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domenica 2 ottobre 2016
Franco Astengo: La dignità del Parlamento sta nella sua formula di elezione
LA DIGNITA’ DEL PARLAMENTO STA NELLA SUA FORMULA DI ELEZIONE di Franco Astengo
Il Presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha affermato che il Parlamento deve ritrovare la sua dignità, legando questo fatto alla vittoria del “SI” nel referendum confermativo del prossimo 4 Dicembre.
Una affermazione, questa dell’ex capo corrente dei miglioristi nel PCI, profondamente sbagliata.
La dignità del Parlamento risiede nel suo rappresentare, come scrisse Togliatti, “lo specchio del Paese”.
La centralità delle assemblee elettive, a partire da quella del parlamento per passare alle assemblee periferiche dei consigli regionali e comunali (mentre sono stati brutalmente tolti da mezzo i consigli provinciali) nasce dal metodo di elezione, dal tipo di rapporto che quel metodo stabilisce tra rappresentanza e governabilità, dall’insieme delle garanzie di sviluppo democratico che l’insieme del sistema elettorale può essere in grado di fornire.
Sarà ripetitivo ma è necessario tornare sul tema del rapporto tra sistema politico e formula elettorale, mentre ci si inoltra nel dedalo della campagna referendaria.
Il nesso tra contenuti della deformazione costituzionale che sarà sottoposta al vaglio di elettrici ed elettorali il prossimo 4 Dicembre e la formula elettorale varata con l’Italikum appare ormai chiaro, dopo che era stato negato con ostinazione degna di miglior causa, dai principali esponenti del governo.
Ad esso si stanno dedicando, con analisi e commenti, i più importanti politologi italiani: in qualche caso dando adito a vere e proprie interpretazioni mistificatorie com’è stato nel caso ieri, 29 Settembre, sulle colonne di “Repubblica” da parte di Guido Crainz che ha tentato di fornire un’interpretazione davvero “ad usum delphini” del meccanismo del ballottaggio.
Inoltre, nello stesso articolo, Crainz ha chiesto di tener conto della cosiddetta “tripolarizzazione" del sistema”.
Partiamo allora da questo punto : il sistema non è tripolare, ma multipartitico. Un multipartitismo non più “centripeto” com’era quello così interpretato da Sartori al riguardo del periodo 1948 – 1987.
Non esiste, infatti, nessun partito “centrale” che si muova in assorbimento delle identità più prossime sia sul versante di destra, sia sul versante di sinistra, svolgendo una funzione che fu definita “pivotale” escludendo dall’area di governo le ali estreme, a destra come a sinistra, rappresentate da partiti considerati “antisistema”.
Attenzione: “esclusione dall’area di governo” e non dalla maggioranza parlamentare.
La DC infatti, che svolse appunto la funzione pivotale per il corso del quarantennio sopraindicato, non escluse, in alcune occasioni, i partiti considerati antisistema dalla maggioranza di governo: il PCI fu associato in occasione della fase di “solidarietà nazionale” (cosa ben diversa dal “compromesso storico” nonostante la vulgata corrente) tra il 1976 e il 1978 (prima il “governo delle astensioni” poi il monocolore appoggiato dall’esterno da PCI,PSI,PSDI,PRI,PLI); il MSI fece parte della maggioranza nella fase convulsa della primavera – estate del 1960 con il governo Tambroni.
Senza dimenticare che sia il PCI, sia il MSI (ma anche le formazioni minori di estrema sinistra PSIUP e poi PdUP) non fecero mancare i loro voti nelle occasioni di elezione dei Presidenti della Repubblica: accadde con Gronchi, Saragat, Leone, Pertini formando maggioranze variabili, molto spesso con la DC divisa sul voto bruciando così le proprie candidature (più volte quella di Fanfani, ad esempio).
Ciò doverosamente precisato, arriviamo all’oggi.
Il sistema, appunto, non è tripolare ma multipartitico: non esiste un partito unico del centro destra ma tre formazioni fortemente divergenti tra loro e in contesa per un’ancora ipotetica leadership; al centro sembrano emergere manovre di raccordo tra Area Popolare e ALA in modo da formare un supporto all’alleanza con il PD, lo stesso PD e M5S soggetti dalla consistenza elettorale simile, più o meno, appaiono inconciliabili per qualsivoglia soluzione parlamentare di maggioranza esprimendo entrambi forme specifiche di “vocazione maggioritaria”, a sinistra rimane la presenza di Sinistra Italiana che, in queste condizioni, non appare praticabile per soluzioni di maggioranza.
Un quadro non dissimile da quello del quarantennio già indicato, allorquando si votava con il sistema proporzionale Hare corretto (che conteneva in sé meccanismi favorevoli ai partiti più grandi e un’implicita soglia di sbarramento), con la differenza sostanziale che all’epoca i 7 – 8 partiti presenti in parlamento rappresentavano, al di la dei rispettivi numeri, formazioni politiche organizzate e, invece, i soggetti attuali significano più o meno dei semplici comitati elettorali dall’inesistente organizzazione sul territorio e mossi, al loro interno, non da meccanismo di solidarietà e identità collettiva ma da quell’individualismo competitivo sul quale poco si riflette rispetto agli effetti sistemici e che verifichiamo all’opera nell’occasione delle primarie (scrive Davigo nel suo ultimo libro scritto a quattro mani con Gherardo Colombo: dobbiamo ancora fare i processi al riguardo di quanto accaduto nelle primarie).
Altro elemento che deve essere preso in considerazione al riguardo di una valutazione seria del quadro sistemico esistente è quello della partecipazione al voto, scesa dal 90% al più o meno 60% nell’attualità.
Non si tratta, in questo caso il giudizio è assolutamente difforme da quello ripetutamente espresso dal prof. D’Alimonte, di un allineamento fisiologico al trend delle democrazie europee: quella stagione è già passata e comunque l’Italia ha sempre dimostrato un esito diverso dal punto di vista della partecipazione al voto, fin dentro e oltre il primo decennio del XXI secolo (nel 2006 la partecipazione al voto fu dell’83, 62%, nel 2008 l’80, 51%: nel 2013 la contrazione si fermò al 75, 20%, per toccare alle europee del 2014 il picco in discesa del 57,22%. Le Europee del 2009 avevano fatto registrare la partecipazione al voto al 65,05%).
La questione vera è quella di una sottrazione secca, non tanto e non solo nella presenza al voto, ma di complessivo consenso al sistema: e non è neppur vero che il M5S, giudicato come movimento populista, abbia saputo trarre vantaggio da questo stato di cose.
Dal momento dell’ascesa elettorale del M5S le percentuali dei votanti ha continuato tranquillamente a scendere e in misura assai consistente: si può calcolare che dal 2006 ad oggi, cioè negli ultimi 10 anni, abbiano abbandonato stabilmente l’espressione di voto almeno il 30% delle’elettorato, cui si aggiunge, di volta in volta, una percentuale di astensionisti occasionali, senza contare le persone effettivamente impedite a recarsi alle urne.
In queste condizioni, ormai stabilizzate e senza alcun segnale d’inversione di tendenza che provenga dalla società e dall’assetto stesso del sistema politico, il ballottaggio diventa così un momento di altissimo rischio per la democrazia, in un quadro di assoluto deficit di consenso.
Addentriamoci per un momento in qualche numero: nell’ipotesi di un ballottaggio, riservato alle prime due liste, secondo i dati del 2013 avremmo avuto (voti ottenuti sul territorio nazionale) il PD con 8.646.034 pari al 17,32% dell’intero corpo elettorale e il M5S con 8.691.406 voti pari al 17,40%. La somma delle due formazioni sarebbe così arrivata più o meno al 35% dell’intero corpo elettorale. Una somma che fornisce una percentuale del tutto insufficiente a far pensare legittima l’acquisizione di un premio di maggioranza, per una sola delle due formazioni, di 340 seggi pari al 55,01 della Camera dei Deputati (che nelle deformazioni costituzionali oggi in discussione rimane l’unica Camera fiduciaria, in una situazione di pesante squilibrio numerico con l’altro ramo del Parlamento. 630 a 100, restando il voto comune per l’elezione del Presidente della Repubblica e dell’eventuale messa in stato d’accusa dello stesso (stato d’accusa per il quale è sufficiente la maggioranza assoluta e non quella dei 2/3). Oltre al fatto che entrambi i rami continuerebbero ad eleggere i giudici della Corte Costituzionale e i membri del CSM).
Il regalo, per un partito rappresentativo del 17% dell’elettorato, del 55% della camera sarebbe di circa 18 milioni di voti.
Non sarebbe andata diversamente nell’occasione delle elezioni europee del 2014, quelle del famoso 40,1 del PD.
L’eventuale ballottaggio si sarebbe svolto tra il PD con 11.172. 861 voti che su 49.256.159 rappresentavano il 22,68% dell’elettorato e il M5S con 5.792.865 all’ 11,76%. La somma degli eventuali ballottanti sarebbe rimasta all’incirca al 35% dell’intero elettorato.
Non andrebbe molto meglio nel caso di coalizioni: nel 2013 la coalizione raccolta attorno al PD (PD, SeL, Centro Democratico, SVP) raccolse 10.049.393 voti pari al 21,42 del totale dell’elettorato (in questo caso il “regalo” per arrivare al premio di maggioranza alla camera, in effetti assegnato è stato di circa 15 milioni di voti).+
Sul versante del centro destra invece la coalizione PDL, Lega, FdI, La Destra e altri raccolse 9.923.600 voti
pari al 21, 15 dell’intero elettorato.
Quindi due coalizioni formate da una pluralità di partiti hanno superato a malapena il 40% dell’intero elettorato.
Percentuali del tutto al di sotto di una possibile credibilità del sistema politico che appare essere il punto vero da recuperare all’interno di un dato complessivo di profondo deficit di rappresentatività politica.
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Inoltre la legge non fornisce alcuna soglia di partecipazione al voto nel ballottaggio : partecipazione che, con ogni probabilità come dimostrano gli esiti dei ballottaggi nelle elezioni comunali, tende a diminuire nell’occasione della seconda tornata di votazione. (nel 2016: Torino dal 57, 71 al 54, 15; Milano dal 54, 65% al 51,02%; Roma dal 57,02% al 50,14%).
Siamo di fronte, quindi, a soluzioni che non garantiscono assolutamente una crescita di aggregazione rappresentativa rispetto al sistema politico, anzi isolano ancor di più i diversi soggetti da un dato essenziale di rappresentanza.
Nasce dall’abnormità di questo “regalo di minoranza” il discredito nei confronti del Parlamento e il suo sostanziale isolamento rispetto alle correnti sociali e culturali più importanti del Paese : cui si aggiungerebbe, mantenendo il bipolarismo, un altro elemento negativo circa l’asimmetria nella composizione e nel metodo di elezione del Senato rispetto a quello della Camera de Deputati.
Nel 1948 la DC raccolse 12.074.442 voti su 29.117.554 elettrici ed elettori iscritte nelle liste e 26.855.741 di voti validi: nella stessa occasione il Fronte raccolse 8.136.637 voti. In totale 20.200.000 voti circa, quindi le due principali liste (il Fronte raccoglieva assieme socialisti e comunisti) valevano assieme il 69,3% dell’intero elettorato.
Nel 1976 la DC raccolse 14.209.519 voti su 40.426.658 elettrici ed elettori iscritti nelle liste e 37.755.090 voti validi. Il PCI nella stessa occasione ne raccolse 12.614.650. In totale poco meno di 27.000.000. Quindi una percentuale complessiva del 66,78%.
Fu in quel frangente che Giorgio Galli coniò la definizione di “bipartitismo imperfetto”
Non è questione di ballottaggio o meno, in ogni caso è evidente uno stato di forte difficoltà che si intende riempire con artifizi contabili: quando si parla di stretta autoritaria nel sistema si deve pensare a questo stato di cose, oltre alla concentrazione di poteri oggettivamente contenuta nelle disposizioni della deforma costituzionale, laddove il Presidente del Consiglio fa diminuire i poteri di altre figure, a partire da quelle del Capo dello Stato e del Presidente della Camera senza disegnare per sé una chiara figura di premer iato.
E’ l’introduzione surrettizia di una sorta di semi – presidenzialismo: soluzione deprecabile, beninteso, anche al tempo della Commissione D’Alema, ma almeno in quel caso ci si era mossi alla luce del sole.
Ragioni importanti quelle fin qui esposte, almeno a giudizio di chi scrive, per far passare il NO nel referendum del 4 Dicembre spezzando anche l’asse con l’Italikum e riaprendo così davvero un discorso serio sulla formula elettorale che rimane, è bene ricordarlo, il cardine del sistema politico.
Tra l’altro, per quel che riguarda le deformazioni costituzionali in questione emerge anche un altro tema: quello del privilegio nei tempi e nei modi di esame dei progetti di legge del governo.
In questo modo il Presidente del Consiglio toglie potere alla prerogativa fondamentale del Presidente della Camera e della conferenza dei capigruppo proprio nel campo decisivo della stesura del calendario d’aula.
In sostanza il nodo vero di questa contrastata e complessa vicenda risale nel nesso inscindibile tra deformazione costituzionale e legge elettorale e, all’interno di questo, nell’abnormità del tutto antidemocratica, nelle condizioni date, di un premio che rimane di netta minoranza ( non più del 22% sull’intero elettorato anche in caso di coalizione) sia nel caso di ballottaggio, sia di turno unico.
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