Cara Bonino, è populismo liberale.
Sergio Cesaratto, Lanfranco Turci
In un articolo su Europa (21-9-11) Emma Bonino difende l’idea di un contratto unico del lavoro che superi ciò che lei definisce la “pericolosa frattura sociale fra garantiti e non garantiti” anche causa dell’indebolimento dell’accumulazione di “capitale umano qualificato, con effetti negativi sulla produttività del lavoro”. Gli argomenti ci appaiono tuttavia poco convincenti e, talvolta, anche poco coerenti.
Se lo sviluppo di imprese a “basso capitale umano” è stato certamente favorito dalle forme di lavoro flessibile, non si capisce perché l’ulteriore estensione della “flessibilità in uscita” (licenziamenti più facili) possa favorire lo sviluppo di imprese più innovative. L’unico argomento presentato è quello che tale flessibilità consentirebbe alle imprese di espellere i lavoratori meno efficienti ,reclutandone di più preparati e solerti (la “scarsa flessibilità in uscita… riduce la possibilità di una riallocazione più efficiente dei lavoratori fra le imprese”). Ma se sono le imprese che già hanno tale opportunità quelle che investono meno in lavoro qualificato? Difficile credere che la scarsa innovatività delle imprese italiane e la loro mancata crescita dimensionale sia dovuta alle attuali norme sui licenziamenti (i dati Istat non appaiono mostrare alcuna anomalia in corrispondenza ai fatidici 15 addetti sopra i quali non si applica lo Statuto dei lavoratori), mentre la loro estensione, sulla base proprio del ragionamento della Bonino, potrebbe portare a un ulteriore degrado qualitativo delle imprese italiane.
Né si vede come la “flexsecurity” potrebbe assicurare se “non la sicurezza del posto del lavoro”, quella “del lavoro”, cioè che perso un posto di lavoro se ne trovi un’altro. Che la flessibilità non generi di per sé occupazione è proprio dimostrato dalla sua diffusione dagli anni ’90: essa ha sì contribuito affinché quel poco di crescita che il paese ha avuto si traducesse in qualche centinaio di migliaia di posti di lavoro a bassa produttività in più, ma non ha certo risolto il gravissimo problema della disoccupazione, sotto-occupazione e inoccupazione che grava da sempre sul paese. Che la “la riduzione dei costi complessivi di licenziamento aumenti la propensione del datore di lavoro ad assumere i lavoratori con contratti a tempo indeterminato” non lo neghiamo, ma questo non ha a che fare con un aumento complessivo dell’occupazione, ma solo con un mutamento delle figure contrattuali prevalenti.
Il fatto è, ed è questo che ci distingue da un punto di vista interpretativo dalla Bonino e dagli studiosi a cui ella si rifà, che l’accrescimento dell’occupazione complessiva dipende fondamentalmente, sulla media del ciclo, dalla crescita della domanda aggregata, che in economie aperte deve necessariamente verificarsi a livello internazionale, pena gravi crisi di bilancia dei pagamenti nei paesi che volessero sostenerla isolatamente. Paesi con contratti di lavoro più rigidi sperimenteranno in genere cadute minori dell’occupazione in fasi di crisi e aumenti minori nelle fasi di espansione, mentre i paesi più flessibili mostreranno oscillazioni più marcate, ma in media i livelli occupazionali non dipendono dalla flessibilità o meno del mercato del lavoro - a meno di voler competere con gli altri paesi con un dumping sociale neomercantilista. Se questo è vero, è allora alle politiche di sostegno della domanda aggregata, necessariamente a livello Europeo e globale a cui ci si deve rivolgere per assicurare la piena occupazione. Traino di tali politiche dovrebbero essere principalmente attuate, nell’attuale situazione europea, dai paesi forti attraverso il sostegno della loro domanda interna , superando il loro neo-mercantilismo. In un contesto in cui la piena occupazione sia l’obiettivo primario della politica economica, di forme di flessibilizzazione del mercato del lavoro si potrebbe pure parlare, se proprio necessario. Tale contesto assicurerebbe infatti sia posti di lavoro che risorse per generosi ammortizzatori sociali, oltre a rafforzare il potere contrattuale dei lavoratori ben oltre quello derivante dalle leggi.
A noi sembra che gli amici radicali dovrebbero mutare il loro paradigma economico di riferimento dagli slogan derivati dalla teoria liberal-neoclassica – meno ai padri e più ai figli, il rigore come presupposto della crescita, ecc. C’è a nostro avviso un “populismo liberale” dietro questi slogan. La teoria economica critica ha infatti da tempo svelato la debolezza analitica dei fondamenti dell’analisi neoclassica, una moderna religione in cui l’esoterismo matematico ha il ruolo del latinorum dei riti ecclesiastici. Perché, compagni radicali, non rifarsi all’analisi, in fondo di stampo liberale, di Maynard Keynes, o a quella conflittuale derivata dal grande economista borghese David Ricardo, essendo il conflitto, se ben gestito, l’humus della democrazia (e non ci si dica che son teorie vecchie;esse sono state modernamente riprese.Peraltro, tolta la crosta, l’analisi economica convenzionale è di fine 1800). Fra quegli slogan il più pericoloso è quello del conflitto generazionale erroneamente applicato come visto sopra al dualismo del mercato del lavoro; ma anche al problema del debito pubblico letto come un carico sulle future generazioni, una sciocchezza su cui non v’è qui spazio per entrare; e delle pensioni, su cui abbiamo già scritto criticando le posizioni radicali (Il Riformista, 17-9-11, vedi http://politicaeconomiablog.blogspot.com). Al fondo anche della questione pensionistica c’è un problema occupazionale: le pensioni incidono molto sul Pil perché in Italia c’è storicamente poca occupazione e dunque la spesa grava su pochi, e in questo contesto i dati suggeriscono come l’aumento progressivo dell’età pensionabile che si è verificato in anni recenti possa aver diminuito le opportunità occupazionali dei giovani. Insomma, amici radicali, l’invito è di mettere la piena occupazione come obiettivo primario delle forze progressiste sulla base di analisi economiche meno conformiste, poi potremo discutere se necessario di flessibilità e innalzamento dell’età pensionistica. E vi sarà anche spazio per stanziare risorse per quella generosa battaglia di civiltà che voi conducete per condizioni più umane di vita carceraria, battaglia che nel contesto di inutili (e non solo iniqui) tagli di bilancio non ha oggi spazio né nel bilancio né nel cuore di milioni di cittadini, giovani e anziani, preoccupati per il proprio futuro. E con la piena occupazione ci saranno anche meno carcerati.
Da Europa-23 settembre
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