martedì 22 dicembre 2009

Franco D'Alfonso: la memoria della città

Da Arcipelago

LA MEMORIA DELLA CITTA’
22-12-2009 by Franco D Alfonso
Qualcuno dice che la storia si debba scrivere solo dopo cento anni, perché le passioni ne impedirebbero l’obiettività. Istituire una “Casa della memoria”, dando fisicità e tattilità a ricordi dolorosi che lacerano la vita e i rapporti di persone, famiglie e comunità ancora in carne e ossa è un’impresa ancora più difficile e ardita.


La capacità di ricordare, di elaborare le situazioni e il lutto non sembra essere nelle nostre corde. Le nostre storie sono storie di odii e pentimenti, di risentimenti o perdoni “tombali”, non di evoluzione critica. Negli Usa il campo di sangue di Gettysburg, dove oltre cinquantamila americani si massacrarono in tre giorni di battaglia, è oggi un parco che è fra i siti più frequentati, molto curato e meticolosamente mantenuto, ma già pochi giorni dopo, a sepoltura dei corpi appena terminata, il presidente Lincoln pronunciò quello che è considerato il “discorso della rifondazione ” nel quale disse, a guerra ancora in corso e dall’esito incerto, che “nessun soldato, del Nord o del Sud, a Gettysburg è morto invano”. Quaranta anni dopo, in perfetto stile americano, si realizzò una grandiosa rievocazione della battaglia, con i sopravvissuti impegnati a inscenare, nei rispettivi campi e ruoli, perfino la famosa “carica di Pickett”, l’assalto dei fucilieri sudisti inchiodati dalle mitragliatrici poste sul saliente della “collina del cimitero” durante la quale oltre diecimila soldati persero la vita.


Solo da pochi anni noi riusciamo a chiamare col nome di “guerra civile” quella che precedette la Liberazione: il popolo non “può” essersi diviso, le ragioni degli altri non sono nemmeno indagabili. Maestri di democrazia e di moralità politica come Pertini, Aniasi, Valiani si rifiutarono fino all’ultimo di prendere in considerazione le “ragioni degli altri”. Ho un ricordo personale a riguardo: nell’intervallo di una manifestazione nei locali del Circolo De Amicis negli anni ottanta, il comandante “Iso” Aniasi e Giulio Polotti, tra i protagonisti della Resistenza nelle fabbriche di Sesto iniziarono a discutere di un fatto risalente a quei tempi, una presunta mancata tempestiva informazione da parte della formazione di Polotti a quella di “Iso” in merito allo spostamento lungo viale Monza di un drappello di repubblichini diretti al comando delle SS in viale Regina Margherita. Di fronte a pochi compagni assolutamente sbalorditi, quelli che erano due assoluti esempi di autorevolezza politica nonché tra i più noti e capaci artisti della mediazione cosiddetta “alta” diedero vita a una discussione i cui toni si alzarono repentinamente, discussione che verteva sulla vera e propria arrabbiatura di Iso che si rendeva conto, quarant’anni dopo, di aver perso l’occasione di infliggere un duro colpo alle Brigate Nere …


Ma se possiamo comprendere che ai protagonisti della stagione di sangue sia difficile chiedere di uscire dallo schema amico-nemico che prevede la sola variabile traditore o pentito che, pro o contro che sia, resta oggetto di disprezzo, ben pochi altri hanno cercato di farlo. Ciascuno seppellisce i propri morti e si dedica al proprio culto del ricordo, rifiutando le ragioni degli altri: nella nostra città Pansa è considerato un traditore per interesse editoriale e monetario e il “sangue dei vinti” non meritevole di nulla per gli uni, verità assoluta finalmente emersa per gli altri. La lapide di piazza Conciliazione che ricorda il barbaro assassinio di Eugenio Curiel per mano fascista per gli “altri” merita di essere ricordata solo come esempio del perpetuarsi dell’ingiustizia che ha impedito che analoga targa fosse posta in via Bronzetti a ricordare la fine di Aldo Resega, prima vittima dei Gap, freddato mentre aspettava il tram per andare a lavorare.


Il fatto che anche le lapidi sui muri siano una sorta di continuazione della guerra con altri mezzi fa sì che alla progressiva e inevitabile scomparsa dei protagonisti di quei tempi corrisponda un degrado vergognoso dei segni della memoria: nessuno più mantiene pulita e leggibile quella che ricorda trenta partigiani uccisi del quartiere di Porta Genova, corrosa come è dal tempo sulle pareti del vecchio casello abbandonato in piazza Cantore.


La cura dei luoghi della memoria è il primo passo per cercare quello che ancora non abbiamo e che forse non avremo mai, quella “memoria condivisa” che è il cemento di una nazione, di una comunità, di un popolo.


Non so se la “Casa” che troverà posto all’ombra dei grattacieli che deturperanno la memoria del quartiere Isola arriverà in tempo e ci porterà a ricordare e a pensare alla Liberazione o agli Anni di piombo senza aspettare l’insorgere di una delle solite risse da bulli della politica che d’improvviso scoppiano sui giornali senza apparente ragione fondata. Ma se così sarà in molti dovremo essere grati alla tenacia e all’onestà dei pochi che non si sono persi d’animo ed hanno dato a tutta la città un prodotto sempre più raro: la speranza di trarre dal passato l’insegnamento per un domani migliore.




Franco D’Alfonso

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