La corruzione del riformismo
.pubblicata da Giuseppe Giudice il giorno sabato 15 gennaio 2011 alle ore 23.26.La corruzione del riformismo
Quello che è successo nella vicenda Fiat e le prese di posizioni di ex dirigenti della sinistra (da Veltroni a Fassino a Chiamparino – Nencini non fa testo) tutte schierate con determinazione a favore di Marchionne deve farci riflettere sulla sostanziale scomparsa di una cultura di sinistra in Italia.
Accettare in nome di un astratto ed non-identicato “riformismo” l’idea di un capitalismo autoritario e corporativo che nega elementari diritti costituzionali in nome della “modernità” e delle leggi della globalizzazione è francamente sconvolgente per chi, come me, è sempre stato socialista ed intende rimanervi.
In questi anni una pesante egemonia ideologica e culturale di capitalismo neo-liberale ha modificato il senso delle parole. Una di queste è senza dubbio: riformismo.
Facciamo un piccolo tuffo in un passato lontano.
A Livorno faremo una manifestazione nel 90° della scissione del Pci dal Psi. Con il titolo : “dalla scissione comunista all’unità della sinistra nel socialismo del III Millennio”. Un titolo impegnativo.
Molti sanno che Filippo Turati in quella sede tenne forse il bel discorso della sua vita: corposo e denso sia di analisi politica che di dottrina socialista. Credo che oggi in quel discorso possa riconoscersi tranquillamente tutta la sinistra esistente, tranne forse Ferrando. Certo non può riconoscersi né Nencini, né D’Alema né Veltroni.
Bene: come sosteneva il grande storico socialista Gaetano Arfè, Turati non accettò mai il termine riformista e non si considerò mai tale. E’ un termine che gli attribuì la pubblicistica (che come al solito tende a schematizzare le cose) del tempo ma che né lui né quelli che la pensavano come lui (Matteotti, Treves) mai accettarono perché non lo consideravano confacente alla propria posizione politico-ideologica.
Turati pensava al socialismo come forza rivoluzionaria e non riformista. Rifiutava la concezione leninista e bolscevica della rivoluzione come presa del potere da parte di una avanguardia che si autoproclama tale gestendo il potere in modo autoritario e violento. Ma riteneva la sua posizione come gradualista e rivoluzionaria al tempo stesso, perché la rivoluzione sociale (a differenza di quella politica) ha tempi molto più lunghi ed è un processo molto più complesso.
Ma non c’è dubbio che per lui e Matteotti il socialismo è un processo rivoluzionario in quanto trasformatore in profondità della società capitalistica. Il suo orizzonte trascende il capitalismo in un modello superiore di organizzazione sociale da realizzare nella democrazia quale mezzo e fine.
In questa visione di fondo, se riflettiamo un po’, si ritrova, nelle linee essenziali, tutta la tradizione socialista italiana successiva da Nenni a Rosselli a Saragat a Lombardi. Ma anche in quella di comunisti come Di Vittorio ed Amendola.
Il termine riformista fu reintrodotto con forza nel 1980 da Craxi per dare un nuovo nome alla sua corrente (prima chiamata autonomista). Con riformismo Craxi comunque indicava l’idea di una sinistra di governo di tipo laburista, aperta ai ceti intermedi ed ai ceti emergenti, ma che conservava un rapporto privilegiato con il mondo del lavoro.
E’ nella II metà degli anni 80 che il termine riformismo cambia significato in alcuni settori del PSI (Amato. Martelli, De Michelis). Ricordo una forte reprimenda di Norberto Bobbio a Giuliano Amato e Claudio Martelli per la loro insensata idea di fare del riformismo un termine sostitutivo del socialismo stesso.
Ma così andò. In realtà Craxi non era affatto d’accordo con Martelli ed Amato, ma li lasciò fare perché erano compagni di cordata.
In realtà fu proprio in quegli anni che il termine riformismo si emancipa dal socialismo e dalla sinistra e si coniuga al termine “modernità” il quale nascondeva di fatto la subalternità di un pezzo di ex socialisti (Martelli non lo è mai stato) al nascente pensiero neoliberale. Quindi il neo-riformismo si pone di fatto in aperta contrapposizione alla tradizione socialista. In Martelli e De Michelis (che colora il suo “riformismo” con tinte dannunziane) c’è l’intenzione di liquidare di fatto il PSI come soggetto storico.
Va bene; poi venne Tangentopoli e tutto quello che ne è seguito.
Ma tale neo-riformismo rifiorì nel PDS e nei DS, favorito dal fatto che Occhetto aveva reciso ogni legame tra il nuovo partito che nasceva dalle ceneri del PCI ed il socialismo. Le nuove sub-ideologie “oltriste” e “nuoviste” recuperarono facilmente il termine riformismo disgiunto da sinistra.
Abbiamo così il disastro delle “due sinistre”; una subalterna al pensiero neoliberale ed un’altra subalterna ad un antagonismo senza sbocco politico.
Alla fine di tutto ciò abbiamo Chiamparino e Fassino innamorati di Marchionne.
Senza un pensiero critico rispetto al capitalismo, pensiero che solo una cultura socialista è in grado di offrire, c’è l’accettazione delle idee dell’avversario. La stessa idea socialdemocratica di un compromesso forte con il capitalismo la si può costruire solo se si concepisce una dinamica conflittuale con il capitalismo stesso (e quindi l’idea di socialismo come processo). Il compromesso esiste se c’è conflitto.
Chiamparino e Fassino hanno spesso utilizzato l’argomento che di fronte alla globalizzazione non possiamo più “permetterci” di avere certi stantard di tutele.
A parte il fatto che non hanno capito che questo modello di globalizzazione fondato sulla ipertrofia strutturale del capitalismo finanziario (e sull’irresponsabilità sociale della impresa) è entrato in una crisi esiziale, una analisi del comparto automobilistico dimostra come un modello di competizione fondato sulla compressione salariale, dei diritti e delle tutele non serve ed è controproducente. Che in certi settori è oggi indispensabile le responsabilizzazione sociale dell’impresa (che può avvenire solo se c’è un sindacato ed una sinistra socialista forti).
Marchionne pensa ad una Fiat da terzo mondo sia come produzione che come relazioni sindacali.
Di una Fiat del genere l’Italia non ha che farsene. Ecco perché è importante che in Italia non passi il modello neocorprativo ed autoritario Marchionne-Sacconi (un vecchio amico di DE Michelis guarda caso).
Il voto di Mirafiori ci dà speranza. Va elogiato il coraggio di quei lavoratori che pur sotto forte ricatto hanno votato no. Anche perché a differenza di Chiamparino e Fassino hanno capito che il piano di Marchionne è inconsistente proprio dal punto di vista industriale.
Ed il coraggio di questi lavoratori ci dà anche più forza a noi che vogliamo ricostruire la sinistra in nome del socialismo. Contro ogni falso riformismo.
PEPPE GIUDICE
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12 commenti:
"Senza un pensiero critico rispetto al capitalismo, pensiero che solo una cultura socialista è in grado di offrire, c’è l’accettazione delle idee dell’avversario". Ringrazio Giudice per questo articolo, lucido ed appassionato, che condivido assai. E grazie anche a Giovanni per averci fatto ricordare le ragioni, ma anche i vincoli del lavoro, postando Simone Weil. Il lavoro, che tema appassionante ... fonte di libertà e di illibertà, palestra di azione politica e teatro di oppressione (ho negli occhi quell'operaio che dice: ha ragione la FIOM, ha ragione, ma ho famiglia ...). Il lavoro come fonte di grande riflessione sulla vicenda umana e come vincolo necessario alla materialità della sua esistenza. Il lavoro come metafora, non esaustiva, certo, della condizione umana, della possibile libertà e illibertà umana. Cerco le parole per me meno viscerali: il cosiddetto "modello Marchionne" è un modello di dominio, sociale prima che fabbrica. Qui ci sta tutto, l'utilizzo selvaggio della globalizzazione, il gioco al ribasso della libertà, dell'autonomia, dei diritti (termini che non sono sinonimi, ma che significano una dimensione ben precisa). Azzardo: è leggibile come un colpo di coda, l'ennesimo, del tentativo di reagire alla crisi del patriarcato, poiché sapete tutte e tutti molto bene quanto il modello di dominio capitalistico sia debitore al modello patriarcale. Delle posizioni della destra, sociale, politica, economica, non mi stupisco. Del manifestarsi del conflitto di classe, neppure (la realtà può inabissarsi, come un fiume carsico, ma poi esce di nuovo alla luce: "coloro che soffrivano, ancora soffrono", diceva Pasolini). Mi sono indignata per certe posizioni di chi si dice di centro-sinistra. A mio sommesso avviso, balbettano, e non sanno, o sanno poco, di quello di cui parlano. Però, de hoc satis. Alla fine, c'è una materialità di esistenze, di donne e di uomini non domi, non rassegnati, forse in errore su alcune cose, ma donne e uomini. In relazione tra di loro, capaci di pensare e d decidere in autonomia, a testa alta. Liberi.
la trasformazione di cui parla giudice è anche stata aiutata ,dal punto di vista dell'uso della parola riformismo,dal fatto che progressivamente per riforme si è passati a indicare invece delle vecchie riforme di struttura della cultura socialista ,le riforme della politica dell'offerta indicate dalla dottrina liberista:privatizzazioni,flessibilità del mercato del lavoro,employability invece che piena occupazione,riduzione della tassazione etc...in questo senso si chiamano riformisti oggi tanti esponenti del pd,del psi e del centro destra.
Potremmo dire che il processo di corruzione concettuale di cui parla Peppe Giudice sia nato con la trasformazione di un aggettivo in sostantivo.
Un tempo "riformista" era infatti solo un aggettivo, e il sostantivo che lo reggeva era il Socialismo. Già nel primo Novecento in effetti si parlava talvolta di "riformisti" senza ulterirori qualifiche, ma in realtà era sempre sottinteso il fatto che con quell'espressione si intendessero indicare i "Socialisti riformisti" (in contrapposizione ai "Socialisti massimalisti" e poi ai "comunisti").
Poi c'è stata una lunga fase - dal Frontismo a Craxi - in cui di "riformismo" non si è in realtà più parlato. I governi di Centro-Sinistra, per esempio, fecero alcune tra le più significative riforme del XX secolo, senza però che la parola "riformista" facesse parte del lessico di quell'esperienza (nemmeno sul solo versante del PSI).
Fu Craxi a ridare dignità e valore all'idea di un "Socialismo riformista", e in questo (o almeno in questo) egli compì senz'altro un'opera meritoria.
Qualcuno - come sostiene Giudice - forse già allora immaginò che l'aggettivo "riformista" dovesse prevalere sul sostantivo "Socialismo", ma a me pare che la vera mutazione genetica sia comunque avvenuta più tardi, e cioè nel corso degli ultimi vent'anni: dopo la scomparsa del vecchio PSI, e dopo la progressiva metamorfosi verso il nulla che ha contrassegnato l'ex PCI.
E' stato allora che il processo di sostantivizzazione del "riformismo" si è venuto compiendo: si è cioè cominciato a parlare sempre più spesso di un "riformismo" tout court, mettendo il Socialismo in soffitta, e anzi arrivando addirittura a proporre una sorta di contrapposizione tra "riformismo" e "Socialdemocrazia" (non solo sostenendo la presunta vitalità e modernità del primo di contro alla presunta obsolescenza della seconda, ma arrivando fino a postulare l'incompatibilità del primo col secondo termine).
Così, negli ultimi anni, ben rappresentati dalla triste parabola del PD, ci si è venuti sempre più spesso riempiendo la bocca di "riformismo" , senza peraltro mai veramente chiarire gli obiettivi e le finalità delle riforme di cui si andava parlando (o magari gabellando come moderne ed innovative tutte quelle riforme, anche le più disastrose, che muovevano, come dice Turci, nella direzione di un mercatismo liberista sempre più accentuato). Oppure, altre volte, ci si è accomodati verso una sorta di "riformismo" di pura maniera: un riformismo nominale, che alcuni (Colajanni, Trentin e altri) definirono infatti come un "riformismo senza riforme".
A questa deriva concettuale (che è evidentemente anche la deriva politica della Sinistra contemporanea) oggi si dovrebbe rispondere, riportando la parola "riformista" alla sua connotazione originaria: ossia quella di aggettivo del sostantivo "Socialismo".
Il che poi significa rimettere il tema del Socialismo al centro dell'agenda politica e culturale. Senza questa operazione, non si esce dalla palude.
Un saluto,
Francesco Somaini.
Potremmo dire che il processo di corruzione concettuale di cui parla Peppe Giudice sia nato con la trasformazione di un aggettivo in sostantivo.
Un tempo "riformista" era infatti solo un aggettivo, e il sostantivo che lo reggeva era il Socialismo. Già nel primo Novecento in effetti si parlava talvolta di "riformisti" senza ulterirori qualifiche, ma in realtà era sempre sottinteso il fatto che con quell'espressione si intendessero indicare i "Socialisti riformisti" (in contrapposizione ai "Socialisti massimalisti" e poi ai "comunisti").
Poi c'è stata una lunga fase - dal Frontismo a Craxi - in cui di "riformismo" non si è in realtà più parlato. I governi di Centro-Sinistra, per esempio, fecero alcune tra le più significative riforme del XX secolo, senza però che la parola "riformista" facesse parte del lessico di quell'esperienza (nemmeno sul solo versante del PSI).
Fu Craxi a ridare dignità e valore all'idea di un "Socialismo riformista", e in questo (o almeno in questo) egli compì senz'altro un'opera meritoria.
Qualcuno - come sostiene Giudice - forse già allora immaginò che l'aggettivo "riformista" dovesse prevalere sul sostantivo "Socialismo", ma a me pare che la vera mutazione genetica sia comunque avvenuta più tardi, e cioè nel corso degli ultimi vent'anni: dopo la scomparsa del vecchio PSI, e dopo la progressiva metamorfosi verso il nulla che ha contrassegnato l'ex PCI.
E' stato allora che il processo di sostantivizzazione del "riformismo" si è venuto compiendo: si è cioè cominciato a parlare sempre più spesso di un "riformismo" tout court, mettendo il Socialismo in soffitta, e anzi arrivando addirittura a proporre una sorta di contrapposizione tra "riformismo" e "Socialdemocrazia" (non solo sostenendo la presunta vitalità e modernità del primo di contro alla presunta obsolescenza della seconda, ma arrivando fino a postulare l'incompatibilità del primo col secondo termine).
Così, negli ultimi anni, ben rappresentati dalla triste parabola del PD, ci si è venuti sempre più spesso riempiendo la bocca di "riformismo" , senza peraltro mai veramente chiarire gli obiettivi e le finalità delle riforme di cui si andava parlando (o magari gabellando come moderne ed innovative tutte quelle riforme, anche le più disastrose, che muovevano, come dice Turci, nella direzione di un mercatismo liberista sempre più accentuato). Oppure, altre volte, ci si è accomodati verso una sorta di "riformismo" di pura maniera: un riformismo nominale, che alcuni (Colajanni, Trentin e altri) definirono infatti come un "riformismo senza riforme".
A questa deriva concettuale (che è evidentemente anche la deriva politica della Sinistra contemporanea) oggi si dovrebbe rispondere, riportando la parola "riformista" alla sua connotazione originaria: ossia quella di aggettivo del sostantivo "Socialismo".
Il che poi significa rimettere il tema del Socialismo al centro dell'agenda politica e culturale. Senza questa operazione, non si esce dalla palude.
Un saluto,
Francesco Somaini.
Potremmo dire che il processo di corruzione concettuale di cui parla Peppe Giudice sia nato con la trasformazione di un aggettivo in sostantivo.
Un tempo "riformista" era infatti solo un aggettivo, e il sostantivo che lo reggeva era il Socialismo. Già nel primo Novecento in effetti si parlava talvolta di "riformisti" senza ulterirori qualifiche, ma in realtà era sempre sottinteso il fatto che con quell'espressione si intendessero indicare i "Socialisti riformisti" (in contrapposizione ai "Socialisti massimalisti" e poi ai "comunisti").
Poi c'è stata una lunga fase - dal Frontismo a Craxi - in cui di "riformismo" non si è in realtà più parlato. I governi di Centro-Sinistra, per esempio, fecero alcune tra le più significative riforme del XX secolo, senza però che la parola "riformista" facesse parte del lessico di quell'esperienza (nemmeno sul solo versante del PSI).
Fu Craxi a ridare dignità e valore all'idea di un "Socialismo riformista", e in questo (o almeno in questo) egli compì senz'altro un'opera meritoria.
Qualcuno - come sostiene Giudice - forse già allora immaginò che l'aggettivo "riformista" dovesse prevalere sul sostantivo "Socialismo", ma a me pare che la vera mutazione genetica sia comunque avvenuta più tardi, e cioè nel corso degli ultimi vent'anni: dopo la scomparsa del vecchio PSI, e dopo la progressiva metamorfosi verso il nulla che ha contrassegnato l'ex PCI.
E' stato allora che il processo di sostantivizzazione del "riformismo" si è venuto compiendo: si è cioè cominciato a parlare sempre più spesso di un "riformismo" tout court, mettendo il Socialismo in soffitta, e anzi arrivando addirittura a proporre una sorta di contrapposizione tra "riformismo" e "Socialdemocrazia" (non solo sostenendo la presunta vitalità e modernità del primo di contro alla presunta obsolescenza della seconda, ma arrivando fino a postulare l'incompatibilità del primo col secondo termine).
Così, negli ultimi anni, ben rappresentati dalla triste parabola del PD, ci si è venuti sempre più spesso riempiendo la bocca di "riformismo" , senza peraltro mai veramente chiarire gli obiettivi e le finalità delle riforme di cui si andava parlando (o magari gabellando come moderne ed innovative tutte quelle riforme, anche le più disastrose, che muovevano, come dice Turci, nella direzione di un mercatismo liberista sempre più accentuato). Oppure, altre volte, ci si è accomodati verso una sorta di "riformismo" di pura maniera: un riformismo nominale, che alcuni (Colajanni, Trentin e altri) definirono infatti come un "riformismo senza riforme".
A questa deriva concettuale (che è evidentemente anche la deriva politica della Sinistra contemporanea) oggi si dovrebbe rispondere, riportando la parola "riformista" alla sua connotazione originaria: ossia quella di aggettivo del sostantivo "Socialismo".
Il che poi significa rimettere il tema del Socialismo al centro dell'agenda politica e culturale. Senza questa operazione, non si esce dalla palude.
Un saluto,
Francesco Somaini.
Caro compagno,
che si stia ancora a discettare oggi come novità su cosa sia il
riformismo mi lascia un po' così così, informo che nel sito
www.circolocalogerocapitini.it
sotto argomento
"cultura politica"
c'è una ampia documentazione sull'orgamento che abbiamo trattato
dall'anno 2002 al 2005, poi chiaritomi e chiarito quasi tutto mi sono
dedicato ad altro.
Se a qualcuno interessa questa panoramica è tutto a disposizione.
Un fraterno saluto.
Luigi Fasce
Potremmo dire che il processo di corruzione concettuale di cui parla Peppe Giudice sia nato con la trasformazione di un aggettivo in sostantivo.
Un tempo "riformista" era infatti solo un aggettivo, e il sostantivo che lo reggeva era il Socialismo. Già nel primo Novecento in effetti si parlava talvolta di "riformisti" senza ulterirori qualifiche, ma in realtà era sempre sottinteso il fatto che con quell'espressione si intendessero indicare i "Socialisti riformisti" (in contrapposizione ai "Socialisti massimalisti" e poi ai "comunisti").
Poi c'è stata una lunga fase - dal Frontismo a Craxi - in cui di "riformismo" non si è in realtà più parlato. I governi di Centro-Sinistra, per esempio, fecero alcune tra le più significative riforme del XX secolo, senza però che la parola "riformista" facesse parte del lessico di quell'esperienza (nemmeno sul solo versante del PSI).
Fu Craxi a ridare dignità e valore all'idea di un "Socialismo riformista", e in questo (o almeno in questo) egli compì senz'altro un'opera meritoria.
Qualcuno - come sostiene Giudice - forse già allora immaginò che l'aggettivo "riformista" dovesse prevalere sul sostantivo "Socialismo", ma a me pare che la vera mutazione genetica sia comunque avvenuta più tardi, e cioè nel corso degli ultimi vent'anni: dopo la scomparsa del vecchio PSI, e dopo la progressiva metamorfosi verso il nulla che ha contrassegnato l'ex PCI.
E' stato allora che il processo di sostantivizzazione del "riformismo" si è venuto compiendo: si è cioè cominciato a parlare sempre più spesso di un "riformismo" tout court, mettendo il Socialismo in soffitta, e anzi arrivando addirittura a proporre una sorta di contrapposizione tra "riformismo" e "Socialdemocrazia" (non solo sostenendo la presunta vitalità e modernità del primo di contro alla presunta obsolescenza della seconda, ma arrivando fino a postulare l'incompatibilità del primo col secondo termine).
Così, negli ultimi anni, ben rappresentati dalla triste parabola del PD, ci si è venuti sempre più spesso riempiendo la bocca di "riformismo" , senza peraltro mai veramente chiarire gli obiettivi e le finalità delle riforme di cui si andava parlando (o magari gabellando come moderne ed innovative tutte quelle riforme, anche le più disastrose, che muovevano, come dice Turci, nella direzione di un mercatismo liberista sempre più accentuato). Oppure, altre volte, ci si è accomodati verso una sorta di "riformismo" di pura maniera: un riformismo nominale, che alcuni (Colajanni, Trentin e altri) definirono infatti come un "riformismo senza riforme".
A questa deriva concettuale (che è evidentemente anche la deriva politica della Sinistra contemporanea) oggi si dovrebbe rispondere, riportando la parola "riformista" alla sua connotazione originaria: ossia quella di aggettivo del sostantivo "Socialismo".
Il che poi significa rimettere il tema del Socialismo al centro dell'agenda politica e culturale. Senza questa operazione, non si esce dalla palude.
Un saluto,
Francesco Somaini.
Potremmo dire che il processo di corruzione concettuale di cui parla Peppe Giudice sia nato con la trasformazione di un aggettivo in sostantivo.
Un tempo "riformista" era infatti solo un aggettivo, e il sostantivo che lo reggeva era il Socialismo. Già nel primo Novecento in effetti si parlava talvolta di "riformisti" senza ulterirori qualifiche, ma in realtà era sempre sottinteso il fatto che con quell'espressione si intendessero indicare i "Socialisti riformisti" (in contrapposizione ai "Socialisti massimalisti" e poi ai "comunisti").
Poi c'è stata una lunga fase - dal Frontismo a Craxi - in cui di "riformismo" non si è in realtà più parlato. I governi di Centro-Sinistra, per esempio, fecero alcune tra le più significative riforme del XX secolo, senza però che la parola "riformista" facesse parte del lessico di quell'esperienza (nemmeno sul solo versante del PSI).
Fu Craxi a ridare dignità e valore all'idea di un "Socialismo riformista", e in questo (o almeno in questo) egli compì senz'altro un'opera meritoria.
Qualcuno - come sostiene Giudice - forse già allora immaginò che l'aggettivo "riformista" dovesse prevalere sul sostantivo "Socialismo", ma a me pare che la vera mutazione genetica sia comunque avvenuta più tardi, e cioè nel corso degli ultimi vent'anni: dopo la scomparsa del vecchio PSI, e dopo la progressiva metamorfosi verso il nulla che ha contrassegnato l'ex PCI.
E' stato allora che il processo di sostantivizzazione del "riformismo" si è venuto compiendo: si è cioè cominciato a parlare sempre più spesso di un "riformismo" tout court, mettendo il Socialismo in soffitta, e anzi arrivando addirittura a proporre una sorta di contrapposizione tra "riformismo" e "Socialdemocrazia" (non solo sostenendo la presunta vitalità e modernità del primo di contro alla presunta obsolescenza della seconda, ma arrivando fino a postulare l'incompatibilità del primo col secondo termine).
Così, negli ultimi anni, ben rappresentati dalla triste parabola del PD, ci si è venuti sempre più spesso riempiendo la bocca di "riformismo" , senza peraltro mai veramente chiarire gli obiettivi e le finalità delle riforme di cui si andava parlando (o magari gabellando come moderne ed innovative tutte quelle riforme, anche le più disastrose, che muovevano, come dice Turci, nella direzione di un mercatismo liberista sempre più accentuato). Oppure, altre volte, ci si è accomodati verso una sorta di "riformismo" di pura maniera: un riformismo nominale, che alcuni (Colajanni, Trentin e altri) definirono infatti come un "riformismo senza riforme".
A questa deriva concettuale (che è evidentemente anche la deriva politica della Sinistra contemporanea) oggi si dovrebbe rispondere, riportando la parola "riformista" alla sua connotazione originaria: ossia quella di aggettivo del sostantivo "Socialismo".
Il che poi significa rimettere il tema del Socialismo al centro dell'agenda politica e culturale. Senza questa operazione, non si esce dalla palude.
Un saluto,
Francesco Somaini.
Potremmo dire che il processo di corruzione concettuale di cui parla Peppe Giudice sia nato con la trasformazione di un aggettivo in sostantivo.
Un tempo "riformista" era infatti solo un aggettivo, e il sostantivo che lo reggeva era il Socialismo. Già nel primo Novecento in effetti si parlava talvolta di "riformisti" senza ulterirori qualifiche, ma in realtà era sempre sottinteso il fatto che con quell'espressione si intendessero indicare i "Socialisti riformisti" (in contrapposizione ai "Socialisti massimalisti" e poi ai "comunisti").
Poi c'è stata una lunga fase - dal Frontismo a Craxi - in cui di "riformismo" non si è in realtà più parlato. I governi di Centro-Sinistra, per esempio, fecero alcune tra le più significative riforme del XX secolo, senza però che la parola "riformista" facesse parte del lessico di quell'esperienza (nemmeno sul solo versante del PSI).
Fu Craxi a ridare dignità e valore all'idea di un "Socialismo riformista", e in questo (o almeno in questo) egli compì senz'altro un'opera meritoria.
Qualcuno - come sostiene Giudice - forse già allora immaginò che l'aggettivo "riformista" dovesse prevalere sul sostantivo "Socialismo", ma a me pare che la vera mutazione genetica sia comunque avvenuta più tardi, e cioè nel corso degli ultimi vent'anni: dopo la scomparsa del vecchio PSI, e dopo la progressiva metamorfosi verso il nulla che ha contrassegnato l'ex PCI.
E' stato allora che il processo di sostantivizzazione del "riformismo" si è venuto compiendo: si è cioè cominciato a parlare sempre più spesso di un "riformismo" tout court, mettendo il Socialismo in soffitta, e anzi arrivando addirittura a proporre una sorta di contrapposizione tra "riformismo" e "Socialdemocrazia" (non solo sostenendo la presunta vitalità e modernità del primo di contro alla presunta obsolescenza della seconda, ma arrivando fino a postulare l'incompatibilità del primo col secondo termine).
Così, negli ultimi anni, ben rappresentati dalla triste parabola del PD, ci si è venuti sempre più spesso riempiendo la bocca di "riformismo" , senza peraltro mai veramente chiarire gli obiettivi e le finalità delle riforme di cui si andava parlando (o magari gabellando come moderne ed innovative tutte quelle riforme, anche le più disastrose, che muovevano, come dice Turci, nella direzione di un mercatismo liberista sempre più accentuato). Oppure, altre volte, ci si è accomodati verso una sorta di "riformismo" di pura maniera: un riformismo nominale, che alcuni (Colajanni, Trentin e altri) definirono infatti come un "riformismo senza riforme".
A questa deriva concettuale (che è evidentemente anche la deriva politica della Sinistra contemporanea) oggi si dovrebbe rispondere, riportando la parola "riformista" alla sua connotazione originaria: ossia quella di aggettivo del sostantivo "Socialismo".
Il che poi significa rimettere il tema del Socialismo al centro dell'agenda politica e culturale. Senza questa operazione, non si esce dalla palude.
Un saluto,
Francesco Somaini.
Potremmo dire che il processo di corruzione concettuale di cui parla Peppe Giudice sia nato con la trasformazione di un aggettivo in sostantivo.
Un tempo "riformista" era infatti solo un aggettivo, e il sostantivo che lo reggeva era il Socialismo. Già nel primo Novecento in effetti si parlava talvolta di "riformisti" senza ulterirori qualifiche, ma in realtà era sempre sottinteso il fatto che con quell'espressione si intendessero indicare i "Socialisti riformisti" (in contrapposizione ai "Socialisti massimalisti" e poi ai "comunisti").
Poi c'è stata una lunga fase - dal Frontismo a Craxi - in cui di "riformismo" non si è in realtà più parlato. I governi di Centro-Sinistra, per esempio, fecero alcune tra le più significative riforme del XX secolo, senza però che la parola "riformista" facesse parte del lessico di quell'esperienza (nemmeno sul solo versante del PSI).
Fu Craxi a ridare dignità e valore all'idea di un "Socialismo riformista", e in questo (o almeno in questo) egli compì senz'altro un'opera meritoria.
Qualcuno - come sostiene Giudice - forse già allora immaginò che l'aggettivo "riformista" dovesse prevalere sul sostantivo "Socialismo", ma a me pare che la vera mutazione genetica sia comunque avvenuta più tardi, e cioè nel corso degli ultimi vent'anni: dopo la scomparsa del vecchio PSI, e dopo la progressiva metamorfosi verso il nulla che ha contrassegnato l'ex PCI.
E' stato allora che il processo di sostantivizzazione del "riformismo" si è venuto compiendo: si è cioè cominciato a parlare sempre più spesso di un "riformismo" tout court, mettendo il Socialismo in soffitta, e anzi arrivando addirittura a proporre una sorta di contrapposizione tra "riformismo" e "Socialdemocrazia" (non solo sostenendo la presunta vitalità e modernità del primo di contro alla presunta obsolescenza della seconda, ma arrivando fino a postulare l'incompatibilità del primo col secondo termine).
Così, negli ultimi anni, ben rappresentati dalla triste parabola del PD, ci si è venuti sempre più spesso riempiendo la bocca di "riformismo" , senza peraltro mai veramente chiarire gli obiettivi e le finalità delle riforme di cui si andava parlando (o magari gabellando come moderne ed innovative tutte quelle riforme, anche le più disastrose, che muovevano, come dice Turci, nella direzione di un mercatismo liberista sempre più accentuato). Oppure, altre volte, ci si è accomodati verso una sorta di "riformismo" di pura maniera: un riformismo nominale, che alcuni (Colajanni, Trentin e altri) definirono infatti come un "riformismo senza riforme".
A questa deriva concettuale (che è evidentemente anche la deriva politica della Sinistra contemporanea) oggi si dovrebbe rispondere, riportando la parola "riformista" alla sua connotazione originaria: ossia quella di aggettivo del sostantivo "Socialismo".
Il che poi significa rimettere il tema del Socialismo al centro dell'agenda politica e culturale. Senza questa operazione, non si esce dalla palude.
Un saluto,
Francesco Somaini.
Potremmo dire che il processo di corruzione concettuale di cui parla Peppe Giudice sia nato con la trasformazione di un aggettivo in sostantivo.
Un tempo "riformista" era infatti solo un aggettivo, e il sostantivo che lo reggeva era il Socialismo. Già nel primo Novecento in effetti si parlava talvolta di "riformisti" senza ulterirori qualifiche, ma in realtà era sempre sottinteso il fatto che con quell'espressione si intendessero indicare i "Socialisti riformisti" (in contrapposizione ai "Socialisti massimalisti" e poi ai "comunisti").
Poi c'è stata una lunga fase - dal Frontismo a Craxi - in cui di "riformismo" non si è in realtà più parlato. I governi di Centro-Sinistra, per esempio, fecero alcune tra le più significative riforme del XX secolo, senza però che la parola "riformista" facesse parte del lessico di quell'esperienza (nemmeno sul solo versante del PSI).
Fu Craxi a ridare dignità e valore all'idea di un "Socialismo riformista", e in questo (o almeno in questo) egli compì senz'altro un'opera meritoria.
Qualcuno - come sostiene Giudice - forse già allora immaginò che l'aggettivo "riformista" dovesse prevalere sul sostantivo "Socialismo", ma a me pare che la vera mutazione genetica sia comunque avvenuta più tardi, e cioè nel corso degli ultimi vent'anni: dopo la scomparsa del vecchio PSI, e dopo la progressiva metamorfosi verso il nulla che ha contrassegnato l'ex PCI.
E' stato allora che il processo di sostantivizzazione del "riformismo" si è venuto compiendo: si è cioè cominciato a parlare sempre più spesso di un "riformismo" tout court, mettendo il Socialismo in soffitta, e anzi arrivando addirittura a proporre una sorta di contrapposizione tra "riformismo" e "Socialdemocrazia" (non solo sostenendo la presunta vitalità e modernità del primo di contro alla presunta obsolescenza della seconda, ma arrivando fino a postulare l'incompatibilità del primo col secondo termine).
Così, negli ultimi anni, ben rappresentati dalla triste parabola del PD, ci si è venuti sempre più spesso riempiendo la bocca di "riformismo" , senza peraltro mai veramente chiarire gli obiettivi e le finalità delle riforme di cui si andava parlando (o magari gabellando come moderne ed innovative tutte quelle riforme, anche le più disastrose, che muovevano, come dice Turci, nella direzione di un mercatismo liberista sempre più accentuato). Oppure, altre volte, ci si è accomodati verso una sorta di "riformismo" di pura maniera: un riformismo nominale, che alcuni (Colajanni, Trentin e altri) definirono infatti come un "riformismo senza riforme".
A questa deriva concettuale (che è evidentemente anche la deriva politica della Sinistra contemporanea) oggi si dovrebbe rispondere, riportando la parola "riformista" alla sua connotazione originaria: ossia quella di aggettivo del sostantivo "Socialismo".
Il che poi significa rimettere il tema del Socialismo al centro dell'agenda politica e culturale. Senza questa operazione, non si esce dalla palude.
Un saluto,
Francesco Somaini.
concordo con Somaini che in gran parte è stata la caduta profonda di cultura politica degli anni 90 che ha modificato la sostanza del termine riformismo scindendola definitivamente dal socialismo. Ma già negli anni 80 era iniziato questo processo di mutazione. Ricordo che nel 1986 ci fu un convegno con Amato e Martelli dal titolo: quale riformismo? Bobbio che partecipò disse che non aveva senso paralre di quale riformismo. La domanda giusta da porsi era : quale socialsimo? Perchè il riformismo è un metodo e non un fine. Marteli da quel sostanziale cafone che è rispose sprezzantemente che "la politica non è roba per filosofi". Qui c'è la rdaice di un atteggiamento che tendva di fatto a liquidare il socialismo. Craxi personalmente non accettò mai la separazione tra socialismo e riformismo, ma aprì la strada a costoro.
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