Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
mercoledì 31 maggio 2017
Franco Astengo: Democrazia
VERTICALE E ORIZZONTALE di Franco Astengo (con preghiera,da parte di chi condivide, di diffusione)
Nell’assistere a ciò che sta accadendo attorno alla vicenda della legge elettorale diventa difficile non usare il termine “partitocrazia”, inventato da Maranini sul finire degli anni’40 con intenzioni dispregiative per la classe politica di allora.
Un termine quello di partitocrazia che non si vorrebbe usare perché sicuramente dall’eccessivo sapore qualunquistico, ma temo non ci sia nulla da fare.
Ci troviamo, infatti, di fronte all’odioso esercizio di un potere usato, soprattutto con la complicità della cosiddetta “grande stampa” e della televisione, utilizzando argomenti del tutto mistificatori al fine di conservare l’incostituzionale potestà di “nominare” d’ufficio i membri del Parlamento anziché farli eleggere liberamente dal corpo elettorale come prevede la Costituzione: un diritto già leso con la legge maggioritario / proporzionale del 1993 e poi del tutto negato alle elettrici e agli elettori italiani almeno dalle elezioni legislative del 2006.
Questo potere, esercitato da gruppi ristretti che – per varie ragioni – si trovano in posizione dominante all’interno di partiti sempre più svuotati di partecipazione e di iniziativa politica, è la questione vera che si trova al centro di questa vicenda politica riguardante la modifica della legge elettorale: modifica, è sempre bene precisarlo, dovuta a ben due sentenze della Corte Costituzionale che hanno dichiarato illegittime le due leggi precedenti, una applicata in tre occasioni (2006, 2008, 2013) e l’altra (il meraviglioso “Italikum”, quello che doveva essere imitato da tutta Europa) mai pervenuto alla prova.
Il dibattito sulla governabilità, sul potere dei piccoli partiti, ecc, ecc, infatti, è del tutto finto.
Infatti, si contrabbanda per “tedesca” una formula elettorale che prima di tutto non c’entra nulla con la Germania e in secondo luogo, proprio rispetto al modello “made in Deutsch” omette i punti fondamentali:
1) Il voto disgiunto tra parte proporzionale e collegi uninominali;
2) La flessibilità nel numero dei parlamentari eletti, possibile in Germania ma impossibile in Italia senza una modifica della Costituzione. In questo modo, in Italia, restano irrisolte due questioni: la prima quella dei seggi eventualmente conquistati nella parte uninominale da partiti che in quella proporzionale non superano la soglia del 5% (in Germania si ha diritto a partecipare alla suddivisione dei seggi nella parte proporzionale non soltanto superando – appunto – il 5% ma anche conquistando tre seggi nella quota uninominale. Inoltre resta inevasa, sempre in Italia, la possibilità di candidature indipendenti nei collegi uninominali, non legate a liste presenti nella quota proporzionale;
3) La scelta delle candidature nei collegi uninominali avviene, in Germania, attraverso il voto segreto degli iscritti ai partiti riuniti collegio per collegio in assemblea (non per le strade o nei gazebo con la partecipazione di chi passa come avviene nelle finte primarie italiane). Questo è un altro passaggio fondamentale perché accadrà nel “caso italiano” che le scelte dei candidati nei collegi uninominali arriverà da parte delle segreterie dei partiti attraverso il criterio del “paracadutare” i fedelissimi nei collegi sicuri: con il risultato che, in combinato disposto, con le liste bloccate nella parte proporzionale avremo nuovamente un Parlamento composto completamente di nominati dall’alto. Questo elemento rende del tutto di retroguardia la cosiddetta battaglia dei “vitalizi”. I vitalizi, infatti, ci saranno – eccome – per i “fedeli” secondo i criteri inscindibili del “bacio della pantofola” ai maggiorenti e capi bastone;
4) Inoltre in Germania, con buona pace dei cultori della “governabilità” (del cui novero non facciamo parte) esiste, costituzionalizzato, l’istituto della sfiducia costruttiva. Insomma: non si può far cadere un governo se non ne è già pronto un altro.
Ci troviamo quindi di fronte ad una gigantesca mistificazione di massa, degna della propaganda degli anni’30 e corollario di un “regime” che andava denunciato per tempo e che invece è andato avanti con la complicità di molti.
Si tratta di uno snodo fondamentale di quello scontro tra “verticalizzazione del potere” e orizzontalità dell’agire sociale: un nervo scoperto lasciato dalla crisi verticale dei soggetti intermedi di sintesi e di mediazione aperta fin dagli anni’90 del XX secolo e che si pensava – appunto – di affrontare attraverso l’adozione di sistemi elettorali “escludenti” portati fino al paradosso del Parlamento dei nominati.
E’ questo il punto, quello dell’esclusione del corpo elettorale dalla scelta dei propri rappresentanti: un crinale molto scivoloso per quella che appare ormai, nonostante la conferma avuta dal corpo elettorale il 4 Dicembre, una ex-democrazia.
Franco Astengo: Siderurgia italiana
LA SIDERURGIA ITALIANA CARTINA DI TORNASOLE DELLA CRISI INDUSTRIALE DEL PAESE (a cura di Franco Astengo)
Questa la notizia di oggi:
“L'Ilva rischia di dover subire dai 5mila ai 6mil esuberi: una sforbiciata drastica al personale che inizierà a prendere forma quando il colosso siderurgico passerà dall'attuale amministrazione atraordinaria alla cordata vincitrice della gara, con ogni probabilità il tandem ArcelorMittal-Marcegaglia scelto dai commissari straordinari.
I numeri, tanto più pesanti se si pensa che il gruppo Ilva lavora a scartamento ridotto e con 4.100 dipendenti in cassa integrazione (3mila 300 fra Taranto e Marghera e 800 tra Genova e Novi). Secondo quanto riferito dai sindacati, il piano ArcelorMittal e Marcegaglia prevede 4mila 800 esuberi da subito per poi salire a 5mila 800 nel 2023.
Tenuto conto che il gruppo Ilva ha in tutta Italia 14mila 200 dipendenti, questo significa che si partirebbe con una forza lavoro di 9mila 400 addetti per poi scendere a 8mila 400 nel 2023. Mentre la cordata Acciaitalia prevede 6mila 400 esuberi e con una forza lavoro di circa 7mila 800 addetti alla fine del 2018 per poi far risalire l'occupazione fino a 10mila 800 addetti nel 2024. Differente fra le due cordate anche il costo medio annuo per lavoratore che per ArceloMittal e Margegaglia arriva al 2023 di 52mila euro, mentre per Acciaitalia arriva al 2023 a 44mila euro”
Considerazioni possibili a questo punto
Sorge un interrogativo che già da tempo aleggia in aria senza risposta: A quale piano industriale corrisponde la prospettiva che si apre con questo passaggio dall’amministrazione controllata alla cordata vincente?
Quale logica, sempre sul piano industriale, corrisponde agli intendimenti del governo partendo da un altro interrogativo: la siderurgia è considerata settore strategico e a quale tipo di siderurgia si pensa (Federacciai denunciava recentemente il fatto che l’Italia importi laminati piatti)?
In sostanza si conferma la profonda crisi industriale che attraversa il nostro Paese, la rinuncia ad un serio intervento di gestione pubblica nel settore, l’apertura di una fase intensiva di sfruttamento per i lavoratori.
Sarebbe necessario avere chiare le prospettive in materia di lavorazioni e, nello stesso tempo, di rapporto tra la produzione e l’ambiente che a Taranto costituisce il punto focale di tutta la vicenda ricordando che, per Genova, si è rinunciato da tempo all’area a caldo ed esiste un accordo di programma che in questo caso risulterebbe clamorosamente tradito.ù
Ovvio a questo punto invocare la necessità di mobilitazione: appunto però l’assenza di una prospettiva industriale rischia di far apparire la mobilitazione sindacale la pronunzia di parole vuote di fronte a scatole che il profitto intende assolutamente svuotare.
martedì 30 maggio 2017
Emanuele Macaluso: Irridevano Corbyn...
EM.MA in corsivo
1 h ·
IRRIDEVANO CORBYN E POI QUI DA NOI…
Su questo spazio, più di una volta, ho espresso la mia opinione su Jeremy Corbyn replicando a chi, tra i media e tra i presuntuosi personaggi che circolano anche nel Pd e nel centrosinistra, lo descriveva come un alieno che portava alla rovina il laburismo britannico. Osservavo che Corbyn era stato eletto segretario del partito in due congressi, sconfiggendo democraticamente, dopo dibattiti serrati, altri candidati “moderati”. L’ultimo confronto lo contrappose alla maggioranza del gruppo parlamentare che gli aveva votato un documento di sfiducia. La cosa che sorprendeva, e che sottolineai, era che con Corbyn il partito laburista cresceva nelle adesioni soprattutto tra i giovani. Una cosa è discutere serenamente le sue posizioni, sulle quali si può concordare o meno, un’altra è considerarlo un estremista estraneo alla storia e alla tradizione del laburismo. Corbyn invece è figlio del laburismo: è stato ed è parlamentare ripetutamente eletto nel suo collegio. Quando la premier Theresa May ha sciolto il parlamento e indetto nuove elezioni, i grandi giornali italiani hanno irriso al fatto che il suo sfidante sarebbe stato il laburista Corbyn. E siccome nel Regno Unito c’era chi aveva definito il suo manifesto elettorale come una “lunga nota di suicidio”, i giornali italiani - e non solo - si associarono a questo giudizio.
I sondaggi, per la verità, davano la May a 25 punti di vantaggio su Corbyn. Ieri il giornale conservatore The Telegraph ha pubblicato un sondaggio, accompagnato da un allarmato commento, annunciando che trai due sfidanti il distacco ormai è tra i 5 ed i 6 punti di percentuale; e giorno dopo giorno Corbyn sembra guadagnare terreno. Oggi anche il Corriere della Sera corre ai ripari e pubblica un paginone dedicato a Corbyn (sul quale si dicono alcune verità), e alle elezioni nel Regno Unito. Il corrispondente da Londra, Luigi Ippolito, osserva: “Corbyn sarà debole nei corridoio di Westminster ma è nel suo elemento quando è in campagna elettorale. I suoi comizi sono un successo ed è riuscito a mobilitare in particolare le donne e gli studenti”. Il giornalista nota anche alcune figuracce fatte dai conservatori a proposito delle condizioni di vita dei lavoratori e di uno dei loro punti-chiave del programma: la minaccia agli anziani di dover vendere la casa per potersi pagare l’assistenza. E Ippolito conclude con queste parole il suo lungo articolo: “I moderati del partito laburista che speravano segretamente in una sonora sconfitta per liberarsi di Corbyn dovranno ricredersi: se il Labour andrà al 35-36%, ossia molto oltre il 30% delle elezioni del 2015, Corbyn non avrà alcuna ragione per dimettersi. E se continuerà la sua volata, l’Inghilterra potrebbe vedere le sue stazzonate giacchette di tweed appese all’attaccapanni del n°10 di Downing Street.
Che dire? C’è da dire che la sinistra non è morta ma sono cadaveri alcuni dirigenti dei partiti socialisti europei. E in Italia il Pd, che non è un partito socialista, ma dice di essere una forza di centrosinistra che aderisce al PSE, cerca un accordo con Berlusconi. Ma anche in questo Paese le cose possono cambiare. Vedremo.
lunedì 29 maggio 2017
domenica 28 maggio 2017
sabato 27 maggio 2017
venerdì 26 maggio 2017
giovedì 25 maggio 2017
mercoledì 24 maggio 2017
Lorenzo Borla: Quale sistema elettorale? Quale governo?
QUALE SISTEMA ELETTORALE? QUALE GOVERNO?
La scelta per l’Italia dovrebbe essere fra il sistema elettorale francese e quello tedesco. Sono i sistemi che garantiscono un buon equilibrio fra rappresentanza e governabilità. Non il sistema inglese e non quello americano, orientati di più alla governabilità, dove il candidato vincente non ha necessariamente la maggioranza dei voti (vedi il caso di Hillary Clinton che ha preso qualche milione di voti in più di Trump). Sbilanciato sulla governabilità, il sistema americano è presidenziale, anche quello inglese ha un premierato forte (dal momento che la regina, per quanto se ne sa, non interferisce). Il sistema elettorale più democratico, secondo me, è quello francese: stabilisce nei collegi un rapporto diretto fra eletto ed elettori, e col ballottaggio assicura che l’eletto abbia il 50 per cento più uno dei voti. Questo vale anche per il presidente della Repubblica francese: nessuno contesta a Macron il fatto che al primo turno abbia avuto solo il 23 per cento delle preferenze (e per giunta, direbbe Astengo, su circa la metà degli aventi diritto al voto: ah, benedetta prima repubblica; quello sì che era un sistema democratico!). Così nessuno ieri contestava la permanenza di Hollande alla Presidenza, pur avendo un indice di gradimento bassissimo. In favore della governabilità, inoltre, c’è il fatto che la Francia è una Repubblica presidenziale, cosa che non c’è da noi. In Francia esiste la possibilità che un partito diverso da quello del presidente conquisti la maggioranza dell’Assemblea nazionale (questo vale anche per l’America, vedi il caso di Obama, coi repubblicani in maggioranza sia al Congresso che al Senato). Sia nel caso delle Francia che dell’America, una maggioranza diversa può certo mettere i bastoni fra le ruote, ma non bloccare il presidente. In Europa, in favore della governabilità c’è anche il fatto che sia Francia che Germania non hanno un Senato fotocopia della Camera, e quindi non c’è il rischio di procedure farraginose, tempi lunghissimi e due maggioranze diverse che votano la fiducia.
Anche il sistema tedesco assicura sia rappresentanza che governabilità. Il sistema tedesco non produce di regola un partito con la maggioranza assoluta dei seggi, ma il problema si risolve con le coalizioni (come quella della Merkel coi socialdemocratici) che si costituiscono senza discussioni e trattative, perché accettate pragmaticamente da tutta la politica e dall’opinione pubblica tedesca: anche per evitare un periodo, magari prolungato, di stallo (come invece è successo in Spagna e in Belgio). Insomma, è il senso civico è il pragmatismo dei tedeschi a superare le divisioni.
In Italia, sulla base di sondaggi ormai consolidati, c’è un quadro politico tripolare, dove tre formazioni hanno più o meno gli stessi voti; e non c’è ragione di ritenere che le preferenze cambino drasticamente da qui alle elezioni, siano in autunno o in primavera. Dunque ci troveremmo con l’impossibilità di formare un governo ad opera di un solo blocco, anche se avesse una percentuale di voti e di seggi leggermente più alta degli altri due. Questo succederà, con ogni probabilità, qualunque sistema elettorale venga adottato. Le discussioni in corso in effetti, non riguardano - non diciamo il bene comune, non diciamo più rappresentanza o più governabilità - ma il gretto, miserabile interesse materiale dei partiti, la fame di posti e di potere; non riguardano neanche la ricerca di un sistema che assicuri la maggioranza a un solo blocco, bensì i vantaggi marginali che potrebbero derivare a ciascun blocco e a ciascun partito da un sistema piuttosto che da un altro (per esempio si ritiene che un sistema maggioritario darebbe più eletti al Nord alla lega Nord, e (forse) più eletti al Sud al M5S). Dunque, nonostante l’accapigliarsi selvaggio per gli avanzi, e la piuttosto risibile ambizione di Renzi di superare il 40% dei voti, è probabile che il governo di un solo blocco non si possa formare. La logica delle cose porta a una coalizione. A questo punto, volendo escludere lo stallo e nuove elezioni dopo pochi mesi, (e il Paese bloccato, con effetti disastrosi sull’economia), quale sarà la coalizione che riuscirà a governare? Si accettano scommesse.
martedì 23 maggio 2017
lunedì 22 maggio 2017
sabato 20 maggio 2017
venerdì 19 maggio 2017
giovedì 18 maggio 2017
mercoledì 17 maggio 2017
Franco Astengo: Istat
Rapporto annuale dell’Istat: scompaiono la classe operaia e la piccola borghesia, aumentano le disuguaglianze. (a cura di Franco Astengo)
Il rapporto annuale redatto dall’Istat sulla condizione materiale delle cittadine e dei cittadini presenti nel nostro Paese conferma le indicazioni di fondo che da tempo si cerca di sostenere da parte chi ha individuato una situazione di vero e proprio “arretramento epocale”, frutto del combinato disposto tra le dinamiche economiche internazionali e le scelte politiche dei vari governi di centro – destra, tecnici e di centro – sinistra succedutisi in Italia negli ultimi vent’anni e, al riguardo dei quali, è risultata non solo insufficiente ma inesistente l’azione della sinistra e dei sindacati confederali in un quadro complessivo di dissolvimento identitario, di incapacità progettuale, di assenza di iniziativa sociale e politica.
Gli esiti sono disastrosi sul piano materiale e non si avverte alcuna seria iniziativa di contrasto mentre ci si abbandona tranquillamente agli slogan più improvvisati e il sistema cede alle tentazioni autoritarie, nonostante nel Paese (come ha dimostrato l’esito del referendum del 4 Dicembre 2016) permangono latenti anticorpi sociali e culturali consistenti.
Questi i dati emergenti dal rapporto dell’ISTAT sintetizzati da un servizio apparso sul sito di Repubblica.
Il Rapporto Annuale Istat ricostruisce le classi sociali: disgregate le vecchie classi sociali, le differenze sono acuite da una distribuzione dei redditi che penalizza gli stranieri e le famiglie con figli. Pesa anche la scomparsa delle professioni intermedie, cresce soprattutto l'occupazione a bassa qualificazione. In stato di povertà assoluta 1,6 milioni di famiglie, il 28,7% a rischio di povertà o esclusione sociale. Il 70% degli under35 vive ancora con i genitori
Ecco la sintesi del testo in questione:
Non esiste più la classe operaia, si fa fatica a rintracciare il ceto medio, e sempre di più nelle famiglie italiane la "persona di riferimento" è un anziano, magari pensionato. Nel Rapporto Annuale 2017 l'Istat prova a ricostruire la società italiana e a tracciare i connotati delle nuove classi sociali: molto è cambiato ma molto si è cristallizzato. La disuguaglianza aumenta e non è legata a ragioni antiche, al censo, ai beni ereditati, ma in gran parte ai redditi, e in buona parte anche alle pensioni. Da opportunità nascono opportunità: i figli della classe dirigente diventano classe dirigente, i figli dei laureati diventano laureati, gli altri lasciano la scuola giovani. La classe impiegatizia si arricchisce con le attività culturali, le famiglie a basso reddito guardano la tv. Il lavoro si polarizza: scompaiono le professioni intermedie, aumenta l'occupazione nelle professioni non qualificate, si riducono operai e artigiani. E nella classe media impiegatizia le donne giocano un ruolo importante: nonostante nel complesso il tasso di occupazione femminile sia più basso di 18 punti rispetto a quello maschile, in 4 casi su 10 le donne sono i principali percettori di reddito, e dunque con una quota maggiore rispetto agli altri gruppi della popolazione.
Le nuove classi sociali. "La perdita del senso di appartenenza a una certa classe sociale è più forte per la piccola borghesia e la classe operaia", osserva l'Istat. L'istituto però non si limita a prendere atto della disgregazione dei gruppi tradizionali della società italiana, ma ne propone una ricostruzione originale, che suddivide la popolazione (stranieri compresi) in nove nuovi gruppi: i giovani blue-collar e le famiglie a basso reddito, di soli italiani o con stranieri, gruppi nei quali è confluita quella che un tempo era la classe operaia; le famiglie di impiegati, di operai in pensione e le famiglie tradizionali della provincia, nei quali confluisce invece la piccola borghesia; un gruppo a basso reddito di anziane sole (le donne vivono di più rispetto agli uomini) e di giovani disoccupati; e infine le pensioni d'argento e la classe dirigente. In questa classificazione incidono vari fattori, il più importante è il reddito, che viene valutato in termini di spesa media mensile: si va dai 1.697 euro delle famiglie a basso redditocon stranieri agli oltre 3.000 delle famiglie di impiegati e delle pensioni d'argento fino alla classe dirigente che supera di poco i 3.800 euro mensili.
Disuguaglianze sempre più cristallizzate. Una divisione nuova della società italiana farebbe pensare a cambiamenti rivoluzionari. In realtà di rivoluzionario in Italia al momento non c'è niente: è una società che cristallizza le differenze, e che da tempo ha bloccato qualunque tipo di ascensore sociale. In effetti funziona quello verso il basso, ma i piani alti sono sempre meno accessibili. Tra le famiglie con minori disponibilità economiche pesano di più le spese destinate al soddisfacimento dei bisogni primari (alimentari e abitazione), mentre in quelle più abbienti, che sono poi anche quelle con un maggiore livello d'istruzione, sale l’incidenza di spese importanti per l’inclusione e la partecipazione sociale, destinate a servizi ricreativi, spettacoli e cultura e a servizi ricettivi e di ristorazione. L'Istat ordina le famiglie per "quinti" di spesa, e il risultato è che gli ultimi due quinti spendono il 62,2% del totale contro poco più del 20% dei primi due.
E' soprattutto il reddito a determinare la condizione sociale. Le disuguaglianze in Italia si spiegano soprattutto con il reddito, ed evidentemente con la mancanza di meccanismi di redistribuzione adeguati, a differenza di altri Paesi europei. I redditi da lavoro, spiega l'Istat, spiegano il 64% delle disuguaglianze, però una parte è determinata dai redditi da capitale, non sono solo redditi da lavoro. Le pensioni contribuiscono al 20% della disuguaglianza, e si tratta di un dato in forte crescita dal 2008, anche per via dell'invecchiamento della popolazione (nel 2008 la percentuale si fermava al 12%).
Cresce la deprivazione materiale. Risale l'indicatore di grave deprivazione materiale, che passa all'11,9% dall'11,5% del 2015. In difficoltà soprattutto le famiglie di stranieri, con disoccupati, oppure occupazione part-time, specialmente con figli minori. La povertà assoluta riguarda invece 1,6 milioni di persone, il 6,1% delle famiglie che vivono in Italia. Però se si considerano le famiglie, e non gli individui, poiché quelle povere in genere sono famiglie numerose, l'incidenza della povertà assoluta individuale è più alta, arriva al 7,6% della popolazione.
Il 28,7% a rischio di povertà o esclusione. Sono molte di più le famiglie a rischio di povertà ed esclusione sociale: il 28,7% della popolazione. La quota quasi raddoppia nelle famiglie con almeno un cittadino straniero.
Occupazione di bassa qualità. L'Istat conferma l'aumento dell'occupazione, anche se sui 22,8 milioni di occupati del 2016 mancano ancora all'appello 333.000 unità nel confronto con il 2008. Inoltre, e questo spiega l'impoverimento di una parte consistente della popolazione, si tratta soprattutto di occupazione nelle professioni non qualificate (l'aumento su base annua è del 2,1%). Diminuiscono operai e artigiani (meno 0,5%). Cresce moltissimo il lavoro part-time, e quello in somministrazione aumenta del 6,4% su base annua. Il lavoro determina l'appartenenza alle "nuove" classi sociali: nella classe dirigente nove occupati su dieci svolgono una professione qualificata.
Crescita concentrata nei servizi. Nel 2016 oltre il 95% della crescita è concentrata nei servizi, settore in cui i livelli occupazionali superano di oltre mezzo milioni quelli del 2008. Prevalgono trasporti e magazzinaggio, alberghi e ristorazione e i servizi alle imprese: l'industria è ancora in arretrato di 387.000 unità rispetto al 2008.
Sono scomparsi i giovani. Nell'ultimo decennio l'Italia ha perso 1,1 milioni di 18-34 anni. Mentre al 1° gennaio 2017 la quota di individui con oltre 65 anni raggiunge il 22%, facendo dell'Italia il Paese più vecchio d'Europa. Nel 2016 si è registrato un nuovo minimo delle nascite, nonostante gli stranieri ,che sono arrivati a poco più di cinque milioni, prevalentemente insediati nel Centro-Nord.
E il 70% vive ancora con i genitori. I giovani sono diminuiti, e nonostante ciò hanno forti difficoltà d'inserimento nel mercato del lavoro. Ecco perchè il 68,1% degli under 35 vive a casa con i genitori,
si tratta di 8,6 milioni di individui.
Il 6,5% rinuncia a visite mediche. Il reddito insufficiente influisce anche sulla salute: negli ultimi 12 mesi ha rinunciato a una visita specialistica il 6,5% della popolazione, nel 2008 la quota si fermava al 4%.
Franco Astengo: Politica e soldi
POLITICA E SOLDI , TRE RISPOSTE SBAGLIATE : ELEZIONE DIRETTA, COLLEGIO UNINOMINALE, MAGGIORITARIO ( E RELATIVE PRIMARIE) di Franco Astengo
Improvvisamente folgorato sulla via di Damasco, Ernesto Galli della Loggia scopre, sulle colonne del “Corriere”, il rapporto tra la politica e i soldi nel senso del titolo del suo articolo “ La politica senza partiti e la ricchezza privata” apparso martedì 16 maggio.
Il caso preso in esame è naturalmente quello, molto di moda, di Macron.
Un caso sicuramente eclatante ma sollevato senza che in questi anni non ci fosse mai interrogati, rispetto alla situazione italiana, non tanto e non solo sul “caso Berlusconi”, ma anche su vicende di facile escalation nella visibilità pubblica agevolate da improvvise disponibilità di danaro utilizzato per forti campagne elettorale di vario tipo, “primarie” incluse.
Scrive Galli della Loggia, sempre alla ricerca della scoperta dell’acqua calda, : “ Se nei regimi democratici scompaiono i partiti organizzati (Macron, lo ricordo, non aveva inizialmente alcun partito dietro le spalle), se non ci sono o latitano le grandi associazioni sindacali e di categoria, e se non esiste il finanziamento pubblico alla politica, allora tutto il meccanismo politico – elettorale non può che essere fatalmente dominato dalla ricchezza privata. Da quella dei singoli ricchi o, più facilmente, dalla ricchezza istituzionale delle banche e dei grandi interessi finanziari in genere”.
Nella sostanza, all’interno di un quadro generale di vero e proprio “salto all’indietro” da parte dei padroni del vapore si punta, e non da oggi, ad un ritorno a quello che fu il “partito dei notabili” poi soppiantato, nella seconda metà dell’800, dal “partito di massa” sorto l in seguito alla seconda rivoluzione industriale e all’entrata sulla scena della storia delle organizzazioni politiche del movimento operaio: i partiti socialisti già collegati tra loro nell’Internazionale operaia.
A prescindere dall’accenno nell’articolo di Galli della Loggia, nel “caso italiano”alla ricchezza delle banche e dei grandi interessi finanziari (un accenno da brividi) l’intervento in questione solleva il grande tema dei corpi intermedi: dai partiti, ai sindacati, ai soggetti associativi di rappresentanza.
Si tratta , a questo punto, di un tema troppo vasto da affrontare in questa sede e del resto già sviluppato in tante altre occasioni.
Interessava invece, a questo punto, segnalare semplicemente l’improvviso risveglio d’interesse (il riferimento, però, è sempre Macron) e ricordare ancora come l’ondata di antipolitica travestita da “politica” che ha pervaso il sistema italiano ormai da oltre vent’anni abbia fatto dimenticare alcuni principi fondamentali.
La politica e i soldi, intreccio inestricabile particolarmente in un Paese come l’Italia nel quale la connessione stretta tra questione politica e questione morale rappresenta una costante si può dire “costituiva” del sistema.
Ricordiamo allora la storia dell’indennità parlamentare e del finanziamento pubblico ai partiti: una parte parziale ma non marginale della storia infinita di questo rapporto tra la politica e i soldi.
La storia dell’indennità parlamentare è questa:
Lo Statuto Albertino del 1848, in ossequio alla concezione "elitaria" della rappresentanza politica allora predominante (nell'Ottocento la selezione degli eletti e degli elettori avveniva in base al censo e all'istruzione), aveva optato per la gratuità del mandato parlamentare (art. 50: "Le funzioni di senatore e di deputato non danno luogo ad alcuna retribuzione o indennità") .
La Costituzione repubblicana, in quanto espressione di una visione democratica della vita pubblica, sposa il principio opposto, ossia che l'esercizio della funzione parlamentare costituisce un doveroso costo per la collettività (art. 69: "I membri del Parlamento ricevono un’indennità stabilita dalla legge") Questo articolo non costituisce una disposizione isolata, ma fa sistema, in particolare, con l'art. 51 (accesso dei cittadini alle cariche pubbliche elettive in condizioni di eguaglianza) e con l'art. 67 (rappresentanza nazionale e divieto di mandato imperativo), giacché l'onerosità del mandato elettivo serve a garantire, in concreto, il libero funzionamento del sistema democratico.
All'art. 69 della Costituzione venne data una prima attuazione con la legge 9 agosto 1948, n. 1102, la quale strutturò l'indennità parlamentare in due voci distinte: la prima (indennità vera e propria) costituita da una quota fissa mensile di lire 65.000; la seconda da una diaria, a titolo di rimborso spese per la partecipazione alle sedute, il cui ammontare veniva demandato ad apposita deliberazione degli uffici di Presidenza delle rispettive Camere, tenendo conto della residenza o meno nella Capitale di ciascun membro del Parlamento.
Entrambi gli emolumenti erano esenti da ogni tributo.
La suddetta legge è stata abrogata dalla legge 31 ottobre 1965, n. 1261,tuttora vigente,
Appare quindi evidente come la scaturigine dell’istituto dell’indennità parlamentare corrisponda esattamente alla possibilità di accesso per tutti i cittadini all’elezione a deputato.
Nei primi anni del XX secolo, infatti, molti deputati socialisti usufruendo quale solo beneficio derivante dalla carica del “permanente” ferroviario dormivano sul treno Roma – Firenze e ritorno non disponendo del denaro per poter essere ospitati in una pensione.
Diversa l’origine del finanziamento pubblico ai partiti: Il finanziamento pubblico ai partiti è introdotto dalla legge del 2 maggio 1974 n. 195 (cosiddetta legge Piccoli). Proposta da Flaminio Piccoli (DC) ma su idea iniziale del PRI di Ugo La Malfa.
La norma viene approvata in soli 16 giorni con il consenso di tutti i partiti, ad eccezione del PLI.
La legge imponeva l'obbligo di presentazione di un "bilancio" da pubblicare su un quotidiano e da comunicare al Presidente della Camera, che esercitava un controllo formale assistito da un ufficio di revisori, cioè il "Collegio di revisori ufficiali dei conti".
Infatti essa da un lato introdusse il finanziamento per i gruppi parlamentari "per l'esercizio delle loro funzioni" e per "l'attività propedeutica dei relativi partiti", obbligando il gruppo stesso a versare il 95% ai partiti, mentre dall'altro introdusse un finanziamento per l'attività "elettorale" dei partiti.
La legge disciplinava anche il finanziamento privato.
La nuova normativa nascvae a seguito degli scandali Trabucchi del 1965 e Petroli del 1973: il Parlamento intendeva rassicurare l'opinione pubblica che, attraverso il sostentamento diretto dello Stato, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione e corruzione da parte dei grandi potentati economici.
A bilanciare tale previsione, s’introdusse il divieto - per i partiti - di percepire finanziamenti da strutture pubbliche e un obbligo (penalmente sanzionato) di pubblicità e d’iscrizione a bilancio dei finanziamenti provenienti da privati, se superiori a un certo ammontare.
.
I buoni propositi risultarono tuttavia smentiti dagli scandali affiorati successivamente (tra cui i casi Lockheed e Sindona) : primi di una lunga serie che si trascina ancora ai giorni nostri estendendosi anche ai livelli locali, essendo intervenute nel frattempo norme che riguardano il finanziamento dell’attività istituzionale in particolare nelle Regioni (scandalo delle “spese pazze”).
Si può ben affermare che lo scopo istitutivo della legge non è stato assolutamente raggiunto.
L'11 giugno 1978 si tenne il referendum per l'abrogazione della legge 195/1974.
Nonostante l'invito a votare "no" da parte dei partiti che rappresentano il 97% dell'elettorato, il "si" (sostenuto soltanto da PLI, Partito Radicale e PdUP) raggiunse il 43,6%, pur senza avere successo.
Si trattò, in quell’occasione, del primo consistente segnale di distacco tra il sistema politico e la società italiana chiudendo una lunga fase nella quale la partecipazione politica era rimasta costantemente a livelli elevati come avevano dimostrato le percentuali dei votanti nelle occasioni delle elezioni politiche costantemente sopra il 90% degli aventi diritto fin dalla I legislatura eletta il 18 Aprile 1948.
Da allora in avanti si è verificato il crollo nella dimensione complessiva (non certo soltanto numerica) dei partiti di massa e, in risposta ai tre accadimenti storici sulla base dei quali si è verificato un riallineamento dell’intero sistema (Maastricht, Muro di Berlino, Tangentopoli con relative analisi sbagliate da parte di quello che appariva ormai l’incontrovertibile “pensiero unico dominante”) cui si è risposto semplicisticamente con la linea del sistema elettorale maggioritario intrecciato con l’emergere del partito personale e ell’individualismo portato a modello con l’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Regione, il collegio uninominale, il sistema elettorale maggioritario.
Tre soluzioni queste dell’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Regione, del collegio uninominale e del maggioritario (con annesse “primarie”) propedeutica del disastro che abbiamo sotto gli occhi.
L’esempio delle Regioni è il più evidente sotto questo aspetto: dall’elezione diretta dei Presidenti e dall’affidamento a questo Ente la potestà sui delicatissimi campi della sanità e del trasporto pubblico, la Regione si è trasformata in una istituzione destinata esclusivamente alla spesa con una organizzazione destinata a rappresentare costantemente per tutto l’arco della legislatura un enorme comitato elettorale per la rielezione del Presidente.
Nel frattempo i cosiddetti “costi della politica” sono conseguentemente lievitati, in coincidenza con la crescita del debito pubblico, rappresentando una delle ragioni più forti nel processo di sconquasso che ha attraversato il sistema politico italiano negli ultimi 30 anni.
Il punto vero di riflessione che può suscitare questa succinta ricostruzione storica riguarda dunque il ruolo dei partiti, la loro funzione complessiva, il loro ruolo, la formazione dei quadri dirigenti, la necessità d’intermediazione politica e sociale e soprattutto di rappresentanza.
Necessiterebbe un diverso approccio di cultura politica e strumenti organizzativi di aggregazione e di pedagogia: è questo che manca, in definitiva.
Il tema della politica e dei soldi, così riscoperto all’improvviso, rimane un terreno decisivo per la credibilità dell’intero sistema mai così in basso come oggi nelle valutazioni dell’opinione pubblica: un tema fra l’altro affrontato in maniera decisamente improvvisata soprattutto dai sostenitori della – altrettanto mal definita – “antipolitica” impropriamente appellati come “populisti” che stanno godendo di incerte e completamente immeritate fortune elettorali.
Felice Besostri: Mal comune a sinistra, gaudio massimo per la destra
Mal comune a sinistra gaudio massimo per la destra
di Felice Besostri
Nella NRW, bastione della SPD, che ha detenuto la guida del Governo del Land dal 1970 al 2005 una vittoria della CDU e dei Liberali non corrisponde tuttavia alla vittoria di Guazzaloca a Bologna o come avere un democristiano Sindaco di Reggio Emilia o Presidente della Provincia di Firenze prima della formazione del PD. Nel 1980 la SPD conquista per la prima volta la maggioranza assoluta con il 48,44% dei voti, che consolida nel 1985 con il 52,14% e nel 1990, ma già nel 1995 pur con un rispettabile 46,02% perde la maggioranza assoluta dei seggi grazie ai Verdi con i quali governa, come aveva governato con il Liberali della FDP, quando la CDU era il primo partito. La CDU vince nel Land nel 2005-2010,ma la sinistra vince le elezioni del 2010 con il 56,24%, grazie alla Linke che entra nel Landtag con il 5,61%, Il NRW sembrava tornato al 1947 quando SPD(31,97%) e KPD(13,97%) avevano quasi il 46%, ma il governo di minoranza SPD-Verdi cade anche per il voto contrario della Linke. Alle elezioni anticipate, merce rarissima in Germania, del 2012 la Linke paga la caduta del governo rosso verde ed esce dal Landtag , dove aveva 11 consiglieri, con un misero 2,49% anche per il successo dei Pirati, che entrano nel Landtag con il 7,82%, una percentuale superiore a quella attuale della AfG (Alleanza per la Germania). Il panorama politico delle Regioni italiane è veramente monotono, se paragonato ai governi dei Länder tedeschi : 5 sono SPD-Verdi(GR), 2 CDU-SPD, 1 CDU-SPD-GR, 1 votantiSPD-FDP-GR, 1 LINKE-SPD-CDU, 1 GR-CSU, 1 CDU-GR, 1 SPD-LINKE, 1 LINKE-SPD-GR, 1CSU e ora un CDU-FDP dopo la NRW. Il giudizio degli elettori è influenzato dalla capacità di governo del L and, Hannelore Kraft ha scelto di mettersi in gioco da sola: Schulz non ha fatto una manifestazione elettorale in NRW, mentre il suo avversario CDU ha invitato Merkel, molte volte, 9 se mi ricordo bene. Quindi il risultato delle elezioni del Landtag sono una seria sconfitta per Schulz, ma non di Schulz. Il governo rosso verde uscente ha pagato un’impopolare politica scolastica di responsabilità dei Verdi, ma anche il capodanno tragico di Colonia, con stranieri anche Asylanten( richiedenti asilo) come protagoniste e donne come vittime. La Linke è stata un’opposizione ferma della Kraft, e un piccolo beneficio lo ha tratto +2,45%, ma resta sotto soglia. Chi parla di vittoria deve dimenticare che la SPD ha perduto il 7,9% e i Verdi il 4,9%, quindi una perdita a due cifre intere - 12,8%, il trasferimento a sinistra è stato minimo. Altro dato preoccupante è che a differenza delle altre volte, quando le perdite della SPD andavano per i 2/3 all’astensione, questa volta i votanti sono stati il 65,17%, mentre nel 2012 erano il 59,6%. Le elezioni in NRW confermano che le perdite socialdemocratiche non vanno a sinistra e neppure ai Verdi. In Olanda la perdita del PvdA in percentuale dal 24, 34 % al 5,2%, non ha beneficiato il Partito Socialista (-0,45%), ma almeno i Verdi di Sinistra (Groenlinks) guadagnano un sostanzioso 6,57%. In Francia, a proposito la scelta dl primo Ministro di Macron un repubblicano ha il merito di porre fine alle fantasie che impersonasse la nuova sinistra del futuro, la situazione della sinistra non è tanto migliore. Il risultato di Mèlenchon confrontato con quelli della sinistra italiana nelle sue ultime incarnazioni , dopo il PCI e il PSI è sicuramente esaltante, ma come il PD non può intestarsi la vittoria di Macron, la sinistra non deve esaltarsi. La somma dei voti di Mélanchon e di quelli di Hamon(25,94%) è inferiore al voto di Hollande (28,67%)al primo turno delle presidenziali 2012 e senza contare per sottolineare la sconfitta che Mèlenchon aveva avuto un 11,10%, cioè la sinistra 2012, senza contare le formazioni comuniste e trozkyste era al 39,77%, ancora un piccolo sforzo e con l'Italikum si prendeva il premio di maggioranza. Neppure il confronto con il risultato di Ségolène Royal del 2007 (25,87%) rappresenta appena un +0,7%, che va in segno negativo se aggiungiamo i voti della candidata sostenuta del Pcf, ora sostenitore di Mèlanchon, che pure aveva ottenuto un modesto 1,93 %.
Se il mantra prevalente è che non esiste più la divisione destra/sinistra, la prima reazione a sinistra è di pensare alla sinistra nel suo complesso, pur non ignorando le divisioni e le inimicizie, che la percorrono, perché vi è la convinzione che o la sinistra comincia a pensarsi come un soggetto portatore di un progetto unitario di cambiamento o deve giocare di rimessa su un piano secondario. Se destra/sinistra non è una scriminante e anche basso/alto sta perdendo significato, cosa resta responsabili/populisti? o sovranisti/europeisti, a prescindere da quale stato nazionale o da quale Europa? Se si impongono queste dicotomie la sinistra è fuori gioco, non perché sia irresponsabile o sovranista, ma perché non ha un suo progetto alternativo all’austerità e una visione di unità europea democratica e federalista. Da qui partiamo e da una constatazione semplice, non c’è una formazione di sinistra, che da sola possa aspirare ad un’alternativa di potere. Cominciamo a non godere delle disgrazie di chi non la pensa allo stesso modo, perché a sinistra mal comune non è mezzo gaudio.
Per tornare alla Germania la strada di Schulz è tutta in salita perché deve convincere che è finita la subalternità della SPD dentro alla Große Koalition, tuttora al Governo e che c’è un’alternativa concreta al proseguimento della Grande Coalizione e soprattutto ad una riedizione di una maggioranza Union-FDP. A livello federale il rientro della Linke non è in discussione perché in alternativa al 5% basta l’elezione diretta di 3 deputati al Bundestag, mentre in NRW il 4,9% e l’esclusione della Linke consente la formazione di un governo regionale CDU-FDP. Tuttavia non basta, la credibilità di una coalizione SPD-Linke-Verdi è da provare e in due regioni che hanno votato la Saarland e il NRW non erano proprio idillici. Come dimenticare le tensioni nel governo di Berlino tra SPD e Linke?
Milano 15 maggio 2017
martedì 16 maggio 2017
Paolo Bagnoli: Il neo qualunquismo e la decadenza del Parlamento
Da Critica liberale
il neoqualunquismo
e la decadenza del parlamento
paolo bagnoli
Non crediamo ai proverbi, ma il vecchio adagio secondo il quale chi semina vento
raccoglie tempesta è proprio una verità se pur di senso comune. La conferma ci viene,
giorno dopo giorno, dalle condizioni nelle quali versa la nostra democrazia, da quanto sia
scaduto il luogo rappresentato dal Parlamento e, parimenti, della classe politica che in esso
siede.
Scadimento del Parlamento e inadeguatezza della classe politica sono, beninteso,
due aspetti intercorrelati nel senso che l’uno è l’interfaccia necessitato dell’altro. A forza di
denigrare la politica, di ritenere che la vita della democrazia possa essere senza partiti veri,
che tutto il Palazzo sia casta e covo di ladroni, il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il
processo parlamentare non riesce più a pensare se stesso essendo scomparsa la
consapevolezza di quanto esso comporta e tutto sembra avvolto e travolto dalla demagogia,
notoriamente anticamera della crisi della libertà e della democrazia. Nella lunga,
sfiancante crisi che stiamo vivendo l’autorevolezza del Parlamento andava salvaguardata
quale bene supremo anche per non permettere, come invece è avvenuto, ad altri poteri –
economici, finanziari, giudiziari – di sostituirsi a esso. Il cane però si mordeva la coda
perché, senza partiti, veniva meno il processo di una qualche selezione della classe politica
e, quindi, il livello del Parlamento non poteva non andare di pari passo con ciò. Si aggiunga
che la costruita rappresentazione della politica quale puro interesse di privilegi e di
interessi personali – e questi ultimi, venendo meno il collante repubblicano, ne hanno
sicuramente approfittato - ha fatto il resto fecondando un’avversità atavica, di pancia,
degli italiani verso la funzione parlamentare. Lo diciamo intendendola nel senso proprio di
una democrazia liberale; un qualcosa cui la democrazia repubblicana aveva messo un
argine fondamentale. Teniamo inoltre conto che l’Italia è un Paese recalcitrante ai canoni
della pedagogia civile. Essa, volenti o nolenti, viveva coi partiti; ossia, con la gente nella
democrazia; oggi la gente è ridotta solo al popolo delle primarie che sono solo la prova
provata del fatto che l’Italia deficita di soggetti che la organizzano, la sviluppano e la
066
15 maggio 2017
5
rappresentano. E’ chiaro che la pedagogia civile non c’è più e tutto è solo mosso dalla
ricerca di consenso per la conquista del potere; la categoria del governo ha sostituito quella
della politica.
Vediamo che ci sono ministri che mentono al Parlamento. Quanto, poi, è successo
sulla legge riguardante la legittima difesa altro non è che la conferma, per lo più aggravata
da un governo quasi risucchiato da una specie di dissolvenza. La notte, ritenuta zona
franca per sparare, illumina il crepuscolo della politica democratica e denuncia un vero e
proprio stato di confusionismo parlamentare. Assente il partito di governo in quanto
“partito” – Matteo Renzi sembra essere venuto a conoscenza di un provvedimento così
delicato solo dopo il pasticcio e si è giustamente risentito – latitante il governo, distratto e
inadeguato al proprio compito il relatore, l’emendamento risulta in sé assurdo e ridicolo; si
dice sia opera del ministro Finocchiaro. Se è vero si tratterebbe di un’aggravante
trattandosi di un parlamentare di lungo corso e pure magistrato di professione. Tuttavia
quel testo è passato senza che nessuno alla Camera si sia degnato di leggerlo con un
minimo di attenzione; doveva essere respinto per pura illogicità. Punto e basta. Meno male
che il Senato c’è ancora; ma Renzi non lo può dire. Anche qui, mentre la cronaca è stata
puntuale, la riflessione non c’è stata. In un Paese di politologici e di moralisti della
domenica è prevalso il silenzio. Come si fa, osserviamo, a comprendere la condizione del
Paese se non ci si applica alla lezione che viene dalle cose concrete? Sembra un
bell’interrogativo. Non è così; è solo l’amara conclusione di chi non ha scordato la lezione
di Niccolò Machiavelli: alla libertà bisogna tenerci le mani sopra!
lunedì 15 maggio 2017
domenica 14 maggio 2017
sabato 13 maggio 2017
Emanuele Macaluso: L' "umile" Renzi
EM.MA in corsivo
45 minuti fa ·
L’“UMILE” RENZI... SEMPRE PIÙ “UMILE”, SEMPRE PIÙ RENZI
Oggi il Foglio ha dedicato a Renzi due robuste colonne in prima pagina e un paginone per un’intervista raccolta dal direttore Claudio Cerasa, dove dice tra l’altro che “riporterà il PD al 40%”. Un altro paginone, nello stesso quotidiano, scritto da David Allegranti, ha un titolo significativo: “Renzi come Macron”. Comincio con Allegranti: “Matteo Renzi ha sempre tenuto nascosta la carta del partito personale, accarezzata già alle primarie fiorentine del 2009; in caso di sconfitta, sarebbe stata pronta una lista Renzi, con cui affrontare gli avversari, Pd compreso. Un’ipotesi che nel corso degli anni si è riaffacciata. C’è stato almeno un momento in cui la nascita del PdR: dopo la sconfitta alle primarie del 2012 contro Pier Luigi Bersani. Renzi all’epoca era sindaco di Firenze, era nella piena fase anti establishment, non era ancora diventato segretario del PD e non era ancora sbarcato a Palazzo Chigi, era la novità e la rottamazione era uno slogan che funzionava”. Le cose che dice Allegranti non mi stupiscono, dato che è stato sempre evidente che la vicenda politica di Renzi girava sempre attorno a se stesso.
Al Direttore Cerasa, Renzi, col suo ego, esalta tutta la sua azione di governo, e anche quel che è successo con la riforma costituzionale e il referendum, rimangiandosi anche quella autocritica impacciata e fasulla che aveva fatto in altre occasioni. A sbagliare, a suo dire, sono stati solo quelli che hanno votato No. Il perché anche molti che erano favorevoli a una riforma che cancellasse il bicameralismo perfetto hanno votato No, non è tra le cose su cui Renzi vuole riflettere. Insomma, l’intervista è un osanna a se stesso e al Pd al 40%. L’osanna è preceduto da questo pensiero: “Non credo siano tanti quelli che hanno lasciato tutto come ho fatto io. Sono uscito da Chigi e dal Nazareno senza rete di protezione, senza garanzie, senza indennità, senza vitalizio. Sono contento di questo. Per me è stata la lezione delle tre U. Umiltà, che serve sempre. Umanità, perché sono tornato ai rapporti disinteressati. Umore, perché ho ricominciato a sorridere, liberato dal carico di responsabilità. Avrei preferito vincere il referendum. Ma le tre U mi hanno molto aiutato a cambiare la mia quotidianità”. Sembra, da quel che dice, che Renzi sia stato fuori dal Nazareno e dal Governo quattro anni, e non soli quattro mesi. Quattro mesi nei quali Renzi ha “umilmente” preparato le sue truppe, prima per tornare al Nazareno e successivamente a Palazzo Chigi. Il primo obiettivo era facile e, dopo la scissione, anche scontato: la rete di protezione era il sistema che aveva costruito al governo e al partito. Il secondo, Palazzo Chigi, non si sa. Vedremo quale sarà la legge elettorale, quali saranno gli schieramenti. Cantare vittoria col 40% è comunque un azzardo che un leader non dovrebbe mai correre.
13 maggio 2017
venerdì 12 maggio 2017
Franco Astengo: Il disastro delle privatizzazioni e il capitalismo italiano
IL DISASTRO DELLE PRIVATIZZAZIONI E DEL CAPITALISMO ITALIANO di Franco Astengo
Nell’ormai chiacchieratissimo libro di Ferruccio De Bortoli sui presunti poteri forti in Italia non c’è soltanto l’accenno alla vicendaccia riguardante Maria Elena Boschi e il suo presunto “familismo amorale”.
Vi sono altre storie e su una di queste val la pena sicuramente di soffermarci.
IL “Corriere della Sera” del 9 Maggio ha, infatti, ospitato, nelle pagine dedicate alla cultura, una anticipazione del oibro edito dalla “Nave di Teseo” nel quale l’ex-direttore dello stesso Corriere della Sera e del Sole 24 ore racconta la sua esperienza di 40 anni di giornalismo.
L’interesse maggiore però sta nella lettura del brano che viene anticipato nelle pagine del quotidiano.
La scelta è caduta sul passaggio relativo alla privatizzazione di Telecom (avvenuta con la contrarietà di Gianni Agnelli) e il successivo passaggio, febbraio 1999 presidente del consiglio Massimo D’Alema ministro del tesoro Carlo Azeglio Ciampi, ministro delle Finanze Vincenzo Visco e ministro dell’industria Pierluigi Bersani, alla cordata dei cosiddetti “capitani coraggiosi” guidati da Roberto Colaninno che lanciò un’Opa da 100 mila miliardi di lire.
Per i dettagli della descrizione della vicenda svolta da De Bortoli si consiglia di leggere l’articolo (e naturalmente il libro) anche per ragioni di economia del discorso.
Vale la pena però, in questa occasione, sottolineare alcuni aspetti:
1) Nel tunnel della privatizzazione Telecom entra con centomila dipendenti, nessun debito e il primato di aver introdotto in Italia la fibra ottica. L’operazione “capitani coraggiosi” si evolve caricando la società di debiti per il valore del 70% dell’OPA, la cessione di Omnnitel e Infostrada ai tedeschi di Mannesmann e con un aumento di capitale della Olivetti per 2,6, milioni di euro (aggiunta n.d.r.: e la creazione della figura dell’esodato per decine di migliaia di lavoratori costretti ad uscire dal circuito produttivo). Nel 2001 poi la quota dei “capitani” (con un’ingente plusvalenza) fu rilevata da Tronchetti Provera e Benetton. Il debito al 30 settembre 2001 era di 22,6 miliardi di euro, mentre quello di Olivetti era di 17,8. Complessivamente sul gruppo gravava un debito di 40,4 miliardi. Questo fatto documenta il tragico andamento di uno dei più importanti processi di privatizzazione attuato in un settore strategico come quello delle telecomunicazioni;
2) Dal resoconto di questa storia si evince (De Bortoli ne scrive esplicitamente) di un capitalismo italiano dal “braccino corto” (testuale) che reclama le privatizzazioni e poi non investe e non rischia. Si tratta di quel capitalismo sempre “in braccio alla mamma”, lo stesso che nel 1980 uscì dalla vertenza FIAT (quella della marcia dei 40 mila) con la mano libera. Nel frangente descritto da De Bortoli siamo ai vertici di questo capitalismo: si scrive, infatti, di Cuccia, Mediobanca, Agnelli.Una bella compagnia di salvatori della Patria in pericolo;
3) In questa vicenda, reso contata perché ritenuta del tutto emblematica, risalta il ruolo del governo di centrosinistra del tutto accondiscendente alle logiche dominanti del profitto per pochi e della creazione di debito per tutti nell’idea “ridisegnare il capitalismo italiano”.
Sono queste le storie attraverso il cui svolgimento concreto si è arrivati al disastro attuale perseguendo filosofie e scelte profondamente sbagliate e dannose.
Forse è il caso di ricordarle quelle storie prima di tutto quando si ripercorre quanto accaduto in quegli anni e si pensa al ruolo della cosiddetta “sinistra di governo” e alla totale insufficienza nella sua capacità d’analisi (altro che i convegni del Gramsci anni’60 sulle “Tendenze del capitalismo italiano”) e alla subalternità prima di tutto culturale agli interessi dei soliti “padroni del vapore”.
Subalternità prima di tutto culturale che oggi ci ha condotto ai piedi di Marchionne.
In secondo luogo rammentare quelle vicende dovrebbe aiutarci nel riflettere sulle scelte politiche da adottare nell’attualità e nel prossimo futuro.
giovedì 11 maggio 2017
Emanuele Macaluso: Il "socialismo muore" con gli opportunisti alla Valls
EM.MA in corsivo
5 h ·
IL “SOCIALISMO MUORE” CON GLI OPPORTUNISTI ALLA VALLS
Su questo spazio, più volte, abbiamo discusso sulla crisi che attraversa il socialismo europeo. E abbiamo anche ricordato che la contraddizione più evidente è il fatto che, di fronte alla globalizzazione del capitale finanziario e la rivoluzione tecnologica segnalata soprattutto dal digitale, i partiti socialisti non sono stati in grado di avviare un vero processo di unità in un partito con una sua politica europea, anzi retrocedendo in un “riformismo nazionale” che ha avuto come protagonista un personale che si è definito liberal-democratico fautore di politiche liberiste che ha teso essenzialmente a ridimensionare il welfare.
In questo quadro è prevalso il “blairismo” interpretato con una carica opportunistica e carrieristica da persone che non avevano nemmeno la storia di Blair. È il caso dell’ex primo ministro francese Manuel Valls. Il quale ha tentato con le primarie socialiste di concorrere alla presidenza della Repubblica ed è stato battuto da Benoit Hamon, un modesto esponente della sinistra socialista sconfitto malamente al primo turno delle presidenziali. Cosa ha fatto a questo punto il “socialista” Valls? Si è offerto come candidato per le elezioni legislative al movimento del neo eletto presidente Macron. Il quale, però, gli ha dato uno schiaffo dicendogli che per lui non c’è posto. Il Valls per accreditarsi come “macroniano”, dopo la sconfitta delle primarie socialiste, aveva detto che il socialismo è morto. Macron ha capito che il cadavere politico era proprio Monsieur Valls.
Comprendo e conosco le difficoltà per riprendere un’iniziativa che rimetta al centro la battaglia socialista. Oggi ho letto che la sindaca socialista di Parigi Anne Hidalgo e quella di Lille, Martin Aubry, hanno preso l’iniziativa di rilanciare il dibattito nel partito socialista con l’obiettivo di combattere per “l’Europa ecologica e sociale”. Vedremo come andranno le cose, tuttavia voglio ribadire ciò che ho sostenuto in altri momenti. A mio avviso, e anche di tanti altri, il socialismo non è morto anche perché non muore la contrapposizione tra destra e sinistra. E non muore l’aspirazione all’uguaglianza di gran parte dell’umanità. Oggi siamo di fronte ad un momento difficile ma non bisogna arrendersi. Anche nell’area del socialismo occorre combattere per questi ideali con determinazione e programmi concreti contro l’opportunismo e il carrierismo alla Valls.
(11 maggio 2017)
Andrea Ermano: A lunga gittata
A lunga gittata
Nell'autunno prossimo questa vecchia testata socialista va a compiere centoventi anni di attività. È dunque lecito, e forse
persino doveroso, porsi domande un po' più "a lunga gittata".
di Andrea Ermano
Dall'Avvenire dei lavoratori
Ci sono conventicole molto incavolate con Papa Francesco a causa del suo sostegno ai migranti, i quali, secondo le conventicole medesime, tenderebbero a profanare orribilmente i simboli della fede cristiana. Sempre contro Bergoglio furoreggia, poi, l'accusa di "papolatria", che negli ultimi cinque secoli era stata monopolio di protestanti e anticlericali e che oggi dilaga invece nei blog di osservanza ultra-clericale.
Perché? "Perché questo papa è troppo relativista", ci ha spiegato una persona colta e sensibile, proveniente dal variegato mondo che, ai tempi della prima repubblica, faceva riferimento alla DC.
Sarà, ma bisogna riconoscere che il capo della Chiesa universale ha posto in evidenza un fatto storico di assoluto rilievo: "Siamo di fronte a un nuovo conflitto globale, ma a pezzetti", ha detto nell'agosto del 2014 rientrando dal suo viaggio in Corea.
In effetti, centinaia e centinaia di migliaia di morti nella sola regione che va dalla Siria all'Iraq confermano la tragica validità di quel giudizio. Ma perché non ce ne rendiamo conto tutti con un gran sobbalzo?!
cid:image008.jpg@01D2CA55.CB181630
Aleppo, crateri delle bombe
diventano piscine per i bimbi
Forse non ce ne rendiamo conto anche perché nelle guerre post-moderne muoiono ormai quasi solo i "civili" appartenenti a popolazioni lontane. Le perdite militari sono ridotte al minimo, soprattutto per quel che concerne gli eserciti occidentali. Sicché i nostri ragazzi – che stanno là per dare una mano a sempre incerti alleati in nome di alti e nobili ideali – lavorano, per fortuna, in condizioni di quasi sicurezza, coadiuvati per altro dai temibili dispositivi dell'intelligenza artificiale, i cosiddetti "droni".
Tutto ok? Oddio, non è che – se qualcuno ce lo domandasse a brutto muso – noi diremmo di considerare "meno preziosa" la dignità personale dei bambini siriani o afgani o iracheni o africani o sudamericani, e sono tanti quelli uccisi nei vari conflitti sociali e politici.
È che ogni giorno, in diretta e in differita, assistiamo a ore e ore di reality che ci distraggono dalla guerra mondiale a pezzetti.
È che, fin dalla più tenera età, la cultura massmediatica ci ha insegnato che ciascuno di noi ha il preciso dovere morale di realizzare se stesso, cioè le sue potenzialità più autentiche, cioè i propri desideri.
Soddisfare i propri desideri, mano a mano che questi emergono misteriosamente dall'animo, non è complicato. C'è quasi sempre, alla fine della fiera, un oggetto, più o meno carino, più o meno prezioso, oppure una vacanza più o meno rilassante, più o meno esotica, in grado di renderci felici, almeno per un po'.
Ed è bello che la felicità abbia un costo abbordabile in quarantotto comode rate mensili, interessi inclusi. Ma tutto questo, ovviamente, comporta un sacco di cose: in termini d'indebitamento (pubblico, privato e bancario), in termini d'inquinamento ambientale, in termini di delocalizzazione e robotizzazione, cioè di disoccupazione.
Ma T.I.N.A. – There Is No Alternative! – non si vede altrimenti come mantenere bassi i prezzi della felicità alla quale tutti abbiamo diritto.
Guardiamoci intorno – dal Mediterraneo al Caucaso, dall'Africa al Sudamerica, dal Medio all'Estremo Oriente – siamo finiti per davvero in un nuovo conflitto globale, anche se noi non lo percepiamo. E non lo percepiamo sia perché circonfusi da un'informazione "a pezzetti", sia soprattutto perché, a morire in guerra, ci pensano gli altri.
Si capisce che un mondo dominato da questo livello spaventoso di crudeltà preferisca restare in ombra. Il che corrisponderebbe all'essenza più "genuina" dello spirito oscurantista-reazionario. La cui natura consiste appunto in uno scambio estremamente ipocrita ("simoniaco" diceva Marco Pannella, richiamandosi al gran padre Dante) tra il cinismo del potere e l'uso auto-assolutorio della religione.
Immaginatevi, dunque, quanto sono incavolati lor signori con questo tizio venuto al soglio di Pietro "quasi dalla fine del mondo" per strappare il velo di alcune, sensibili, post-verità.
cid:image003.jpg@01D2CA55.AB79C1C0
L'odio dei sovranisti europei verso Papa Francesco somiglia all'odio dei suprematisti trumpiani verso Barack Obama. Agli occhi delle destre sovraniste e suprematiste, d'Europa e d'America, Obama e Bergoglio sono rei di avere portato la "questione sociale globale" dentro l'agenda dell'Occidente. Non solo: lo hanno fatto nella loro veste di capi legittimi nei rispettivi imperi e, quel che è peggio, mostrandosi capaci di raccogliere un vasto consenso popolare, ben oltre i confini tradizionali delle rispettive potestates.
È notevole che – mentre in Europa la socialdemocrazia cade di nuovo in pezzi – la sinistra liberale USA, di cui l'ex presidente Obama appare oggi l'unico leader dotato di carisma internazionale, converga abbastanza stabilmente e credibilmente su posizioni di evidente profilo socialdemocratico europeo.
Ed è non meno notevole che analoga convergenza stia compiendo la Chiesa Cattolica a guida bergogliana, come dimostra anche, proprio in questi giorni, l'importante iniziativa vaticana presso le Nazioni Unite per una riduzione del debito dei Paesi poveri. Questa iniziativa, ricordiamolo, si pone in un continuum ideale con l'azione inaugurata, nel lontano 1990, da Bettino Craxi su mandato del segretario generale dell'ONU di allora, Javier Perez de Cuellar.
La convergenza "socialdemocratica" tra Washington e Roma è il bandolo oggettivo di quella matassa nella quale può sostanziarsi una prospettiva di riorganizzazione anche della sinistra europea nel XXI secolo. Ma ci sono almeno tre grossi nodi da sciogliere:
a) Quale 'statualità' sarà possibile dopo la crisi del liberismo finanziario globale che ha disarticolato lo stato nazionale europeo?
b) Quali saranno i criteri del rapporto tra una nuova 'statualità' e la scienza-tecnica, rapporto su cui s'impernierà l'ineludibile transizione dall'umanesimo al post-umanesimo?
c) Quale forma potrà assumere in ciò una 'statualità' specificamente europea, cioè specificamente socialdemocratica?
Dalla risposta alla prima questione (a) dipendono forme e prospettive del welfare, cioè della coesione sociale, che sta e cade insieme alla possibilità di una forma statuale al di là dello stato nazionale europeo. Per inciso, non si rendono conto i sovranisti che la grandezza di scala "nazione" è tanto superata quanto quella dei comuni medievali e delle signorie rinascimentali?
Dalla risposta alla seconda questione (b) dipendono le forme e le prospettive della laicità, cioè della libertà di ricerca scientifica nell'epoca in cui questa fondamentale conquista moderna esige l'elaborazione di criteri etici e giuridici all'altezza di una sfida la cui posta in gioco è, detto semplicemente, l'umanità.
Dalla risposta alla terza questione (c) dipende la condizione in cui si troveranno a operare le nuove generazioni europee nella prospettiva, auspicabile, di un assetto cosmopolitico mondiale dal quale dipende, detto semplicemente, il loro futuro.
cid:image009.jpg@01D2CA55.CB181630
Barcellona, 18.2.2017 – 160mila ragazzi manifestano
a favore di una politica dell'accoglienza per i rifugiati
Nell'autunno prossimo questa piccola testata socialista va a compiere centoventi anni di attività. È, dunque, lecito, e forse doveroso, chiedersi come saranno i prossimi centoventi anni.
Si è colti come da una vertigine della ricapitolazione.
E potremmo allora citare in ausilio Jürgen Habermas e Michael Walzer che hanno magistralmente ricapitolato importanti aspetti dell'idea di laicità nel rapporto tra scienza ed etica; oppure Jacques Attali che ci mette innanzi a un inquietante affresco dello scatenamento capitalistico in accelerazione; oppure Giorgio Agamben che ha scavato i segni del tempo messianico; oppure ancora Rosi Braidotti che propone una rilettura "in positivo" delle filosofie umaniste, anti-umaniste e post-umaniste da Spinoza al femminismo contemporaneo.
Infine, c'è Yuval Harari. Che – nel suo recente Homo Deus. A Brief History of Tomorrow ("Homo Deus. Una breve storia di domani") – ricapitola lo stato dell'arte con queste chiare parole:
«Se pensiamo in termini di mesi, dobbiamo porre occhio a problemi immediati come le convulsioni nel Vicino Oriente, la crisi migratoria verso l'Europa e l'indebolimento dell'economia cinese. Se riflettiamo su scala pluridecennale, un ruolo centrale è assunto dal mutamento climatico, dalla crescente diseguaglianza e dal tracollo del mercato del lavoro. Se però consideriamo la vita nel suo complesso, tutte le altre questioni e vicende vengono poste in ombra da tre processi interconnessi tra loro:
1. La scienza si va convertendo in un dogma onnicomprensivo che asserisce essere gli organismi strutture algoritmiche e la vita un'elaborazione di dati.
2. L'intelligenza [dei nostri dispositivi artificiali, ndr] si va separando dalla coscienza.
3. Ben presto, strutture algoritmiche non-coscienti, ma altamente intelligenti, potrebbero conoscerci meglio di noi stessi.»
martedì 9 maggio 2017
lunedì 8 maggio 2017
Franco Astengo: Elezioni francesi: astensioni e rappresentatività
ELEZIONI FRANCESI: ASTENSIONE E RAPPRESENTATIVITA’ di Franco Astengo
Una prima navigazione nei numeri del turno di ballottaggio delle elezioni presidenziali francesi 2017 ci consente di poter affermare come sia sicuramente cresciuta l’astensione ma, alla fine, il dato di rappresentatività del Presidente eletto sia risultato di sicuro rilievo.
Osserviamo i numeri in cifra assoluta, non stancandoci di ricordare che i dati delle elezioni vanno sempre valutati in questi termini, non limitandoci alle sole percentuali.
Nelle liste elettorali risultavano iscritti 47.552.183 elettrici ed elettori : i due candidati hanno ottenuto complessivamente 31.340.814 voti validi pari al 65,90%.
Il candidato eletto Macron con 20.753.798 voti ha raccolto il 43,53% sul totale degli aventi diritto: un dato che, appunto, ci consente di affermare come il suo grado di rappresentatività rispetto al sistema risulti di sicuro rilievo.
La candidata sconfitta, Le Pen, ha ottenuto 10.637.120 voti pari al 22,37% del totale degli aventi diritto confermando l’impressione di mancato sfondamento (nonostante il grande battage mediatico a favore e – soprattutto – contro) che ci eravamo permessi di segnalare al primo turno.
L’incremento dei due candidati tra i due turni elettorali è stato il seguente: Macron è cresciuta di 12.175.109 voti ( 58,80%) Le Pen 3.933.006 (36,97%).
Complessivamente i due candidati hanno usufruito di 15.153.239 voti sui 19.550.149 lasciati disponibili dagli altri candidati sconfitti al primo turno: questo dato significa che il 77,50% delle elettrici e degli elettori che il 23 Aprile avevano preferito un candidato poi eliminato dalla competizione hanno deciso di recarsi alle urne domenica scorsa per votare uno dei due candidati approdati al ballottaggio.
L’astensione complessiva è cresciuta di 4.954.163 unità (10,41%) ma coloro che hanno deciso di non scegliere hanno preferito la via della scheda bianca o nulla alla diserzione dei seggi.
Infatti l’astensione è cresciuta di 1.830.832 unità mentre le schede bianche sono aumentate di 2.354.699 e le nulle di 768.632.
Per realizzare una accurata statistica dei flussi sarà necessario esaminare in profondità i dati sul piano della divisione territoriale: lavoro complesso che richiederà un qualche tempo perché sia realizzato con una adeguata approssimazione scientifica.
Per adesso, infatti, le valutazioni che circolano sono frutto di rilevazioni eseguite attraverso gli exit – poll.
In ogni caso alcuni dati evidenti sono già valutabili: la grande maggioranza dell’elettorato che aveva scelto Fillon si è riversato su Macron (da 4,5 a 5 milioni di voti), i sostenitori di Mélenchon hanno suddiviso il proprio comportamento tra il sostegno a Macron e l’astensione (in prevalenza la scheda bianca), il temuto flusso da “sinistra” in favore della candidatura Le Pen è risultato sicuramente molto inferiore a quanto temuto/sperato a seconda dei punti di vista (dovrebbe trattarsi di una cifra nettamente inferiore al milione di voti).
Insomma: non c’è stata la valanga dell’unione di tutti contro il “nemico alle porte”, ma una spinta avversativa verso la candidatura di estrema destra sicuramente ha avuto un notevole peso.
Nulla di paragonabile, naturalmente, con quanto accadde nel ballottaggio 2.002 quando Chirac, tra il primo turno e il secondo incrementò il proprio bottino elettorale di quasi 25 milioni di voti a fronte dei 700.00 voti di incremento ottenuti dalla candidatura di Le Pen padre.
Dal punto di vista del dato di rappresentatività dell’eletto rispetto all’intero sistema (ricordo : il 43,63% dell’universo delle /degli aventi diritto al voto) può risultare interessante una comparazione con le elezioni dei Sindaci in Italia.
Prendiamo il caso, recentissimo, di tre grandi città del nostro Paese. Torino, Milano, Roma.
A Torino i candidati pervenuti al ballottaggio hanno assommato 371.644 suffragi pari al 53,41% del totale degli iscritti nelle liste. Il Sindaco eletto ha avuto il 29,14% (Macron 43,63%)
A Milano i candidati pervenuti al ballottaggio hanno raccolto complessivamente 511.533 voti pari al 50,81% del totale aventi diritto. Il Sindaco è stato eletto con il 26,27% (Macron 43,63%)
A Roma i candidati prevenuti al ballottaggio hanno assommato 1.147.499 voti pari al 48,54%. Il Sindaco eletto si è poi fermato al 32,59%, la quota più elevata tra le tre grandi città prese in esame, infliggendo un grande distacco all’altro candidato. (Macron 43,63%).
Questi possono essere considerati i primi dati analitici che si possono fornire a questo punto con una certa cognizione di causa al di là delle analisi politiche di varia natura che oggi riempiono gli schermi televisivi e i giornali con grande enfasi propagandistica.
Si può dire, in sostanza, che la vittoria di Macron è stata netta, rappresentativa rispetto al sistema e sicuramente trasversale rispetto al dato di provenienza politica del voto: In linea quindi con il tipo di costruzione elettoral – mediatica messa in piedi attorno alla sua candidatura.
Contenuti programmatici e azione di governo saranno sicuramente “altra cosa”.
Sarà molto interessante, dal punto di vista dell’analisi elettorale, seguire l’andamento delle legislative il cui primo turno è previsto per il prossimo 11 Giugno.
Il dato di maggior interesse, in quel momento, sarà rappresentato dall’esito del processo di scomposizione delle’elettorato francese registrato al primo turno delle presidenziali (circa l’85% dei voti validi spalmati su 4 candidature) e il processo di ricompattamento verificatosi in maniera rilevante, come abbiamo avuto modo di osservare, al ballottaggio.
La dinamica di concentrazione del voto verificatasi al ballottaggio avrà un qualche effetto sulle candidature presenti al primo turno delle legislative, oppure si tornerà – più o meno – alla suddivisione del primo turno delle presidenziali con un secondo turno ricco di “triangolari” se non di “quadrangolari” qualora non funzionasse la possibilità di un gioco di desistenze (in passato tradizionale, specialmente a sinistra) ?
La realtà concreta al riguardo di ciò che sta muovendosi nella società francese e nelle dinamiche del suo sistema politico si potrà cominciare a capire l’11 Giugno dalla risposta che sarà fornita dall’elettorato a questo ultimo interrogativo.
domenica 7 maggio 2017
sabato 6 maggio 2017
venerdì 5 maggio 2017
giovedì 4 maggio 2017
mercoledì 3 maggio 2017
Franco Astengo: Volatilità elettorale
VOLATILITA’ ELETTORALE di Franco Astengo
Augurandomi di non disturbare eccessivamente mi permetto una breve annotazione a margine relativa alla “scelta / non scelta” adottata dal candidato della “gauche” francese Mélenchon al riguardo della posizione da assumere nel ballottaggio presidenziale di domenica prossima (ballottaggio e non secondo turno: differenza da tenere bene a mente per gli improvvisati, in materia elettorale, legislatori italiani).
La scelta di Mélenchon è semplicemente opportuna e non tattica e non deve suscitare alcuno scandalo o perplessità nei sostenitori della linea “tutti uniti contro la destra” (o “contro” comunque qualcuno o qualcosa come succede da noi: populismo e quant’altro).
Si tratta, appunto, di una “scelta/non scelta” che prende atto dell’estrema volatilità che, in presenza di una profonda crisi di un certo tipo di forma della democrazia liberale, tutti gli elettorati dimostrano nelle più svariate occasioni: basta citare Brexit ed elezione di Trump ma anche (mi è scappato il veltroniano “ma anche” e lo mantengo) – ad esempio – i ballottaggi delle amministrative italiane più recenti.
Il fatto è che, in omaggio alla disintermediazione, all’esasperata personalizzazione della politica, del liquefarsi della “forma – partito” (esempio classico proprio la Francia e il PS che, nel turno “primario”, oltre all’impopolarità di Hollande ha sicuramente pagato il fatto di aver presentato un candidato strettamente “di partito”) nessuno controlla più nessuno e ogni indicazione di voto che arriva dall’alto è clamorosamente smentita (per questo c’è l’esempio Alitalia in piccolo, ma soprattutto in grande il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 in Italia).
Nessuno controlla più nessuno in particolare allorquando il candidato non è presente direttamente nell’arena della contesa e la volatilità elettorale può esprimersi liberamente nelle forme più massicce: ormai è ridotto ai minimi termini il voto di appartenenza e quello di opinione ha assunto davvero contorni molto incerti.
Un quadro di volatilità elettorale che, ormai di turno in turno, nelle diverse situazioni tocca il 40%.
Si è discettato per decenni sulle vicende dell’Uomo qualunque in Italia o del movimento poujadista in Francia, episodi lontani e isolati: adesso le fortune e le sfortune elettorali costruite in brevissimo tempo si sprecano. Pensiamo a Syriza, Podemos, Ciudadanos, M5S, lo stesso Macron. Un fenomeno che, tra l’altro non riguarda soltanto l’insegna “né di destra, né di sinistra” ma anche formazioni e leader ben caratterizzati sull’asse politico.
In realtà Mélenchon si è semplicemente sottratto al rischio di una dimostrazione di sostanziale impotenza nella capacità di indirizzare vasti settori di elettorato che a lui si erano rivolti bypassando la mediazione dei soggetti politici: come ha fatto Macron che adesso potrebbe pagare il fio di questa distorsione dell’agire politico mentre la candidatura di Marine Le Pen soffre meno di questa sindrome. Infatti, molto probabilmente il sostegno che le arriverà dal movimento sovranista di Dupont – Agnant risulterà più efficace (e si tratta di un consistente pacchetto di voti: 1.600.000 circa) proprio per via della diversa consistenza delle soggettività politiche collettive presenti nella “droite” e alla maggiore abitudine a seguire le indicazioni di donne e uomini ritenuti “della Provvidenza” (il personalismo un grande favore alla destra almeno in Occidente).
Si tratta del risultato di una politica votata esaustivamente al tecnicismo della governabilità e alla ricerca del Capo che parla direttamente alle folle (poi quando il Capo ha finito di parlare le folle se ne vanno a tutti a casa).
Un agire politico che ha perso, da queste parti, il proprio “ubi consistam” avendo smarrito completamente anche soltanto l’idea della rappresentanza.
Questo mi sembra il punto in cui ci troviamo all’interno di una situazione che espone l’intero quadro a un rinnovarsi di “resistibili ascese”.
Paolo Bagnoli: La lezione francese e i somari italiani
la lezione francese e i somari italiani
paolo bagnoli
Da Critica liberale
Quale lezione dobbiamo trarre dal primo turno delle elezioni presidenziali
francesi? La politica nostrana si è subito sbracciata guardando alla Francia per
traguardare l’Italia, ma la rappresentazione è stata più provincialistica che provinciale. Lo
è stato il campo partitico, ma anche quello politologico. Esso, infatti, si è affrettato a
dichiarare la fine della Quinta Repubblica con una certezza quasi assiomatica. Singolare.
Talora almanacca nell’analisi del sistema italiano che, al momento, è sempre più ciò che
resta di quello che era che non un qualcosa in via di assestamento positivo. Se le cose
stanno così non è certo responsabilità della politologia, ma se anche chi pensa non è esente
da critica, dobbiamo dire che certe derive propositive sulla riforma costituzionale e sul
battito di mani alla legge elettorale voluta da Matteo Renzi non hanno fatto fare una bella
figura alla disciplina dominante nelle tribune giornalistiche.
Il risultato del primo turno delle elezioni francesi è il frutto di un doppio fallimento:
dei socialisti al governo e della parabola discendente della destra repubblicana antifascista,
ossia del postgollismo. Il primo si chiama Francois Hollande; il secondo Nicolas Sarkozy. I
socialisti hanno pagato il prezzo più caro e, forse, occorre rendere l’onore delle armi a
Benoit Hamon fattosi carico – nonostante si presentasse con un programma di tutto
rispetto – della sconfitta. Francois Fillon è rimasto intrappolato nei propri guai
certificando un declino che già Sarkozy aveva incarnato. Marine Le Pen, nonostante fosse
la favorita, non ha portato a casa quanto si aspettava e, se scatterà la clausola repubblicana,
a casa rimarrà. Il quadro tuttavia è in movimento poiché, per la prima volta, si verifica
l’alleanza di un gollista con i petanisti. Infatti, Nicolas Dupont-Aignan, uscito dall’Ump nel
2007 , che ha raccolto alle elezioni il 4,7%, ha dichiarato che al ballottaggio voterà la Le
Pen non essendo più di estrema destra. Al di là di quanto ciò possa influire sull’esito della
scelta, si tratta di una novità su cui riflettere. Sia i socialisti che i repubblicani hanno pure
testimoniato come le primarie non servano a nulla; Enrico Letta, esiliatosi a Parigi, ma con
la testa sempre in Italia, lo ha detto per primo a supporto della propria viscerale avversità a
Matteo Renzi che fa delle tristi primarie del Pd il trampolino per la rivincita e il rilancio.
Piero Ignazi le ha definite “le primarie del nulla”.
Della crisi dei due poli storici della democrazia francese ha saputo trarre vantaggio
Emmanuel Macron il quale, dopoché alle primarie dei due partiti erano stati battuti i
065
01 maggio 2017
10
candidati ufficiali, Manuel Valls e Alain Juppé, si è trovato davanti una autostrada per
l’Eliseo. Bastava camminarci senza dire dove si voleva andare – fatta eccezione,
naturalmente, per la Presidenza – per egemonizzare l’incertezza del momento a proprio
vantaggio. Macron ha interpretato il proprio ruolo con grande professionalità. Si è tenuto
lontano da ogni contaminazione – compresa quella che poteva essere più che possibile del
proprio passato di ministro in un governo socialista – puntando sempre a distinguersi per
dare garanzia della novità che rappresentava. Su questo aspetto ha giocato la carta
dell’Europa con coraggio e bravura.
Dopo il primo turno il panorama francese dice alcune chiare cose. La prima è che la
sinistra quando non è unita quasi sempre perde. Basta sommare i consensi di Jean-Luc
Mélenchon e quelli di Hamon; il risultato l’avrebbe fatto vincere il primo turno. La lezione
di Francois Mitterrand se ne è andata in fumo; eppure già Lionel Jospin ne aveva fatto le
spese. Qui le responsabilità di Hollande sono veramente forti e, dall’altra parte, come
avrebbe potuto il Presidente in carica unire la sinistra non essendo nemmeno capace di
tenere unito il proprio Partito? Una cosa che Mitterrand aveva in grande cura e, se non
fosse stato così, non sarebbe stato all’Eliseo per ben quattordici anni. Verrà la resa dei
conti, vediamo cosa succederà. La destra – intendendo con ciò sia quella postgollista che
quella radicale – in Francia non può avere un’evoluzione simile a quella avvenuta in Italia
ove Silvio Berlusconi ebbe il coraggio di sdoganare i missini permettendogli di
conquistare il governo. Il solco tra le due destre, nonostante Dupont-Aignan, rimane
ampio e ciò dovrebbe far ragionare la sinistra. Se, però, per primi non ragionano i
socialisti, la sinistra si frantuma condannandosi alla sterilità. I socialisti, rinati ad Epinay,
rischiano nuovamente il destino della Sfio.
La vittoria di Macron ha naturalmente ridato colore al grigiore della politica
italiana. Uomo senza identità, senza un partito vero, “in marcia” per ora verso la conquista
della presidenza, nel caso vinca al secondo turno dovrà passare ancora l’esame vero
rappresentato dalle elezioni politiche per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale. E’ chiaro
che non si possono proiettare le percentuali dei candidati al primo turno sui possibili
risultati delle varie forze politiche nel nuovo Parlamento e sulle tendenze che
esprimeranno i nuovi deputati all’interno dei vari gruppi parlamentari. Non crediamo,
infatti, che la percentuale reale dei socialisti sia il poco più del 6% raccolto da Hamon.
Riteniamo che una volta archiviati sia Holland che Valls, il Psf possa ricostruirsi pensando
seriamente a se stesso e alla propria funzione con un nuovo gruppo dirigente capace di
ridare ai socialisti quanto Hollande e Valls hanno loro tolto.
Sbilanciarsi, quindi, su una definizione consacratoria di Macron è imprudente e
pure infantile. Ma la tentazione di arruolarlo nelle proprie “file” – come avviene un po’ per
tutti coloro che vincono - è troppo forte. E’ già successo con Bill Clinton, Tony Blair – il
065
01 maggio 2017
11
quale, sia detto tra parentesi, vede nell’andare oltre i partiti un’occasione per il ritorno alla
politica; speriamo ci ripensi – Barach Obama e Bernie Sanders. Niente di nuovo sotto il
sole; il vizio italico non ha limiti. Su tutti si è distinto Piero Fassino subito sbilanciatosi a
dichiarare: “Non mi convince la semplificazione di una sinistra che si avvicina al centro. Mi
convince di più l’idea che anche in Francia sia nato un centrosinistra come espressione di
un nuovo riformismo europeo. E in qualche modo con Macron nasce in Francia ciò che in
Italia è sorto con il Pd.(…) E’ la riconferma della necessità di un grande rinnovamento della
sinistra europea. Quando dieci anni fa fondammo il Pd, lo facemmo anche perché convinti
che era necessario un profondo cambiamento della sinistra, delle sue idee e della sua
identità. Dieci anni fa fummo guardati con sufficienza, oggi si può ben constatare che la
scelta fu lungimirante. E l’affermazione di Macron sollecita anche la sinistra francese a
ripensarci.” Bisogna riconoscere che la scuola del Pci era una cosa seria! Che dire? Che
Macron sia di centrosinistra – sempre ammesso che si sappia cosa significhi
“centrosinistra” che tutti dichiarano di volere per evocare un mitologico ritorno
all’ulivismo – è da vedere. Ma è clamoroso invocare il rinnovamento della sinistra
chiedendo il superamento e il cambiamento della propria identità la quale, non
dimentichiamolo, le proviene dalla storia. Una cosa sfugge a Fassino: che una cosa è
l’identità e una sono le politiche. Non ci stupiamo del ragionamento ricordando come, nel
periodo di gestazione del Pd, egli si affannasse a dire che veniva fatto un “partito di laici e
di cattolici” negando che questi ultimi possano essere “laici” e, pure, del fatto che, caso
mai, nei partiti convivono credenti e non credenti.
Vedremo cosa combinerà Macron. Per ora constatiamo che il suo essere in marcia
significa assorbire, da una posizione di centro, la destra e la sinistra; esse, quindi, in un
processo di indistinzione, vengono refluite in un centro il quale, essendo per sua natura già
concettualmente moderato non potrà che esserlo di più in una tendenza dinamica verso un
profilo conservatore. E’ un qualcosa che sempre avviene quando si afferma che destra e
sinistra sono superate, che non hanno più ragione di essere e così via. Di solito
un’operazione di camuffamento per superare solo la sinistra e, magari, ingentilire la destra.
Beato Fassino, beato lui. Ora, se gettiamo un occhio sulle primarie del Pd, ove il
tema del centrosinistra tiene banco, nessuno sa spiegare che cosa esso sia; non solo, ma i
tre candidati testimoniano -. ed è un giudizio politico non sulle persone – che il loro è il
partito della confusione. Fassino ragiona secondo la logica comunista che ha portato al Pd,
ma fa capire che sogna il blairismo, ossia il tacherismo sociale. Si vede che il renzismo non
gli basta.
lunedì 1 maggio 2017
Franco Astengo: L'elezione diretta del segretario del Pd. Le cifre
ELEZIONE DIRETTA DEL SEGRETARIO PD: FLESSIONE NEI VOTANTI, RENZI PERDE 600.000 VOTI di Franco Astengo
Sono stati appena comunicati i dati ufficiali riguardante l’elezione diretta del segretario PD ( denominazione corretta per il tipo di elezione svolta in luogo di quella di inesistenti “primarie”).
E’ il caso allora di svolgere alcune prime valutazioni sulla base dei numeri assoluti, in attesa di conoscere i dati suddivisi per aree geografiche e quindi di analizzare scostamenti importanti rispetto alle diverse zone d’influenza di un partito che molto di recente ha subito una scissione da parte di “storici” dirigenti della sinistra italiana.
Il PD ha scelto questo tipo di elezione diretta allargata all’intera platea elettorale (anzi oltre la platea elettorale della Camera dei Deputati) per la quarta volta, nel 2007 parteciparono al voto 3.554.169 elettrici ed elettori (fu eletto Veltroni con 2.694.721 voti) poi nel 2009 i votanti furono 3.102.709 ( Bersani eletto con 1.623.239 voti).
Analizziamo allora nel dettaglio le ultime due occasioni, quella del 2013 e quella svoltasi ieri, 30 Aprile, nelle quali è stato eletto segretario Matteo Renzi.
Nel 2013 i votanti furono 2.814.881 voti ( meno 739.288 rispetto al 2007, una cifra assoluta di calo nella partecipazione inferiore però a quella fatta registrare tra il 2013 e il 2017) : infatti il 30 Aprile hanno partecipato al voto 1.848.658 elettrici ed elettori con una flessione di 966.223 unità ( in sostanza sono stati perduti quasi il 35% di partecipanti al voto).
La candidatura vincente di Matteo Renzi è passata da 1.895.332 suffragi a 1.283.389: un calo di 611.943 voti ( il 32% di quanto realizzato nel 2013).
Gli altri due candidati nel 2013 (Cuperlo e Civati) assommarono in quell’occasione 910.443 voti; nel 2017 i due candidati sconfitti (Orlando e Emiliano) hanno conseguito complessivamente 549.745 voti ( un calo di 360.390 voti, pari al 39,5% sul totale precedente). Si può quindi affermare che il calo nella partecipazione al voto ha penalizzato maggiormente i candidati sconfitti e non Renzi.
Nel dettaglio il confronto Cuperlo – Orlando è stato da 510.970 a 357.526 e quello Civati – Emiliano da 399.743 a 192.219.
Una sommaria valutazione politica può essere riassunta in due dati: 1) è evidente uno spostamento al centro dell’elettorato democrat; 2) possono accentuarsi, pur nel quadro complessivo di un evidente arretramento complessivo, la caratteristica di partito personale essendosi fortemente caratterizzati i caratteri plebiscitari della consultazione.
Da rilevare, infine, il valore di questa consultazione sul totale degli aventi diritto al voto sul territorio nazionale.
Si tratta di un dato da non sottovalutare perché la rappresentatività complessiva del segretario del PD derivante dall’essere stato eletto direttamente fu rivendicata come una delle ragioni della sua ascesa alla presidenza del Consiglio.
Di conseguenza:
nel 2013 risultavano iscritti in Italia nelle liste elettorali 46.905.154 elettrici ed elettori; i 2.814.881 votanti valevano dunque il 6,00%; l’eletto Renzi con 1.895.332 voti di conseguenza il 4,04%. 4,04% sulla base del quale fu reclamato il diritto alla presidenza del Consiglio senza passare da alcun riscontro elettorale e fabbricando la maggioranza attraverso una scissione del campo avverso di centro destra.
Nel 2017 risultano iscritti, in Italia, nelle liste elettorali 46.720.943 elettrici ed elettori (dato al referendum del 4 Dicembre 2013). Il totale dei partecipanti all’elezione diretta del segretario del PD ( 1.848.658) valgono quindi una frazione pari al 3,95 dell’intero corpo elettorale ( - 2,01 rispetto al 2013) e il rieletto Renzi (1.283.389 voti) il 2,74% ( -1,30%).
In sostanza ha sicuramente basi ragionevoli l’idea di un PD partito – personale (con tutti i rischi annessi e connessi per l’intero sistema), mentre assolutamente fuori dalla realtà da punto di vista della consistenza del consenso nel sistema l’ipotesi di un ulteriore trasferimento diretto dalla segreteria del PD alla Presidenza del Consiglio che questa volta non potrà non avvenire se non attraverso un regolare turno elettorale al contrario di quanto accadde, ai limiti della Costituzione (come era già avvenuto con il governo Monti nel 2011) nel 2014.
In ballo, dopo questo tourbillon, la legge elettorale ricordando entrambe le sentenze della Corte Costituzionale: quella del 2014 che smantellò completamente la legge del 2005 e quella di pochi mesi fa che destrutturò il mai entrato in funzione Italikum.
Iscriviti a:
Post (Atom)