso storico. E del resto il PCI non poteva guidare una alternativa alla DC – Berlinguer lo sapeva bene. Yalta lo impediva. Al massimo, in un quadro di distensione internazionale poteva partecipare ad un governo di larga coalizione. Solo una “Bad Godesberg” avrebbe potuto cambiare le cose. Ma essa non fu fatta neanche negli anni 80.

Ora chiaramente nella seconda metà degli anni 70 c’erano le caratteristiche di una situazione emergenziale, ma essa fino ad un certo punto giustificava il moderatismo del PCI (che nei programmi lo poneva più a destra di molti partiti socialdemocratici europei).

Del resto il primo centrosinistra che nacque nel 1963 espresse molta più forza riformatrice dirompente (rispetto agli equilibri precedenti).

Se noi pensiamo che dal 1963 agli inizi degli anni 70 furono fatte la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la scuola media unica, lo Statuto dei Lavoratori, le pensioni a ripartizione, l’eliminazione delle gabbie salariali, furono posti gli elementi per un governo dell’economia, fu data attuazione all’istituzione delle regioni, fu varata la legge sul divorzio.

Certo queste riforme i socialisti non potevano farle da soli (non avevano la forza); vi fu allora la convergenza virtuosa tra socialisti e sinistra DC di allora (ben altra cosa rispetto a Rosi Bindi): Fanfani prima, e poi Donat Cattin e Fiorentino Sullo.

I comunisti dicono che senza la grande forza del PCI all’opposizione non si sarebbe fatto nulla. Proprio nulla non credo. Più che il Pci fu il grande processo di unità sindacale che proprio il centrosinistra determinò a rendere possibili le grandi battaglie del 1969. Del PCI ricordo che non favorì molto quel processo riformatore (si astenne sul voto allo Statuto dei Lavoratori- voleva votare contro, ma vi fu l’energico intervento di Luciano Lama che gli impedì di fare una sciocchezza).

Questo atteggiamento talvolta schizofrenico del PCI lo si può spiegare solo cercando di comprendere la sua natura complessa. Giustamente Cesaratto ha ben messo in evidenza come il PCI fosse lontano dall’essere socialdemocratico (e Cesaratto lo ritiene un limite).

Certo non era neanche un partito comunista classico. Ma qualcosa di molto particolare che solo nella realtà italiana poteva nascere. Già in una nota precedente ne ho parlato.

Il PCI dalla svolta di Salerno in poi ha sempre cercato una sua legittimazione. Era un partito convinto (gli accordi di Yalta parlano chiaro) di essere destinato a stare per lungo tempo all’opposizione, ma aveva bisogno di una forte legittimazione ad essere pienamente riconosciuto come partito nazionale. In un paese che era collocato in un blocco avverso a quello cui il PCI faceva riferimento.

L’Italia ha una sua peculiarità. Un paese che ha perso la guerra e che però è collocato al centro del Mediterraneo, al limite tra ovest ed Est e ponte naturale tra Europa, Africa e Medio Oriente. Ai tempi di Giulio Cesare questo fu un punto di forza per la potenza di Roma.

In un paese che ha avuto il fascismo ed ha perso la guerra diventa un elemento di debolezza estremo, perché la politica italiana è sottoposta a fortissimi condizionamenti esterni. Più della Germania.

Ma in Germania presto la dialettica politica si è stagliata nel confronto tra un partito cristiano-democratico ed uno socialdemocratico. E tale è ancora oggi. In Italia dopo la scissione di Saragat del 1947 il Psi perse il suo leggero primato sulla sinistra ed il PCI divenne il primo partito d’opposizione (fino al 1989).

Togliatti costruì un grande partito di massa, che negli anni 50 ha svolto un compito essenziale nel far crescere e consolidare la democrazia repubblicana. Ma questo partito così fatto divenne un limite forte , a partire dagli anni 60, quando si trattò di far evolvere la democrazia italiana verso livelli più vicini alla media europea.

Togliatti aveva costruito questo partito probabilmente anche su una ipotesi di evoluzione della politica internazionale. Lo sviluppo della distensione e della coesistenza tra i blocchi avrebbero potuto produrre una evoluzione democratica del socialismo reale e favorire le vie nazionali al socialismo. Ma proprio per questo il PCI era ostile a qualsiasi cosa che forzasse lo status quo. Togliatti, secondo alcuni storici, fu uno dei più decisi sostenitori (insieme a Mao Tse tung e Suslov) della repressione sovietica in Ungheria di fronte ad un Krusciov scettico. Non solo il PCI sostenne l’invasione ma Togliatti ne fu uno dei più decisi ispiratori.

In realtà la storia si è mossa su binari ben diversi immaginati da Togliatti (ed in parte dallo stesso Berlinguer): di qui la forte crisi di identità che il PCI ebbe alla fine degli anni 70 e che non si è mai risolta positivamente. Il bipolarismo USA –URSS proprio per il gioco delle parti che lo sottointendeva non poteva riconoscere alcuna evoluzione interna. Gli USA e l’URSS hanno entrambi costruito la propria logica imperiale sulla presenza del nemico esterno. Ma, dicevamo, era un gioco delle parti. Nessuna delle due metteva più di tanto il naso negli affari dell’altro. Negli anni 60 e 70 era più forte e palpabile la contrapposizione URSS-CINA maoista che non quella USA-URSS. E’ solo alla fine degli anni 70 che essa esplode. Guarda caso dopo che gli Usa scelgono l’altra potenza comunista, la Cina, come interlocutore privilegiato. La Russia reagisce con gli SS 20 e l’invasione dell’Afhganistan.

Ma torniamo al PCI. Dicevamo che l’insistere sul profilo di partito nazionale quale fattore di legittimazione democratica si esaurisce con gli anni 60.

Ma il partito persiste nella doppiezza perché superare la doppiezza significa mettere in crisi la propria identità.

Questa doppiezza spiega i comportamenti schizofrenici del PCI quando è nell’area di governo e quando è invece all’opposizione. Si astiene (e stava per votare contro) sullo Statuto del Lavoratori quando è all’opposizione; accetta la politica dei sacrifici ed il rigorismo economico quant’è nell’area di governo (come il 76-79); parte a testa bassa contro Craxi e la riforma della Scala Mobile; ma poi nel 1993 appoggia il governo Ciampi che elimina del tutto la scala mobile. E potemmo continuare. Quello che oggi fa Napolitano ha dunque dei chiari precedenti.

Riassumendo: il PCI ha una funzione importante nel consolidamento della democrazia, ma la sua presenza costringe molti voti progressisti cattolici al congelamento nella DC. Costringe i socialisti o nella politica subalterna del Fronte Popolare o ad un rapporto con la DC da posizioni di forza minoritarie.

Non è l’espressione di orgoglio socialista ma una convinzione radicata, l’idea , che nonostante i suoi limiti, il PSI abbia svolto una funzione di modernizzazione repubblicana molto più forte di quella che è stata la sua rappresentanza elettorale. Lo è stato fino a che il velleitarismo di Craxi non abbia distrutto quella funzione originale e positiva di cui parlo.

Nel quadro del bipartitismo imperfetto il PSI è stato elemento catalizzatore sia delle correnti progressiste della DC che di quelle innovatrici nel PCI. Senza il Psi il bipartitismo imperfetto si sarebbe trasformato in una democrazia anemica ed ingessata.

Lo storico del socialismo , Maurizio Degli Innocenti, dice che il PSI rispetto al socialismo europeo ha avuto un handicap: essere stato assente (causa fascismo) negli anni 20 e trenta in cui andava maturando e modernizzandosi il pensiero socialista europeo. Infatti il PSI tale modernizzazione la vive in ritardo, dopo la fine dell’esperienza frontista grazie a due grandi intellettuali e dirigenti come Riccardo Lombardi ed Antonio Giolitti. Che sottopongono a revisione critica la teoria marxista dello stato, che cercano di analizzare le grandi trasformazioni del capitalismo nel dopoguerra (il “neocapitalismo”), che propongono la strategia delle riforme di struttura come alternativa ad una concezione anchilosata e dogmatica di rivoluzione. Riforme come strumento di profonda trasformazione strutturale (in senso democratico e socialista) , dall’interno, della società capitalistica. Questa visione si arricchirà delle riflessioni di Fernando Santi e Brodolini sulla funzione del sindacato nelle riforme di struttura. Non è un caso che Santi e Brodolini siano stati entrambi vicesegretari della CGIL ai tempi di Di Vittorio. Io credo che la corrente comunista della CGIL sia stata la più vicina (con Di Vittorio, Lama e Trentin) alla cultura del riformismo socialista. Non è un caso che Di Vittorio fu l’unico tra i massimi dirigenti del PCI a condannare l’invasione russa dell’Ungheria.

Ecco questo patrimonio che lega l’autonomismo socialista ed il riformismo vero del PCI (quello dei sindacalisti) sia quello da riscattare e rivalutare pienamente nel quadro di una ricostruzione socialista della sinistra italiana. Purtroppo il postcomunismo, per presunzione o sensi di colpa non ha mai voluto affrontare i nodi che gli hanno impedito di superare i propri limiti, in una epoca dove questo ragionamento era possibile farlo.

Io mi auguro che questi giovani del PD che questi limiti sembrano averli compresi. Gli consiglierei però di definirsi esplicitamente socialisti (come si definiva Bruno Trentin) e non vagamente progressisti.

Del Psi craxiano o peggio postcraxiano non c’è nulla da recuperare, con buona pace di Covatta. Se su Craxi come figura va certamente espresso un giudizio articolato (che salvi, ad esempio la sua politica estera) e va condannato esplicitamente l’averne fatto diventare un capo espiatorio di tutti i mali, delle ricadute della sua politica sul Psi non c’è nulla da salvare e meno che mai c’è da salvare qualcosa del postcraxismo.

E comunque il nostro obbiettivo non è affatto la rifondazione del PSI. E’ quella di portare con orgoglio giusto le idee del socialismo autonomista vero nel processo di rinascita di una forza della sinistra italiana (nel PSE).



Peppe Giudice

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