Il caso Fiat - Mirafiori: paradigma del nostro tempo!
(di Renato Fioretti)
Le modalità e i contenuti delle reazioni che hanno accompagnato l’evolversi della vicenda Fiat-Mirafiori hanno finito per rappresentare il paradigma più esaustivo della situazione politico-sindacale che caratterizza il nostro tempo.
In effetti, le posizioni assunte dai diversi attori in scena - dai protagonisti alle semplici comparse - hanno definitivamente certificato quello che, a mio parere, è un (ormai) chiaro e incontrovertibile dato politico.
Nel nostro Paese, non esiste più alcuna forza politica - almeno tra quelle che allo stato dispongono di rappresentanza parlamentare - che, oggettivamente e coerentemente, si presti a rappresentare un credibile punto di riferimento per gli interessi dei lavoratori; anche se in misura non esclusiva.
Certo, si potrebbe facilmente obiettare che pretendere (ancora oggi) una rappresentanza che guardasse - in particolare - alla tutela di così specifici interessi, rappresenterebbe il (nostalgico) rigurgito di quel “conflitto di classe” di così lontana memoria. In totale contrasto alle posizioni espresse dall’attuale ministro del lavoro, secondo il quale è ormai maturo il tempo per (definitivamente) superare l’antica contrapposizione tra capitale e lavoro, tra “padroni” e lavoratori e prendere atto della sostanziale unità d’intenti cui adeguare le ragioni e i comportamenti di soggetti diversi tra loro ma non più pregiudizialmente avversi!
Personalmente, non ho mai condiviso né sostenuto l’idea di una classe operaia in naturale e fatale opposizione sociale, nel senso “dell’una contro le altre armata”; è, però, del tutto evidente che quando ci si riferisce alla sostanza d’interessi difficilmente convergenti - anche se non assolutamente e aprioristicamente antitetici - quali quelli tra capitale e lavoro, si tratta di tutt’altra questione.
Tra l’altro, è opportuno sottolineare che, anche a voler prendere in considerazione l’ipotesi di approfondire il confronto in conformità a quanto auspicato da Sacconi, la realtà dimostra che la concreta realizzazione della politica “del fare” dei governi Berlusconi, della quale il titolare di Via Flavia è un tenace e convinto esecutore, tradisce la vacuità di certe dichiarazioni di principio.
Difatti, che il ministro (in realtà) auspichi una forma di collaborazione “asimmetrica”, attraverso la quale - in virtù della nuova era delle (seducenti) relazioni industriali - i lavoratori rinuncino alle rivendicazioni, a favore di una stabilità lavorativa fortemente “condizionata”, è un fatto accertato.
In questo senso, mentre le ragioni del mercato - e per esso quelle delle imprese - sono presentate, sostenute e reclamate alla stregua di un’esigenza collettiva, della quale tutti devono farsi carico e di fronte alla quale qualsiasi altra cosa rappresenta un elemento di disturbo, il tema lavoro perde il carattere collettivo e finisce con l’essere ridotto a mera esigenza individuale.
Nient’altro che un bisogno di tipo personale, da negoziare individualmente - in perfetto equilibrio di forza contrattuale - e soddisfare attraverso la più elementare forma di scambio commerciale.
Un semplice baratto tra la prestazione lavorativa - a prescindere da qualsiasi tipo di vincolo, tutela e garanzia - e l’auspicata (non certo garantita) continuità del rapporto.
Non a caso, la stessa posizione - di sostanziale “surplasse” - assunta dal governo, rispetto alle recenti vicende che hanno coinvolto gli stabilimenti Fiat di Pomigliano e Mirafiori, ha rappresentato, a mio parere, l’estrema sintesi di una ben definita “scelta di campo”.
Un’opzione che, palesemente, contraddice le dichiarazioni tese a sostenere la presunta unità d’intenti per l’affermazione d’interessi collettivi (e comuni) tra le parti sociali e, contemporaneamente - come efficacemente rilevato da Carlo Galli (“La Repubblica” dell’8 gennaio 2011) - propone “ Un governo che rinuncia a dare forma ed equilibrio a una complessità, a gestire le contingenze e le crisi con riguardo alla molteplicità degli attori in gioco e si limita a certificare ex post l’esito della legge del più forte”!
D’altra parte, come già rilevato in altra occasione, soltanto i distratti “per vocazione” avrebbero potuto fare a meno di rilevare l’incipit del decreto legislativo 276/03 che - all’art. 1, comma 1 - indica come finalità l’obiettivo di aumentare i tassi di occupazione e promuovere la qualità e stabilità del lavoro, anche attraverso contratti compatibili con le esigenze delle aziende e le aspirazioni dei lavoratori!
Già dal 2003 era quindi evidente che, a valle del Libro bianco e prima ancora delle recenti e future novità - quali il Collegato lavoro e il già famigerato “Statuto dei lavori” - i governi Berlusconi avrebbero privilegiato le ragioni (esigenze) delle aziende, rispetto a quelle dei lavoratori (titolari di semplici aspirazioni)!
Se, però, le posizioni presenti nel centrodestra non presentano, in sostanza, alcuna novità, è deprimente la presa d’atto del comportamento sostanzialmente “pilatesco” assunto dal maggior partito di opposizione.
Quello stesso Pd che, contrariamente alle posizioni ufficialmente assunte da tutti i suoi esponenti di maggior rilievo - da D’Alema e Bersani per arrivare a Weltroni e Letta, passando attraverso Ichino e Chiamparino - pur continuava a dichiarare di essere (ancora) sostenitore della “centralità” del lavoro.
Una centralità tanto “proclamata” quanto evanescente nella pratica quotidiana.
In questo senso, a mio avviso - nella vicenda Mirafiori - è stato affatto insufficiente, da parte del Pd, limitare la denuncia alla lesione del diritto di rappresentanza sindacale della Fiom e, contemporaneamente, fare professione d’ignavia rispetto all’oggettivo peggioramento delle condizioni di lavoro per migliaia di lavoratori torinesi, dopo quelli di Pomigliano.
Infatti, una volta accertato che i lavoratori di Mirafiori - in contraddizione con lo stesso principio democratico di una consultazione referendaria - sarebbero stati, in realtà, chiamati a una scelta pesantemente vincolata dall’ultimatum lanciato da Marchionne: “O vince il Sì, o delocalizziamo in Canada”, sarebbe stato legittimo aspettarsi qualcosa di più da un partito di opposizione che dichiara di avere “il lavoro” quale riferimento della sua azione politica.
Almeno da parte di quegli stessi esponenti che ancora nell’ottobre 1980 manifestavano il loro giovanile entusiasmo ai cancelli della Fiat!
Comunque, tale atteggiamento ha, se non altro, contribuito ad apportare un elemento di chiarezza nel panorama politico nazionale: anche coloro i quali nutrivano ancora qualche illusione e avevano gioito alla nascita del Pd, auspicando la costituzione di un soggetto politico che, tra l’altro, sostenesse un carattere autenticamente “riformista” delle politiche del lavoro - sottraendole, da un lato a una visione “classista” e, dall’altro, a una concezione “liberal” - hanno dovuto ricredersi.
“Chi è amico di tutti non è amico di nessuno”. Il noto aforisma di Arthur Schopenhauer ben si adatta alla posizione assunta dal maggior partito d’opposizione.
Questo spiega, in effetti, la “mancata scelta” di un gruppo dirigente che, di là da qualche netto “distinguo” (nel senso del palese e incondizionato sostegno all’Ad di Fiat), ha fatto ricorso a vere e proprie acrobazie semantiche per evitare di abbinare la propria immagine alla (perdente) protesta dei lavoratori torinesi.
In definitiva, si è avuta la sensazione che, a un governo che aveva scelto di praticare una sorta di “non ingerenza” nella questione Fiat - salvo plaudire (prima) all’ennesimo “accordo separato” e (poi) condividere gli ultimatum di Marchionne - corrispondesse un centrosinistra tenacemente teso a riaffermare e dimostrare “urbi et orbi” di aver definitivamente superato “l’esame di ammissione” alla modernità e alla globalizzazione.
Anche a costo di sacrificare ogni residuale vincolo con quella stessa rappresentanza sociale che aveva costituito uno storico punto di riferimento per tanti (ex) Ds, (ex) Pds e (ex) Pci.
Certo, dopo il referendum del 13 e 14 gennaio, se Sacconi potrà rallegrarsi della sconfitta dei “No”, se il Pd potrà ritenere di aver fatto il massimo possibile - sostenendo, nei fatti, i “Sì” e limitandosi a denunciare il vulnus al diritto di rappresentanza dei lavoratori - e la Fiom, forte delle numerose adesioni, potrà reclamare lo spazio di trattativa che, comunque, le compete, sarà quel 46 per cento di lavoratori di Mirafiori a dover prendere formalmente (e definitivamente) atto di non poter considerare il Pd un referente politico attendibile.
1 commento:
però, lo spazio dato da politica e giornali alla vicenda di un contratto in
una fabbrica di 5.500 lavoratori denuncia lo scarso aggiornamento di
politici e giornalisti italiani, fermi agli schemi di analisi di 30 anni fa.
Ci sono voluti molti giorni perchè qualcuno ricordasse che il piano FIAT è
di costruire in Italia 600.000 vetture su una produzione totale di
5.500.000, di cui 2.800.000 a Detroit. E crepa se c'è stato un giornalista o
sindacalista che ci abbia raccontato le condizioni contrattuali e di
produttività di Detroit, i cui operai sono anche tra i principali azionisti
del gruppo FIAT. Ne ho veramente piene le scatole della retorica senza
notizie, che si rifà sempre alla storia antica. Con questa politica del
proclama impotente e disinformato meritiamo di perdere e di occuparci solo
delle puttane di Berlusconi.
Meno male che almeno il gruppo di Volpedo è uscito con dei comunicati e dei
commenti seri
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