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martedì 14 marzo 2017
Franco D'alfonso: La legge di Murphy
“Se qualcosa può andare male, lo farà” . La “legge di Murphy”
12/03/2017 DI FRANCO D'ALFONSO IN
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“Se qualcosa può andare male, lo farà” . La “legge di Murphy” non è opera di un personaggio dei Simpsons, ma di un serissimo scienziato impegnato nelle più audaci sperimentazioni negli anni Cinquanta, quando la fiducia nel progresso e nella scienza era totale : la sua affermazione, scientificamente sostenuta, rappresenta il trionfo dell’ottimismo della ragione e dell’azione sul determinismo fatalista .Il primo passo per realizzare una innovazione in tutti i settori, dalla scienza e la tecnica alla politica e società, è quello di individuare con chiarezza e realismo gli ostacoli che sempre si parano innanzi agli innovatori e di non aspettarsi alcun evento di tipo miracolistico che li rimuova.Negli ultimi tempi i politici della sinistra o del “campo progressista” mondiale non sembrano avere per nulla presente la questione. La catena di eventi avversi dell’ultimo anno , da Brexit a Trump passando per i più “locali” Grillo, Le Pen, Orban e compagnia, sono stati affrontati senza nessun adeguamento di strategie e parole d’ordine, ma sperando che per motivi imprecisati i fattori che ne avevano determinato la nascita ed il successo iniziale fossero un brutto sogno destinato a sparire al risveglio . Il risultato è che Hillary si dedica ai nipotini, Hollande al massimo può candidarsi al ruolo di ispettore Closeau nel prossimo film della serie senza avere ancora capito come mai, mentre Trump declina con puntiglio in pratica tutte le “impossibili” fantasie della campagna elettorale.In Italia siamo nella fase immediatamente precedente al verificarsi dell’irreparabile . Si , è vero , la strategia di Renzi è franata sul referendum ( forse ricordare la legge di Murphy gli sarebbe servito…), i Cinque Stelle inanellano disastri da incapacità politica non solo a Roma senza pagare apparentemente pegno elettorale, economia ed Europa non migliorano la situazione, ma la sensazione è che la partita sia compromessa ma non persa .
Ma per vincere serve innovazione politica. Una innovazione coraggiosa, che non si affidi alla fortuna o alle rivincite giocate con le stesse modalità delle sconfitte appena subite o che non spacci il vecchio per nuovo e la radice per la fronda, l’evoluzione nella continuità con la conservazione dell’immobilismo.Negli ultimi giorni in molti – per la verità in troppi come tradizione della sinistra italiana – hanno detto, con modalità e stili diversi, di voler dare vita a nuove ipotesi politiche : ci credono perfino i fondatori seriali di nuovi partiti della Sinistra vera che più vera non si può , giunti con Sinistra Italiana (sempre che nome e partito reggano più di due settimane) alla sesta o settima sigla inchiodata al 2,9 per cento con potenziale al 3,1; così come lo credono gli “scissionisti a tempo” della vecchia scuola Fgci in attesa di riprendersi la “ditta”, che non si rassegnano alla pensione e sognano il nuovo Ulivo con vecchi contadini..
Accanto ai protagonisti delle sconfitte inevitabili della sinistra della cosiddetta “Seconda Repubblica “ ,sono tornati a voler recitare un ruolo da protagonisti gli unici due esponenti della sinistra ad aver tentato innovazione politica e vinto qualche elezione significativa negli ultimi cinque anni, vale a dire Matteo Renzi e Giuliano Pisapia . Lo hanno fatto con toni, stile e concezione del tempo molto differenti ( l’intervallo intercorso tra l’uscita ed il rientro in prima fila per Giuliano è durato un anno , per Matteo un giorno scarso), con parole e proposte ancora più differenti, ma cercando di rispondere alla stessa domanda : quale proposta della sinistra è oggi in grado di dare risposte ai cittadini che si rivolgono a chi promette un impossibile ritorno al passato spacciandolo come speranza del futuro ?
La differenza fra il loro tentativo e quello dei “reduci”, secondo la definizione sarcastica di Renzi, per ora è tutta qui . Sia Renzi che Pisapia in questa fase si richiamano al tempo delle elezioni europee e del trionfo delle facce nuove e giovani dei “rottamatori” l’uno, a quello degli arcobaleni arancioni nel cielo di Milano l’altro : esperienze che ancora nell’immaginario collettivo evocano la bellezza della novità coniugata con il fascino del ricordo e delle radici e, soprattutto, degli ultimi veri e propri trionfi elettorali e di popolo per la sinistra, in grado di cancellare la storica invettiva “con questi dirigenti non vinceremo mai” che aleggiava sulla testa di due o tre generazioni di dirigenti politici.
La sensazione o meglio la speranza è che questi due tentativi siano però ancora ai titoli iniziali e che non abbiano espresso, diciamo così, che una piccola parte della loro potenzialità.
Renzi è tornato al Lingotto dalla Leopolda, con qualche malcelata fatica ha usato un “noi” versione grigia invece del classico roboante “io” ed ha fatto solo “selfie” di gruppo, ma nulla ha detto in merito a qualche idea di cambiamento di politica economica, una delle cause principali della “debacle” del 4 dicembre. Ha fatto poi capire di volere una nuova politica europeista, che certamente non può ridursi alla proposta di elezione diretta del presidente della Commissione. Il rischio che si tratti di cambiamenti negli annunci e non annuncio di cambiamento potrebbe essere reale, anche se in realtà un concetto nuovo lo ha espresso ed è quello di egemonia, mutuato dall’esperienza gramsciana del PCI. Non a caso la prima sessione è stata chiusa da Biagio De Giovanni, che metà platea non sapeva chi fosse, che ha disquisito sul nuovo concetto di egemonia per battere populismo reazionario e liberismo. Siamo quindi sempre alla ricerca di una mitica terza via, che se in Gramsci vedeva l’egemonia di una classe, in Renzi non si capisce su quali valori dovrebbe poggiare.
L’intervento migliore al Lingotto lo ha fatto la Bonino, una che con Renzi c’entra poco o nulla, dicendo che l’unica politica possibile è il pragmatismo della Merkel, che da un lato con le due velocità cerca di salvare l’Europa ma dall’altro ha fatto una legge seria sui migranti e ne accoglie un milione e mezzo all’anno.
Pisapia ha squadernato i risultati della buona amministrazione di Milano e del modello di alleanza rimasto ben saldo per l’intero ciclo amministrativo, come non succedeva dal secolo scorso, in grado di sopravvivere e continuare oltre il suo sorprendente e non certo perfettamente gestito passo indietro finale . Ha confermato il suo approccio pragmatico indicando come obiettivo possibile ed immediato il consolidamento della legislazione sui diritti civili, dal fine vita all’immigrazione , nonché una buona correzione della legge sui voucher per bloccare gli abusi “orribili” e non certo per sopprimerli, considerando il referendum della Cgil una spinta alla trattativa e non un’arma contro il Governo. Non ha detto praticamente nulla, nemmeno suggestioni, sul programma di cui l’alleanza della “buona politica” dovrà farsi carico una volta nata, rimandando – altro “evergreen” – all’elaborazione delle nuove idee alle “Officine” che stanno per riaprire.
La sensazione che gli elementi dell’indispensabile “sogno” da offrire ad una sinistra che si candidi nuovamente a guidare il Paese per quello che dice e fa e non per la paura di quello che dicono e fanno gli avversari politici non siano ancora emersi e che sia dal Lingotto che dal Brancaccio si sia cercato di segnare un nuovo inizio più che indicare una nuova via. Manca ancora quel “quid” che faccia passare entrambi dalla condizione di essere necessari, soprattutto nel nuovo contesto proporzionalista, ma non sufficienti a riportare al successo uno schieramento nitido tenuto insieme da progetti chiari e valori comuni.
Non si può giudicare quello che ancora non c’è, ma non si può non notare come al momento sia però assente dalla riflessione dei soli leader credibili oggi disponibili, una valutazione sul valore del territorio come terreno di elaborazione politica ed innovazione sociale, del valore dell’autonomia delle singole comunità come ricchezza creativa contrapposta al provincialismo conservatore. Se Renzi pare culturalmente molto distante da questo modello, Pisapia ha acquisito il valore della partecipazione dal basso e dell’istituzione locale come luogo del dibattito politico e non come sezione staccata di Stato o di partito verticista, ma non pare aver superato la diffidenza tipica della sinistra di derivazione giacobina verso il federalismo politico.
Una nuova proposta non potrà nascere senza fare i conti con questa esigenza . E questi conti si fanno a Milano ed in Lombardia.
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