giovedì 13 ottobre 2016

Andrea Ermano: A nove anni dalle primarie del Pd

Dall'Avvenire dei lavoratori EDITORIALE A nove anni dalle prime primarie del PD Entrando nel merito della Questione di Andrea Ermano Domani sono nove anni dalle prime primarie del PD, le primarie “costituenti” che il 14 ottobre del 2007 incoronarono Walter Veltroni lider maximo del “partito nuovo”. Tre milioni e mezzo di cittadine e cittadini “dem” si recarono quel giorno a votare in uno dei dodicimila seggi sparsi per tutta Italia. I famosi “gazebo” avrebbero dovuto rima­nere aperti fino alle otto di sera, ma la massa affluita per celebrare la nascita del nuovo partito era così straripante che l'orario di chiusura dei seggi venne posticipato quasi ovunque di almeno un paio d’ore per consentire a tutti di partecipare allo storico evento, e di raccontare un giorno ai nipotini: Quel 14 ottobre c'ero anch'io! Fu un vero, grande trionfo. Io non c'ero. Lo so che questo conta come il due di coppe, ma non comprendevo, allora, né capisco tuttora, il senso di primarie (senza regole) allo scopo di plebiscitare un candidato predestinato a una carica di partito incontendibile. Aborrivo decisamente il duplice disegno che Veltroni covava in pectore: far fuori il Governo Prodi per correre “solo” (solo con Di Pietro) verso elezioni anticipate, onde eliminarvi i “cespugli” del centro-sinistra italiano e ciò grazie a un uso particolarmente violento del Porcellum allora in vigore. Non condividevo assolutamente la fuoriuscita della sinistra italiana dal PSE. La catastrofe che seguì alla nascita del PD veltroniano lascia tutt'oggi senza fiato. Furono perse città, province e regioni nonché il governo del Paese, tolto a Prodi e riconsegnato a Berlusconi. E il Cav., dal 2008 al 2011, condusse l'Italia alla soglia della bancarotta morale e mate­riale, mentre gli alleati riformisti d'Europa scuotevano la testa costernati e Walter s’era frattanto ritirato a vita privata. Se il battito d'ali di una farfalla in Brasile può scatenare un uragano nel Mar della Cina, ebbene l’indimenticabile tocco del fuoriclasse Veltroni provocò invece un disastroso spostamento a destra dell'asse politico italiano, europeo e financo terrestre. Né più né meno. Il tocco del fuoriclasse Perché stupirsi se oggi molti, in Europa, recalcitrano all'idea di immolarsi per la “flessibilità” (cioè i miliardi a debito) di cui Palazzo Chigi avrebbe bisogno. Il premier Renzi si lamenta di ciò, e non ha tutti i torti. Egli giustamente chiede il superamento del rigore. Reclama il sostegno eurosocialista. Ma “vai a fidarti”, ti ribattono in Europa, dove stabilmente si associa la politica italiana alle più fantasiose e crudeli forme del machiavelli­smo. Non che loro, gli europei, siano stinchi di santi, tutt’altro, ma nei migliori trattati di Storia Universale della Slealtà non può ormai mancare un capoverso dedicato alla condotta del leader post-comunista, Occhetto. Il quale prima andò a piangere da Craxi per ottenere l'ammissione nella famiglia socialista del PCI finito sotto le macerie del Muro di Berlino. Poi – avuta la grazia, gabbato lo santo – coperse il leader socialista di sangue, merda e monetine. Infine, salendo sulla “gioiosa macchina da guerra”, fece cadere il governo Ciampi e andò miseramente a sbattere. Consegnando il Paese alle destre. In effetti, gli ex democristiani e gli ex comunisti italiani – pur proclamandosi fautori dei Valori non meno che della Questione morale – hanno alle spalle un'efferata tradizione di machiavellismo politico. Con strascichi disastrosi. Per la fine della DC vedi alla voce Aldo Moro, per la fine della prima Repubblica vedi alla voce Raphaël, per la fine dell’Ulivo vedi alla voce “corro solo”. Ma non serve andare tanto indietro nel tempo. Bastano a capire anche i casi più recenti: quello di Enrico Letta (“Enrico, stai sereno”) e soprattutto la triste vicenda di Pierluigi Bersani. Il quale Bersani, in qualità di segretario del PD, aveva faticosamente lavorato alla ritessitura dei rapporti a sinistra e alla tenuta del “Sistema Italia”. In fondo, quel poco d’equilibrio politico sopravvissuto alle approssimazioni e alle improvvisazioni di questi anni poggia ancora tutto sulla “non vittoria” bersaniana del 2013. E stendiamo perciò un velo pietoso sopra la centuria dei franchi tiratori che, alle votazioni per l'elezione del Capo dello Stato, impedirono la salita di Prodi al Colle e indussero Bersani alle dimissioni. Difficile a questo punto per il premier Renzi appellarsi a Prodi, come giustamente rileva Bersani: “Ma come fa a paragonarsi a Prodi? Ci vogliono più umiltà e senso delle dimensioni. In quel governo c'erano Ciampi e Napolitano, ci davamo del lei, mica facevamo la legge di Bilancio in dieci minuti per andare ai tg. Abbia­mo lasciato il debito al 103 per cento, ora è al 133 per cento, ma vedo che si continua a chiedere flessibilità per fare i bonus e altri debiti. Renzi parla tanto di futuro, poi carica così le spalle dei nostri figli”. E allora, compagno Renzi, a che serve adesso intonare le lamen­tazioni contro una sempre troppo pavida socialdemocrazia in Europa, se poi la tradizione machiavellista di cui il PD è intriso si scarica nel tuo stesso partito in un clima di assoluta sfiducia reciproca tra maggioranza e minoranza interna?! Nondimeno dispiace – dispiace davvero – assistere a questo dramma sconclusionato. Sì, dispiace, perché al di là di tutto il premier Renzi guida un'azione di governo che è di per sé condivisibile sia sul piano europeo sia su quello delle politiche umanitarie. Anche perciò alcuni osservatori internazionali guardano oggi all'Ita­lia con simpatia. E si domandano preoccupati che cosa succe­derebbe se al Referendum costituzionale del 4 dicembre vincesse il No. Bella domanda. Una vittoria del No comporterebbe la fine dell’Italicum, oltre che della Revisione costituzionale, ma non la conclusione della carriera politico-governativa del premier Renzi. E però che cosa accadrebbe se vincesse invece il Sì? Chi teme che la stagnazione non finirà, che l'immigrazione non fini­rà, che l'antipolitica non finirà, sa che l'Italicum tra due anni scarsi potrebbe far cadere sia Mon­te­ci­to­rio sia Palazzo Chigi in mano populista. E a quel punto la Revisione costituzionale Renzi-Boschi sareb­be pronta a dare il peggio di sé. A quel punto – a parte la nomina dei giudici della Consulta e tutto il resto che non è qui neanche il caso di elencare – in linea di tiro entrerebbero il Qui­ri­nale e la stessa Carta costituzionale. La Costituzione resta, infatti, modificabile a colpi di maggioranza. Non dimentichiamo che “maggioranza” qui significa “minoranza” (minoranza geneticamente modificata in senso maggioritario). Sicché, grazie all’Italicum e all'Art. 138 della Co­sti­tuzione (così concepito quando c'erano il proporzionale e il bi­came­ralismo paritario) tutto, ma proprio tutto, diverrebbe possibile, inclusa la legittimazione di refe­rendum tipo Brexit sulla permanenza o meno dell'Italia nell'UE. Basterebbe cambiare la Carta a colpi di “mag­gioranza” (cioè di “minoranza”). Ma, prima dell’ennesima catastrofe, domanderete voi, non potrebbe il Capo dello Stato bloccare tutto, rifiutandosi di firmare? Chi si ag­grap­pa a questa speranza, tenga presente per favore che dentro la rou­lette russa del “combinato disposto” tra Revisione Renzi-Boschi e Ita­licum si cela un'ulteriore pallottola letale: la deposizione del Capo dello Stato. Su questo punto delicatissimo l'Art. 90 della Costituzione (anch'esso risalente a quando c'erano il proporzionale e il bicameralismo paritario) prevede che: “Il Presidente della Repubblica (…) è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri”. E dunque sorge spontanea la domanda: quanti voti servirebbero al possibile vincitore populista nel ballottaggio dell'Italicum per mettere in stato d'accusa l'inquilino del Quirinale? Ventisette. Secondo la Revisione Renzi-Boschi la somma dei seggi del Parlamento a camere riunite ammonterebbe, infatti, a 731 grandi elettori: 630 deputati, 100 senatori e un Presidente emerito. Pertanto, la maggioranza assoluta consterebbe di 367 voti, laddove l'Italicum già ne avrebbe però assegnati 340 al vincitore del ballottaggio. Al quale basterebbe appunto reperirne altri ventisette soltanto, tra i cento membri del Senato nuovo, per poter dare il via all'assalto del Colle. Sic stantibus rebus, noi ci domandiamo, con viva preoccupazione, se chi di dovere non si renda ben conto del rischio che una possibilità di questo genere comporta per le istituzioni repubblicane già solo nel suo profilarsi in via ipotetica.

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