La spirale dell’insicurezza dieci anni dopo
Stefano Silvestri
05/09/2011
In dieci anni nessun altro significativo attacco terroristico ha colpito gli Stati Uniti. Si sono verificati invece alcuni importanti attacchi in Europa, e ancora di più nei paesi islamici. Non sembra quindi che i terroristi siano riusciti a sfruttare il “successo” conseguito con gli attacchi al World Trade Center e al Pentagono.
Al contrario, la letalità dei loro attacchi è diminuita, molti attentati sono stati sventati o sono falliti, i principali gruppi terroristici hanno subito pesanti perdite e lo stesso Osama Bin Laden è stato ucciso.
Dovremmo quindi essere soddisfatti, e sottolineare le nostre vittorie. Invece il livello della paura rimane alto e così anche la sfiducia nella capacità dei governi di garantire la nostra sicurezza.
Retorica del terrore
Le ragioni di questa strana contraddizione sono molteplici. Alcune sono il portato dei ripetuti errori commessi in questi anni. Le false informazioni usate per giustificare l’invasione dell’Iraq hanno alimentato la paura che i terroristi potessero entrare in possesso di armi di distruzione di massa (in particolare di armi nucleari).
Benché non esista alcuna prova né serio indizio che gruppi terroristici abbiano o possano assumere il controllo di ordigni nucleari, ripetutamente l’amministrazione americana, inclusi i Presidenti Bush e Obama, ha sostenuto che questa è una minaccia realistica e che ci sarebbero probabilità (superiori al 50%!!!) di un attentato terroristico con armi di distruzione di massa entro i prossimi anni.
Il fatto che in tale categoria vengono scorrettamente assimilate armi molto diverse tra loro (oltre a quelle nucleari, anche quelle chimiche, biologiche e radiologiche), accresce la confusione e il terrore. Si afferma comunque che il terrorismo è una minaccia esistenziale per i nostri paesi, come se questa fosse una realtà inconfutabile. Al contrario, sino ad ora, nessun attacco terroristico, neanche quelli dell’11 settembre 2001, ha avuto questa importanza.
Questa retorica del terrore ha gravi conseguenze. Grazie a tale atteggiamento, tutto ciò che non è possibile escludere con assoluta certezza (anche l’inverosimile), viene assunto come molto probabile o persino inevitabile. Il timore di essere colti di sorpresa è talmente esasperato che, invece di pensare a gestire o ridurre il rischio, si punta ad eliminarlo: un obiettivo “perfetto” che, proprio per questa ragione, è chiaramente impossibile.
Avviene quindi l’assurdo che anche attentati falliti o complotti scoperti e sventati vengono recepiti come fallimenti dell’anti-terrorismo e giustificano reazioni scriteriate.
Nel 2009, il terrorista Ummar Faruk Abdulmutallab ha cercato di far esplodere l’aereo di linea in cui si era imbarcato, attivando l’esplosivo nascosto nella sua biancheria intima. Non c’è riuscito ed è stato neutralizzato dai suoi compagni di viaggio e dall’equipaggio. Invece di constatare i vantaggi delle misure preventive, che hanno obbligato l’attentatore a fare ricorso a tecnologie complesse e difettose, si è alimentato il panico e si è rapidamente giunti alla decisione di dotare gli aeroporti di nuovi, costosissimi e probabilmente pressoché inutili “body scanners”. L’attentato è miseramente fallito, ma la paura è cresciuta egualmente.
Si dice che, anche se le probabilità sono bassissime, un attentato nucleare avrebbe conseguenze talmente distruttive da giustificare comunque ogni forma di prevenzione. La cosa curiosa è che nel frattempo molte migliaia di persone vengono uccise da eventi non collegati al terrorismo, senza che questo sembri preoccupare nessuno.
Percezione e minaccia reale
L’idea che gli stati debbano riuscire a prevenire ogni possibile attentato terroristico è pericolosa, alimenta l’insicurezza e accresce esponenzialmente i costi economici e sociali dell’antiterrorismo. Di più, rafforza la tendenza, da cui solo ora gli Stati Uniti sembrano faticosamente cominciare ad allontanarsi, ad affrontare il problema del terrorismo con una logica militare e di difesa (prevenire e distruggere la minaccia) invece che di polizia e di sicurezza (arrestare e punire i criminali, ridurre l’impatto degli atti criminosi). Ciò contribuisce a distorcere la percezione della minaccia e rende più difficile una strategia di contrasto credibile ed efficace.
Vi è un chiaro squilibrio tra gli attentati dell’undici settembre e l’impegno in due guerre complicate, lunghissime e estremamente costose come l’Afghanistan e l’Iraq. Da un punto di vista strategico, economico e politico si è trattato di risposte sproporzionate che hanno aggravato il problema invece di risolverlo. È chiaro sin da ora che sarebbe controproducente reagire allo stesso modo ad altri eventuali simili attentati. Ma è anche chiaro che ogni altra risposta più razionale e proporzionata rischierà di essere giudicata troppo debole e rinunciataria.
A dieci anni dall’undici settembre stiamo appena cominciando a tirare un bilancio delle conseguenze e degli errori commessi.
Fortunatamente l’opinione pubblica non ha digerito i peggiori eccessi giustificati dalla retorica bellicista (da Guantanamo ad Abu Grahib, passando per le extraordinary renditions e la tortura) così come comincia a mettere in forse l’opportunità di una serie inutilmente vessatoria e troppo intrusiva di misure di sicurezza preventiva.
Tuttavia nessun governo ha ancora spiegato chiaramente alla sua opinione pubblica quale sia il livello reale della minaccia terroristica: che non è “esistenziale” né, con ogni probabilità, potrà mai esserlo. E, quindi, può essere gestita e ridotta allo stesso modo con cui si gestiscono e riducono tante altre minacce presenti nelle nostre società.
Stefano Silvestri è presidente dello Iai e direttore di “Affarinternazionali”.
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