da leragioni.it
[riflessioni] le futur n’est plus ce qu’il était!
venerdì 4 dicembre 2009, 7.20.42 | Redazione
di Giacomo Marossi
Il compito della politica, e per politica si intende la grande politica, quella che dalla notte dei tempi guida gli uomini nella traversata dei secoli ha principalmente un compito: raccontare. Non è vero che la politica deve risolvere i problemi e non è vero che la politica deve soddisfare le richieste della società. Per dirla banalmente, se Cristoforo Colombo avesse ascoltato i suoi marinai l’America non sarebbe mai stata scoperta.
Il compito della politica è dunque raccontare. Raccontare non vuole dire necessariamente inventarsi delle panzane a fini elettorali: raccontare significa, nella sua accezione più basilare, “raccontare una storia”. La storia è un racconto vero e proprio coi suoi personaggi, la sua trama e tutti i suoi espedienti narrativi classici. La storia è quella tessitura che permette di mettere insieme le azioni dei diversi personaggi apparentemente slegate e casuali in un unico affresco, disegno generale, e di raccontarlo agli altri; di comunicarlo.
A differenza delle storie scritte sui libri, che quando le leggiamo sono state già scritte (strafalcionando quel casino che è la teoria letteraria) da qualcun altro per il nostro divertimento, le storie della politica ci vengono tessute intorno, noi stessi le tessiamo intorno a noi alle volte, e raccontano sempre e comunque di qualcosa che ancora non è accaduto o che sta appena accadendo nel piano della realtà o nelle sue vicinanze.
Chiamiamo “narrazione” questa storia e vediamola come un modo di scremare il rumore che la realtà produce intorno ad alcuni fatti, ad alcune idee, ad alcune linee generali a cui chi fa politica vuole assegnare più rilevanza rispetto che ad altre. Ancora più semplicemente la narrazione è un modo di ordinare la realtà casuale (o apparente tale) che ci si presenta attorno disordinatamente: un ordinare in ordine gerarchico i fenomeni della realtà che non ha di per sé valore di verità ma che lo può assumere.
Questa narrazione ha una funzione molto semplice: permettere ad una società di muoversi e svilupparsi, darle la linfa propulsiva per raggiungere il fine della crescita. Quale valore assegnare a quest’ultima parola è uno dei criteri che possono aiutare a discriminare una parte politica rispetto ad un’altra (ma anche questa è un’altra storia che non è il momento di raccontare). Una cosa mi importa evidenziare: il ruolo della politica non è quello di cameriere, ma quello di somelier esperto in grado di comprendere i gusti del cliente e di decidere quale piatto o bottiglia sia meglio per lui o, quando essa agisce alla sua più ampia potenza, di crearne uno ex novo per lui come fanno i grandi chef. Il ruolo della grande politica è quello di inserire in una narrazione (e se a qualcuno vengono in mente Wittgenstein e Lyotard andiamoci con calma) solida il percorso che ciascuno segue all’interno della società, di fornire il cielo, le stelle e l’orizzonte ad un paesaggio altrimenti nebbioso e angusto.
Ogni narrazione è stata proiettata nel futuro più o meno lontano: anche quelle idee o ideologie o movimenti che si ispiravano a valori del passato comunque lo facevano per prescrivere valori per il futuro, per forgiare l’uomo nuovo, per la nuova futura età dell’oro.
Ora lungi dal rimpiangere tutto ciò ed evitando di generalizzare più di quanto non già fatto sopra vorrei svolgere una semplice riflessione. È oramai un luogo comune dire che qualcosa nel rapporto col futuro è profondamente cambiato (come diceva Paul Valery in un suo saggio degli anni trenta le futur n’est plus ce qu’il était! – Il Futuro non è più quello di una volta), ma credo sia interessante farlo lo stesso. Dopo la II guerra mondiale il mondo ha piano piano perso il suo “ottimismo” verso il futuro, il mito del progresso spettacolare che tanto infastidiva i vari decadenti e scapigliati di tutti i paesi uniti è andato via via scomparendo. Oggi questo fatto è praticamente emblematico. Il nostro rapporto col futuro è paragonabile solo a quello degli uomini che vivevano in prossimità dell’anno mille in una società percorsa da movimenti ereticali e catastrofismi che predicevano future sventure immani: è oramai assodato (non scientificamente ma dal punto di vista dell’opinione comune) che è possibile un futuro di cambiamenti climatici disastrosi e la letteratura (libri, film, musica, ecc.) in materia di drammi catastrofici – alieni, meteoriti, tsunami e via dicendo – è più in espansione di quella che parla di sesso. Ha senso dunque dire che ad essere in crisi non è la società ma il suo rapporto col futuro?
Se rispondiamo di sì, che è il futuro ad attraversare una crisi profonda, allora dovremmo riscontrare che, le mitologie e le narrazioni ad esso legate si trovano nella stessa situazione di crisi. È vero che la narrazione politica in quanto tale si svolge nel futuro, come dicevamo, ma non è vero che tutte le narrazioni danno strutturalmente al futuro la stessa importanza. Possiamo dire senza problemi che sicuramente le narrazioni che nell’ultimo secolo hanno dato più rilevanza al futuro sono state quelle della parte politica che ci piace chiamare sinistra. Dalla più estrema alla più moderata non c’è sinistra che non abbia creato un mito del futuro e che non si sia ad esso appellata in lungo e in largo.
Il sole dell’avvenire ne è l’esempio più chiaro. È indiscutibile che la sinistra attraversa un momento di crisi profonda.
Il rapporto col futuro è però in crisi nel senso narrativo. Cioè non esistendo un futuro in senso fisico (se non nelle azioni che dalla nostra crisi interiore vengono generate) è chiaro che la crisi attiene al rapporto narrativo che intercorre tra la società presente e la sua narrazione futura. È indiscutibile che buona parte della colpa non sia attribuibile alla sola classe politica tanto che è probabilissimo che se Craxi e Berlinguer cominciassero oggi la loro attività politica non avrebbero le stesse opportunità di azione politica avute trent’anni fa. Non è colpa della classe politica attuale se il modello di sviluppo scelto secoli fa potrebbe portare ad un tracollo dell’equilibrio climatico; non è colpa della classe politica attuale se internet ha oramai ha dilagato al punto tale che Franceschini replica ad Epifani su Twitter, Obama vince su Facebook e un nuovo partito nasce sul Blog di Beppe Grillo; non è colpa loro neanche se i Maya 1000 anni fa prevedevano la fine del mondo nel 2012.
La vera colpa della politica attuale è di non essere più in grado di raccontare una nuova storia ora che quelle vecchie si sono rivelate fasulle: vuoi perché diventate realtà quotidiana (e nel divenire realtà si sono stemperate e spesso si fatica a riconoscerle senza l’aiuto del colpo di pollice Flaubertiano che è il privilegio del racconto); vuoi perché nel momento di diventare realtà si sono sgretolate e dimostrate sbagliate. Il ruolo di guida è da sempre legato al raccontare un futuro verso cui focalizzare i propri sforzi e le proprie energie: due esempi su tutti: i Vangeli e il Manifesto di Marx. Se dunque è cambiato il rapporto col futuro non è cambiato il modo della sinistra di raccontarlo ed ecco la crisi politica da dove spunta: è come se oggi qualcuno cercasse di raccontare in esametri la guerra del Vietnam. Gli strumenti narrativi che la politica adotta oggi non sono in grado di raccontare una storia credibile ed avvincente, l’intreccio grezzo, il sistema mondo intorno a cui generare speranze ed energie non è più adatto ad essere raccontato. Chi ci prova ancora risulta ridicolo: i Marxisti Leninisti che tentano di vendere i loro giornali fanno lo stesso effetto (senza avere il beneficio della citazione e dello scherzo che l’arte dà all’artista contemporaneo) di quei pittori che dipingono acquerelli o tele in stile pseudo impressionista.
La necessità di una narrazione del futuro positiva è d’altra parte sempre più forte. Il cominciare ad imbastire una trama su cui costruire la rinascita della società occidentale. Il restituire dignità ad un tessuto sociale altrimenti votato alla disgregazione. Il fatto che le “grandi narrazioni” siano ufficialmente morte non deve assolutamente farci dubitare che non sia possibile creare nuove narrazioni, magari piccole, magari più concrete e terra a terra…e non è detto che questo sia un male. Ad ogni modo l’uomo – come diceva Sorel – per insorgere ha bisogno di un grande mito; l’uomo contemporaneo per risorgere o forse sorgere e basta ha bisogno di un orizzonte nuovo e di ampio respiro verso cui costruire la società postmoderna: è compito di tutti i ceti dirigenti costruirlo e pensarlo, ma è sicuramente della politica il compito principe di raccontarlo.
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