venerdì 12 maggio 2017

Franco Astengo: Il disastro delle privatizzazioni e il capitalismo italiano

IL DISASTRO DELLE PRIVATIZZAZIONI E DEL CAPITALISMO ITALIANO di Franco Astengo Nell’ormai chiacchieratissimo libro di Ferruccio De Bortoli sui presunti poteri forti in Italia non c’è soltanto l’accenno alla vicendaccia riguardante Maria Elena Boschi e il suo presunto “familismo amorale”. Vi sono altre storie e su una di queste val la pena sicuramente di soffermarci. IL “Corriere della Sera” del 9 Maggio ha, infatti, ospitato, nelle pagine dedicate alla cultura, una anticipazione del oibro edito dalla “Nave di Teseo” nel quale l’ex-direttore dello stesso Corriere della Sera e del Sole 24 ore racconta la sua esperienza di 40 anni di giornalismo. L’interesse maggiore però sta nella lettura del brano che viene anticipato nelle pagine del quotidiano. La scelta è caduta sul passaggio relativo alla privatizzazione di Telecom (avvenuta con la contrarietà di Gianni Agnelli) e il successivo passaggio, febbraio 1999 presidente del consiglio Massimo D’Alema ministro del tesoro Carlo Azeglio Ciampi, ministro delle Finanze Vincenzo Visco e ministro dell’industria Pierluigi Bersani, alla cordata dei cosiddetti “capitani coraggiosi” guidati da Roberto Colaninno che lanciò un’Opa da 100 mila miliardi di lire. Per i dettagli della descrizione della vicenda svolta da De Bortoli si consiglia di leggere l’articolo (e naturalmente il libro) anche per ragioni di economia del discorso. Vale la pena però, in questa occasione, sottolineare alcuni aspetti: 1) Nel tunnel della privatizzazione Telecom entra con centomila dipendenti, nessun debito e il primato di aver introdotto in Italia la fibra ottica. L’operazione “capitani coraggiosi” si evolve caricando la società di debiti per il valore del 70% dell’OPA, la cessione di Omnnitel e Infostrada ai tedeschi di Mannesmann e con un aumento di capitale della Olivetti per 2,6, milioni di euro (aggiunta n.d.r.: e la creazione della figura dell’esodato per decine di migliaia di lavoratori costretti ad uscire dal circuito produttivo). Nel 2001 poi la quota dei “capitani” (con un’ingente plusvalenza) fu rilevata da Tronchetti Provera e Benetton. Il debito al 30 settembre 2001 era di 22,6 miliardi di euro, mentre quello di Olivetti era di 17,8. Complessivamente sul gruppo gravava un debito di 40,4 miliardi. Questo fatto documenta il tragico andamento di uno dei più importanti processi di privatizzazione attuato in un settore strategico come quello delle telecomunicazioni; 2) Dal resoconto di questa storia si evince (De Bortoli ne scrive esplicitamente) di un capitalismo italiano dal “braccino corto” (testuale) che reclama le privatizzazioni e poi non investe e non rischia. Si tratta di quel capitalismo sempre “in braccio alla mamma”, lo stesso che nel 1980 uscì dalla vertenza FIAT (quella della marcia dei 40 mila) con la mano libera. Nel frangente descritto da De Bortoli siamo ai vertici di questo capitalismo: si scrive, infatti, di Cuccia, Mediobanca, Agnelli.Una bella compagnia di salvatori della Patria in pericolo; 3) In questa vicenda, reso contata perché ritenuta del tutto emblematica, risalta il ruolo del governo di centrosinistra del tutto accondiscendente alle logiche dominanti del profitto per pochi e della creazione di debito per tutti nell’idea “ridisegnare il capitalismo italiano”. Sono queste le storie attraverso il cui svolgimento concreto si è arrivati al disastro attuale perseguendo filosofie e scelte profondamente sbagliate e dannose. Forse è il caso di ricordarle quelle storie prima di tutto quando si ripercorre quanto accaduto in quegli anni e si pensa al ruolo della cosiddetta “sinistra di governo” e alla totale insufficienza nella sua capacità d’analisi (altro che i convegni del Gramsci anni’60 sulle “Tendenze del capitalismo italiano”) e alla subalternità prima di tutto culturale agli interessi dei soliti “padroni del vapore”. Subalternità prima di tutto culturale che oggi ci ha condotto ai piedi di Marchionne. In secondo luogo rammentare quelle vicende dovrebbe aiutarci nel riflettere sulle scelte politiche da adottare nell’attualità e nel prossimo futuro.

12 commenti:

luciano ha detto...

Condivido le considerazioni di Astengo, ma mi permetto di aggiungere una chiosa che non gli farà piacere.

Il giustamente deprecato “ruolo del governo di centrosinistra del tutto accondiscendente alle logiche dominanti del profitto per pochi e della creazione di debito per tutti nell’idea “ridisegnare il capitalismo italiano”” ha una spiegazione politica e, se volete, anche psicopolitica.

Una spiegazione che è tutta interna alla filiera Pci-Pds-Ds, e che in seguito troverà compiuta manifestazione nel Pd.

Il peccato originale, la matrice comunista, ha condizionato un ceto dirigente che proveniva praticamente tutto da quella storia (Astengo cita i nomi di Massimo D’Alema, Carlo Azeglio Ciampi, Vincenzo Visco e Pierluigi Bersani; ma Ciampi era ministro “tecnico”) sotto due diversi profili.

Sotto il primo profilo, quello del metodo, ha portato a concepire questo tipo di rapporti con scarsa attenzione verso l’interesse generale e più come rapporti da potenza a potenza, dove il criterio è il supposto vantaggio che ne può conseguire il Partito. Parlo di vantaggio in termini politici, non ho elementi per parlare di altro (ma a pensar male si fa peccato …).

Sotto il secondo profilo, quello della psicopolitica, ha portato ad attribuire un peso decisivo – nell’individuazione del vantaggio di cui sopra – all’elemento del ritorno in termini di legittimazione. Questo è un tratto distintivo della famiglia comunista e post-comunista: la necessità di essere legittimati, sdoganati, accreditati non per forza propria ma da una qualche “potenza” esterna. Una forma mentis che a noi socialisti è del tutto estranea.

Così come il Pci togliattiano fortissimamente volle intestarsi l’inserimento del Concordato nella Costituzione nell’ansia di essere legittimato dalla potenza Chiesa Cattolica (peraltro non riuscendovi, se non dopo decenni), così i tardi eredi, benché ormai lontanissimi da quella storia e soprattutto dalla parte migliore del suo bagaglio valoriale, hanno continuato a coltivare il bisogno spasmodico di essere ammessi in società e di farsi rilasciare attestati di buona condotta. Di qui uno zelo tutto particolare nel rapporto con la potenza Salotti Buoni del Capitalismo italiano, con la quale non si sono accontentati di venire a patti. Hanno voluto farsene paladini, profeti, zerbini …

Siamo di fronte insomma agli ultimi disastri del comunismo. Dopo aver prodotto un fallimento epocale da vivo, ha continuato a rovinarci con le sue scorie da morto. Fino a produrre il Pd, con la sua tabula rasa ideologica e la sua illimitata disponibilità a rendersi funzionale al pensiero dei gruppi dominanti.



Luciano Belli Paci

franco ha detto...

Condivido in toto le considerazioni dell’avv. Belli Paci. Anzi aggiungo: una delle ragioni di più forti del mio costante dissenso nei confronti dell’establishment del PCI derivava proprio dalla constatazione del permanere di una sudditanza, anche psicologica, nei confronti del “potere costituito” (o almeno a quello che si intendeva come tale) allo scopo di accreditarsi pensando di essere – considerati – in quanto comunisti ( o ex – tali) “figli di un dio minore” (uso un’espressione letteraria soltanto per farmi intendere). Almeno il disegno di Togliatti si collocava “in grande” e puntava ad ottenere una “legittimazione nazionale” per il partito che rappresentava – davvero – la classe operaia (una legittimazione che aveva un senso e un peso anche nella dinamica complessa delle relazioni nel movimento comunista internazionale e nei confronti del PCUS: per questo motivo ho apprezzato e condiviso molto di Togliatti). Questi invece, come sottolinea giustamente Belli Paci, hanno sempre fatto la figura dei parvenu e degli imitatori grossolani non esprimendo mai una loro autonomia di pensiero. Ciò non si è verificato soltanto a dimensione nazionale, ma anche e soprattutto a livello locale con ostentazioni rispetto appunto “ai salotti buoni della borghesia (provinciale)” ai limiti del ridicolo. Esattamente scrive Belli Paci “il bisogno spasmodico di essere ammessi in società e di farsi rilasciare attestati di buona condotta”. Grazie per l’attenzione Franco Astengo

claudio ha detto...

Direi che il complesso del “salotto buono” dell’area PCI ( che io chiamerei il complesso di Madame Verdurin, il personaggio di Proust pronta a tutto pur di avere una duchessa nel suo salotto) non ha mai fatto parte del DNA socialista: non ce lo aveva certo Lombardi e neanche Paolo Leon, precocemente scomparso, ma neanche Mancini, che appena diventato ministro ha messo alla porta due potentissimi direttori generali. Se mai, nel nostro DNA c’è la vocazione a dissacrare i dogmi della scienza economica ufficiale (che scienza non è, ma solo un ramo della filosofia) che ha cominciato a usare le formule matematiche come i medici del ‘600 usavano il latino: per non far capire ai pazienti quanto erano ignoranti. Sta di fatto che neanche alla Banca Mondiale sono capaci di dare una definizione omogenea del PIL, valida per ogni paese del mondo. E’ ora di cominciare a dissacrarli come fecero con successo nei confronti della Chiesa i socialisti di fine 800...Quei socialisti dicevano che l’immacolata concezione era una sega teologica, come lo è oggi l’idea di coniugare austerità e sviluppo, praticando lo sterminio dei pensionati greci e portoghesi...

roel ha detto...

Ma, parlando del passato, non dovrebbe ritenersi corretto omettere i lati oscuri di personaggi e fatti. Nè dimenticare che il capitalismo e i padroni del vapore avrebbero da sempre foraggiato sottobanco i partiti della Repubblica, nessuno escluso. Se questa non è una semplice ipotesi, si spiegano le "doppiezze" dei comportamenti da parte di tanti rappresentanti della "classe operaia".
Le generazioni successive di costoro si sono poi "sbracate", salvo eccezioni, nell'accumulare privilegi e prebende, con l'unico obiettivo
di arricchimento per sè e famiglie. Si tratta di quei privilegi di cui oggi non riusciamo a liberarci in nome di leggi fatte da loro e dichiarate non operanti retroattivamente.
Per rendersi conto di quanta pazienza e sopportazione è stato caricato il popolo italiano, basti considerare le caste e le supercaste, Se anche i "vitalizi" hanno perfino acquisito il carattere di reversibilità, è dovuto a leggi fatte da loro e per loro.
Se gli stipendi di alcuni "organi superiori" dello Stato superano per decine e decine di volte quelli dell'operaio o del lavoratore pensionato con 40a. di servizio, tutto è dovuto all'ingordigia e all'operato di una minoranza di uomini, con la complicità partecipativa anche dei cosiddetti "rappresentanti del popolo". Se ciò è avvenuto, non bisogna ipocritamente fingersi sorpresi se l'astensionismo e la sfiducia
hanno raggiunto livelli così alti e problematici.
A ciò si aggiungano i fenomeni della globalizzazione per cui i ricchi sono diventati sempre più ricchi a danno dalla maggioranza a cui in larga parte viene perfino negata la possibilità del lavoro e della sopravvivenza, o, quando il lavoro c'è, molti dei diritti conquistati con lotte e mobilitazioni decennali, vengono scalfiti o negati con politiche ricattatorie e degradanti.
Perchè fingere meraviglia per la "perdita di autonomia del pensiero" e per la ricerca di "attestati di buona condotta" ?
Come spiegare che tra i super pensionati sono presenti numerosi rappresentanti dei cosiddetti "partiti e sindacati di sinistra" ?
In alcuni casi trattasi di pensioni di 20-30-40....mila Eu !!!!!!!
Purtroppo non possiamo sottrarci dal guardare al futuro ponendoci la fatidica domanda : "Che fare ? ". Un saluto., Roel

mimmo ha detto...

Mi pare che la lettura dell’intervista al prof. Cacciari non abbia insegnato niente.
Il buon De Bortoli, che ha servito in tutti questi anni il buon capitalismo, quello apparentemente più sofisticato nel disastro Rizzoli Corsera , liberatosi delle catene, ritornando agli anni della gioventù, pretende di raccontare storie nuove che sanno di muffa.

mimmo ha detto...

Che il capitalismo italiano sia familista è come scoprire l’acqua calda, così come affermare che la sinistra italiana, nel divenire degli anni si è dimostrata ignorante. Il disastro è innanzitutto dovuto all’ignoranza della sinistra, priva di cultura industriale, perché per anni anti imprenditoriale, e quindi asimmetrica ed incapace di cogliere le conseguenze di un nuovo sviluppo. Una sinistra geneticamente propensa più alla democrazia dell'impedire che a quella del fare, che di fronte alle sconfitte della storiaè costretta a diventare accondiscendente o per opportunismo, per salvare la faccia o per impedimento di soluzioni. I primi compromettersi furono proprio i sindacati, che si sono fatti imprenditori o meglio dispensatore di ‘reddito’ improprio per se stessi, complici nella complessità burocratica a partire dalla gestione INPS, progenitrice dei patronati per proseguire con la gestione della formazione per conversioni verso il ‘maturo’ e non il nuovo, per proseguire poi con una visione centralista che impediva di cogliere la differenza culturale, economica e filosofica dei diversi territori,l’avversione ideologica alle gabbie salariali per il sud, ne fu un tragico esempio di cui si pagano ancora oggi le conseguenze.

mimmo ha detto...

Il disastro italiano, ha tanti padri quasi nessuno immune dalla responsabilità di un puzzle corporativo senza pari, il cui propellente è da sempre la declinazione di diritti senza il contrappeso dei doveri, vedasi il diritto alla casa svincolato da qualsiasi responsabilità civica, o il diritto al lavoro senza responsabilità nel suo svolgimento, l’assenza di cultura industriale e manageriale di una classe politica che affonda le sue radici culturali nelle scienze giuridiche in quelle filosofico letterarie , quando non nell’auto dittatico, nelle organizzazioni politiche, la presuntuosità autoreferenziale di partiti e sindacati, sottratta al confronto con altre realtà e che dalla differenziazione ideologica hanno tratto profitti, una destra concorrente sulle corporazioni, incolta ma che sceglieva o di affidarsi alla libertà imprenditoriale o di concorrere alla gestione di un pubblico esteso oltre misura, di un’imprenditoria nazionale, che della propria responsabilità etica aveva una concezione inferiore a quella di certi capitani dell’industria che li avevano preceduti, le cui testimonianze sono ancora presenti in molte comunità. Il caso Olivetti è l’emblema dell’ignoranza, di una sinistra ideologica che oggi porta ancora alla discriminazione nei confronti di Marchionne, che ha sì salvato gli interessi della famiglia Agnelli, ma ha salvato posti di lavoro che sarebbero andati persi, e che l’imprenditore che più di tutti ha concorso a rafforzare la capacità produttiva al Sud.

mimmo ha detto...

Credo che i lavoratori di Cassino, Pomigliano o della Lucania, debbano preoccuparsi per la non lontana uscita di scena di Marchiane, che ha salvato il loro posto di lavoro premiandone anche la produttività (parola blasfema). Argomento retrò da salotto intellettuale, è la rancorosa avversione nei confronti di Marchiane che ha annichilito il pressapochista vetro sindacalista Landini.

mimmo ha detto...

Mai sostenitori della differenziazione ideologica con i relativi garanti, devono prima o poi presentare il bilancio del come fare e soprattutto del come e dove fatto. Chiunque s’ industri a cercare, al di fuori di comunità religiose o fortemente solidaristiche, un bilancio presentabile o riproponibile è ora che si faccia avanti e si confronti, ma la loro faretra è purtroppo piena di fallimenti, che li costringe a ripiegare nell’autarchia , ma l’autarchia non regge e se ben contrastata, vedi Europa, ne ridimensiona le aspirazioni promotrici. Non è il caso di scomodare il destino cinico e baro,

mimmo ha detto...

Oggi, a dominare è la paura, e solo chi è in grado di essere percepito come credibilità, vedi Merkel o Maj , l' alternativa è rappresentata da chi promuove e cavalca meglio la paura. I cavallerizzi dii una volta, non sono più credibili,non possono più esibire riferimenti, comunque percepiti come non in grado di rimuovere la paura ed i capri espiatori riproposti, o sono stati riadattati e diventati già patrimonio temporaneo dei populisti o il ‘target di riferimento’ , come ricorda Cacciari si è talmente assottigliato (vedi classe operaia).
La rivoluzione tecnologica ha sia ridotto che moltiplicato le fabbriche nel globo, non solo e non sempre in funzione dei costi di produzione, ha creato, nei settori più dinamici e produttivi un diverso rapporto tra capitale finanziario e capitale umano, ma si ha li’mpressione che la permeabilità del nostro sistema politico e sociale sia ancora minima.
La cultura della classe politica degli anni 80, giuridica e letteraria, non aveva le basi per comprendere il futuro di Telecom , perché non ne aveva la vision, si trovava in gap nel confronto industriale e il differenziale tra modernità e arretratezza veniva lasciato declinare alla sfera privata, evidenziando peraltro una forte carenza di competenze nella cultura del controllo. Telecom è stato l’emblema di un assalto ai monopoli, senza contrasti,la carenza di cultura di mercato e di futuro ha scaricato sui valori delle trimestrali il valore di Telecom, ma poiché il monopolio non fungeva più la si è spogliata. Se non si compie un’analisi coerente e coraggiosa e non ci si domanda perché mai il nostro Paese continua regredire, nel contesto competitivo, vedi benchmarck su crescita in Europa e Produttività, saremo costretti a domandarci,a vita, dove abbiamo sbagliato e la colpa sarà sempre degli stessi: capitalismo vorace, finanza pirata, familismo, sinistra compiacente, verità nascosta, la non conoscenza come propellente per la demagogia e ci sarà ancora un De Bortoli ancora che ci narrerà cose di cui siamo consapevoli e che non ci ha raccontato prima. Dov’era De Bortoli di fronte all’impropria espansione del potere giudiziario divenuto corpo separato dello Stato,cosa ha fatto per contrastare la cultura giuridica che veniva calpestata col supporto di un’informazione nella nuova formula dell’accusato che deve dare la dimostrazione della propria innocenza, come si evidenzia ogni giorno, anche nel caso Banca Etruria, dov’era De Bortoli di fronte ai tentennamenti dell’imprenditoria al rischio d'impresa, dov’era De Bortoli di fronte ad un sindacato che si era fatto corporativo per necessità ma che pretenderebbe di dettare le linee di indirizzo di sviluppo, dov’era De Bortoli di fronte a uno Stato che tramite le mance insegue il voto di scambio, propellente per la parcellizzazione della rappresentanza; nel calderone tutto fa brodo e tutto fa notizia. forse è il caso di capire come se ne esce, in un Paese, dove l’antidoto alla paura non riesce a comparire, per quel primum esistere, e se tenta di comparire lo si abbatte subito perché è più utile la confusione, con la quale tutti possono galleggiare.Il problema è il futuro, per i giovani e non le giaculatorie sul passato, ai giovani del caso Telecom interessa poco, a loro interessa il come resistere per poter esistere e affrontare il futuro in una società nella quale sono i risparmi delle generazioni precedenti che li tengono ancora per un po’ a galla. Lo spartiacque è tra coloro che perseverano nel credere che ilmeglio sia nemico del bene, o che solo il tanto peggio può aiutare la rincorsa al meglio, e quanti credono che il cambiamento si possa governare e lenirne le conseguenze, avendo ben chiaro ciò che dobbiamo al futuro e ciò che non possiamo più nel presente.

francesco ha detto...

Luciano ha certamente ragione nel denunciare certe patologie psicologiche (tipiche del mondo comunista) nel mostrare atteggiamenti molto spesso ossequiosi e deferenti verso certi presunti "salotti buoni" del capitalismo italiano.

Ma nei guasti prodotti dal Centro-Sinistra entrano in gioco, a me pare, anche altri fattori. Prendiamo il caso di Romano Prodi. Negli anni Ottanta e primi anni Novanta egli si mise in luce come un risanatore dell'IRI e del sistema dell'industria pubblica del Paese. E' vero, compì, o tentò di compiere, anche alcune operazioni di privatizzazione molto discusse, come quella della tentata vendita della SME a De Benedetti, o quella della cessione dell'Alfa Romeo alla FIAT (operazione che portò sostanzialmente alla distruzione dell'Alfa stessa). Ma nel complesso si mise in evidenza come un fautore dell'industria pubblica: un keynesiano, come lui stesso amò definirsi. Poi però, divenne presidente del Consiglio, nel 1996, e portò un contributo massiccio a privatizzazioni spesso discutibilissime (pensiamo alle autostrade). Ma come? Prima, da presidente dell'IRI, difendi (in buona sostanza) l'economia pubblica, e poi, dopo pochi anni, ne promuovi lo smantellamento? Nel suo libro del 2015, "Missione incompiuta", Prodi stesso si vantò di aver preso "iniziative di liberalizzazione che nessun altro governo ha intrapreso" (p. 93).

Come si spiega che un personaggio del genere si sia potuto rendere protagonista, nel giro di pochi anni, di politiche così radicalmente contrastanti? C'entra anche qui la psicologia?

Nel libro citato Prodi risponde così a Marco Damilano: "erano maturati gli ultimatum europei che ci spingevano a privatizzare. E soprattutto [...] c'era un'opinione pubblica ostile all'industria pubblica. L'obbligo era privatizzare e cambiare la missione dell'IRI fino a portarla a termine" (p. 80-81).

Una vulgata diffusa vuole in realtà che i programmi di smantellamento dell'industria pubblica italiana siano in realtà stati decisi in occasione del famoso convegno dello yacht Britannia, del 1992, in cui finanzieri e banchieri internazionali (soprattutto inglesi e olandesi) si ritrovarono, tra l'altro, con diversi esponenti del mondo economico e politico italiano, ivi compresi alcuni alti funzionari dell'IRI (che Prodi aveva nel frattempo lasciato) e con l'allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi. E' forse una lettura un po' semplicistica, nel senso che non sarà stato certo quello il solo momento decisivo. Ma l'impressione è che la svolta nelle politiche industriali italiane e la decisione di metter mano allo smantellamento dell'industria pubblica (con le campagne di orientamento dell'opinione pubblica in favore della privatizzazione) siano state decise proprio sotto la irresistibile pressione di poteri esterni al Paese. Una pressione rispetto ai quali i governi di Centro-Sinistra non opposero in realtà alcuna resistenza.

Francesco Somaini

luciano ha detto...



Caro Francesco,

come sai non ho mai avuto una grande opinione di Romano Prodi, che è il classico caso di personaggio modesto che grazie ad un prolungato vuoto politico assurge a ruoli del tutto sproporzionati. Dopo di che non solo si autoconvince di essere un leader politico ma addirittura convince una fetta significativa dell’opinione pubblica di trovarsi al cospetto di un leader politico. Un caso di allucinazione collettiva che andrebbe studiato.

Però il voltafaccia che tu gli attribuisci ha una robusta attenuante.

Infatti, tra il primo Prodi keynesiano ed il secondo Prodi privatizzatore ci fu la slavina di mani pulite, che delegittimò, oltre ai partiti, tutto ciò che si inscriveva nella sfera “statale” in senso lato, tutto ciò che era pubblico o para-pubblico.

Uno tsunami culturale che ha rapidamente trasformato in senso comune un pensiero thatcheriano.

Il ruolo del povero Prodi, in tutto questo, è stato quello dell’intendenza di Napoleone (pur credendosi Napoleone).



Luciano