sabato 29 ottobre 2016

LA CRESCITA ECONOMICA DELL'ITALIA NEGLI ULTIMI 6 DECENNI

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Italia '90-'95, gli anni della svolta - SOLDI E POTERE - Blog - Repubblica.it

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Fortress Europe And Migration

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Social Democrats Must Recognize Capitalism Is A Source Of Injustice

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Il NO alla riforma costituzionale in 10 punti

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Scenari Globali - Ce lo chiede l’Europa? La dimensione europea del refererendum costituzionale

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Sulla Legge di Stabilità 2017 | Risorgimento Socialista

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Le ragioni reali dello stravolgimento della Costituzione. E le ragioni profonde del nostro NO | Risorgimento Socialista

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How the left can win | Red Pepper

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Policy Network - Politics gets personal for Renzi

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Policy Network - Have the Portuguese Socialists found the cure for electoral decline?

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Trattati internazionali ed economie di mercato: TTIP conventio ad escludendum? – Associazione Paolo Sylos Labini

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La banalità della politica renziana - nuovAtlantide.org

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Le implicazioni economiche della controriforma costituzionale - micromega-online - micromega

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giovedì 27 ottobre 2016

Dario Allamano: C'è vita oltre Renzi?

La domanda che mi pongo, ad un mese e poco più dal referendum, è: "ci sarà vita oltre Renzi?". Da tempo la propaganda del SI ha iniziato a bombardare gli italiani con un refrain continuo, quello del salto nel buio. L'esperienza dovrebbe però insegnarci che gli italiani sono un popolo abbastanza ragionevole, che proprio nei momenti di massima difficoltà sa dare il meglio di se, ad una condizione, che chi lo Governa sappia indicare con chiarezza gli obiettivi da raggiungere. Ho l'impressione che questo Governo difetti proprio in questo. Nella sua ossessione di occupare tutti gli spazi è ormai uscito dai binari e risponde alle obiezioni, in molti casi corrette, con tirate populistiche demagogiche (l'ultima è il possibile veto al Bilancio UE che ha costretto Mattarella ad una tirata di orecchie al capo del Governo). Il populismo lasciamolo a chi lo sa fare, cerchi Renzi di governare al meglio questa transizione, se ne è capace cerchi di diventare uno Statista, altrimenti lasci lo scranno per manifesta incapacità, tanto ci sarà anche vita dopo di lui. Magari non sarà l'asinistra a governare, ma dopo venticinque anni di pessimi governi, che hanno portato il debito a 2300 milioni di euro, scaricandone l'onere sui nostri figli e nipoti, forse è giunto il tempo di prendere atto che il partito che ha rappresentato il centrosinistra è giunto alla fine dei suoi giorni, e forse è possibile rifondare una nuova forza politica di chiara matrice socialista riformatrice (per dirla con Riccardo Lombardi) e democratica. Tocca a noi promuovere questo processo, partendo dal giorno dopo il referendum per una campagna che abbia al centro il ricorso contro l'Italikum (legge fatta proprio per impedire il rinnovamento), Non servono nuove miniforze utili al massimo per l'ego di qualche minileader, ma un progetto politico chiaro per l'Unità dei socialisti ovunque essi siano, e che sia in grado di rappresentare gli INTERESSI di coloro che fanno del lavoro la loro ragione di vita.

mercoledì 26 ottobre 2016

Il NO in dieci punti - CRS - Centro per la Riforma dello Stato

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What the new, 21st-century left needs now | Compass

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Bernie Sanders: Democrats Need to Wake Up - The New York Times

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Trade Unions and the Fate of the American Left

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NO to Renzi's Referendum | Insight

NO to Renzi's Referendum | Insight

SALA DOPO PISAPIA. I SAPERI DOPO LE PASSIONI? | Luca Beltrami Gadola - ArcipelagoMilano

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sabato 22 ottobre 2016

Dichiarazione dell'IS sulla situazione in Venezuela

| VENEZUELA Declaración de la IS sobre Venezuela | 21 DE OCTUBRE DE 2016 La Internacional Socialista deplora profundamene la decisión adoptada el día de ayer, jueves 20 de octubre, por el Consejo Nacional Electoral (CNE) de Venezuela de posponer hasta nueva orden judicial el proceso de recolección del 20% de las firmas requeridas para la activación del referendo revocatorio del gobierno de Nicolás Maduro, previsto para los días 26, 27 y 28 de este mes. En su declaración pública, el CNE fundamenta su decisión en el apego a la Constitución y el acatamiento de las medidas precautelares adoptadas por los tribunales penales de Valencia, San Fernando Apure, Aragua y Bolívar tras admitir a tramitación querellas por presuntos delitos electorales en contra de las fuerzas políticas integrantes de la Mesa de Unidad Democrática (MUD), que incluye a partidos miembros de la IS, en el proceso de activación del referendo revocatorio. La Internacional Socialista rechaza del modo más enérgico esta nueva maniobra dilatoria del poder electoral venezolano y llama al CNE a asumir sus altas responsabilidades en el referendo revocatorio y a no entorpecer el proceso. Asimismo, en el contexto de estas acusaciones electorales, la IS condena la dictación de órdenes de arraigo por los tribunales penales de Valencia en contra de ocho dirigentes políticos integrantes de la MUD, entre los cuales se encuentra el ex candidato presidencial Henrique Capriles, y demanda la anulación de esta medida improcedente y arbitraria. Finalmente, la Internacional Socialista reitera su determinación de defender la democracia y los derechos humanos en Venezuela y hace un nuevo llamamiento a su gobierno a que cese de instrumentalizar y socavar cotidianamente las instituciones del Estado y no continúe atentando contra su naturaleza y correcto funcionamiento.

venerdì 21 ottobre 2016

Enzo Marzo: Lettera aperta a Micromega e libertà e giustizia

lettera aperta a micromega e a "libertà e giustizia"- fermatevi, non facciamoci del male enzo marzo Da Critica liberale 6 commenti Cari amici, con grande schiettezza devo dirvi che il vostro Appello (https://goo.gl/fk9g0Q) è profondamente sbagliato e involontariamente fa il gioco dei sostenitori del SI’. Già il suo titolo, che rimanda a un popolare slogan usato da un giullare, e ora da lui stesso tradito per trenta denari, non è una trovata geniale dal punto di vista della comunicazione. Nella sostanza, poi, non credo che tutti i potenziali votanti per il NO siano convinti che la nostra sia la “più bella Costituzione del mondo”. Non va difesa una Costituzione che da alcuni decenni anche le forze democratiche hanno tentato di aggiornare, e che ha assolutamente la necessità di essere modificata in alcuni punti. Purtroppo finora le modifiche e i tentativi di modifiche sono state sempre peggiorativi. Oggi non credo che porti voti al No una difesa così lunga e appassionata come la vostra all’attuale formulazione del Titolo V, per non citare il metodo troppo simile a quello “renziano” con cui questo fu riformulato nel 2001. Non credo che porti voti al No o dia lustro a un qualunque giurista dare un ceffone al mondo laico giudicando “la più bella del mondo” una Costituzione che contiene un infame mostro giuridico anti-libertà religiosa come la costituzionalizzazione di un Trattato internazionale, come il Concordato. Non credo che porti voti al No considerare “bellissimi” articoli come il 21° , ora antiquatissimo, ma già nel 1948 assolutamente deficitario nei confronti delle tecnologie dell’epoca (che peso ebbe il monopolio radiofonico per i regimi totalitari?), incapace com’è di porre una qualche separazione tra i poteri politico economico e mediatico. Non credo che abbiano fatto una buona riuscita altri articoli, ma sarebbe troppo lungo citarli tutti. Non potete dimenticare che l’attuale costituzione non è riuscita a fare da baluardo alla democrazia parlamentare negli ultimi dieci anni in cui la violazione sistematica dell’art. 87 ha ridotto il nostro Parlamento a una pura formalità. È oltremodo dannoso nonché esornativo difendere in blocco l’attuale Costituzione gettando nelle braccia del SI’ tutti coloro che pur disapprovando la Riforma Renzi-Verdini non amano particolarmente questo a quello articolo vigente. Noi dobbiamo demolire la Deforma, non difendere ciò che non è messo in discussione. Già il Comitato principale del No ha indebolito l’intero fronte regalando all’avversario l’assolutamente prevedibile fallimento della raccolta delle firme per i referendum. Fermiamoci qui a farci del male. La parte sostanziale del vostro Appello è centrata sulla banca Morgan e su Blair. E sembra difendere l’aspetto “socialista” della Costituzione. Sbagliatissimo. Si perde il referendum se sembra che ci si rivolga solo a quella parte dell’elettorato (ora ridotto a non più del 3-4 per cento e probabilmente già straconvinto a votare No) fornendo argomenti a coloro (parte di M5 stelle, del Centrosinistra, Centro e Destra) che hanno in odio qualunque venatura socialisteggiante e cattocomunisteggiante della Costituzione. Dobbiamo allargare il suffragio, non restringerlo. E il modo c’è. Si tratta di colpire il disegno vero di Renzi. E non i consueti Demoni della sinistra più o meno estrema, come le Banche, le Multinazionali, i socialtraditori, ecc. Lasciamo questi argomenti alla campagna elettorale delle Politiche per prendere il solito 3-4 per cento. Pensiamo all’altro 97 per cento dei cittadini. In nessun articolo della Deforma si lede qualche aspetto socialisteggiante della Costituzione. Quella che viene colpita è la sostanza liberale e liberaldemocratica del nostro Ordinamento. Il disegno autoritario di Renzi malmena la separazione dei poteri, è profondamente demagogico, è perfettamente coerente con la riforma radiotelevisiva (mi sta sorprendendo molto che viene usato molto giustamente l’effetto perverso del combinato disposto con l’Italicum, ma non viene mai citato dalle vostre organizzazioni il pericolo non meno grave del terzo corno del neoautoritarismo, ovvero il fatto che il presidente del consiglio si è già conferito il potere di decidere da solo l’Amministratore delegato del servizio pubblico radiotelevisivo, con le conseguenze che ogni telespettatore può già apprezzare). Scusate se ho detto la mia senza mezzi termini, ma vorrei proprio che vincessimo tutti uniti questo referendum che giudico una svolta storica per il nostro paese. E non vorrei che lo perdessimo per i ricorrenti e consueti tic di una certa sinistra italiana che non sa mai rinunciare alla sua “vocazione minoritaria”. Parliamo invece tutti della Democrazia in pericolo, senza inutili nostalgie. Basterebbe e avanzerebbe. Roma 17 ottobre 2016

Fortunato Cocco: Perché no

PERCHE’ NO Fortunato Cocco Dal sito Nens 1. La prima ragione è di carattere generale. Si tratta di una esigenza logica prima ancora che giuridica. Un sistema istituzionale fortemente coeso, quale è quello della Nostra Costituzione, in cui principi e valori sono organicamente connessi alle strutture, agli istituti e alle procedure, non tollera modifiche di vasta portata che incidano sui suoi pilastri fondamentali se non nell’ambito di una rivisitazione generale ed organica dell’intero impianto. Solo così sarà possibile garantirne coerenza, equilibrio di pesi e contrappesi, in una parola la tenuta democratica complessiva. Insomma, è ben possibile (anche se non auspicabile) un mutamento anche radicale dell’impianto del 1948, ma nel quadro di una “nuova” Costituzione nella quale siano calibrati adeguatamente equilibri complessivi per l’organicità e la tenuta democratica del nuovo sistema. Sul piano più strettamente giuridico, la Costituzione del 1948 sancisce tale divieto e non ammette modifiche che impattano in modo incoerente con i principi, con i valori fondanti del sistema stesso. E’ questo il senso dell’art. 139 con il suo divieto a mutare la forma repubblicana (“La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”). E’ questo, in qualche modo, il limite implicito dell’art. 138, che nel prevedere le procedure di approvazione di “leggi di revisione costituzionale” (e non di riforma della Costituzione) allude manifestamente ad aggiustamenti puntuali, pienamente coerenti e nell’alveo dei pilastri della nostra democrazia. Il progetto sottoposto a referendum – come del resto quello bocciato una decina di anni fa’ – tradisce proprio questa esigenza di fondo, affastellando modifiche di vasta portata, che rischiano seriamente di forzare la coesione del sistema e di far scivolare fuori dai cardini i pilastri della nostra democrazia parlamentare. Ammesso che le modifiche sottoposte a referendum non rappresentino un attacco immediato alla democrazia, esse avviano certamente una deriva incoerente con i principi e i valori repubblicani. E’ una deriva che potrebbe portarci in modo incontrollato verso forme istituzionali diverse da quelle del nostro impianto originario, o peggio verso forme pasticciate, prive dell’equilibrio, delle garanzie, dei pesi e contrappesi propri di ciascun regime di democrazia occidentale. 2. Nel merito, diversi profili della riforma destano gravi perplessità. Si può concordare o meno sulla esigenza di rivedere il “bicameralismo perfetto” della Costituzione del ’48. Ma la riforma del Senato – ammesso che il nostro regime istituzionale non abbia più bisogno di una “Camera di raffreddamento” – avrebbe dovuto tenersi su binari già sperimentati da altri Stati democratici. L’alternativa ad un puro e semplice regime monocamerale sarebbe stata quella di avviare una riflessione approfondita sul senso di una “Camera delle Regioni” in un assetto come il nostro in cui (lo si dirà meglio fra poco) il decentramento regionale non ha ancora attecchito. La soluzione è stata invece quella di creare una improbabile “Camera delle istituzioni territoriali” che risulta un novum fra le principali democrazie occidentali, affiancando ai senatori di estrazione regionale un limitato numero di senatori di origine comunale con la pretesa di dare spazio alla realtà multiforme delle città metropolitane e di 8000 comuni. Ruolo, struttura e funzioni disegnati dalla riforma per dar corpo al nuovo Senato sembrano del tutto disorganici ed incongrui. Dall’analisi delle norme risulta evidente che la mano riformatrice è stata guidata da due finalità: la prima, essenzialmente propagandistica, di fatto sbandierata come punta di diamante dell’impegno riformatore, di ridurre i costi della politica; la seconda, assai più sostanziosa, di consolidare la posizione del Governo intestando ad una sola Camera il rapporto fiduciario. Quella che sembrava la necessità preminente – semplificare il processo di formazione delle leggi - è venuta via via sbiadendo come esigenza primaria. Anche perché di fatto il Parlamento è stato in gran parte progressivamente espropriato, nella sostanza, delle funzioni legislative dall’abuso dei decreti-legge e dei voti di fiducia. Del resto, sia per la riduzione dei costi della politica, sia per l’accelerazione dei processi decisionali del Parlamento altre (e forse più adeguate soluzioni) avrebbero potuto essere adottate. Ad ogni modo, le incertezze, i ripensamenti e i compromessi nella revisione del Senato hanno portato a soluzioni che rendono poco vitale l’organo e confuso l’intero assetto del nuovo Parlamento. Neanche sulle modalità di nomina dei senatori vi sono certezze giacchè la decisione definitiva sulla scelta fra nomina dei senatori da parte dei Consigli regionali e elezione a suffragio popolare è stata rinviata ad una successiva legge bicamerale. Ci si è limitati per il momento ad una soluzione transitoria che, fra l’altro, prevedendo l’elezione all’interno degli attuali Consigli regionali sulla base di liste (evidentemente di partito), accentua il carattere partitico della scelta a scapito della rappresentatività delle istituzioni territoriali. Sul piano funzionale, non è impossibile preconizzare una rapida sclerotizzazione (come è accaduto per il CNEL?), di un organo il cui ruolo di raccordo fra potere centrale e istituzioni territoriali, duplicando le funzioni dell’attuale Conferenza Stato/Regioni/Autonomie locali, avrà nei fatti la stessa inconsistenza. Del resto, il catalogo delle funzioni che il progetto di riforma attribuisce al Senato è tanto ampio quanto ininfluente sui reali assetti di potere. Si va dalla partecipazione alla fase ascendente e a quella discendente delle decisioni dell’Unione europea ai poteri di controllo sulle nomine in uno sforzo evidente di compensare, con attribuzioni di facciata, la perdita di ruolo. Quanto alla partecipazione alla funzione legislativa, per dare spazio agli apporti del Senato sono state introdotte nuove tipologie di leggi, complicando di certo il quadro ma ampliando in modo irrisorio l’incidenza del Senato, che rimane ancorata alle sole leggi bicamerali. Il vero problema sarà quello di verificare nei fatti l’operatività di un Senato, composto da membri che svolgono contemporaneamente altre funzioni, nei Consigli regionali o nei comuni e nelle città metropolitane. 3. La sterilizzazione del Senato sposta l’ago della bilancia del potere a vantaggio del Governo,senza che siano stati introdotti per riequilibrare il sistema i necessari contrappesi né che siano stati potenziati gli istituti di garanzia, che rischiano al contrario di risultare indeboliti. Assume in questo quadro rilevanza particolare la legge elettorale, una legge ordinaria per la quale è prevista in Costituzione solo la possibilità del ricorso preventivo da parte di una minoranza parlamentare per valutarne la legittimità costituzionale. Non sono stati, però, introdotti in Costituzione parametri espliciti per valutarne la compatibilità con i principi della democrazia parlamentare. In nome della governabilità, sarà perciò ben possibile che una legge assicuri, per esempio, ad un partito con il 25-30 % dei voti la maggioranza assoluta dei deputati (come è con la recente legge elettorale varata contemporaneamente alla riforma costituzionale) e quindi il dominio dell’unico organo di decisione politica. Con la corsia preferenziale sono state ampliate le prerogative governative in campo legislativo. Nulla è però previsto per le opposizioni, a parte il già citato ricorso alla Corte per la legittimità delle leggi elettorali, che però, per dar peso ad uno statuto delle opposizioni, andrebbe esteso a tutte le leggi. I timori principali si addensano però sulle elezioni degli organi di garanzia. Con la diminuzione del numero dei senatori la platea dei grandi elettori chiamati a scegliere il Presidente della Repubblica e i componenti del Consiglio superiore della magistratura si riduce di circa un terzo. Nel caso del Presidente della Repubblica, la riduzione è ancora più drastica per la soppressione della disposizione che prevedeva la partecipazione dei rappresentanti delle Regioni scelti per l’occasione. Ma, soprattutto, il peso dei deputati all’interno del Parlamento in seduta comune è soverchiante, passando grosso modo da sei decimi a poco meno di nove decimi. Se, come è con l’attuale legge elettorale, il partito di governo disporrà alla Camera di una schiacciante maggioranza, questo pacchetto di voti potrebbe essere determinante, da solo, per l’esito dell’elezione. A partire dalla sua elezione potrebbe risultarne inficiato il ruolo del Presidente di rappresentante dell’unità nazionale e di garante imparziale delle regole della democrazia. Né vale opporre – come fanno, numeri alla mano, i fautori del sì – che è stato elevato a tre quinti il quorum per l’elezionee che quindi al partito di maggioranza mancherebbero comunque un centinaio di voti per fare da solo. E’ evidente che ciò che conta è la massa critica del pacchetto disponibile in partenza. Tanto più che il quorum viene calcolato, dal settimo scrutinio, sui votanti, consentendo il gioco delle assenze non casuali. Persino le nuove disposizioni sull’elezione dei giudici della Corte costituzionale, che ne attribuiscono separatamente tre alla Camera e due al Senato, rischiano di giocare a favore di un maggiore peso della maggioranza per l’effetto che deriva dal numero più limitato dei giudici da eleggere. 4. A distanza di 15 anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione, le norme sull’assetto delle istituzioni territoriali e sui rapporti fra Stato e Regioni hanno subito una nuova revisione. Soppresse le province, costituzionalizzate le città metropolitane, si è provveduto soprattutto ad un nuovo riparto di competenze legislative e amministrative fra potere Centrale e Regioni, rovesciando l’impostazione della riforma precedente per tornare ad un modello centralistico vicino a quello iniziale del’48. Sul punto non c’è che da riprendere testualmente le osservazioni dei 52 costituzionalisti che all’indomani dell’approvazione della riforma in Parlamento annotavano: “L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia - che non possono mai essere separate con un taglio netto - ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza “esclusiva” dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole “disposizioni generali e comuni”. Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie”. E in effetti, a prescindere dai dettagli , l’impianto della nuova riforma “modernizzatrice” riporta l’oscillazione del pendolo ai primi trent’anni di vita delle Regioni, quando le leggi-quadro e l’abuso di formule legislative che imponevano alle Regioni di adeguarsi comunque anche a regolamentazioni di dettaglio hanno fortemente compresso l’autonomia regionale. Oggi come norma di chiusura è stata introdotta la così detta clausola di supremazia che consente comunque alla legge dello Stato di intervenire anche in materie di competenza regionale quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale. Una impostazione che presta il fianco a molti abusi, ai quali solo il Senato, nel caso improbabile in cui ne abbia la forza, potrebbe opporsi efficacemente. L’occasione della riforma avrebbe potuto costituire, invece, un momento importante di ripensamento dell’intero assetto delle autonomie territoriali. Tale assetto rappresenta uno dei principali punti di fragilità della nostra Costituzione. Ancor più, costituisce nei fatti un fattore di gracilità istituzionale di peso notevole, che ha impedito il radicamento efficace delle Regioni e lo sviluppo funzionale delle autonomie locali. L’impianto costituzionale avrebbe dovuto allargarsi a tracciare le linee di un assetto che possa: - consentire la piena funzionalità di venti Regioni di dimensioni e di caratteristiche assai disomogenee, ma il cui peso, specie nei rapporti con il potere centrale, va ponderato; - disegnare il ruolo delle città metropolitane che oggi sono costituzionalizzate ma operano solo sulla carta e costituiscono un oggetto ancor più misterioso quanto a struttura e partecipazione democratica; - Ricondurre a maggiore uniformità, per evidenti necessità istituzionali, 8000 comuni tanto disomogenei quanto è ricco il patrimonio socio-culturale che rappresentano, ma che va difeso proprio a partire dalle diverse peculiarità di ciascuna tipologia. - Nella regolamentazione dei raccordi fra Stato e autonomie locali sarebbe stato necessario, infine, evitare di rinchiudersi nella logica del riparto di competenze, ma sviluppare nuovi moduli di collaborazione in linea con la multiforme e variegata complessità di questioni che necessariamente coinvolgono, in una democrazia matura, i diversi livelli di governo.

Livio Ghersi: Mosul e Aleppo

Mosul e Aleppo: due pesi e due misure? Il Consiglio Europeo di Bruxelles del 20 ottobre 2016 si è occupato della Siria. I ventisette Stati membri dell'Unione più il Regno Unito (che continua a partecipare, anche se prima o poi dovrebbe uscire), hanno approvato un documento in cui, tra l'altro, si legge: «L'Unione Europea condanna con forza gli attacchi da parte del regime siriano e dei suoi alleati, in particolare la Russia, sui civili ad Aleppo». Perfetto — dirà l'osservatore superficiale — era il minimo che potessero scrivere. Sono rimasti delusi quanti premevano perché fossero approvate nuove sanzioni contro la Russia. Tra i falchi, si sono distinti la Francia ed il Regno Unito. Stati che, indipendentemente da cosa fa (più spesso non fa) l'Unione Europea, non hanno mai smesso di condurre una propria attiva politica estera, tanto nel Medio Oriente, quanto in Nord Africa. Il Regno Unito ha supportato i ribelli contro il regime di Assad fin dal loro primo manifestarsi. A Londra si sono riuniti i "Paesi amici della Siria", con una parola d'ordine che non potrebbe essere più chiara: «per la Siria libera da Assad». Evidentemente, la destabilizzazione della Siria non è stata perseguita soltanto da quei Paesi islamici di stretta ortodossia sunnita (in primo luogo, l'Arabia Saudita) che volevano aiutare i propri confratelli sunniti siriani ad emanciparsi dalla doppia asserita vergogna di un regime ateo e dell'egemonia di una minoranza sciita (gli Alauiti, di cui è espressione il Presidente siriano Bashar al-Assad). No, la guerra di religione fra Sunniti e Sciiti ha la sua importanza; ma ci sono in gioco anche laicissimi interessi occidentali. Tanto è vero che — in nome della libertà, s'intende — Stati Uniti d'America e Regno Unito sono stati molto vicini ad un intervento militare diretto in Siria. La pietra d'inciampo fu un voto del Parlamento britannico: il 29 agosto 2013 la Camera dei Comuni respinse, con il voto di 285 deputati contro 272, una mozione presentata dall'allora Primo ministro David Cameron che affermava la necessità di un intervento armato in Siria, a fianco dell'alleato statunitense. Trenta deputati conservatori e nove deputati liberal-democratici, tutti in teoria facenti parte della maggioranza che esprimeva Cameron, in quell’occasione votarono in modo difforme rispetto ai partiti di appartenenza. Dal punto di vista di un liberale, quella fu una pagina da scrivere nei manuali che si occupano di teoria politica: a dimostrazione di quale sia la funzione di un libero Parlamento. Quando si dibatta di questioni davvero fondamentali, come decidere se dare avvio ad una guerra, non c'è vincolo di maggioranza che tenga e prevale l'esigenza di ogni singolo parlamentare di seguire la propria coscienza. Ecco perché quanti hanno avuto una formazione liberale, e le restano fedeli, si rifiutano di sacrificare ogni principio sull'altare dell'obiettivo della governabilità e tengono a difendere la funzionalità del Parlamento, che ha una sua propria ragion d'essere e deve mantenere una sua sfera di effettiva autonomia decisionale rispetto alle prerogative del Governo. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, privato dell’appoggio del più naturale alleato, rinunciò a sua volta all'intervento diretto. Non, però, a quello indiretto: il che ha significato armare, addestrare, supportare, i gruppi organizzati che in loco erano disposti a combattere in armi il regime di Assad. La stessa cosa hanno fatto gli inglesi. Si iniziò con il "Free Syrian Army", costituito da ex ufficiali siriani ammutinatisi; fu presto chiaro, però, che i più determinati a combattere, ed i più capaci di fare proseliti, erano gli islamisti radicali. Per questa via, anche il Fronte di al-Nusra, filiazione di al-Qaida, fu reclutato alla causa occidentale. Senza capire che non si possono "usare" i fondamentalisti, perché questi perseguono e perseguiranno sempre la vera causa alla quale si sono consacrati. Quindi, al momento per loro opportuno, si riveleranno per quello che sono: nemici giurati dei valori dell'Occidente. Fino a che la cosiddetta resistenza siriana continuò a conquistare porzioni sempre più vaste del territorio della Siria, incluse grandi città come Aleppo, nessuno ebbe ad eccepire alcunché dal punto di vista umanitario. Eppure, non è che i soldati e gli impiegati amministrativi restati fedeli a Bashar al-Assad fossero trattati con molti riguardi quando si dovevano arrendere alle soverchianti forze ribelli. Oggi non si parla d'altro che di efferati crimini di guerra imputati al regime siriano ed alla Russia che lo sostiene. Non si parla d'altro che del numero di bambini rimasti uccisi, o feriti, durante i bombardamenti aerei della parte della città di Aleppo ancora controllata dalla resistenza siriana. Tanto sdegno, ostentato da statunitensi, inglesi, francesi, risponde ad una ragione precisa: non vogliono che Assad riconquisti interamente Aleppo, perché questo rafforzerebbe enormemente la sua posizione, nella futura trattativa internazionale per decidere il destino della Siria. Proviamo a fare un ragionamento molto semplice. Perché quei bambini stanno lì dove cadono le bombe? Se quei bambini avessero dei genitori, dei nonni, dei parenti, non sarebbe naturale aspettarsi che questi facessero di tutto per portarli in salvo, sottraendoli al pericolo? Ci sono due possibili risposte. O quei bambini sono orfani, ossia non hanno più madri, padri, nonni, persone adulte, che si preoccupino di tutelarli. Oppure — ed è ciò che penso — c'è qualcuno che vuole stiano lì a morire, proprio per trasformarli in una formidabile arma di propaganda. Considerato che i ribelli fondamentalisti islamici non dispongono di aviazione, né di adeguata contraerea, l'unica speranza che gli rimane, prima di soccombere definitivamente, è quella di suscitare lo sdegno della comunità internazionale per lo strazio dei bambini e della popolazione civile in genere, affinché altri si decidano ad intervenire per fermare gli aerei russi e siriani. Tutto ciò si chiama, tecnicamente, usare i bambini e la popolazione civile inerme come "scudi umani". Ricordate l'imperativo pratico, formulato da Immanuel Kant ne la Fondazione della metafisica dei costumi: «agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come scopo, e mai come semplice mezzo»? Ebbene, chi usa la tecnica degli "scudi umani", non ha alcun rispetto per la dignità delle persone e tratta strumentalmente gli esseri umani, per esibirli come carne martoriata, quando ciò serva a gettare discredito sui nemici. Si tratta di tecniche già ampiamente sperimentate altrove, in precedenza. Pensiamo alla striscia di Gaza, che dovrebbe essere amministrata dall'Autorità nazionale palestinese, e che, di fatto, è sotto il controllo degli estremisti di Hamas. Nel tempo, ci sono state polemiche infuocate contro gli israeliani perché i loro aerei hanno in più occasioni bombardato edifici di civile abitazione ed anche ospedali a Gaza. Gli israeliani reagivano al fatto che da Gaza venivano lanciati missili contro Israele. La terrazza di una comune casa, o ancora meglio di un ospedale, sembrava agli estremisti il luogo ideale per istallarvi una mitragliatrice, o un lancia-missili, proprio perché la prevedibile reazione israeliana avrebbe fatto di quella casa, o di quell'ospedale, un bersaglio, causando molte vittime civili. Da esibire poi come visibile testimonianza del martirio del popolo palestinese. Ora i nodi stanno venendo al pettine: la coalizione internazionale anti-ISIS ha circondato con le proprie truppe la città di Mosul, in Iraq. A Mosul risiedono, al momento, quasi due milioni di persone. Sono curioso di vedere come faranno le truppe direttamente schierate sul terreno dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, e in ogni caso dei loro alleati, a penetrare nella città di Mosul ed a conquistarla, senza determinare una crisi umanitaria, che si può immaginare di proporzioni certamente non inferiori a quella che è avvenuta ad Aleppo (dove, peraltro, due terzi della città sono già sotto il controllo del governo di Assad). L'ISIS si avvarrà certamente della tecnica degli scudi umani: tenere in ostaggio più di un milione di persone è un'arma di pressione alla quale certamente non vorrà rinunciare. Che faranno i pacifisti? Ripeteranno i loro slogan: "fermate la violenza", "pace, subito, ad ogni costo"? Questo significherebbe, in pratica, lasciare che Mosul resti sotto il controllo dell'ISIS e del sedicente Califfo. Esattamente come ad Aleppo imporre il divieto di sorvolo aereo ed il cessate il fuoco, significherebbe lasciare lì i fondamentalisti islamici che vi operano. Sostengo che occorra annientare il sedicente Stato islamico e tutte le organizzazioni di fondamentalisti islamici, comunque denominate, che perseguono i suoi medesimi obiettivi: imporre con la forza la sharia, ossia la legge islamica, a tutti gli abitanti; perseguitare tutti i non credenti nell'Islam rettamente inteso (islamici sciiti, cristiani di tutte le osservanze, altre minoranze religiose, pagani). Ribadisco — assumendomi la responsabilità morale di quanto affermo — che il regime siriano di Bashar al-Assad sia comunque da preferirsi ai fondamentalisti islamici. Auspico che la Siria, uno dei luoghi più importanti dell'intero mondo arabo, ricco di storia e di cultura, continui a sopravvivere ed anzi abbia l'opportunità di nuovamente prosperare. Che in Siria ritorni ad essere nuovamente possibile la pacifica coesistenza di tante religioni ed etnie, esattamente come è accaduto per secoli. La Russia non è il nostro "nemico", come vorrebbero i circoli oltranzisti della Nato ed i nazionalisti ucraini. Nell'appoggiare il governo siriano, la Russia difende i propri interessi: mantenere proprie basi navali sicure nel Mediterraneo e continuare ad avere influenza nel Medio Oriente. Interessi che non sono meno legittimi degli interessi strategici anglo-americani. Volere un conflitto con la Russia significherebbe rischiare davvero una guerra nucleare; soltanto i pazzi possono valutare seriamente tale scenario. Se poi la Cina si schierasse con la Russia, non è nemmeno sicuro che la Nato vincerebbe. Al contrario, chi auspica un nuovo ordine internazionale fondato su un reale rilancio dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, ha bisogno dell'apporto fattivo e responsabile della Russia. Per una volta, lasciate dire a me, sempre pronto alle critiche nei confronti di Renzi, che la posizione assunta dal Governo italiano nell'ultimo Consiglio Europeo è stata improntata ad una saggia prudenza. Niente nuove sanzioni nei confronti della Russia. Insistenza perché con essa si tenga aperto un dialogo costruttivo. Palermo, 21 ottobre 2016 Livio Ghersi

Franco Astengo: Come volevasi dimostrare

Un altro facile “Come volevasi dimostrare”. Questa la notizia d’agenzia: “Equitalia cambia nome. Ma non casa. Troppo difficile inglobarla nell'Agenzia delle entrate, per vincoli costituzionali, contrattuali e forse di buon senso. Così, l'ultima soluzione, accarezzata dal governo, è quella di trasformare Equitalia in una partecipata pubblica, magari al 100% proprio dall'Agenzia (ora è al 51%, l'altro 49% dell'Inps). Una società per azioni, come ora. Nel perimetro fiscale, come ora. Libera di mantenere i più vantaggiosi contratti bancari, come ora, ai suoi 7.917 dipendenti. Ma con un nome nuovo o piuttosto una sigla burocratica, tipo Drae, facile da scordare: dipartimento riscossione dell'Agenzia delle entrate”. Con infinita pazienza continueremo a scrutare tutte le contraddizioni emergenti tra gliannunci fatti qualche giorno dal Governo nel merito della manovra 2017 e la realtà possibile, guardando soltanto al banale concreto delle affermazioni nel contesto immediato e senza verificare ancora le roboanti dichiarazioni in sede Europea (però un pensierino a quegli estremisti che criticavano il “fiscal compact” e adesso ci se accorge improvvisamente della detelerialità andrebbe fatto). Sempre per la serie “svegliarsi nella comica” pensando alla “provvidenza” degli europeisti alla Prodi, Draghi e compagnia cantante. Contraddizioni che erano facilmente rilevabili da subito. Si era scritto il 17 Ottobre scorso : Si porrà qui un problema riguardante il personale perché quello di Equitalia gode del contratto dei bancari mentre quello delle Agenzia delle Entrate è sottoposto al contratto del pubblico impiego. Inoltre nel pubblico impiego si entra per concorso, fatto non avvenuto per il personale di Equitalia. Adesso arriva il contrordine (aspettiamo comunque il testo definitivo, mai redatto con tanto ritardo mentre il Parlamento lo aspetto da martedì scorso Franco Astengo F

Nobel Economics Versus Social Democracy

Nobel Economics Versus Social Democracy

giovedì 20 ottobre 2016

Lettera di eurodeputati italiani al PSE sul sostegno al SI: " larga parte del mondo progressista italiano è per il NO"

Lettera di eurodeputati italiani al PSE sul sostegno al SI: " larga parte del mondo progressista italiano è per il NO"

Jobs (re)act

Da Avanti! online www.avantionline.it/ JOBS (RE)ACT L'effetto Jobs act sull'occupazione è finito. L'abolizione del­l'articolo 18 ha portato un aumento dei licenziamenti per giusta causa. Con il taglio della decontribuzione le assunzioni a tempo indeterminato sono crollate del 32,9%. Barbagallo (UIL): «I dati Inps confermano le nostre preoc­cu­pazioni». di Liberato Ricciardi Arriva l’altra faccia della medaglia del Jobs Act, dopo la forte crescita del 2015 trainata dagli sgravi, nel 2016 le assunzioni segnano il passo, con una forte impennata sia sulla disoccupazione che sul precariato. Non solo, ma eliminato di fatto l’articolo 18 e finiti gli incentivi per la creazione di nuovi posti di lavoro, il trend è tutto tranne che positivo, e ad attestarlo è l’Osservatorio sul precariato dell’Inps: -8,5% di assunzioni e +31% di licenziamenti rispetto ai primi otto mesi del 2015. Arrivano al 28% in più, inoltre, i licenziamenti disciplinari, quelli che il Jobs Act ha reso a tutti gli effetti più facili da portare a termine per le aziende. Secondo i dati dell’Osservatorio Inps, in particolare crollano le assunzioni a tempo indeterminato, mentre invece l’abolizione dell’articolo 18 contenuta nel Jobs Act ha fatto impennare il numero dei licenziamenti. In altre parole, come pure avevano ammonito molti economisti e i critici della riforma del lavoro Renzi, non appena è venuta meno in modo significativo la convenienza ad assumere, il numero delle conversioni di contratti più precari e delle assunzioni “nuove” si sta riducendo sempre più rispetto al boom del 2015, “drogato” dagli incentivi più generosi. Le imprese cominciano gradualmente a usufruire sempre più della nuova libertà garantita dal Jobs Act di liberarsi del personale. Per adesso si tratta di numeri modesti, ma il ritmo di crescita è notevole. Complessivamente le assunzioni di datori di lavoro privati, nel periodo gennaio-agosto 2016, sono risultate 3.782.000, con una riduzione di 351.000 unità rispetto al corrispondente periodo del 2015 (-8,5%). Nel complesso delle assunzioni sono comprese anche le assunzioni stagionali (447.000). Il rallentamento delle assunzioni ha riguardato principalmente i contratti a tempo indeterminato: -395.000 unità, pari a -32,9% rispetto ai primi otto mesi del 2015. “Il calo – spiega l’Inps – va considerato in relazione al forte incremento delle assunzioni a tempo indeterminato registrato nel 2015, anno in cui dette assunzioni potevano beneficiare dell’abbattimento integrale dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro per un periodo di tre anni”. Analoghe considerazioni possono essere sviluppate per la contrazione del flusso di trasformazioni a tempo indeterminato (-35,4%). Per i contratti a tempo determinato, nei primi otto mesi del 2016, si registrano 2.385.000 assunzioni, in aumento sia sul 2015 (+2,5%), sia sul 2014 (+5,5%). Per i contratti in apprendistato si osserva una crescita del 18% rispetto allo stesso periodo del 2015 mentre i contratti stagionali calano del 7,4%. La maggior flessibilità avrebbe dovuto dare al mercato quella spinta necessaria a ripartire, ma a un anno e mezzo dall’entrata in vigore del Jobs Act, però, l’occupazione ancora latita con un tasso di senza lavoro fermo all’11,4%. L’Inps conferma quindi la dinamica emersa dalle rilevazioni statistiche dell’Istat e mostra, a fine agosto, un quadro a tinte fosche. Mentre continua a crescere senza sosta il ricorso ai voucher – la stretta del governo è arrivata solo a settembre – rallentano le assunzioni a tempo indeterminato e in generale i nuovi contratti. A preoccupare gli addetti ai lavori è soprattutto il trend delle assunzioni a tempo indeterminato: ad agosto sono state solo il 24,9% dei nuovi rapporti di lavoro, il dato mensile più basso dell’ultimo biennio. Insomma, la cura Renzi inizia a scricchiolare, soprattutto in considerazione di un tasso di disoccupazione che resta stabile all’11,4%. L’altra faccia della medaglia non è per nulla rassicurante: nonostante le buone intenzioni, infatti, a fronte di un’occupazione che non riparte, non calano neppure dimissioni e licenziamenti. Per coloro che sono stati assunti con il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs act a partire dal marzo 2015, sono cambiate le sanzio­ni in caso di licenziamento ingiusto, con la sostanziale cancellazione del­l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e quindi con l’impossibilità del­la reintegra nel posto di lavoro. Cresce in modo preoccupante anche il pre­cariato e il riscontro è dato dal continuo aumento dei Voucher: tra gen­naio e agosto di quest’anno sono stati venduti 96,6 milioni di vou­cher destinati al pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio, del valore nominale di 10 euro, con un incremento, rispetto ai primi otto mesi del 2015, pari al 35,9%. Nei primi otto mesi del 2015, la crescita dell’utilizzo dei voucher, rispetto al 2014, era stata pari al 71,3%. I buoni sono stati sperimentati dall’agosto del 2008, in particolare per i lavoratori delle vendemmie. Da allora al 30 giugno 2016 ne sono stati saccati 347,2 milioni. Il voucher si è rapidamente diffuso e ha accelerato negli ultimi anni: “Ha registrato un tasso di crescita del 66%” tra il 2014 e il 2015, cui va aggiunto un ulteriore +40% tra i primi sei mesi del 2015 e i primi sei mesi del 2016, annota oggi l’Inps. I dati dell’Inps sull’occupazione nei primi otto mesi del 2016 “con­fer­mano le preoccupazioni” della Uil sullo scarso impatto sulla crescita del Jobs act e della decontribuzione. Lo afferma il segretario generale del sindacato, Carmelo Barbagallo. “Purtroppo, i dati Inps di oggi – di­ce – confermano le preoccupazioni che avevamo espresso sui rischi che il Jobs act determinasse solo un riciclaggio di posti di lavoro. Tutto poi tende a complicarsi ulteriormente a causa della successiva riduzio­ne degli incentivi e del diffuso ricorso ai voucher. Ci dispiace sot­toli­near­lo, ma avevamo previsto anche un incremento dei licenzia­men­ti, cosiddetti, “per giusta causa”: siamo stati facili profeti. Adesso, il Go­ver­no e anche noi abbiamo un ulteriore problema sociale: dovre­mo ge­sti­re questi lavoratori licenziati in più proprio a causa della ri­du­zio­ne delle tutele generata, di fatto, dal Jobs act. Qual è la soluzione per que­ste altre diecimila persone che, ora, si ritrovano senza occupazione?”.

Andrea Ermano: Preferirei di no

EDITORIALE AdL E però preferirei di No Variazioni sulle “subordinate” che, in politica come nella vita, sono molto importanti di Andrea Ermano Il PSE, JP Morgan, Merkel, l’ambasciatore Usa in Italia “dovrebbero farsi gli affari loro sul referendum”, ha dichiarato qualche giorno fa Massimo D’Alema dopo che il Partito Socialista Europeo aveva manifestato il proprio sostegno al Sì. A stretto giro di posta, il vicesegretario generale del PSE, Filibeck, ha risposto all'ex premier diessino: “Come si fa a dire al Pse di farsi gli affari propri? Il referendum italiano è affare del Pse”. Qui evidentemente ha ragione Giacomo Filibeck, che oltre tutto è ex segretario nazionale della “Sinistra Giovanile” (in qualche modo erede della FGCI di Berlinguer, Occhetto, Petruccioli, D'Alema, Folena e Cuperlo). Poi uno può contestare al PSE che parla a vanvera, che su tanti temi nemmeno si esprime, che sulla situazione italiana si dimostra subalterno ai poteri forti della globalizzazione eccetera. Ed è poi chiaro che ciascuna di queste opinioni sarà a sua volta opinabile e confutabile. Ma, finché possibile, occorrerebbe discutere sul merito e sul metodo, senza revocare il diritto di parola a nessuno, fatto salvo il dovere dei media (dovere alquanto disatteso) di fornirci un’informazione corretta e ragionevolmente completa. Se tutti, dunque, hanno il diritto di esprimersi sulla disfida referendaria italiana, questo non varrà in minor misura, immaginiamo, per il Presidente degli Stati Uniti d'America, in quanto rappresentante di un Paese al quale l’Italia deve la propria liberazione dal nazifa­scismo e senza il quale perciò la nostra Costituzione forse nemmeno ci sarebbe. Dopodiché, idem come sopra. Anche Obama può sbagliare, come forse ha dimostrato indirizzando al premier Renzi, ospite martedì alla Casa Bianca, questa frase idiomatica in italiano: “Patti chiari, amicizia lunga”. Perché, forse, ha sbagliato? Perché nella nostra lingua queste parole hanno un senso ambivalente: da un lato enunciano il duplice presupposto di una lunga partnership secondo il quale i patti vanno formulati in modo assolutamente comprensibile e rispettati in modo assolutamente leale. Dall’altro lato, però, – proprio nel dover esplicitare questa duplice ovvietà – dal proverbio traspare in subordine che, se emergesse una qualche ambiguità o slealtà, l’amicizia potrebbe anche non durare. “Patti chiari, amicizia lunga” Dato che nella politica come nella vita le “subordinate” sono importantissime, “Patti chiari, amicizia lunga” suona quasi come una minaccia. E in effetti, spesso, questo proverbio entra in scena nei giochi linguistici del nostro bell'idioma quando è necessario definire molto bene le regole del gioco “non affinché possano essere comprese, ma affinché non possano essere travisate”, diceva Quintiliano. A questo punto, una volta esclusa cioè ogni possibilità di fraintendimento, e ciò grazie a formule nette e precise, si usa concludere: “Patti chiari, amicizia lunga”. In questo modo s'intende che d’ora in poi, nessuno potrebbe più appellarsi ai "non credevo, non sapevo, non volevo". No, adesso, qualora qualcosa girasse storto, comproverebbe un caso di patente slealtà. E non ci sarebbe più amicizia. Fin qui il senso del proverbio nella nostra lingua. E non riusciamo a immaginarci che Barack Obama possa voler avere detto: Ok, dear Matteo, recitiamo pure questo siparietto sul bel prato della Casa Bianca, che tanto piace a Benigni, affinché tu possa poi tornare in Italia con il mio endorsement e spenderlo nella campagna referendaria. Ma non dimenticare che, in cambio, gli USA si attendono dal tuo Governo questo e questo. Ha ragione quindi Bartezzaghi, il quale sulla Repubblica, riassume così lo stato dell’arte: “Barack Obama gli ha rivolto un saluto e una frase gentile in italiano. Con questo sforzo ospitale ha così contribuito alla settimana della lingua italiana nel mondo”. Inversamente, se per ipotesi Obama invece avesse inteso dire quel che ha detto, non sarebbe irrilevante interrogarsi su quale sia il prezzo pattuito dal nostro Governo per sdebitarsi dell’endorsement di cui sopra. E le prime cose venute in mente ai commentatori sono state: a) una partecipazione militare italiana rafforzata (boots on the ground) in Libia) e b) un indurimento diplomatico nei riguardi della Russia. Ma scacciamo i cattivi pensieri. Chi siamo, in fondo, noi dell’ADL per mettere in dubbio la facoltà di giudizio di tanti grandi uomini, rappresentanti di realtà istituzionali così importanti e potenti? Se il PSE, JP Morgan, Angela Merkel, l’ambasciatore Usa in Italia e ora anche Barack Obama ci dicono e ci ripetono che la Revisione Renzi-Boschi va bene per l’Italia, non sarebbe più intelligente evitare atteggiamenti da bastian contrari? Certo, si parva licet, lasciateci qui ricordare che in altri tempi (per esempio durante la Prima Guerra mondiale, il Fascismo, lo Stalinismo, la Seconda Guerra mondiale), dalle colonne di questo “giornalino”, come lo chiamava Silone, ci fu gente capace di assumere posizioni controcorrente – per esempio contro l’immane macello bellico, contro le dittature di ogni colore, a favore degli Stati Uniti d’Europa in garanzia della pace nel nostro continente – posizioni che stanno lì a dimostrare come il Kaiser, lo Zar e persino il Papa possano avere torto… e che ognuno alla fine avrebbe il dovere di pensare con la propria testa. A parte ciò, eccovi qua una buona ragione per la quale persino un vecchio politico tutt’altro che infallibile, un rottamato e demonizzato come D’Alema, non può essere però molto lontano dal vero quando sostiene il NO al referendum sulla Revisione Renzi-Boschi perché (nel combinato disposto con l’Italicum) essa spalanca le porte a revisioni costituzionali “a colpi di maggioranza” e perché essa stessa (grazie al Porcellum) è passata “a colpi di maggioranza”. Bill Clinton e Massimo D’Alema all’epoca in cui l’uno era Presidente degli USA e l’altro Presidente del Consiglio Su Wikipedia leggiamo che nel 2006 Romano Prodi “incaricò tredici personalità di spicco del mondo della cultura e della politica di redigere un Manifesto per il Partito Democra­tico, utile a enun­ciare i valori del nuovo soggetto politico”. Nel solenne do­cu­mento riveste un' importan­za par­tico­lare il tema della “difesa della Costitu­zione” (vai al link). Wikipedia rinvia qui a due link sul sito ufficiale del PD contenenti sia la bozza del “Manifesto dei valori” sia la versione approvata dal­l'Assemblea costituente del PD il 16 febbraio 2008. (Detto tra parentesi: Se cercate questi siti, vi apparirà la scritta: “Impossibile contattare il server”. Abbiamo lungamente cercato su internet questo “Manifesto dei valori”, dove si sottolinea “l’importanza della difesa della Costituzione”: non siamo riusciti a trovarlo da nessuna parte. Se altri ne sono capaci, p.f. ce ne indichino il luogo e noi non mancheremo di segnalarlo alle lettrici e ai lettori dell’ADL). La “difesa della Costituzione” è una questione importante, dati gli esiti negativi delle revisioni costituzionali condotte (o tentate e abortite) in questi anni “a colpi di maggio­ranza”. Questo tema, è stato recentemente ripreso da Massimo D’Alema che citato un frammento dal Manifesto dei Valori del PD: “La sicurezza dei diritti e della libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento e resta la fonte di legittimazione e di limita­zione di tutti i poteri. Il Partito Democratico s'impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, e a mettere fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza” (vai al video su Radio Radicale, min. 32:30 > 34:25). Se questo diceva il Manifesto dei Valori del PD (heri dicebamus…), mi dici tu come fai a fidarti ciecamente di questi annunci di serenità circa il futuro della Repubblica?! Detto ciò, vogliamo concludere con una nota di speranza: è bello che a Washington il premier Renzi abbia voluto escludere l'imminenza di catastrofi in caso di vittoria del NO. E che Obama gli abbia chiesto di "restare in politica qualunque sia il risultato del referendum".

mercoledì 19 ottobre 2016

Industria 4.0 una proposta che brilla per le sue assenze – Associazione Paolo Sylos Labini

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Social Compact. Una terapia shock contro le disuguaglianze - nuovAtlantide.org

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Capitalism Behaving Badly

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La salute va in soffitta con l’Art. 32 - Eddyburg.it

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Il Jobs Act funziona: in otto mesi sono aumentati i licenziati - Eddyburg.it

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Rodotà: «La Carta ci ha unito, con Renzi oggi ci divide» - Eddyburg.it

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Noi possiamo osare. Il tempo dello sciopero sociale transnazionale è ora - Eddyburg.it

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Ce lo chiede l’Europa? La dimensione europea del refererendum costituzionale | cambiailmondo

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CITTÀ STUDI E POST EXPO - ArcipelagoMilano

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martedì 18 ottobre 2016

Lo psicodramma della sinistra Pd: una commedia senza fine - Istituto di Politica : Istituto di Politica

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La via portoghese e il vicolo italiano - Il Ponte

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Boom dei voucher. Il secondo Rapporto UIL | il Blog della Fondazione Nenni

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Legge di bilancio, un passo falso dopo l'altro - Sbilanciamoci.info

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L’equità che manca alla manovra | C. Saraceno

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Nobel 2016: dalla teoria dei contratti alla realtà della crisi | Economia e Politica

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Rethinking Populism | Dissent Magazine

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Il Piano del Governo su industria 4.0: esiste solo l’impresa, come sempre. – DEMOCRAZIA E LAVORO

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SÁNCHEZ NON È CORBYN

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Socialist International - Progressive Politics For A Fairer World

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Il nuovo Consiglio Metropolitano è stato eletto | movimentimetropolitani

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La nuova edizione del Consiglio della Città Metropolitana con la speranza di un decollo definitivo | movimentimetropolitani

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Tì el rotamatt: l’intera sinistra Pd appare spaccata e spiazzata | movimentimetropolitani

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Paolo Bagnoli: Ora tutto è alla luce del sole

Da Critica liberale biscondola ora tutto è alla luce del sole paolo bagnoli «Siamo immersi in una lunghissima fase di difficoltà economica ,abbiamo un sistema di welfare che entro venti anni così com’è sarà insostenibile, c’è l’emergenza terrorismo e un fenomeno migratorio senza precedenti, per quanto tragica questa seconda Repubblica, in questo contesto spuntano i Grillo, i Farage, gli Orban, quelli di Podemos… E allora, non dico che destra e sinistra non esistano più, figurarsi. Ma di fronte a questi problemi bisogna trovare una forma di unità delle forze di sistema. Non chiamiamole larghe intese, è una definizione politica che appartiene al Novecento. Parliamo di un’alleanza tra pragmatici». È il brano più significativo di una lunga intervista di Denis Verdini pubblicata sul “Corriere della Sera” il 15 ottobre 2016. Verdini, senza peli sulla lingua, ha spiegato in maniera chiara il disegno politico in atto. Ha detto quello che Matteo Renzi non può dire: che la riforma costituzionale e la legge elettorale servono a creare quella che l’ex braccio destro di Berlusconi definisce, con formula dal sapore vagamente politologico, “unità delle forze di sistema”. Gli addendi essa si intuiscono facilmente: il Pd, il partito di Alfano, la pattuglia verdiniana e tutti quei centristi che sostengono il SI’; tipo Casini che ha lasciato l’Udc dopo che questa, pur avendo votato tutto – nuova Costituzione e legge elettorale- ha deciso di schierarsi per il NO. Naturalmente il sogno proibito è che, alla fine, anche Berlusconi aderisca nonostante si sia schierato per il NO. Insomma, un ben nutrito rassemblement a vocazione governista che, per qualche lustro, gestisca lo Stato. Chissà se l’ispiratore del disegno complessivo, Giorgio Napolitano, aveva capito quale era la polvere sotto il tappeto. Un Giorgio Napolitano quanto mai combattivo, costantemente in trincea a sostenere il SI’ timoroso che se, alla fine, dovesse prevalere il NO ciò suonerebbe quasi alla stregua di un voto di sfiducia nei suoi confronti. Non si era mai visto un ex-presidente della Repubblica nelle vesti di gladiatore; è proprio vero che questa seconda Repubblica non è avara di novità. Gli unici a non avere capito il senso della partita in atto sono le minoranze del Pd che non riescono nemmeno a farsi prendere sul serio dal segretario-presidente smanioso di disfarsene una volta per tutte. In Parlamento hanno votato tutto e poi hanno cominciato a richiedere che la legge elettorale venisse cambiata. Quando c’era da dare battaglia loro, come il coro della Butterflay, sono stati muti e il leader Bersani, novella Pizia, parlava per 053 17 ottobre 2016 5 oracoli: pettinare le bambole, il tacchino sul tetto, la mucca nel corridoio. E la politica? Forse verrà fuori alla Direzione, si pensava, ma anche qui scena muta e uscita dall’aula al momento del voto. Perché non hanno presentato un documento loro contandosi? Mistero. L’unica cosa chiara è che, poiché non verrà cambiata la legge elettorale, voteranno NO alla riforma costituzionale. Ora, per quanto sia chiaro a tutti che la riforma costituzionale e legge elettorale costituiscono un combinato disposto, i due provvedimenti sono tuttavia due cose differenti. Se ne deduce che, se la legge elettorale fosse stata cambiata, allora sarebbe andata bene anche la lacerazione inferta alla Costituzione della Repubblica. Ma che modo di ragionare è questo? Che idea hanno dell’Italia, della politica, della democrazia, del loro partito che si affrettano a dichiarare che non lasceranno mai, come se si trattasse di una posizione politica, non rendendosi conto che sarà il Pd a lasciare loro, incompatibili con l’unità di sistema annunciata da Verdini. La battaglia va data, se si ritiene di darla, quando è il momento; non è un servizio a domanda individuale. Non averlo fatto quando dovevano è come aver già conquistato la sconfitta. La conferma ci è data da quanto stiamo vedendo. La commissione che il Pd ha varato per sondare le altre forze politiche in merito alla legge elettorale rappresenta solo il solito escamotage italico per esercitarsi nella corsa sul posto. La dizione “unità delle forze di sistema” è un modo aggiornato per dire “partito renziano”, ossia una forza di centro che guarda a destra. Non è nemmeno l’equivoco “partito della nazione” che poteva essere interpretato in vario modo; no, ora tutto è alla luce del sole. Primarie e minoranza Pd. Vien da dire che, prima che ai repubblicani americani, le primarie hanno giocato un brutto scherzo a quei postcomunisti che pensavano, come avevano fatto con il Pds e i Ds, di continuare a essere se stessi nel nuovo soggetto di turno; anche nel partito che finalmente li vedeva insieme a un pezzo di democristiani. Essere se stessi: quanto Achille Occhetto aveva dichiarato a Bologna nel congresso che scioglieva il Pci e partoriva il Pds; ma, alla lunga il giochino dell’egemonia primigenia da continuare a esercitarsi nel cambiare delle sigle e dei contenitori nei quali continuava ad albergare la residualità comunista si è logorato. Le primarie hanno generato Renzi ; a loro, se mai ci fossero, non rimangono nemmeno le secondarie. Tramite questa complessa operazione politica si vuole istituzionalizzare una sostanziosa svolta a destra; il partito democratico, dimentico delle buone intenzioni peraltro mai messe in campo, ne è l’artefice. Forse Bersani è bene che si prepari a riordinare le bambole pettinate, a salire sul tetto per far scendere il tacchino e, in quanto alla mucca nel corridoio, è bene stabilisca un buon rapporto casalingo. Almeno la ditta chiuda con le cose in ordine.

sabato 15 ottobre 2016

Franco Astengo: Guerra

L’ITALIA PARTECIPA ALLE MANOVRE BELLICHE DELLA NATO AI CONFINI DELLA RUSSIA di Franco Astengo Un governo pericoloso al quale dire con grande chiarezza “NO” nel referendum confermativo Mi permetto disturbarvi a distanza di poche ore per denunciare la gravità della scelta compiuta dal Governo Italiano, senza passare dal parlamento, al riguardo della partecipazione di soldati italiani alla manovre NATO che si svolgeranno in Lettonia, ai confini con la Russia, nel 2017: in una situazione delicatissima a poca distanza dal fronte bellico ancora aperto in Ucraina. Una situazione internazionale che può essere così riassunta in estrema sintesi: Appare esaurita anche la fase del post – caduta del Muro caratterizzata da un’unicità di superpotenza “gendarme del mondo”. Non emerge, però, come molti pensavano fino a qualche tempo fa un assetto multipolare, bensì riemerge dalle tenebre della storia l’antico bipolarismo USA / Russia. Questo sì foriero di un’anticamera di conflitto globale, tra imperialismo mai rinnovato nella sua essenza e ritrovata vocazione imperiale. Naturalmente i fattori di questo stato di cose sono molteplici nella contesa globale: energia, spazio vitale, predominio militare, ecc. La notizia nel dettaglio è questa: Militari italiani saranno schierati in Lettonia "come deciso nel vertice di Varsavia": lo ha detto il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, a margine all'assemblea Anci. Il vertice aveva deciso di formare un contingente Nato nell'ambito del progetto di rafforzamento delle frontiere orientali del patto atlantico. Riferendosi all'intervista rilasciata alla Stampa dal segretario della Nato, Stoltembreg, Pinotti ha precisato che "quando abbiamo fatto il vertice di Varsavia, all'interno delle responsabilità che hanno assunto altre Nazioni è stata anche data dall'Italia la disponibilità di fornire una compagnia, quindi con numeri non molto consistenti, all'interno di una organizzazione che prevede il coinvolgimento di moltissime nazioni della Nato". Una scelta gravissima, compiuta nella perfetta logica antidemocratica di questo Governo che considera il Parlamento un orpello accessorio al quale togliere ogni funzione attraverso le deformazioni costituzionali. Un governo pericoloso al quale dire con grande chiarezza “NO” nel referendum confermativo

giovedì 13 ottobre 2016

Pierre Carniti: “Referendum costituzionale: perché voto No” - Patria Indipendente

“Referendum costituzionale: perché voto No” - Patria Indipendente

Andrea Ermano: A nove anni dalle primarie del Pd

Dall'Avvenire dei lavoratori EDITORIALE A nove anni dalle prime primarie del PD Entrando nel merito della Questione di Andrea Ermano Domani sono nove anni dalle prime primarie del PD, le primarie “costituenti” che il 14 ottobre del 2007 incoronarono Walter Veltroni lider maximo del “partito nuovo”. Tre milioni e mezzo di cittadine e cittadini “dem” si recarono quel giorno a votare in uno dei dodicimila seggi sparsi per tutta Italia. I famosi “gazebo” avrebbero dovuto rima­nere aperti fino alle otto di sera, ma la massa affluita per celebrare la nascita del nuovo partito era così straripante che l'orario di chiusura dei seggi venne posticipato quasi ovunque di almeno un paio d’ore per consentire a tutti di partecipare allo storico evento, e di raccontare un giorno ai nipotini: Quel 14 ottobre c'ero anch'io! Fu un vero, grande trionfo. Io non c'ero. Lo so che questo conta come il due di coppe, ma non comprendevo, allora, né capisco tuttora, il senso di primarie (senza regole) allo scopo di plebiscitare un candidato predestinato a una carica di partito incontendibile. Aborrivo decisamente il duplice disegno che Veltroni covava in pectore: far fuori il Governo Prodi per correre “solo” (solo con Di Pietro) verso elezioni anticipate, onde eliminarvi i “cespugli” del centro-sinistra italiano e ciò grazie a un uso particolarmente violento del Porcellum allora in vigore. Non condividevo assolutamente la fuoriuscita della sinistra italiana dal PSE. La catastrofe che seguì alla nascita del PD veltroniano lascia tutt'oggi senza fiato. Furono perse città, province e regioni nonché il governo del Paese, tolto a Prodi e riconsegnato a Berlusconi. E il Cav., dal 2008 al 2011, condusse l'Italia alla soglia della bancarotta morale e mate­riale, mentre gli alleati riformisti d'Europa scuotevano la testa costernati e Walter s’era frattanto ritirato a vita privata. Se il battito d'ali di una farfalla in Brasile può scatenare un uragano nel Mar della Cina, ebbene l’indimenticabile tocco del fuoriclasse Veltroni provocò invece un disastroso spostamento a destra dell'asse politico italiano, europeo e financo terrestre. Né più né meno. Il tocco del fuoriclasse Perché stupirsi se oggi molti, in Europa, recalcitrano all'idea di immolarsi per la “flessibilità” (cioè i miliardi a debito) di cui Palazzo Chigi avrebbe bisogno. Il premier Renzi si lamenta di ciò, e non ha tutti i torti. Egli giustamente chiede il superamento del rigore. Reclama il sostegno eurosocialista. Ma “vai a fidarti”, ti ribattono in Europa, dove stabilmente si associa la politica italiana alle più fantasiose e crudeli forme del machiavelli­smo. Non che loro, gli europei, siano stinchi di santi, tutt’altro, ma nei migliori trattati di Storia Universale della Slealtà non può ormai mancare un capoverso dedicato alla condotta del leader post-comunista, Occhetto. Il quale prima andò a piangere da Craxi per ottenere l'ammissione nella famiglia socialista del PCI finito sotto le macerie del Muro di Berlino. Poi – avuta la grazia, gabbato lo santo – coperse il leader socialista di sangue, merda e monetine. Infine, salendo sulla “gioiosa macchina da guerra”, fece cadere il governo Ciampi e andò miseramente a sbattere. Consegnando il Paese alle destre. In effetti, gli ex democristiani e gli ex comunisti italiani – pur proclamandosi fautori dei Valori non meno che della Questione morale – hanno alle spalle un'efferata tradizione di machiavellismo politico. Con strascichi disastrosi. Per la fine della DC vedi alla voce Aldo Moro, per la fine della prima Repubblica vedi alla voce Raphaël, per la fine dell’Ulivo vedi alla voce “corro solo”. Ma non serve andare tanto indietro nel tempo. Bastano a capire anche i casi più recenti: quello di Enrico Letta (“Enrico, stai sereno”) e soprattutto la triste vicenda di Pierluigi Bersani. Il quale Bersani, in qualità di segretario del PD, aveva faticosamente lavorato alla ritessitura dei rapporti a sinistra e alla tenuta del “Sistema Italia”. In fondo, quel poco d’equilibrio politico sopravvissuto alle approssimazioni e alle improvvisazioni di questi anni poggia ancora tutto sulla “non vittoria” bersaniana del 2013. E stendiamo perciò un velo pietoso sopra la centuria dei franchi tiratori che, alle votazioni per l'elezione del Capo dello Stato, impedirono la salita di Prodi al Colle e indussero Bersani alle dimissioni. Difficile a questo punto per il premier Renzi appellarsi a Prodi, come giustamente rileva Bersani: “Ma come fa a paragonarsi a Prodi? Ci vogliono più umiltà e senso delle dimensioni. In quel governo c'erano Ciampi e Napolitano, ci davamo del lei, mica facevamo la legge di Bilancio in dieci minuti per andare ai tg. Abbia­mo lasciato il debito al 103 per cento, ora è al 133 per cento, ma vedo che si continua a chiedere flessibilità per fare i bonus e altri debiti. Renzi parla tanto di futuro, poi carica così le spalle dei nostri figli”. E allora, compagno Renzi, a che serve adesso intonare le lamen­tazioni contro una sempre troppo pavida socialdemocrazia in Europa, se poi la tradizione machiavellista di cui il PD è intriso si scarica nel tuo stesso partito in un clima di assoluta sfiducia reciproca tra maggioranza e minoranza interna?! Nondimeno dispiace – dispiace davvero – assistere a questo dramma sconclusionato. Sì, dispiace, perché al di là di tutto il premier Renzi guida un'azione di governo che è di per sé condivisibile sia sul piano europeo sia su quello delle politiche umanitarie. Anche perciò alcuni osservatori internazionali guardano oggi all'Ita­lia con simpatia. E si domandano preoccupati che cosa succe­derebbe se al Referendum costituzionale del 4 dicembre vincesse il No. Bella domanda. Una vittoria del No comporterebbe la fine dell’Italicum, oltre che della Revisione costituzionale, ma non la conclusione della carriera politico-governativa del premier Renzi. E però che cosa accadrebbe se vincesse invece il Sì? Chi teme che la stagnazione non finirà, che l'immigrazione non fini­rà, che l'antipolitica non finirà, sa che l'Italicum tra due anni scarsi potrebbe far cadere sia Mon­te­ci­to­rio sia Palazzo Chigi in mano populista. E a quel punto la Revisione costituzionale Renzi-Boschi sareb­be pronta a dare il peggio di sé. A quel punto – a parte la nomina dei giudici della Consulta e tutto il resto che non è qui neanche il caso di elencare – in linea di tiro entrerebbero il Qui­ri­nale e la stessa Carta costituzionale. La Costituzione resta, infatti, modificabile a colpi di maggioranza. Non dimentichiamo che “maggioranza” qui significa “minoranza” (minoranza geneticamente modificata in senso maggioritario). Sicché, grazie all’Italicum e all'Art. 138 della Co­sti­tuzione (così concepito quando c'erano il proporzionale e il bi­came­ralismo paritario) tutto, ma proprio tutto, diverrebbe possibile, inclusa la legittimazione di refe­rendum tipo Brexit sulla permanenza o meno dell'Italia nell'UE. Basterebbe cambiare la Carta a colpi di “mag­gioranza” (cioè di “minoranza”). Ma, prima dell’ennesima catastrofe, domanderete voi, non potrebbe il Capo dello Stato bloccare tutto, rifiutandosi di firmare? Chi si ag­grap­pa a questa speranza, tenga presente per favore che dentro la rou­lette russa del “combinato disposto” tra Revisione Renzi-Boschi e Ita­licum si cela un'ulteriore pallottola letale: la deposizione del Capo dello Stato. Su questo punto delicatissimo l'Art. 90 della Costituzione (anch'esso risalente a quando c'erano il proporzionale e il bicameralismo paritario) prevede che: “Il Presidente della Repubblica (…) è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri”. E dunque sorge spontanea la domanda: quanti voti servirebbero al possibile vincitore populista nel ballottaggio dell'Italicum per mettere in stato d'accusa l'inquilino del Quirinale? Ventisette. Secondo la Revisione Renzi-Boschi la somma dei seggi del Parlamento a camere riunite ammonterebbe, infatti, a 731 grandi elettori: 630 deputati, 100 senatori e un Presidente emerito. Pertanto, la maggioranza assoluta consterebbe di 367 voti, laddove l'Italicum già ne avrebbe però assegnati 340 al vincitore del ballottaggio. Al quale basterebbe appunto reperirne altri ventisette soltanto, tra i cento membri del Senato nuovo, per poter dare il via all'assalto del Colle. Sic stantibus rebus, noi ci domandiamo, con viva preoccupazione, se chi di dovere non si renda ben conto del rischio che una possibilità di questo genere comporta per le istituzioni repubblicane già solo nel suo profilarsi in via ipotetica.

Sharing e gig economy: più flessibili, non più contenti – Left

Sharing e gig economy: più flessibili, non più contenti – Left

mercoledì 12 ottobre 2016

martedì 11 ottobre 2016

Franco Astengo: Articoli 1 e 3

ARTICOLO 1 E ARTICOLO 3 di Franco Astengo E’ necessaria una grande pazienza per riuscire a replicare in maniera argomentata e tempestiva alle molte mistificazioni che vengono adottate dai sostenitori del “SI” nel referendum sulle deformazioni costituzionali che si svolgerà il prossimo 4 Dicembre. In particolare sono due i punti fortemente battuti a questo proposito: 1) La negazione del nesso immediato esistente tra deformazioni costituzionali e nuova legge elettorale; 2) L’idea che le deformazioni stesse riguardino solamente la seconda parte della Costituzione del ’48, quella contenente le disposizioni relative alla struttura dello Stato. Sul primo punto pare proprio che l’insieme del dibattito in corso, non soltanto tra studiosi e addetti ai lavori ma anche all’interno degli stessi soggetti politici, abbia largamente smentito l’affermazione riguardante l’indipendenza tra i due provvedimenti: quello costituzionale (per il quale è prevista l’applicazione dell’articolo 138, sulla base del quale andremo a votare nel referendum non essendo stata raggiunta in Parlamento la quota dei 2/3 nell’approvazione definitiva) e quello elettorale, sottoposto alle procedure della legislazione ordinaria. Sul secondo invece s’insiste molto e ancora oggi si cita l’ostinazione dei legiferanti nella repubblica di Weimar nel voler difendere, nel momento della crisi della Germania alla fine degli anni ’20, nel non voler modificare quel testo costituzionale nel senso di voler aprire a un peso maggiore del Governo nei confronti del Parlamento, causando così con quella rigidità il varco che consentì a Hitler di arrivare al potere. Il “caso italiano” di oggi è ovviamente affatto diverso, anzi deve essere ricordato che i Costituenti non affrontarono il tema del “Governo Forte” proprio per evitare pericoli di un ritorno al fascismo che, in quel momento costituiva un ricordo immediato e incombente. Ed è proprio questo il tema sul quale soffermarci nello stabilire il mantenimento o meno di un certo tipo di collegamento tra la prima e la seconda parte della nostra Costituzione per cercare di capire se le deformazioni costituzionali sottoposte al voto ne incrinano o meno l’equilibrio a suo tempo stabilito con assoluta maestria legislativa e giuridica. Esiste un punto assolutamente decisivo da ricordare: quello dell’appartenenza della sovranità e degli scopi che questa sovranità è chiamata a prefiggersi. Per procedere in questo senso a un’analisi corretta è bene riportare per intero gli articoli 1 e 3 della Costituzione che, com’è ben noto, fanno parte dei principi fondamentali: Articolo 1: “ L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” Articolo 3: “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese”. A chi è affidata allora la capacità d’esecuzione di questi principi fondamentali ? Al Parlamento che, secondo il dettato dell’articolo 48 sancisce da un lato l’inviolabilità del diritto di voto e dall’altro assicura la partecipazione alla vita politica della nazione, in quanto gli elettori manifestano attraverso le loro preferenze, l’indirizzo politico e programmatico che ritengono migliore. E’ proprio su questo punto che la Costituzione afferma inequivocabilmente la centralità del Parlamento, ed è su questo punto che le deformazioni costituzionali di cui si sta discutendo compiono uno strappo inaccettabile spostando l’asse di riferimento verso il Governo e sottraendolo ai consessi elettivi. In verità questo fatto era già accaduto all’interno del sistema autonomistico con la modifica dei sistemi elettori comunale e regionale (quello provinciale è stato poi ulteriormente modificato addirittura varando l’elezione indiretta, che non incontra neppure il favore del ristretto corpo elettorale residuo se si guarda alla percentuale dei votanti nell’elezione delle Città Metropolitane). Sistemi elettorali dei Comuni e delle Regioni basati sull’elezione diretta di Sindaci e Presidenti di Regione (incautamente chiamati Governatori dai media): meccanismo che abbiamo potuto constatare ha di molto diminuito il livello dell’effettivo confronto democratico e decisionale in quelle sedi. Andando comunque per ordine: il filo rosso che lega la prima e la seconda parte della Costituzione come stabilito nel testo dell’Assemblea Costituente viene spezzato in quest’occasione attraverso alcune precise disposizioni contenute sia nel progetto di deformazione costituzionale sia nelle nuova legge elettorale: 1) Si afferma un’indebita supremazia del Governo sulla Camera, residualmente fiduciaria, intervenendo direttamente nel Calendario dell’Aula, stabilendo anticipi di discussione e tempi di approvazione per leggi che il governo giudichi di proprio interesse; 2) Si mantiene il bicameralismo, togliendo al Senato il voto di fiducia e squilibrando enormemente il rapporto numerico : da 630 deputati e 315 senatori, rimangono 630 deputati e 100 senatori (dopolavoristi: consiglieri regionali e sindaci in carica). Uno squilibrio che peserà moltissimo perché rimangono in comune di poteri di elezione del Presidente della Repubblica e della messa dello stato d’accusa dello stesso. Inoltre emerge uno squilibrio evidente nella facoltà di elezione dei membri della Corte Costituzionale: la Camera di 630 membri ne elegge 3; il Senato con 100 componenti ne elegge 2; 3) L’abnormità del premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale (con o senza ballottaggio) consegna, in pratica, il dominio dell’Assemblea a una sola lista (non sono previste coalizioni ma liste) che consegue la maggioranza assoluta e, attraverso la surrettizietà dell’elezione di un “capo della lista” elegge direttamente il Governo. Si tratta di punti già noti e dibattuti, ma vale la pena ripeterli perché è proprio in questo modo che si violano gli articoli 1, 3, 48 della Costituzione che nel loro combinato disposto affidano la sovranità popolare al Parlamento attraverso l’eguaglianza nel voto. La centralità del Parlamento viene così sostituita dalla centralità del Governo, eletto direttamente attraverso un premio di maggioranza fuori misura e che può sostituirsi agli organi della Camera nel determinare il calendario dei lavori. Sono questi gli elementi davvero in gioco con il voto del 4 Dicembre e vale la pena rifletterci bene rifuggendo dall’utilizzo di comodi aggiustamenti della realtà politica e giuridica.

lunedì 10 ottobre 2016

Franco Astengo: Territorio non governato

TERRITORIO NON GOVERNATO, GRANDI OPERE INUTILI E DANNOSE, CRISI INDUSTRIALE di Franco Astengo Infuria la battaglia sul referendum e dalla parte del SI ci si muove enfatizzando il tema della “riduzione delle poltrone e dei costi della politica”, un tema evidentemente strumentale se si vanno a vedere per davvero i conti nel merito; nello stesso tempo Renzi rilancia il Ponte sullo Stretto (preventivo del 2011: 8,5 miliardi di euro) e lo stesso governo si arrabatta sui decimali della previsione del PIL (1%, 0,8%, 0,9%) e sulla percentuale da strappare a Bruxelles al riguardo del rapporto deficit /PIL (2,4% inclusivo delle spese per migranti e terremotati?). Nel frattempo tutti gli indicatori economici guardano al rosso, la situazione delle banche appare complessivamente fortemente deficitaria e gli stratagemmi inventati per affrontarla sembrano proprio non funzionare, la bolla del job act appare proprio sgonfiata e l’insieme dei servizi e delle infrastrutture del Paese appaiono in forte ritardo per riuscire a sostenere un’ipotesi di svolta nella difficoltà di produzione industriale (alcuni dati contenuti nel rapporto dell'Unctad - la Conferenza dell'Onu su commercio e sviluppo - sull'andamento dell'economia mondiale, ha contratto di quasi un quarto (-22%) la produzione industriale italiana nel periodo 2007-2016). Intanto sotto i riflettori si colloca quello che è stato definito l’ingorgo delle grandi opere. Sono in ballo 90 miliardi, ma il giudizio è che si sceglie senza serie valutazioni ed emergono conflitti di competenza. Mentre la propaganda assicura che per la prima volta ci saranno certezze di risorse pluriennali per il riassetto idrogeologico, all’edilizia scolastica e alla manutenzione stradale e ferroviaria sorge una domanda: in che proporzione le risorse sono destinate alle diverse situazioni? Da Bruxelles, in questo senso sono stati autorizzati 4,3 miliardi (ne erano stati richiesti 5,1): andando al merito ben oltre 2 miliardi sono destinata alla banda ultralarga per velocizzare Internet (in effetti da questo punto di vista siamo alla coda di tutti i parametri internazionali) e solo il 5% va alla protezione ambientale. Se si va a vedere poi la situazione dei progetti effettivamente in corso, 2,6 miliardi, ci si accorge che quasi il 40% va alle reti trans europee con dentro i famosi corridoi ferroviari: nella sostanza alla giustamente contestatissima TAV Torino – Lione, con tutte le incognite tecniche, ambientali, di concreto utilizzo che ben conosciamo. Fonti giornalistiche autorevoli fanno presente come l’impegno dello Stato per il riassetto idrogeologico non ha mai superato i 400 milioni annui. Nella sostanza l’intervento pubblico in materia di prevenzione delle catastrofi è risultato di 1/9 rispetto ai costi dei danni provocati dalle catastrofi stesse. Nel frattempo, sempre rispetto a questa delicata materia, le Regioni indicano che sarebbe necessario investire almeno 2 miliardi l’anno per 10 anni, totale 20 miliardi soltanto per dare alla parola “prevenzione” un significato appena dignitoso. Intanto dal 2014 è stato messo in piedi un nuovo carrozzone con sede a Palazzo Chigi, Italiasicura, alla cui guida è stato collocato Erasmo De Angelis il cui principale titolo è stato quello di aver svolto il ruolo di direttore iperenziano dell’Unità. Italiasicura fa il paio, dal punto di vista delle agenzie dedicate a un presunto sviluppo con Invitalia cui è affidato il compito di intervenire nelle cosiddette aree di crisi complessa (come è nel caso della zona savonese). Si tratta di un accostamento non arbitrario quello tra Italiasicura e Invitalia. Ci troviamo infatti nel campo dei tanto invocati, ormai da tutti, investimenti pubblici. Abbiamo visto come, stiano le cose nel campo delle opere pubbliche e dell’assetto del territorio: sprechi, sovrapposizioni, priorità sbagliate. Ancor peggio nel campo dello sviluppo industriale: nessuna programmazione, nessuna analisi dei settori sui quali intervenire, situazione del tutto deficitaria nei campi decisivi: La siderurgia italiana . Nel primo semestre del 2016 la produzione di acciaio in Italia è risultata pari a 12,1 milioni di tonnellate. Rispetto al picco pre-crisi la produzione risulta ancora sotto di 27 punti percentuali (-8,5 milioni di tonnellate). Il tasso di utilizzo della capacità produttiva si è attestato intorno al 57%, 15 punti in meno rispetto alla media mondiale. Chimica: Dal 2005 a oggi l’industria chimica italiana ha perduto 20 mila posti di lavoro su 110 mila. Complessivamente : La manifattura italiana ha perso negli ultimi 6 anni ben 11,5 punti. Lo certifica l’ultima elaborazione di Eurostat, condotta sui Paesi dell’Unione Europea, da cui emerge che l’Italia, in termini di arretramento della produzione industriale, ha la quarta peggior performance, alle spalle di Portogallo (-12,8 punti), Spagna (-16,7), Grecia (-20,9). Nella sostanza emerge una doppia difficoltà: nella capacità pubblica di programmazione delle opere pubbliche e delle infrastrutture e nell’intervento sui settori industriali ancora determinanti per la prospettiva di un Paese di 60 milioni di abitanti, con la disoccupazione all’ 11,3% (40% quella giovanile), con un indice di povertà assoluta al 6,1% , indice cresciuto in 12 mesi dello 0,4%. Sono questi gli esiti concreti della vigente attività di governo e della politica economica dell’Unione Europea, in un quadro internazionale caratterizzato soprattutto dalla ripresa bellica nelle aree più difficili del mondo e da un fenomeno imponente e drammatico di migrazione e in una situazione interna caratterizzata da un indice di corruzione così riassumibile : Anche nel 2015 l’Italia resta al penultimo posto nella classifica europea dei Paesi con il più basso grado di corruzione percepita. Oppure, leggendo la graduatoria al contrario, è seconda per inquinamento del malaffare nel settore pubblico. Sempre percepito, giacché il dato reale non è calcolabile. Peggio di noi sta solo la Bulgaria, mentre lo scorso anno era la Romania. E’ ciò che emerge dal rapporto 2016 stilato da Transparency International. Altro che riduzione dei costi della politica ! Intanto si invitano i pensionandi di 63 anni ad accendere mutui ventennali per riuscire ad arrivare alla quiescenza e, per finanziare banche e assicurazioni (come nel caso sopraesposto) si studiano piani di risparmio individuale (PIR) da investire in “minibond” che dovrebbero essere utilizzati come “finanziamenti” per la PMI senza alcuna precisazione di criteri, priorità, garanzie. Pasticci, viene da suggerire, nient’altro che pasticci. Assetto del territorio, infrastrutture, industria, corruzione: quattro pilastri che indicano tutta la negatività dello stato di cose concrete in questo disgraziato Paese, inserito in un’Europa dove sta aprendosi un conflitto dai contorni prevedibilmente drammatici tra Est e Ovest.

domenica 9 ottobre 2016

Mort du PSOE? - Telos

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Dopo l'euro il diluvio? - SOLDI E POTERE - Blog - Repubblica.it

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Renzi’s ‘Anti-Austerity’ Charade And The Truth About Italy’s Deficit

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Policy Network - The future of progressive politics

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PES: Guterres is the right man for the job - Party of European Socialists

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Le ragioni del No - nuovAtlantide.org

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Intellettuali del bel paese dove il sì suona - micromega-online - micromega

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Momentum: As we celebrate our first birthday, the only people who should feel threatened by us are the Tories | LabourList

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Che succede se usciamo dall’euro? | Keynes blog

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Ferdinando Imposimato - Il Ponte

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Nessun allarmismo per l’esito del referendum italiano « gianfrancopasquino

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Fabian Society » Labour and the nation 

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Cari compagni ed amici del Pd, benvenuti nella destra.

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Referendum: perché Napolitano adesso striglia Renzi?

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What's Left for Brazil? | Dissent Magazine

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Franco Astengo: Banche

BANCHE. ANCORA INTERROGATIVI di Franco Astengo Il tema delle banche è sicuramente quello più scottante in questa fase così delicata per l’economia a livello europeo e interno. Notizie giornalistiche di oggi riprendono temi già in discussione da tempo e fanno sorgere interrogativi, credo legittimi soprattutto per chi, in questo campo, non è particolarmente ferrato al riguardo delle tecnicalità più sofisticate. Titola oggi “La Repubblica” a pagina 27: “Niente tasse a chi investe nelle PMI per rilanciare l’economia reale”. Fin qui apparentemente tutto bene. Passiamo all’occhiello: “Il Tesoro prepara gli sgravi fiscali per i sottoscrittori dei Pir, Piani Individuali di risparmio, creati da banche, assicurazioni e sgr per prodotti dedicati alle piccole medie imprese”. Qui sorge l’inghippo, meglio rivelato leggendo l’articolo. A un certo punto: “Non si tratterà, infatti, di un investimento diretto – che sarebbe peraltro rischiosissimo – ma con la mediazione di un intermediario autorizzato alla sollecitazione di pubblico risparmio. Quindi banche, assicurazioni, sgr, che dovranno costituire strumenti ad hoc, finalizzati agli investimenti nelle PMI”. Prescindendo dal fatto che questi “intermediari autorizzati” sono gli stessi che hanno riempito il Paese di derivati, SWAP, titoli tossici combinando i capolavori di MPS, CARIGE, Banca Etruria, Banca Marche e via discorrendo andiamo avanti nella lettura comprendendo che nel pacchetto sono compresi fondi specializzati (e forse chiusi), gestioni di patrimoni individuali, polizze a capitalizzazione e persino conti di deposito collegati a fondi. Il meccanismo di collegamento sarebbe rappresentato dalla sottoscrizione di azioni e probabilmente anche da minibond. L’occhio di riguardo, in questo senso, è rivolto ad AIM. Di che cosa si tratta: è il mercato di Borsa Italiana dedicato alle piccole e medie imprese italiane che vogliono investire nella loro crescita. AIM non è certo uno strumento di economia reale, questo pare acclarato. Quindi un altro strumento di borsa basato sulla speculazione: i sapientoni che hanno guidato l’economia italiana alle perfomance speculative di questi anni restano sempre in sella. Mancano tutta una serie di dati ancora da definire: il periodo nel quale il risparmiatore dovrà tenere in portafoglio lo strumento finanziario adottato (si parla di 5 anni: quindi esentasse per tutto il periodo?), non è definita la misura di “specializzazione” della PMI che potrà usufruire d’investimenti dedicati e altre sottigliezze. Alla fine dell’articolo si leggono poi gli interrogativi, legittimi, e sui quali si base anche parte della nostra segnalazione : “Il punto chiave sarà evitare che nascano Piani di Risparmio da cui sia difficile uscire (se non con perdite) a causa della scarsa liquidità degli asset sottostanti (minibond o azioni di società non quotate”. In questa frase si tocca il vero punto dolente: la debolezza di un’economia non programmata, lasciate alle scorribande più varie, fondata sull’esentasse per gli speculatori, priva di fondamento reale legato a un piano industriale serio, alla creazione di lavoro duraturo. Senza lavoro non ci può essere economia concreta. Questa situazione non è minimamente affrontata dalla politica e dalle istituzioni, ma anzi aggravata dal promuovere, come nel caso in questione. questa ricerca della speculazione per la speculazione che si verifica in più nel momento di maggior debolezza del sinistrato sistema bancario italiano condotto per decenni da pericolosi intrecci familistici: ma, forse, è su questo punto e non tanto sulle riforme costituzionali, che si sente il peso di Verdini sulla scena politica, quale rappresentante di queste espressioni meramente speculative, pronte a far tesoro privato dall’aver provocato enormi perdite collettive.

Franco Astengo: No nel referendum e progetto politico

NO NEL REFERENDUM E PROGETTO POLITICO DI SINISTRA di Franco Astengo Il commissario europeo (socialista francese) Pierre Moscovici è stato, assieme, offensivo e stimolante nella sua inopinata dichiarazione a favore del “SI” nel referendum italiano sulle deformazioni costituzionali. Offensivo perché quella tra populisti e anti – populisti (o europeisti) è falso e fuorviante: dalla parte del SI’, infatti, stanno quanti hanno contribuito, in questi anni, con una politica antipopolare d’impoverimento generale, di ulteriore precarizzazione del mondo del lavoro, di sottrazione di diritti attuata in nome dell’UE dei banchieri di Francoforte e dei reggitori della coda del capitalismo di Bruxelles, in un quadro di abbruttimento politico in atto in molti paesi della storditamente allargata in Unione. Abbruttimento politico che si realizza sul delicatissimo tema dei migranti e arriva a esiti para – fascisti. Dalla parte del NO si colloca sicuramente uno schieramento molto ampio e variegato, sia dal punto di vista politico sia nella rappresentatività culturale e sociale e diventa così naturale che ciascuno dei suoi componenti tenda a dimostrare le proprie ragioni evidenziando, quando possibile, un’identità. In quest’ambito è evidente che soffriamo tutti dell’assenza di soggettività organizzate, di partiti, all’altezza di proporre una campagna elettorale conseguente alle esigenze di visione complessiva e di organizzazione sul territorio come sarebbe necessario. Mi pare allora che sia il caso di raccogliere la provocazione dell’economista (sic) francese. E’ necessaria all’interno dello schieramento del NO una presenza chiaramente orientata sul terreno della sinistra di opposizione e di alternativa, sia nell’ambito UE sia in quello interno. Uno schieramento di sinistra che si raccolga e si confronti quale presupposto per un progetto compiutamente politico. Riprendo, quindi, ancora una volta una proposta che mi ero permesso di avanzare nelle settimane scorse. Sono molti i soggetti in campo all’interno di quest’area che definisco per brevità di “opposizione per l’alternativa”: sarebbe utile avviare subito un confronto di merito e fissare un appuntamento nazionale. Debbono emergere tre punti distintivi dai quali far partire il dibattito: 1) Nel merito del referendum: un “NO” motivato proprio dalla necessità di riaffermare con forza l’essenza parlamentare della Repubblica Italiana così come codificata dall’Assemblea Costituente nel testo della Costituzione con un nesso preciso, sotto quest’aspetto, tra prima e seconda parte con relativa ispirazione della non costituzionalizzata legge elettorale proporzionale; 2) Deve essere nuovamente introdotta, nella storia del complesso percorso della sinistra italiana, una concezione della soggettività politica intesa come collettivo e non come somma degli individualismi, puntando alla ricostruzione del “blocco storico” da realizzarsi proprio attraverso una riunificazione delle categorie d’uso della politica in relazione al complesso delle contraddizioni sociali. 3) L’obiettivo deve essere quello di costruire una soggettività politica capace di esprimersi attraverso la promozione di un processo storico reale inteso quale fondamento per una soluzione non semplicisticamente speculativa del rapporto d’implicazione tra economia, politica, storia e realizzando così un riferimento, anche organizzativo e istituzionale, propositivo di una concreta volontà egemonica. In tempi rapidi servirebbe allora un momento di confronto fra tutti i soggetti e le individualità politiche interessate a un progetto di questo tipo in modo da realizzare, già nel corso della campagna elettorale a favore del “NO” una presenza chiaramente riconoscibile quale espressione di un progetto politico. Appare evidente, infine, che non è sufficiente un’ipotesi di ricostituzione di un partito comunista posta esclusivamente in base al perseguimento di una tradizione storica e del modello del partito ad integrazione di massa, che rimane comunque di riferimento importante. L’ ipotesi di ricostruzione di un partito comunista abbisogna di una profonda riflessione spostata sulla ricerca di una maggiore intensità nella radicalità di progetto e di un più ampio spettro di coinvolgimento rivolto sia ai percorsi di soggettività politica, sia di movimento