sabato 9 aprile 2011

Peppe Giudice: Sinistra, socialisti, questione morale

Sinistra, socialisti, questione morale.
.pubblicata da Giuseppe Giudice il giorno venerdì 8 aprile 2011 alle ore 16.18.Sinistra, socialisti, questione morale.









Riporto per intero questo commento del compagno Paolo Borioni (che condivido in pieno) ad una mia recente nota: “ Lombardi e soprattutto De Martino compresero che il PdA non era in grado di avere rapporti con le masse. E proprio questo bagno popolare esaltò De Martino nelle sue prime esperienze PSI. Il punto è che dopo il 1947 l'azionismo residuo era in grado di penetrare alcuni luoghi di potere centrali nelle banche, nei giornali, nella alta borghesia del nord intorno alla Fiat, Olivetti, Einaudi, La Banca Commerciale Italiana. A volte ipotizzo che abbiano anche dato una versione eccessivamente puritana dell'antifascismo. Ovvero: da antifascisti duri e puri si sentivano più elevati di un popolo che magari aveva oscillato durante il fascismo (anche se Bobbio pure aveva chiesto il perdono del Duce...). Hanno continuato a sentircisi, tantopiù essendo consapevoli della loro incapacità a prendere voti oltre l'1%. Era un modo per giustificarsi, per dire "Questo popolo ci evita perché non ci merita". Da qui, ipotizzo, proviene la giustificazione morale del il loro elitismo borghese, che è però elitista anche nelle sua ideologia progressista illuminista. La riscossa elitista sulla sinistra giunge con "La Repubblica", con la quale ha compiuto il suo capolavoro, specie dopo l'intervista a Berlinguer del 1981 sulla "questione morale". Dopo quell'intervista il PCI, incapace di impostare bene una "questione sociale" vincente, apre la propria autonomia mediatica e quindi culturale al partito della "questione morale", e quindi alla Repubblica. E cerca così una nuova vita, che al contempo giustifichi il fallimento del Compromesso Storico con la teoria che "tutti sono marci, e non ci vogliono". Quando poi arriva Tangentopoli i limiti forti della strategia Craxiana, emersi alla fine degli anni Ottanta, permettono un'applicazione vincente, di movimento, della "questione morale". E, visti i tempi che corrono (il pensiero unico) il patto faustiano fra PCI e Repubblica si compie del tutto. Complice anche la cultura "liberal" che presagisce "la terza via" e che si muove attorno a Occhetto (Claudia Mancina per esempio). Oltretutto i comunisti avevano sempre schifato la socialdemocrazia, per cui era meglio diventare un partito radical-progressista. Ma bisogna ammettere che questa cultura vagamente radical-progressista era penetrata ampiamente, con Martelli, nel Psi. E che il nostro partito, da sempre eccessivamente composito sul piano ideologico culturale, ne era stato abbondantemente contagiato proprio per mancanza di rigore culturale ed ideologico. Con Craxi certo diverso da Martelli ma passivo poiché troppo poco sensibile alla cultura, essendo egli un animale di pressoché sola politique d'abord "sovrastrutturale". Anche le responsabilità del Psi, e progressivamente dopo il 1985-86, sono enormi...”



Era una nota dedicata alla profonda influenza negativa sulla sinistra odierna del cosidetto “neo-azionismo” di Scalfari.

E che coinvolge il tema del rapporto tra sinistra e questione morale. C’è poco da aggiungere a ciò che scrive Borioni se non per sviluppare la sua tesi sulla influenza avuta da Scalfari su Berlinguer ed un pezzo significativo del PCI in rapporto al modo di concepire la questione morale.

E’ evidente che, dopo il 1981, dopo la famosa intervista di Repubblica, la questione morale (che per Berlinguer non riguarda tanto il tema del rapporto tra politica ed affari, ma quello della invadenza dei partiti nella gestione del potere, nel “sottogoverno” come si soleva dire allora) diventa per una parte del PCI, l’asse centrale del proprio agire politico, cercando di costruire su questo una propria vocazione egemonica di tipo gramsciano. Il marxismo del PCI ha sempre avuto una connotazione “idealistica” , più attento all’elemento politico-sovrastrutturale che alla analisi della dinamica economica e sociologica. In questo il feeling con Scalfari era quasi naturale.

Certo per Berlinguer, la questione morale unita all’idea di “diversità” era anche un modo per superare la crisi identitaria del partito dopo il fallimento dell’Eurocomunismo. Ma è stata una politica che ha aperto una grande frattura a sinistra.

Se uno si considera detentore del monopolio della onestà e della rettitudine e di conseguenza vede nell’altro partito della sinistra, il PSI, una sorta di gruppo di avventurieri senza ideali, è ovvio che alla fine si dà la stura a quelle posizioni che nel PSI puntavano ad un recupero dell’alleanza con la DC.

In più, il rinserrarsi in una visione unilaterale della politica comporta il rischio reale di rinchiudersi in quell’elitismo borghese-giacobino (tipico del neo-azionismo) e di astrarsi dalla dinamica storica reale.

Non c’è dubbio che una certa antipolitica “progressista” degli anni 90 ha le sue origini nell’ultimo Berlinguer . Quando di fatto si addossa al sistema partitico di per sé la genesi dei processi degenerativi poi alla fine non è difficile trovarsi in compagnia dei furbacchioni “professionisti dell’indignazione” Travaglio, Di Pietro: ciarpame qualunquista e reazionario che devia nettamente la sinistra dai suoi ruoli e compiti naturali.

E’ evidente che nell’impostazione berlingueriana della questione morale c’è un grave deficit analitico concernente le sue cause.

Esse sono nella evoluzione consociativa della democrazia italiana a partire dagli anni 70. Che è la conseguenza della incapacità di fornire uno sbocco da sinistra alla democrazia bloccata ed imperniata sulla centralità democristiana. Non demonizzo il consociativismo. Esso è necessario in fase di emergenza quando è necessaria la massima coesione democratica nazionale (il caso del terrorismo). Ma diventa un male quando esso da fatto emergenziale si trasforma in elemento strutturale del sistema politico. In tale quadro i partiti tendono sempre di più a divenire macchine di potere ed ad occupare spazi non propri.

La degenerazione morale del PSI negli anni 80 non era certo il frutto di una tendenza genetica di noi socialisti a delinquere, ma il risultato di scelte politiche errate. Di un partito che prima a Torino, nel 1978, chiede di uscire dal meccanismo consociativo e di andare verso una democrazia dell’alternanza fondata su una sinistra di governo, e poi nel 1981 entra nel pentapartito perpetuando la democrazia consociativa ed il sistema bloccato. Nenni già negli anni 70 era preoccupato per il peso che il “partito degli assessori” inizia ad avere nel PSI. Ma quello era veramente piccolissima cosa rispetto a ciò che si produsse alla fine degli anni 80, quando faccendieri ed avventurieri distrussero il PSI. Craxi ha la sua responsabilità politica per aver sottovalutato la questione morale. La visione di Craxi (ha ragione Borioni) è influenzata da una idea estremizzata della “politicque d’abord”. Per Craxi il rafforzamento elettorale del partito è il primo obbiettivo da perseguire a qualsiasi costo. Non fa niente che alla fine entrino personaggi discutibili, non fa niente che Martelli distrugga il patrimonio ideale socialista. Craxi pensava alla fine di aggiustare tutto grazie alla sua forte personalità. Ma quando i mezzi divergono dal fine, il partito si può anche rafforzare elettoralmente, solo che non è più gestibile.

Molto diversa (ed avrebbe salvato il partito) era l’impostazione di Riccardo Lombardi al congresso di Palermo nel 1981. Un intervento straordinario letto a braccio come era solito per Riccardo.

Lombardi riconosce a Craxi la capacità di aver ricavato per il PSI un ruolo pienamente autonomo nella sinistra. Ma proprio per questo tale ruolo andava speso non rientrando al governo con la DC, ma sfidando il PCI sul terreno dell’alternativa alla DC e di una sinistra di governo. Lombardi era certo che una tal proposta avrebbe aperto forti contraddizioni nel PCI, perché egli era convinto che Berlinguer volesse riprendere il discorso dell’Unità Nazionale e non voleva certo l’alternativa alla DC. Ma avrebbe aperto tali contraddizioni proprio sul ruolo di una sinistra di governo. La quale non poteva certo basarsi sulla sola questione morale ma doveva investire la capacità complessiva della sinistra di dotarsi di un progetto di governo alternativo.

E veniamo agli anni 90. I quali esasperano in modo netto la deriva moralista e la connettono alla antipolitica diffusa succeduta alla demonizzazione dei partiti.

Certo può apparire sconcertante che dal moralismo giustizialista alla fine emerga come figura centrale della II Repubblica proprio il più immorale di tutti: Silvio Berlusconi! Ma queste sono le conseguenze del cavalcare l’antipolitica!!

Senza partiti la questione morale è decuplicata. E riguarda in modo trasversale tutti gli schieramenti politici. A questo ha anche contribuito un degrado culturale ed etico in cui il modo di utilizzare i mezzi di comunicazione di massa è decisivo. Ma senza il contrappeso di partiti forti e di pensieri forti, tutto è più facile.

Oggi voler combattere la destra basandosi sul semplice antiberlusconismo significa solo rafforzare ancora di più Berlusconi. Io credo che il centrosinistra sarà in grado di battere questa destra solo dopo che avrà battuto la destra che c’è dentro di se. Che gli impedisce di mettere al primo posto il tema della giustizia sociale e del lavoro quali centri gravitazionali di un programma alternativo. La questione morale va separata dal moralismo propagandistico e potrà essere risolta solo se riemergerà passione politica intorno a pensieri forti. Intanto qualcosa si può fare immediatamente se il centrosinistra si impegna sul serio a ridurre i costi impropri della politica. Ma permettetemi di avere qualche perplessità.





PEPPE GIUDICE



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1 commento:

diego ha detto...

Credo sia riduttivo far portare sulle spalle di Scalfari l’eredità del Partito d’Azione. Non va dimenticato quanto fosse pluralista quel partito – forse anche troppo, visti gli esiti. Nel Partito d’Azione esistevano tre grandi correnti: quella di La Malfa difendeva la terza via democratica ed il ruolo progressivo del medio ceto; Lussu voleva un socialismo liberale, rivoluzionario e classista; ed i liberal-socialisti credevano anche loro nel socialismo, ma volevano un’alleanza tra borghesia progressiva e proletariato democratico. In Scalfari trovo senz’altro alcuni aspetti lamalfiani, ma da qui a renderlo l’erede dell’azionismo ce ne passa.



C’è un secondo punto che non mi convince. Leggendo quanto scrive il compagno Peppe Giudice, si direbbe che la questione morale faccia avventurare la sinistra su dei terreni per definizione congeniali ai reazionari. Io non sono d’accordo con questa affermazione. Che cos’è fondamentalmente il socialismo se non aspirazione di giustizia, in tutte le sue diverse connotazioni? Giustizia è senz’altro giustizia sociale. Ma giustizia è anche lotta contro la malavita organizzata, che poi è una degenerazione criminale dell’anarcocapitalismo. Giustizia è battersi perchè tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge e non, per citare il nostro premier, che qualche cittadino, in virtù del fatto che è stato eletto, “sia un po’ più uguale degli altri”. Giustizia è indignarsi per il fatto che i partiti, come le lobby di destra, di centro, e di sinistra hanno privatizzato in Italia il credito, l’informazione, gli ospedali pubblici, le università, ecc.



Un’altra considerazione: molti grandi politici e pensatori socialisti hanno trovato nel socialismo una matrice morale. Jean Jaurès e Léon Blum affermavano che il socialismo è in sè una morale. Karl Liebknecht sosteneva che “il popolo deve sapere che il socialismo non è soltanto la regolamentazione delle condizioni del lavoro e della produzione; che non si propone solamente d’intervenire nelle funzioni economiche dello stato e dell’organismo sociale, ma che ha in prospettiva lo sviluppo più completo dell’individuo e dell’individualità; che considera l’istruzione come uno dei doveri essenziali dello Stato, e che fa consistere l’ideale dell’umanità nell’ideale civile e sociale di ogni uomo [NOTA: non è questo il programma per una nuova morale?].” È famosa poi la prima delle tredici tesi di Carlo Rosselli in Socialismo Liberale, “il socialismo è in primo luogo rivoluzione morale, e in secondo luogo trasformazione materiale”. Per parlare di morale e politica – e non di moralismo – non c’è dunque bisogno di chiamarsi Scalfari, si può benissimo farlo a partire da una posizione socialista.



Un saluto dialogante,



Diego