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La libertà delle volpi e delle galline
la stampa
Data di pubblicazione: 13.04.2011
Autore: Todorov, Tzvetan
Nel conflitto tra istituzioni, media e individui la questione sta nelle
relazioni di potere: denunciare il debole non è come denunciare il potente. La
Stampa, 12 aprile 2011
Dopo il secolo dei totalitarismi, un nuovo mostro tirannico l’individualismo
senza freni che distrugge la società.
Perché un potere sia legittimo, non basta sapere com’è stato conquistato (ad
esempio con libere elezioni o un colpo di Stato), occorre ancora vedere in che
modo viene esercitato. Fra poco saranno tre secoli dacché Montesquieu ha
formulato una regola per guidare il nostro giudizio: «Ogni potere senza limiti
non può essere legittimo». Le esperienze totalitarie del XX secolo ci hanno
resi particolarmente sensibili ai misfatti di un potere statale illimitato, in
grado di controllore ogni atto di ogni cittadino.
In Europa questi regimi appartengono al passato ma, nei Paesi democratici,
restiamo sensibili alle interferenze del governo negli affari giudiziari o
nella vita dei media, perché queste hanno come effetto la soppressione di ogni
limite posto al suo potere. I ripetuti attacchi del Presidente francese o del
premier italiano ai magistrati e ai giornalisti sono una dimostrazione di
questo pericolo. Tuttavia lo Stato non è l’unico a detenere poteri all’interno
di una società. All’inizio di questo XXI secolo, in Occidente, lo Stato ha
perso buona parte del suo prestigio, mentre è diventato una minaccia l’ampio
potere che detengono alcuni individui, o gruppi di individui. Eppure questa
minaccia passa inosservata, perché questo potere si orna di un bel nome, di cui
tutti si fanno forti: libertà. La libertà individuale è un valore in crescita,
i difensori del bene comune oggi sembrano arcaici.
Come si sia prodotto questo capovolgimento, lo si vede bene nei Paesi ex
comunisti dell’Europa dell’Est. L’interesse collettivo oggi è sospetto: per
nascondere le sue turpitudini, il regime precedente l’aveva invocato così
spesso che più nessuno lo prende sul serio, lo si considera una maschera
ipocrita. Se il solo motore del comportamento è in ogni caso la ricerca del
profitto e la sete di potere, se la lotta senza pietà e la sopravvivenza del
più adatto sono le dure leggi dell’esistenza, tanto vale smetterla di fingere e
accettare apertamente la legge della giungla. Questa rassegnazione spiega
perché gli ex burocrati comunisti abbiano saputo rivestire, con una facilità
sconcertante, gli abiti nuovi dell’ultraliberismo.
A migliaia di chilometri di lì, negli Stati Uniti, in un contesto storico
completamente diverso, si è sviluppato da poco il movimento del Tea Party, il
cui programma inneggia alla libertà illimitata degli individui e rifiuta
qualunque controllo del governo: esige di ridurre drasticamente le tasse e
qualunque altra forma di redistribuzione delle ricchezze. Le sole spese comuni
accettate riguardano l’esercito e la polizia, cioè ancora la sicurezza degli
individui. Chiunque si opponga a questa visione del mondo viene trattato da
criptocomunista! Il paradosso è che questa visione si rifà alla religione
cristiana, mentre questa, in accordo con le altre grandi tradizioni spirituali,
raccomanda di curarsi dei deboli e dei miserabili.
Si passa, in questi casi, da un estremo all’altro, dal tutto-Stato totalitario
al tutto-individuo ultraliberale, da un regime liberticida a un altro, di
spirito «sociocida», per così dire. Ora il principio democratico vuole che
tutti i poteri siano limitati: non solo quelli degli Stati, ma anche quelli
degli individui, anche quando rivestono i vecchi abiti della libertà. La
libertà delle galline di attaccare la volpe è uno scherzo, perché non ne hanno
la capacità: la libertà della volpe è pericolosa perché è la più forte.
Attraverso le leggi e le norme che stabilisce, il popolo sovrano ha tutto il
diritto di restringere le libertà. Questa limitazione non tocca allo stesso
modo tutta la popolazione: idealmente, limita coloro che hanno già molto potere
e protegge chi ne ha molto poco.
Il potere economico è il primo dei poteri nelle mani degli individui. Lo scopo
di un’impresa è generare profitti, senza i quali è condannata a sparire. Ma al
di fuori dei loro interessi particolari, gli abitanti di un Paese hanno anche
interessi comuni, ai quali le imprese non contribuiscono spontaneamente. Tocca
allo Stato liberare le risorse necessarie a prendersi cura dell’esercito e
della polizia, dell’educazione e della salute, dell’apparato giudiziario e
delle infrastrutture. O della protezione della natura: la famosa mano
invisibile attribuita ad Adam Smith non serve a molto, in questi casi. Lo si è
visto con la marea nera nel Golfo del Messico, nella primavera 2010: lasciate
senza controllo, le compagnie petrolifere cercano i materiali da costruzione
poco costosi e dunque poco affidabili. Di fronte allo smisurato potere
economico di individui o di gruppi di individui, il potere politico si rivela
spesso troppo debole.
La libertà di espressione a volte viene presentata come il fondamento della
democrazia, e per questa ragione non deve conoscere freni. Ma si può dire che è
indipendente dal potere di cui dispone? Non basta avere il diritto di
esprimersi, occorre anche averne la possibilità; se non c’è, questa «libertà»
non è che una parola vuota. Tutte le informazioni, tutte le opinioni non
vengono accettate con la stessa facilità nei grandi media. Ora la libera
espressione dei potenti può avere conseguenze funeste per i senza-voce: viviamo
in uno stesso mondo. Se si ha la libertà di dire che tutti gli arabi sono degli
islamisti non assimilabili, essi non hanno più quella di trovare lavoro e
neppure di camminare per strada senza essere controllati.
La parola pubblica, un potere tra gli altri, a volte deve essere limitata.
Dove trovare il criterio che permetta di distinguere le limitazioni buone da
quelle cattive? Soprattutto nel rapporto di potere tra chi parla e colui di cui
si parla. Non si ha lo stesso merito se si combattono i potenti del momento o
si indica al risentimento popolare un capro espiatorio. Un organo di stampa è
infinitamente più debole dello Stato, non c’è dunque ragione di limitare la sua
libertà di espressione quando lo critica, purché la metta al servizio della
libertà.
Quando il sito Mediapart rivela una collusione tra poteri economici e
responsabili politici, il suo gesto non ha nulla di «fascista», qualunque cosa
dicano quelli che sono presi di mira. Le «fughe di notizie» di WikiLeaks nulla
hanno di totalitario: i regimi comunisti rendevano trasparente la vita dei
deboli, non quella dello Stato. In compenso, un organo di stampa è più potente
di un individuo e il «linciaggio mediatico» è un abuso di potere.
I difensori della liberà d’espressione illimitata ignorano la distinzione tra
potenti e impotenti, il che permette loro di coprirsi da soli di alloro. Il
redattore del quotidiano danese Jyllands-Posten, che nel 2005 aveva pubblicato
le caricature di Maometto, cinque anni dopo torna sulla questione e
modestamente si paragona agli eretici del Medioevo bruciati sul rogo, a
Voltaire nemico della Chiesa onnipotente o ai dissidenti oppressi dalla polizia
sovietica. Decisamente la figura della vittima esercita oggi un’attrazione
irresistibile! Ciò facendo, il giornalista dimentica che quei coraggiosi
praticanti della libertà di espressione si battevano contro i detentori del
potere spirituale e temporale del loro tempo, non contro una minoranza
discriminata. Porre limiti alla libertà di espressione non significa sostenere
la censura, ma fare appello alla responsabilità dei padroni dei media. La
tirannia degli individui è certamente meno sanguinosa di quella degli Stati;
eppure anch’essa è un ostacolo a una vita comune soddisfacente. Nulla ci
obbliga a rinchiuderci nella scelta tra «tutto-Stato» e «tutto-individuo»:
abbiamo bisogno di difenderli entrambi, e che ciascuno limiti gli abusi dell’
altro.
[Traduzione di Marina Verna]
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