Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
giovedì 8 dicembre 2016
Paolo Bagnoli: La Repubblica ha salvato le proprie fondamenta
la repubblica ha salvato
le proprie fondamenta
paolo bagnoli da critica liberale
Quanto urge dentro, guardando il risultato del referendum che ha salvato la
Costituzione della Repubblica, è di prendere in prestito da quel grande italiano che fu
Pietro Nenni ciò che disse in occasione del referendum sul divorzio del 1974: «Si sono
voluti contare e hanno perso». Oppure andare a Giulio Andreotti e al suo «Alla fine tutte le
volpi finiscono in pellicceria». O se volessimo, ancora, rimanere nel gergo popolare:
«Hanno fatto come i pifferi di montagna; andarono per suonare e furono suonati».
Quest’ultima, forse, è l’espressione che meglio riassume il tutto :il Paese non solo ha
gridato un NO netto, ma con ciò ha fatto anche sapere che di Matteo Renzi non ne vuole
sapere. Come accade in un voto referendario, comunque ci si collochi, il voto racchiude
tanto altro al di là dello specifico in oggetto, ma poi bisogna considerare il dato unificante
su cui argomentare un giudizio politico d’insieme. Il voto del 4 dicembre è, come tutte le
verità, molto semplice da interpretare: non si può imbastardire la Costituzione con le
questioni del governo; quanto è a fondamento di un Paese con quanto, invece, è
contingente. Su ciò il giudizio del Paese è stato praticamente omogeneo e ci dice, altresì, un
qualcosa che forse era a tutti un po’ sfuggito; in fondo, il popolo italiano sente il valore
della Costituzione più della classe politica che lo governa e non è disposto a vendersi per
una frittura di pesce!
Subito dopo l’accertamento del risultato le interpretazioni di merito sono state le più
varie; è normale e comprensibile, L’unica cosa che non abbiamo né letto né sentito è stato
quello che, in effetti, era il nocciolo vero della questione: vale a dire, passare da
un sistema di democrazia repubblicana a uno di potere autoritativo. Se ciò
fosse avvenuto i rischi per la Repubblica e la sua legittimità democratica sarebbero stati
gravissimi anche perché il nuovo sistema era stato concepito su due fondamenti:
annullamento della centralità parlamentare con conseguente ruolo caudillistico del
presidente del consiglio e legge elettorale che avrebbe permesso ad una forza, in questo
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caso al Pd – hoc erat in votis - di divenire il centro di legittimità e di governo dell’intero
sistema. Se così fosse avvenuto le radici della Repubblica, che non ci vergogniamo di dire
nata dalla Resistenza, sarebbero state cancellate e la stessa prima parte della Costituzione
avrebbe figurato, rispetto al tutto, come una specie di guardie del Pantheon le quali, ci
siano o non ci siano, non fanno nessuna differenza, al massimo fanno compassione.
Siamo consapevoli di cantare fuori dal coro. Il richiamo alla Resistenza e, cioè,
all’antifascismo, senza trattino, tuttavia, non è un sospiro struggente della nostalgia, ma un
dato della storia e della politica democratica che iniziano in Italia con la nascita della
Repubblica e la Costituzione. Qui il discorso si fa complesso. A ben vedere, però, fino a un
certo punto. Ogni Paese è il frutto della sua storia. Un Paese dimentico del proprio passato
non è detto che sia, come si suol dire, destinato a ripeterlo, ma certo si sbanda; ecco
perché, a meno che non si produca un cambio di sistema, si sta molto attenti a mettere le
mani nelle Carte costituzionali. La storia, coi suoi valori, che non sono storici, ma politici,
risiede naturalmente nel passato, ma il presente non nasce dal nulla poiché sgorga dal
proprio passato: ossia, da un complesso di idee, moralità, atti e vicende che concorrono in
modo determinante a delineare il profilo del presente, il suo ancoraggio, la sua identità. Un
esempio probante ci viene dalla Francia che ha cambiato più volte sistema statuale e
norme costituzionali, ma, dal 1789, non c’è mai stata Costituzione francese che non abbia
messo in testa il richiamo ai principi della Rivoluzione. Prescindendo da ciò, infatti, si
annulla l’identità della Francia, un paese nel quale sia la destra che la sinistra si
richiamano entrambe all’esprit repubblicain.
Il nostro esprit sta nell’antifascismo. Esso, senza trattino, segna una visione positiva
della comunità e della sua convivenza che ha nelle forme della democrazia la sua
espressione politica democratica. L’antifascismo è una risposta di civiltà alla barbarie.
Vogliamo dire che l’antifascismo non appartiene solo alla storia, ma alla politica; è quanto
ha dato forza agli sforzi politici e sociali della Repubblica che non dipendono
operativamente dai principi in Costituzione essendo compito della lotta politica attuarli e
svilupparli; della lotta politica la Costituzione segna compatibilità e limiti. Grazie a tale
radice l’Italia ha superato le sue grandi crisi: pensiamo solo ai ripetuti attacchi sovversivi
del neofascismo rivitalizzato dal revanscismo e dalle coperture dei servizi americani e al
terrorismo rosso sul quale non tutto appare ancora scoperto.
Da quando la prima Repubblica è franata, portando con sé progressivamente i valori
fondanti e le identità repubblicane che le forze politiche storiche rappresentavano, si è
perso pure il senso delle radici. Così, più che applicarsi a ricostruire i valori e i soggetti
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della politica democratica si è lavorato a un cambio di sistema tramite una processualità
snodatasi tra il porsi e il morire di nuove sigle politiche e la ricerca di sistemi elettorali che
portassero all’obbiettivo voluto della parte in quel momento preminente. Il tutto,
naturalmente, è stato camuffato dal segno del rinnovamento, della modernizzazione,
dell’anti-ideologico, dell’adeguarsi allo standard europeo – di quale Europa, poi, nessuno
ce lo ha mai spiegato - della lotta alla casta, dei costi della politica e si potrebbe continuare.
Si è finito per scaricare sulla Costituzione quanto di più di improprio e di pericoloso si
potesse fare. Ma un Paese in condizioni economiche e sociali assai critiche, in cui
predomina la mancanza di speranza per il futuro, oberato da un’ imposizione fiscale fuori
della logica, pieno di ingiustizie, di corruzione e che non sembra avere più fiducia nel
futuro, ha detto NO. La giustificazione nobile era che si faceva una nuova Costituzione per
le giovani generazioni, ma queste si sono opposte. È un motivo serio di riflessione cui
guardare con qualche speranza. La filosofia della rottamazione è stata rigettata dai giovani
cui va data, però, una risposta; forse, rientrando nell’ambito di un sistema basato sulla
comunità democratica e non della casta decisionale al governo, essa può essere trovata.
Con la vittoria del NO la Repubblica ha salvato le proprie fondamenta, ma i
problemi complessivi della crisi sono ben lungi dall’essere risolti. Il dibattito che si è
incendiato dopo i risultati ci sembra tuttavia incanalato su binari sbagliati. Il più evidente
di essi è che il 40% raggiunto dal SI costituisca il consenso elettorale del Pd, come si
affannano a dire a Renzi i suoi pretoriani per tenerlo in scena, quando in quella
percentuale sono confluiti voti provenienti da forze che mai voterebbero il partito renziano.
E’ evidente che a fronte delle dimissioni di Matteo Renzi, della questione della legge
elettorale, del collocamento delle presenze parlamentari e così via, vi sia un’ansia
dominante in tutti per cercare di indirizzare il futuro secondo il proprio interesse, ma è
altrettanto vero che si palesa una miseria della politica nel rinunciare al tentativo di
riagguantare le ragioni della crisi che ci travolto ormai da più di due decenni orsono. Al
tentativo, cioè, di reinserire il riavvio del sistema democratico in una cornice fondante di
cultura storica e politica; su cosa esprime e rappresenta la democrazia nata con la
Repubblica; vale a dire, con quanto ciò ha a che vedere con i soggetti della democrazia
medesima, combinando la politica – che è quanto attiene la vita dello Stato – con il
politico, che riguarda invece i soggetti che animano la dinamica della politica medesima. Di
tutto ciò non vediamo nemmeno l’ombra. E se non avviene, come quasi sicuramente non
avverrà, la porta aperta dal NO produrrà solo un rattoppo che, forse, permetterà di andare
un po’ avanti, ma al buio, senza reali prospettive coerenti con l’esprit della nostra
democrazia. Un’altra occasione aspetta dietro la porta.
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Invece che dare subito il sopravvento – anche se è necessario stabilizzare il sistema
se pur si tratti di un insieme illegittimo costituzionalmente, produttore di fattori a loro
volta illegittimi benché giustificati dalla Corte per motivi, comprensibili, ma non per
questo confacenti ad uno Stato di diritto, di continuità – ci dovrebbe essere l’esplodere di
una grande presa di coscienza della questione che è quanto l’influenza determinante del
voto giovanile nella vittoria del NO chiede all’Italia. Ma è mai possibile che un Paese
tradizionalmente ricco di cultura politica e di alto giornalismo critico – intendiamoci, non
è che esso non ci sia, se pur ovattato dalle condizioni padronali dei giornali, anche oggi –
sia così muto? Così arrendevole, quasi che esista solo un Paese “ufficiale” e, poi, un altro
per il quale si configura il ruolo dei “culti ammessi” di una volta. Ci vuole certo coraggio e
personalità, ma senza un’impennata di orgoglio “nazionale” non ci sarà né l’uno né l’altro.
Corre l’obbligo, per un’altra volta, di domandarci perché la crisi sia giunta a tale
stadio. Un argomento sul quale pesa una tacita intesa al silenzio che sarebbe salutare
squarciare. Già da queste prime ore di post crisi è chiaro che il problema vero di fronte al
quale si trova il Presidente della Repubblica, oltre a tutto il resto, è il Pd. E’ il vero
problema di fronte al quale si trova il Paese tutto; la causa che ha tracimato la crisi italiana
fino a questo punto di gravità e di tentata rottura istituzionale. Mentre in tutti i Paesi, di
solito, la Costituzione unisce, il Pd si è ingegnato perché dividesse gli italiani i quali, grazie
a Dio, non sono cascati nel trabocchetto, ma per i veleni sparsi a larghe mani ci vorrà un
bel po’ prima che vengano riassorbiti. Verrebbe da dire che una forza politica senza ragione
vera di cultura che non sia il potere, la sola cultura che ha – se di cultura si può parlare – è
di affermare se stesso con danni istituzionali di grande rilevanza.
Gli ibridi, infatti, non producono chiarezza, ma altri più complicati e pericolosi
ibridi. Ora però la vicenda si completa visto che il voto referendario l’ha in qualche modo
chiusa. Quando Matteo Renzi si è trovato a guidare il governo ha concordato con Giorgio
Napolitano la proposta di cambiare Costituzione e legge elettorale. L’allora Presidente ha,
infatti, ritenuto essere giunta l’occasione di dare corpo al disegno che Walter Veltroni
aveva messo a fondamento del Pd: costruire una forza di centrosinistra a vocazione
maggioritaria nella quale, finalmente, i postcomunisti cessavano di essere ritenuti tali
grazie all’avverarsi della linea togliattiana dell’incontro coi cattolici pur non correndo il
rischio, con ciò, di subire trasformazioni antropologiche, bensì di presentarsi come l’unica
forma possibile di essere di sinistra. Annunciando Veltroni che il socialismo era morto e la
sinistra finita, avrebbero potuto esercitare nella nuova formazione l’egemonia cui si
sentivano predestinati come lo sono coloro che vengono da lontano e, quindi, vanno
lontano. Matteo Renzi, che l’abbia capito o no, è stato lo strumento di Napolitano che lo ha
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condotto discettando sulla inopportunità delle due Camere, sul fatto che occorre stabilità
di governo e, quindi, pure una legge elettorale forte – rispetto a quella presentata, il povero
Acerbo fa l’impressione di un moderato di periferia – che l’Europa chiedeva e compagnia
cantando. Il fine era di salvaguardare il gene comunista della vocazione maggioritaria
sotto la veste di una grande novità favorita dalla quasi scomparsa sinistra storica. Con
coerenza Napolitano si è speso anche dopo aver abbandonato il Quirinale, salvo che, negli
ultimi giorni della campagna elettorale, fiutati i sondaggi, ha cautamente, muovendosi in
un paniere di aggettivi, avanzato alcune eleganti critiche al modo con cui Renzi conduceva
la campagna referendaria. Un grande NO li unisce entrambi, direbbe il padre Dante, ”in un
sol fuoco”!
Il NO è stato un voto di rigetto del governo e del modo di interpretarlo da parte di
Renzi e di coloro che lo hanno seguito. L’aver bocciato la soppressione del Senato è
altamente positivo poiché ad esso venivano imputate colpe che proprio non aveva; la prima
delle quali la lentezza del processo legislativo che dipende, cosa che tutti sanno, solo ed
esclusivamente dalla volontà politica. Certo che alla Assemblea Costituente ci fu
discussione se ci dovesse essere ancora un Senato – peraltro eletto – e su cosa esso dovesse
fare. Se alla fine fu decisa l’equiparazione costituzionale con la Camera dei Deputati, non
dimentichiamoci che si stava costruendo l’istituzionalità della democrazia parlamentare
dopo venti anni dittatura, fu perché, in un Paese alieno dall’humus del liberalismo e
quindi dalla pratica dei poteri che controllano e limitano altri poteri da cui sono controllati
e limitati, la formula adottata garantiva meglio il sistema nel suo insieme. Fu una scelta
azzeccata una volta respinta l’opzione federal-presidenzialista che avrebbe, se attuata,
potuto prevedere una sola Camera o due Camere con ruoli diversificati. A oltre mezzo
secolo da allora si può tranquillamente dire che la scelta non era sbagliata; basta vedere il
rischio che il Paese ha corso se invece del NO avesse prevalso il SI’.
E una parola, ce lo sia permesso, va spesa pure sul CNEL. Tralasciamo le ragioni
storiche della sua creazione che risalgono addirittura all’inizio del secolo scorso. Non
neghiamo che negli anni esso avesse perso autorevolezza e che chi ne ha avuto, in
successione, la responsabilità primaria ben poco, anzi nulla, ha fatto per dargliela. Non
solo, ma anche le parti sociali che ne sono il nerbo non lo hanno vissuto come dovuto.
Dell’abolizione del CNEL e delle Provincie – a proposito adesso bisognerà ripensarci – se
non andiamo errati, Ugo La Malfa era uso farne un argomento che tirava fuori in
occasione delle campagne elettorali salvo rimettere successivamente tutto nel cassetto. Con
il tempo la sua inutilità è stata imputata al fatto che, essendo la concertazione fatta a
Palazzo Chigi, del CNEL se ne poteva fare a meno. Solo che il CNEL – ente di dialogo
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sociale con rango costituzionale – non è il luogo della concertazione bensì della preconcertazione,
ossia di un’elaborazione per favorire, nel senso della comunità nazionale, gli
accordi sociali e la legislazione nello specifico. Ci domandiamo se, in un Paese così
socialmente disarticolato, non sia utile uno strumento come il CNEL riformulando delle
norme all’altezza del ruolo che gli si assegna.
In conclusione: la vittoria del NO ferma una deriva pericolosa e di ciò dobbiamo
compiacersi, ma non risolve i problemi aperti, essa crea un’occasione: sta al Presidente
della Repubblica capirne il senso e operare con saggezza, ma ferma determinazione nel
ripristino di un percorso di ricostruzione della politica democratica; ciò, tuttavia, non è
sufficiente se il Paese nel suo insieme e la sua intellettualità più responsabile non batte un
colpo altrettanto saggio e deciso. Purtroppo le urne non erano state ancora chiuse che già si
incendiava la campagna elettorale; un percorso che si preannuncia lungo, velenoso e
temiamo aspro e lacerante. Tutto appare muoversi fuori da logiche di responsabilità e
chissà quante ne vedremo. Chissà perché ci vengono a mente due versi di Torquato Tasso:
«nel mondo volubile e leggero/saggezza è spesso cambiar pensiero».
Ce n’è da meditare; ce n’è!
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