venerdì 30 settembre 2016

Where Now for Italy And the EU? A Conversation With Matteo Renzi

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Spagna. Il calendario dell’azzardo di Pedro Sanchez | Q CODE Magazine

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Policy Network - The Future of Socialism 60 years on

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In otto punti le ragioni del NO - nuovAtlantide.org

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La tragedia di Abdelsalam e il lavoro al tempo del Jobs Act - micromega-online - micromega

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La verità sul referendum - micromega-online - micromega

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Con chi va l’Italia in un’Europa divisa?

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È Deutsche Bank la bomba sotto la sedia del capitalismo | Keynes blog

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Quell’Italicum che tutti (non) vogliono cambiare | P. Balduzzi

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Jeremy Corbyn says Labour must 'end trench warfare' and beat the Tories | Left Foot Forward

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giovedì 29 settembre 2016

L’Europa si sbriciola e l’Italia paga il conto - Il Sole 24 ORE

L’Europa si sbriciola e l’Italia paga il conto - Il Sole 24 ORE

Il Governo costretto ad un passo indietro sull'acqua: sì a stralcio da decreto servizi pubblici | Global Project

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SHIMON PERES, QUANDO ANCHE I PERDENTI POTEVANO FARE LA STORIA - GLI STATI GENERALI

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facciamosinistra!: Lavorare ancora per la rivoluzione politica. Intervista a Bernie Sanders

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Andrea Ermano: Rompicapo

EDITORIALE Avvenire dei lavoratori Rompicapo curioso e raro C'è un passaggio, curioso e raro, nell'intervista rilasciata ieri da Carlo De Benedetti al Corriere, un passaggio in cui l'intervistatore domanda all'Ingegnere se, per trovare i soldi necessari ad abbattere le imposte sul lavoro e a rilanciare la crescita, non ci voglia una patrimoniale... Una patrimoniale?!? di Andrea Ermano Già se n’era parlato, in effetti, di patrimoniale alcuni anni fa, ma ormai neppure questo basterebbe più. Ai patrimoni dovrebbero aggiungersi, secondo l’Ingegnere, anche i grandi redditi ("non da lavoro"). E non è tutto. Anzi, non è ancora niente. Il punto vero sta là dove, con scarto repentino, l'intervistato aggiunge che "l’energia umana è molto più importante del petrolio". Vi domandate che cosa c'entra qui il petrolio? Qui l’intervistato ci soccorre con un "esempio", l'esempio di Israele, un Paese dove c'è "un’intelligenza per centimetro quadrato che non esiste in nessun’altra parte del mondo; con il servizio militare che serve a educare i cittadini, a farli studiare, a formarli all’uguaglianza. Un Paese naturalmente socialista". Curioso e raro rompicapo! Ricordate quel che insegnava Umberto Eco e cioè che, quanto più infrequente appare una certa sequenza di parole, tanto più elevato risulterà il suo contenuto d'informazione? Ebbene, se questo è vero, bisogna allora ammettere che il passo merita una certa applicazione. Perché in esso si manifesta, dall'interno della classe dirigente italiana, un sorprendente cambio di paradigma a fronte della catastrofe cui ci sta conducendo la globalizzazione neo-liberale. Carlo De Benedetti: "In gioco la sopravvivenza della democrazia" "L'Occidente è a una svolta storica. È in gioco la sopravvivenza della democrazia", dice De Benedetti. In effetti assistiamo alla distruzione dei ceti medi, nella prospettiva del vedersi avverare la previsione di Larry Summers, ex segretario al Tesoro di Clinton: "Stagnazione secolare". Il che può mettere seriamente a rischio la pax europaea uscita dalla Seconda guerra mondiale: "In Francia non si può escludere che diventi presidente Marine Le Pen. Il padre non poteva farcela: troppo legato a Vichy e all’Algeria francese; lei sì. Hollande si è sciolto al sole, Sarkozy è un déja-vu che i francesi non vogliono più. La Spagna è senza governo da un anno, il Portogallo in bilico, la Grecia è ancora lì perché nessuno ha interesse a fare davvero i conti. In Polonia vige un nazionalismo di destra. L’Ungheria è già passata all’estrema destra, l’Austria no, ma solo grazie alla colla delle buste che ha causato il rinvio delle presidenziali. Una situazione da anticamera del fascismo". Ci troviamo in una situazione da anticamera del fascismo?! E, se sì, basterebbe allora una patrimoniale? Certo, il premier Renzi – quando avrà auspicabilmente perso il referendum costituzionale, venendo per altro rispedito dal Capo dello Stato di fronte alle Camere per chiedervi un rinnovo della "fiducia" – farebbe anche bene a licenziare una grande operazione di verità fiscale focalizzata sulle grandi ricchezze e finalizzata ad alleggerire la pressione contributiva che grava sul lavoro. Ma non sarebbe che l'inizio. Perché di qui in poi occorrerebbe davvero guardare all'esempio d'Israele che, grazie all'energia dell'intelligenza umana e pur privo di significative risorse naturali, è riuscito a raggiungere un elevato standard di benessere, di crescita e di democrazia. In tal proposito De Benedetti pone in evidenza lo strumento egualitario dell'esercito israeliano in "un Paese naturalmente socialista". Evviva il Socialismo. Troppa grazia. E però ci si contenterebbe anche con meno, in questa nostra Italia attuale, la cui Costituzione per inciso "ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali" (Art. 11). A che cosa ci servirebbe l'esercito israeliano? Con tutto il rispetto, ci basterebbe introdurre una leva civile, dato che le varie "emergenze" da noi sono sismiche, idro-geologiche, migratorie ecc. Su di esse il Mercato per altro continua una sua splendida latitanza (c'è ben poco da arricchirsi evitando inondazioni). Un servizio civile (obbligatorio e universale, come lo immaginava Ernesto Rossi nel suo saggio "Abolire la miseria") offrirebbe il punto archimedeo su imperniare anche un discorso serio – cioè fatto di diritti e doveri – circa il reddito di cittadinanza. Lo stesso, fatte le debite proporzioni, dicasi a livello continentale, dove servono migliori rapporti di comunicazione e coordinamento tra le forze armate esistenti, ma certo non i grandi eserciti europei di cui tanto si favoleggia ultimamente (fermo restando che per noi è sempre valida l'esortazione di Sandro Pertini: "Svuotate gli arsenali, riempite i granai!"). Anche l'UE si gioverebbe non poco dall'istituzione di un servizio civile europeo all'interno del quale poter ricombinare esperienze di formazione, quali l'Erasmus, con la solidarietà sociale e il lavoro di pronto intervento ovunque esso sia necessario. Soprattutto, una grande organizzazione del servizio civile europeo potrebbe rivelarsi lo "strumento degli strumenti" più adatto a valorizzare l'energia umana delle giovani generazioni umiliate e offese per causa di una disoccupazione strutturale dilagante.

L’utopia latina di Hobsbawm - Eddyburg.it

L’utopia latina di Hobsbawm - Eddyburg.it

Franco Astengo: Progetti pensionistici

PROGETTI PENSIONISTICI SULLA PELLE DELLE ITALIANE E DEGLI ITALIANI: COMUNICAZIONE E MISTIFICAZIONE di Franco Astengo Sono solo proposte avanzate verbalmente, neppure sulla carta di progetti legislativi, ma quanto è stato discusso tra Governo e Sindacati sul terreno delicatissimo delle pensioni è già oggetto da parte degli organi d’informazione di una vera e propria campagna di mistificazione. La realtà viene nascosta da titoli devianti rispetto alla realtà che nascondono i diversi progetti di provvedimento. Prendiamo ad esempio, ma soltanto come esempio, le due pagine che Repubblica dedica all’argomento. Il titolo in alto recita : Pensioni a 63 anni e minime più alte. Governo e sindacati firmano l’accordo”. E il catenaccio: “Sei miliardi alla previdenza in un triennio. No tax area, tutele per i lavoratori precoci”. Qual è la realtà di partenza, tanto per cominciare? L'età media all'incasso del primo assegno Inps, in particolare, è aumentata di tre anni per le pensioni di vecchiaia (dai 62,5 del 2009 ai 65,6 del 2014) e di quasi un anno per quelle di anzianità (dai 59 anni ai 59,9 anni). Il bilancio sociale 2014 presentato da Tito Boeri mostra la difficile situazione in cui si trovano molti pensionati. Quasi un pensionato su due, il 42,5%, pari a circa 6,5 milioni d’individui, percepisce un reddito pensionistico medio inferiore a mille euro mensili. Tra questi, il 12,1% non arriva a 500 euro al mese. E le sorprese non finiscono qui perché l’Inps ha comunque il bilancio ancora in rosso. Il saldo tra entrate e uscite evidenzia un disavanzo complessivo di 7 miliardi, benché nel 2014 abbia erogato 20.920.255 pensioni, tra cui 17.188.629 pensioni previdenziali, ossia invalidità, vecchiaia e superstiti, per circa 243,514 miliardi di euro e 3.731.626 pensioni assistenziali. Il reddito medio più basso è dei pensionati residenti al Sud: 1.151 euro; al Nord si sale a 1.396 euro, mentre al Centro si arriva a 1.418 euro. Questa dunque sommariamente la situazione di partenza. Entriamo ora nel dettaglio dell’attualità. Sotto il titolo “L’anticipo pensionistico, via dal lavoro prima con il prestito” è presentata l’APE : punto d’intesa, del resto, che rimane ancora del tutto aperto. A parte i lavoratori che le aziende mettono fuori per ristrutturazioni o riorganizzazioni (accollandosi però anche il costo dell'Ape) e quelli che rientrano nell'Ape sociale, tutti gli altri - la stragrande maggioranza dei 350 mila potenziali italiani interessati all'Anticipo pensionistico - dovranno pagare di tasca propria la possibilità di ritirarsi sino a tre anni prima. Quanto? Secondo alcune simulazioni, come quelle di Progetica, anche un quarto del futuro assegno previdenziale (quello che s’incassa dal compimento dei 66 anni e 7 mesi, il requisito di legge per andare in pensione). Con una postilla non da poco: la metà della futura rata andrà a ripagare banche e assicurazioni, dunque il sistema finanziario che di fatto rende fattibile l'intera operazione, altrimenti impossibile alla nostra finanza pubblica. L’ipotesi più probabile è quella di una ridottissima funzione dell’APE in quanto pochissimi potranno usufruirne restando in possesso di un assegno degno di questo nome. Così com’è accaduto per la previdenza complementare. In Italia la partecipazione alla previdenza complementare appare ancora limitata. A fine 2015 gli iscritti ammontavano a circa 7,3 milioni e le risorse destinate alle prestazioni avevano raggiunto i 139 miliardi di euro; si tratta di un valore pari a circa l’8,1% del Pil e il 3,3% delle attività finanziarie delle famiglie italiane. Il tasso di adesione risulta pari al 25,6% rispetto alla forza lavoro e al 29,5% rispetto agli occupati. Per i dipendenti del settore privato il tasso di adesione supera il 33%, con valori diversificati per dimensione aziendale. Si stima un valore prossimo al 50% nelle imprese con almeno 50 addetti che scende al 20% nelle imprese di minore dimensione. Su questo elemento risiede un altro punto di mistificazione giornalistica: il titolo è “Sgravi fiscali sull’assegno integrativo”. Ma, come abbiamo visto, questo riguarda soltanto una parte molto limitata della platea interessata all’universo pensionistico. Addirittura si prevede che chi richiede l’APE potrà affiancare questa richiesta con l’anticipo dell’altra pensione, quella integrativa usufruendo di una “riduzione” non precisata sul piano fiscale. Tassazione che, nel frattempo, il governo Renzi ha innalzato dall’11,5 % al 20%. Terzo passaggio: una mensilità in più per 3,3 milioni (sempre seguendo il titolo di Repubblica) La famosa “quattordicesima”. Per chi si colloca al di sotto dei 750 euro mensili non ci sarà il raddoppio dei 40 euro, bensì, come ha fatto intendere il sottosegretario Nannicini il 30% di aumento, quindi 12 euro in più, che per fare “sciato” saranno versati in unica soluzione. Nella sostanza gli assegni in più, versati a luglio, corrisponderanno (su pensioni collocate tra i 750 e i 1000 euro al mese) a una fascia di 446 euro (15 anni di contributi), 546 (25 anni), 655 (più di 25 anni). Infine,la questione della “no tax area” che salirà fino agli 8.125 euro annui (625 euro al mese) soltanto per gli “over 74”: una platea molto limitata, se andiamo a vedere le cifre complessive delle pensioni al di sotto della soglia. Senza dimenticare la questione degli esodati: siamo ormai all’ottava salvaguardia che così si configura: 1) 1.542 esodati con una contribuzione insufficiente per il diritto alla pensione; 2) 1.779 sprovvisti di una delle condizioni accessorie previste dai singoli provvedimenti; 3) 14.010 non ammessi alle precedenti tutele per via del fatto che maturano tardivamente il diritto all’assegno previdenziale. Si tratta di: 3.099 con decorrenza fra il 7 gennaio 2017 e il 2018 e ulteriori 10mila che maturano l’assegno fra il 2018 e il 2045. Ammontano a circa una decina i lavoratori che hanno decorrenza oltre il 2030, la maggioranza infatti (si parla di 9mila esodati) l’ha entro il 2025. Per quel che riguarda gli esodati il tema della decorrenza della pensione costituisce una questione centrale Proprio su questo aspetto il nuovo intervento di ottava salvaguardia dovrebbe allungare la rete. Il disegno di legge presentato alla Camera, e come detto ora in attesa in commissione Lavoro, prevede di tutelare all’incirca 32mila esodati, quelli che maturano la pensione entro il 2019, nonostante la decorrenza dell’assegno sia successiva a questa stessa data. Si ricorda inoltre che la liquidazione del trattamento pensionistico è stata completata nell’estate appena trascorsa per la seconda salvaguardia . Questo quadro, fatto di piccole cifre per chi ci vive a stento e per di più presi in giro da chi calcola il proprio guiderdone nell’ordine delle migliaia di euro immessi nella cerchia del “sempre meglio che lavorare” si colloca in una situazione generale così composta: Disoccupazione giovanile. 37,9% in Italia, in Europa la media è del 22% In generale : a luglio il tasso di disoccupazione all’11,4%, Nel 2015 il dato di povertà assoluta ha coinvolto il 6,1% delle famiglie. Inoltre e davvero infine Il rapporto realizzato dall'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha mostrato come nella maggior parte dei Paesi la disuguaglianza di reddito abbia raggiunto livelli record. Secondo il rapporto, nei 34 Paesi membri dell'Ocse il dieci per cento più ricco della popolazione ha un reddito corrispondente a 9.6 volte quello del 10 per cento più povero. In Italia il 21 per cento più ricco della popolazione detiene il 60 per cento della ricchezza del Paese, mentre il 40 per cento più povero ne controlla solamente il 4.9 per cento. Una differenza, stando ai dati, accentuata soprattutto dalla crisi economica: tra il 2007 e il 2011, il 10 per cento più povero degli italiani ha perso il 4 per cento della ricchezza, contro l'1 per cento perso dal 10 per cento più ricco. Le disuguaglianze del reddito non riflettono tanto il tasso di disoccupazione, quanto piuttosto la dispersione salariale, ovvero la differenza di salario tra persone che svolgono simili impieghi. Dati che non richiedono commento di sorta. Intanto ci si balocca con le favole del turismo, del cibo, del ponte sullo Stretto, delle Olimpiadi in un Paese privo di piano industriale, incapace di una seria politica di intervento pubblico. Un paese dove l’evasione fiscale si situa a livello stratosferici : secondo il Rapporto sull’evasione fiscale 2014 pubblicato ministero dell’Economia basato su dati Istat, l’entità del sommerso nazionale nel 2008 oscillava tra i 255 e i 275 miliardi di euro, cifre che in percentuali rappresentano il 16,3% e il 17,5% del PIL. Un paese dove Cantone proibisce di parlare di corruzione e invece: Nella ventunesima edizione del CPI, l’Italia si classifica al 61° posto nel mondo, così l’Italia rimane ancora in fondo alla classifica europea, seguita solamente dalla Bulgaria e dietro altri Paesi generalmente considerati molto corrotti come Romania e Grecia, entrambi in 58° posizione con un punteggio di 46. Un Paese nel quale la presenza della criminalità organizzata appare evidente: mafia, n’drangheta, camorra, sacra corona unita così come l’allargamento delle attività economiche coperte da parte di queste organizzazioni ben al di fuori dei territori di riferimento tradizionale. In realtà, tornando al tema pensionistico, ci sarà un trascinamento propagandistico che arriverà al 4 Dicembre, data del referendum, poi il tutto si dileguerà come neve al sole com’è stato nel caso del Job Act, senza dimenticare il fallimento dell’operazione anticipo del TFR in busta paga.

Labour, Corbyn fa il bis | cambiailmondo

Labour, Corbyn fa il bis | cambiailmondo

Vincenzo Visco: Renzi sta sbagliando, così non si aggancia la ripresa

VISCO. Manifesto. 29.9.16.pdf

Tony Blair's Eternal Shame

Geoffrey Wheatcroft OCTOBER 13, 2016 ISSUE The Report of the Iraq Inquiry by a Committee of Privy Counsellors chaired by Sir John Chilcot London: HMSO, 12 vols, 6,275 pp., available at www.iraqinquiry.org.uk/the-report/ Not the Chilcot Report by Peter Oborne Head of Zeus, 179 pp., £10.00 Broken Vows: Tony Blair: The Tragedy of Power by Tom Bower Faber and Faber, updated edition, 673 pp., £9.99 (paper) George W. Bush and Tony Blair at a joint press conference at Hillsborough Castle, near Belfast, Northern Ireland, April 2003 Charles Ommanney/Contact Press Images George W. Bush and Tony Blair at a joint press conference at Hillsborough Castle, near Belfast, Northern Ireland, April 2003 How did it happen? By now it is effortless to say that the invasion of Iraq in 2003 by American and British forces was the most disastrous—and disgraceful—such intervention of our time. It’s also well-nigh pointless to say so: How many people reading this would disagree? For Americans, Iraq is their worst foreign calamity since Vietnam (although far more citizens of each country were killed than were Americans); for the British, it’s the worst at least since Suez sixty years ago this autumn, though really much worse on every score, from political dishonesty to damage to the national interest to sheer human suffering. Although skeptics wondered how much more the very-long-awaited Report of the Iraq Inquiry by a committee chaired by Sir John Chilcot could tell us when it appeared at last in July, it proves to contain a wealth of evidence and acute criticism, the more weighty for its sober tone and for having the imprimatur of the official government publisher. In all, it is a further and devastating indictment not only of Tony Blair personally but of a whole apparatus of state and government, Cabinet, Parliament, armed forces, and, far from least, intelligence agencies. Among its conclusions the report says that there was no imminent threat from Saddam Hussein; that the British “chose to join the invasion of Iraq before the peaceful options for disarmament had been exhausted”; that military action “was not a last resort”; that when the United Nations weapons inspector Hans Blix said weeks before the invasion that he “had not found any weapons of mass destruction and the items that were not accounted for might not exist,” Blair wanted Blix “to harden up his findings.” The report also found that deep sectarian divisions in Iraq “were exacerbated by…de Ba’athification and…demobilisation of the Iraqi army”; that Blair was warned by his diplomats and ministers of the “inadequacy of U.S. plans” for Iraq after the invasion, and of what they saw as his “inability to exert significant influence on U.S. planning”; and that “there was no collective discussion of the decision by senior Ministers,” who were regularly bypassed and ignored by Blair. And of course claims about Iraqi WMDs were presented by Downing Street in a way that “conveyed certainty without acknowledging the limitations of the intelligence,” which is putting it generously. Chilcot stops short of saying directly that the invasion was illegal or that Blair lied to Parliament, but he is severe on the shameful collusion of the British intelligence agencies, and on the sinister way in which Blair’s attorney general changed his opinion about the legality of the invasion. Planning and preparations for Iraq after Saddam “were wholly inadequate,” Chilcot says, and “the people of Iraq have suffered greatly.” Those might seem like statements of the blindingly obvious, as does the solemn verdict that the invasion “failed to achieve the goals it had set for a new Iraq.” It did more than merely fail, and not only was every reason we were given for the war falsified; every one of them has been stood on its head. Extreme violence in Iraq precipitated by the invasion metastasized into the hideous conflict in neighboring Syria and the implosion of the wider region, the exact opposite of that birth of peaceable pro-Western democracy that proponents of the invasion had insisted would come about. While Blair at his most abject still says that all these horrors were unforeseeable, Chilcot makes clear that they were not only foreseeable, but widely foreseen. Nor are those the only repercussions. Chilcot coyly says that “the widespread perception”—meaning the correct belief—that Downing Street distorted the intelligence about Saddam’s weaponry has left a “damaging legacy,” undermining trust and confidence in politicians. It is not fanciful to see the Brexit vote, the disruption of the Labour Party, and the rise of Donald Trump among those consequences, all part of the revulsion across the Western world against elites and establishments that were so discredited by Iraq. And so how could it have happened? By now the war has produced an enormous literature, including several official British reports, beginning with the Hutton Report of January 2004 and the Review of Intelligence on Weapons of Mass Destruction the following July after an inquiry chaired by Lord Butler, a former Cabinet secretary. While its criticism of named individuals was muted, it built up a dismal story of incompetence and official deceit. One member of Butler’s panel, which took no more than five months to hear evidence and report, was John Chilcot, a retired senior civil servant who had worked in the Home Office and with the intelligence agencies. On June 15, 2009, Gordon Brown, who had succeeded Blair as prime minister two years earlier, told Parliament that “with the last British combat troops about to return home from Iraq, now is the right time to ensure that we have a proper process in place to enable us to learn the lessons of the complex and often controversial events of the last six years,” and he announced a new inquiry, chaired by Chilcot. In those two years, everything had gone wrong for Brown, from continuing violence in Iraq to financial collapse, and his plain purpose was to push the matter aside and distance himself from his predecessor. One of the comic subplots of this unfunny story is the way that Brown, as throughout his career, always tried to avoid being associated with contentious questions or difficult decisions. “For when they reach the scene of crime—Macavity’s not there!,” nor James Gordon Brown if he could help it. Chilcot mentions that Brown would sometimes send Mark Bowman, his private secretary, to meetings concerned with Iraq in his place, in the hope he could avoid personal responsibility. So it was characteristic that when Brown first assigned Chilcot to lead the inquiry, it was to be held in camera, with as little publicity as possible. But parliamentary and public outcry put a stop to that, and Chilcot began his hearings in public view. They could all be followed, and then accessed online, and this has already been made use of by Peter Oborne for Not the Chilcot Report, a concise assessment, carefully sourced, that appeared before the report itself, and Tom Bower, whose Broken Vows is a full-dress assault on every part of Blair’s record. That includes a hair-raising account of his wildly profitable financial career since leaving office, but the book’s most startling contribution to the Iraq debate is the number of attributed quotations from former very senior government officials who belatedly criticize Blair and a war which, it must be remembered, he had begun by ignoring all professional advice from anyone who knew anything at all about the subject. A Foreign Office authority on Iraq who pleaded with him that, from all previous experience, the invasion would likely be fraught and possibly calamitous, was dismissed by Blair: “That’s all history, Mike. This is about the future.” Over seven years, much has been done to obstruct the inquiry. Sir Jeremy Heywood, the present Cabinet secretary, deplorably tried to protect Blair, and although much of what Blair wrote to Bush in the year before the war has been published, Bush’s side in the correspondence has been withheld. In any case there was the ludicrous process of “Maxwellization,” by which anyone criticized adversely in an official report is shown the criticisms before publication and allowed to respond. This dates back nearly fifty years to a legal challenge to such a report by the crooked publisher Robert Maxwell; that such a process should still be named after the greatest scoundrel to disfigure British public life in our time suggests that it could usefully be reexamined. Scarcely any individual or even institutional buyer is likely to acquire the twelve printed volumes of the report, although every family of the 179 British service personnel who died in Iraq is being presented with a set, for what consolation that may be, while the entire report is freely available online. Nor are many likely to read all 2.6 million words of it, but the 62,000-word executive summary is well worth reading. It illuminates once more, but very clearly, the yawning gulf between what Blair was saying publicly in the year before the war to Parliament, and even to his own Cabinet, and what he was saying in private to Bush. Hence the anger with which the press pounced on Blair’s letter to Bush on July 28, 2002: “I will be with you, whatever.” It has taken some people a long time to grasp this. The story falls into place when those words are read in conjunction with the Downing Street Memo written in the greatest secrecy five days before Blair’s promise of fealty, in which Sir Richard Dearlove, the head of MI6, the Secret Intelligence Service, reported on his recent talks in Washington. “Bush wanted to remove Saddam,” the memo said, “through military action, justified by the conjunction of terrorism and WMD. But the intelligence and facts were being fixed around the policy.” While the spread of nuclear weapons was plainly a problem, Iraq was far from the gravest threat. Sir William Ehrman, Foreign Office director of international security in 2000–2002, told Chilcot that the nuclear programs of Iran, Libya, and North Korea were “maturing” and were “probably of greater concern than Iraq,” not to mention Pakistan, where A.Q. Khan, then nuclear program director, was operating something like a mail-order system in nuclear know-how, and had supplied uranium-enriching equipment to Libya. WMDs might have been a plausible reason for invading Pakistan, just as Islamist terrorism might have been a plausible reason for invading Saudi Arabia, which had fostered al-Qaeda and from which most of the September 11 murderers came, but neither made any sense at all as reasons for invading Iraq. President Bush and Prime Minister Blair at Hillsborough Castle, April 2003 Nick Danziger/Contact Press Images President Bush and Prime Minister Blair at Hillsborough Castle, April 2003 At the time the war began, Sir Jeremy Greenstock was British ambassador to the United Nations. He said on BBC radio some weeks ago, “Hans Blix told me privately, ‘I don’t know that they’ve got them and I don’t know they’ve not got them,’” which was the simple truth, and is perfectly congruent with Blix’s saying then that his inspection regime was working and needed more time. But Blair knew that the approaching war was unwanted and unpopular in his country: a poll on January 21 found 30 percent for war, 42 percent against. Aware that he could not take a reluctant Parliament and country to war on the basis that “we don’t know they’ve not got them,” he had little choice but to dissemble and mislead. “I wouldn’t call it a lie,” says Andrew Turnbull, the Cabinet secretary at the time of the invasion, quoted by Bower. “‘Deception’ is the right word. You can deceive without lying, by leaving a false interpretation uncorrected.” Most of us would call that a distinction without a difference, but few who read Chilcot attentively will doubt that the brew of exaggeration, distortion, misrepresentation, suggestio falsi, and suppressio veri that was Blair’s case for war was anything other than mendacious. What Blair knew well was that the Bush administration was determined to destroy Saddam, whether he possessed weapons of mass destruction or not. The purpose of the war was regime change for its own sake, even if in defiance of international law and the United Nations. And Blair’s great deception—his true crime—was not his September 2002 “dossier” and all the other claims about WMDs as such, false as those claims proved to be. It was his larger case, kept up for the best part of a year, that he had not committed the country to war, when privately he had. For the British, this was the end of a long story, from the defeat of a British army by the Turks south of Baghdad in 1916, to the creation after that war—and then pacification by bombing—of a new country called Iraq, supposedly a friendly regime with Sunni Hashemite princes ruling a Shiite majority as well as Kurds, in which respect Saddam was the princes’ heir. After he invaded Kuwait in 1990, the British joined the campaign to expel him, led by President Bush the Elder but crucially with authorization by Security Council resolutions, and supported by Saudi Arabia as well as France among others. At that time Blair was a rising politician still in his thirties and the Labour spokesman on employment. Until he was elected party leader after the sudden death of John Smith in 1994, Blair had shown no interest at all in international politics, although just before Smith died he saw Schindler’s List. Blair “was spellbound,” he tells us, and his life was changed, though maybe not his alone. There can be no “bystanders,” Blair decided: “You participate, like it or not. You take sides by inaction as much as by action…. Whether such reactions are wise in someone charged with leading a country is another matter.” Yes, it is. After he became prime minister in May 1997, Blair found new places to take sides. He sent British troops to restore order in Sierra Leone; he urged Western action to drive the Serbs out of Kosovo, where he was welcomed as the liberator he later thought he would be in Iraq; he tried to formulate such actions in a doctrine. One of the Chilcot panel members was Sir Lawrence Freedman, a well-known historian, who contributed to Blair’s famous or notorious Chicago speech of April 1999, a speech inspired by what the jurist Phillippe Sands has called “the emotional and ahistorical interventionist instincts that later led directly to the Iraq debacle.”* Today it’s hard to recapture the mood of less than two decades ago, and the wave of adulation when Blair first entered Downing Street. Soon that adulation had washed across the Atlantic: well before The New York Times was writing about the “Blair Democrats,” Paul Berman had called Blair “the leader of the free world.” It would have gone to the head of a naturally humble man. Both Turnbull and Jonathan Powell, Blair’s erstwhile chief of staff, have spoken of his “Messiah complex,” without irony, alas: he really did come to believe that he was a new redeemer of mankind. But the crucial events took place far from London or Kosovo, in Washington in November 2000, and in New York the following September. Robin Cook was Blair’s first foreign secretary, and in March 2003, the month of the invasion, the only member of the Cabinet to resign over Iraq. In his resignation speech, he rightly said that the invasion would not be taking place if Al Gore were in the White House, and so if one wanted to say who was ultimately responsible for the war, one answer would be the Supreme Court, when it feebly awarded the 2000 election to Bush the Younger. We know that the new administration was discussing an invasion of Iraq as soon as Bush was inaugurated, urged on by the neoconservatives who had been publicly advocating a war to destroy Saddam for years past. Just what the neocons’ motives and objectives were, and those of the right-wing nationalists Dick Cheney and Donald Rumsfeld, may be debated. But one thing is certain: those motives and objectives were in no way shared by most Labour MPs and a “progressive” media in London, who were suspicious of American power and critical of Israel, who affected to revere international law, who thought that regime change as such was unlawful, and who made a cult of the virtue of the UN. To enlist their support was no easy task, but Blair was counting on the corrupt servility of his MPs as well as the supine credulity of the media, and he proved to be correct in his estimate of both. Hence the angry bafflement of those supporters, unable to contemplate the possibility that Blair might actually have had a natural affinity with Bush and the neocons, while failing also to recognize his frantic desire—somewhat at odds with the tough and decisive persona he tried to project—to be the president’s best buddy: “I will be with you, whatever.” And so a false account of events became almost unavoidable for him. In her great biography of her father, Lord Salisbury, Queen Victoria’s last prime minister, Lady Gwendolen Cecil wrote ruthlessly of Disraeli that “he was always making use of convictions that he did not share, pursuing objects which he could not avow, manoeuvring his party into alliances which, though unobjectionable from his own standpoint, were discreditable and indefensible from theirs.” That exactly describes Blair, above all over Iraq. Yet it will not do to blame Blair alone. Among the effects of the war were a collapse of cabinet government and parliamentary government, along with what might frankly be called the corruption of the intelligence agencies, as Dearlove and Sir John Scarlett, head of the Joint Intelligence Committee, colluded with Downing Street to “fix the facts,” as well as of Peter Goldsmith, the attorney general, who just as patently changed under pressure his previous advice that the invasion might be of dubious legality. Since then Dearlove has been the head of a Cambridge college and is now chairman of an insurance company, Scarlett was knighted and promoted to succeed Dearlove as head of MI6 after the invasion and is now advisor to an investment bank, while Goldsmith works for the American law firm Debevoise and Plimpton. Whatever the fate of the Iraqis, the officials responsible for their plight have not suffered greatly. Nor was Iraq the finest hour of the media, on either side of the Atlantic. The morning after Chilcot was published, the front pages of London newspapers shouted “Weapons of Mass Deception” (Sun), “Shamed Blair: I’m Sorry But I’d Do It Again” (Daily Express), “Blair Is World’s Worst Terrorist” (Daily Star), “A Monster of Delusion” (Daily Mail), “Blair’s Private War” (The Times). You would never guess from this chorus of outrage that those newspapers all supported the war at the time, as of course did almost all the America media, with the exception of that unlikely pair: the Knight-Ridder chain and The New York Review. Sorriest of all were the liberal papers, The Guardian and its Sunday counterpart, The Observer. While The Observer fell completely for Blair and his war, The Guardian was more hesitant. And yet a week before the invasion it did say editorially, and lamentably, “But there is one thing Mr. Blair cannot be accused of: he may be wrong on Iraq, badly wrong, but he has never been less than honest.” No hindsight is needed to deplore those words—or to point out that the two papers had the right response ready-made, from what they had said about Suez in November 1956. “It is wrong on every count—moral, military and political,” said the Manchester Guardian (as it still was). “To recover from the disaster will take years—if indeed it is ever possible.” More eloquent still was the Observer, with what is perhaps the single most famous editorial sentence to appear in a London paper in my lifetime, penned as British troops went ashore at Suez by David Astor himself, the paper’s owner-editor: “We had not realized that our government was capable of such folly and such crookedness.” Apart from privately sharing the view that a stable democracy could be created in Iraq, Blair thought it was his duty to support Washington in principle, and that he was Bush’s guide as well as his friend. As early as March 2002, he told Labour MPs “very privately” that “my strategy is to get alongside the Americans and try to shape what is to be done.” He endlessly repeated this, to his Cabinet (without telling them that he had committed the country to war) and to favored journalists, some of whom swallowed it. When the invasion began, the commentator and military historian Max Hastings wrote in the Daily Mail that “Tony Blair has taken a brave decision, that the only hope of influencing American behavior is to share in American actions.” All this displayed the kind of personal and national vanity that afflicts prime ministers, stemming from Churchill’s “special relationship” and Harold Macmillan’s even more pernicious image of “Greeks to their Romans.” These have been the grand illusions of British policy ever since: the belief that the two countries have a “special” affinity, and that the worldly-wise English can tutor and restrain the energetic but backward Americans. Successive prime ministers have failed to grasp the simple truths that the Americans neither want nor need such guidance, that the United States is a sovereign country whose interests and objectives may or may not coincide with British interests and objectives, and that like any other great power in history, it will pursue them with small regard for the interests of its supposed friends as well as its avowed enemies. Before long Hastings saw the error of his ways, renouncing the war and denouncing Blair. As much to the point he has recently, and very truly, written that “the notion of a ‘special relationship’ was invented for reasons of political expediency by Winston Churchill, who then became the first of many prime ministers to discover it to be a myth.” It was just as much a myth for Blair, who “overestimated his ability to influence US decisions on Iraq,” Chilcot says, adding that Anglo-American friendship can “bear the weight of honest disagreement. It does not require unconditional support where our interest or judgments differ.” One might add that, among every other perverse consequence, Iraq actually damaged Anglo-American relations, by lowering the British military in American esteem. The US Army were deeply unimpressed by their allies’ performance, with one general saying that the final ignominious British withdrawal from Basra could only be seen as a defeat. That leaves Blair. His public attempt to answer Chilcot on the day the report appeared was excruciating, haggard, and incoherent; he seems dimly aware that his repute has collapsed and that he is more despised and ill-regarded than any other modern prime minister. Any public intervention by him now can only have the opposite effect, as in the summer of last year when, every time he begged Labour members not to vote for the aging leftist Jeremy Corbyn as party leader, he further ensured Corbyn’s triumph. Not that there is any need to feel pity for him: he feels quite enough himself, bemoaning “the demonic rabble tearing at my limbs,” which words may make others think of those Iraqi men, women, and children who suffered because of him. His life now is hugely lucrative but hideous to behold, as he roams the world like the Flying Dutchman, with an estimated £25 million’s worth of properties, with a large fortune, including benefits from a Wall Street bank and a Swiss finance company, sundry Gulf sheiks and the president-for-life of Kazakhstan. He doubtless justifies to himself his work for Kazakhstan’s Nursultan Nazarbayev, whose regime has been strongly condemned by human rights organizations, in the same strange antinomian way he justified the manner in which he took us into the Iraq war: whatever he does must be virtuous because he does it. Long after those distant years of triumph, the truth about Blair finally becomes clear. He believed himself to be a great leader and redeemer; some of the weirder passages in his memoir—“I felt a growing inner sense of belief, almost of destiny…I was alone”—suggest an almost clinically delusional personality; and of course he did something shameful or even wicked in Iraq. And yet in the end Tony Blair isn’t a messiah or a madman or a monster. He’s a complete and utter mediocrity. He might have made an adequate prime minister in ordinary days, but in our strange and testing times he was hopelessly out of his depth. Now we are left with the consequences.

Janiki Cingoli: Ricordando Shimon Peres

Ricordando Shimon Peres di Janiki Cingoli, Direttore CIPMO Ho conosciuto Shimon Peres per la prima volta nel 1986: accompagnavo Giorgio Napolitano, allora responsabile Esteri del PCI, nella sua prima missione in Israele e Palestina, che avevo organizzato per lui. L’incontro avvenne nel suo ufficio, a Gerusalemme, e si svolse in un momento delicato: pochi giorni prima vi era stato il terribile attentato alla Stazione delle Corriere, a Tel Aviv, e ci aspettavamo un clima teso. Invece ci fu solo un accenno all’argomento, del genere loro ci hanno colpito, noi abbiamo risposto. As usual. Si sarebbe potuto dire. Il focus della discussione, che spaziò ovviamente su tutta la situazione e sugli spiragli di pace che già Peres intravvedeva, fu la questione dei rapporti tra Israele e Russia, congelati dopo la Guerra dei Sei Giorni del ‘67. Peres chiedeva che il PCI si facesse tramite con l’URSS per la ripresa dei rapporti, sostenendo che quel grande paese poteva giocare un ruolo importante di ponte, anche rispetto ai palestinesi. Gorbaciov era stato eletto da un anno, e le speranze del mondo erano puntate su di lui. Napolitano prese buona nota, e poco tempo dopo il suo rientro, durante una missione in Russia, informò i dirigenti del PCUS ai massimi livelli del messaggio di Peres. Questo contribuì sicuramente alla ripresa dei contatti tra i due paesi, fino alla ripresa dei rapporti diplomatici annunciata ufficialmente nel 1990. Ho avuto poi occasione di incontrare Peres nuovamente nel corso della missione del Sindaco Albertini, nel 2006, che toccò Giordania, Israele e Palestina, e che servì a rinsaldare i rapporti di Milano con tutta l’area. Ma il momento più emozionante a cui mi è stato dato di assistere fu quello del congresso del Partito Laburista, nel 1992, in cui Peres si confrontò con Rabin per la leadership, e fu sconfitto. In realtà Peres era l’uomo che immaginava la pace ma solo Rabin era in grado di realizzarla, aveva il sufficiente legame con il suo popolo e con le Forze armate del paese. Fu lui che strinse la mano ad Arafat, sul prato della Casa Bianca, e cercò di portare avanti la pace, affrontando non solo le sfide dell’estremismo palestinese e le provocazioni del terrorismo, ma anche le fortissime resistenze dentro il suo stesso paese: per questo fu ucciso. Il premio Nobel per la pace andò ad entrambi i due leader israeliani, ma privo di Rabin Peres non fu in grado di andare avanti sulla sua via, e perse le elezioni, cedendo il Governo a Netanyahu. In realtà Peres, come Gorbaciov, era più amato all’estero che in Israele, e non riuscì mai a vincere un confronto elettorale. Questo non toglie che la sua visione di un BENELUX del Medio Oriente, ISPhAlUr (Israele, Palestina e Urdun, il nome arabo della Giordania) come lo chiamava lui, da inserire in una comunità del Medio Oriente sul modello della Unione Europea, è stata una visione che ha a lungo attirato l’attenzione degli studiosi e degli esperti e ha fatto sognare gli uomini di pace di tutto il mondo. Il suo progetto di un canale tra il Mar Rosso e il Mar Morto, da lui perseguito fino all’ultimo, è sicuramente un grande progetto, anche se ha suscitato grandi polemiche fra gli ambientalisti. Uomo di pace, non era un uomo imbelle. Suo fu il progetto che portò Israele a munirsi dell’arma atomica, come deterrente ultimo contro il mondo arabo ostile che lo circondava. La sua elezione a Presidente di Israele, nel 2007, segnò una sorta di riconciliazione con il suo paese, che si riunì intorno a lui. In tutti quegli anni, fino al 2014, e anche dopo la fine del mandato, si è adoperato in ogni modo per tenere aperti i contatti con la leadership palestinese e con il Presidente Mahmoud Abbas, cercando di temperare l’intransigenza di Netanyahu, di elaborare ipotesi e progetti di pace innovativi e percorribili: iniziative sempre puntualmente stoppate dal Premier israeliano. Con lui muore un Padre Fondatore di Israele, forse l’ultima delle grandi figure che hanno creato Israele. Il vuoto che lascia è grande, non si vedono nel paese nuovi leader che siano in grado di raccoglierne l’eredità.

mercoledì 28 settembre 2016

Il ponte Mascetti (il gattopardo era un peluche, al confronto) – [ciwati]

Il ponte Mascetti (il gattopardo era un peluche, al confronto) – [ciwati]

Referendum il 4 dicembre? Ci avrei scommesso, ecco perchè.

Referendum il 4 dicembre? Ci avrei scommesso, ecco perchè.

Israel's Mirror | Foreign Affairs

Israel's Mirror | Foreign Affairs

Riunione dell'IS

PRESIDIUM Meeting of the SI Presidium and Heads of State & Government, United Nations, New York | 21 SEPTEMBER 2016 The annual meeting of the SI Presidium in conjunction with the high-level segment of the United Nations General Assembly took place on 21 September in New York, the eighth such occasion since 2008. The agenda of the meeting focused on the role of the social democratic movement in promoting collective action to confront prevailing challenges to security, democracy and sustainability in different parts of the world and the outcome of the UNGA high-level debate on the crisis of refugees and migrants. The major focus of exchanges was the recently concluded UN Summit for Refugees and Migrants, with Presidium members united in their recognition of the urgency of coordinated action in response to the global refugee crisis. Contributions underlined the need for a more equitable sharing of the responsibility for hosting and supporting refugees around the world. At present, the greatest burden of the refugee crisis is being felt by developing countries, which are host to the vast majority of international refugees. For this reason the acceleration of progress towards a global agreement on safe, orderly and regular migration was considered essential. A number of participants stressed that the international community, and in particular the most developed economies, have a collective responsibility and a duty to the refugees of the world, whose lives and livelihoods are threatened by the lack of concrete advances in this regard. At the same time, there remains a vital need for concerted action to address the root causes of the global refugee crisis. In this regard, participants underlined the importance of the work of the SI towards conflict resolution and tackling climate change, which are major drivers of global population movements. Addressing the first agenda item and the contribution that could be made by the social democratic movement in face of the current global challenges, participants called for a combined strategy for peace and security, sustainable development and human rights. There was a shared conviction that for the challenges of peace, sustainable development and democracy to be met, social democracy would be required, with the SI an indispensable forum for cooperation in pursuit of common goals and objectives. One year on from the SDG summit, a number of interventions highlighted the continued importance of the Global Goals in the realisation of a greener and more peaceful world with opportunities for all, and the vital importance of ensuring the equal participation of women and men in building a sustainable future for all. Underdevelopment remains a significant factor to migration, and the contributions of President Alpha Condé of Guinea and President Hage Geingob of Namibia identified the continued need for development assistance in their countries and a more equitable sharing of resources on a global scale. They and others considered that socialists and social democrats were uniquely placed to address the gaps between rich and poor, and redress the problems of poverty and economic injustice. In accordance with the mandate given by the last SI Council in Geneva in July 2016, the Presidium had the responsibility of agreeing a venue for the forthcoming XXV SI Congress. The Secretary General reported that in discussions he had held with the leadership of the SI member party in Colombia, they had expressed the willingness of their party to host the Congress. This would be in line with the established practice within the SI of rotating the regional location of its Council and Congress meetings in order to reflect the global scope of the organisation. He outlined the significance of bringing together the global social democratic family in Colombia, at a historic moment for the country, as a result of the agreement reached between the government and the FARC guerrillas to bring to an end over 50 years of armed conflict. The presence of the SI in Colombia would be a concrete expression of the support of the movement for the courageous decision to bring peace to the country and a continued commitment to the post-conflict process of disarmament and reconciliation. The proposal to hold the Congress in the city of Cartagena de Indias was overwhelmingly endorsed by the Presidium, with the meeting to be scheduled for the first months of 2017 following consultation with the hosts. The symbolism of the Congress venue and its timing will be reflected by the inclusion of peace as one of the main themes of the Congress, with reference to the successful peace process in Colombia and the need for advances towards peace in other conflicts around the world. The Congress will also focus, as another main theme, on the issue of inequality in the world economy, whose current impact has been a subject of recent work by the SI. Policy proposals on this theme will be presented to the Congress in a report from the SI Commission on Inequality, which is working on concrete initiatives for the reduction of inequality within and between nations. The Presidium was updated on the response of the FSLN to the concerns transmitted by the SI to the party in regard to the dismissal by the National Electoral Commission of sixteen opposition parliamentarians and twelve alternates in Nicaragua. The Presidium noted that this matter would be further examined and addressed by the relevant statutory organs of the SI. The current situation in Guatemala was raised, highlighting that a recent decree issued by President Morales restricted fundamental freedoms and rights. Members of the SI Presidium were joined by President Alpha Condé (Guinea) and President Hage Geingob (Namibia), and SI Honorary President Tarja Halonen, former president of Finland. Also present was António Guterres, former SI president and ex-UN High Commissioner for Refugees. The meeting was chaired by SI President George Papandreou alongside Secretary General Luis Ayala, with the participation of SI vice-presidents Sükhbaataryn Batbold (Mongolia), Victor Benoit (Haiti), Ousmane Tanor Dieng (Senegal), Elio Di Rupo (Belgium), Alfred Gusenbauer (Austria), Eero Heinäluoma (Finland), Pendukeni Iivula-Ithana (Namibia), Bernal Jimenez (Costa Rica), Chantal Kambiwa (Cameroon), Marian Lupu (Moldova), Rafael Michelini (Uruguay), Mario Nalpatian (Armenia) Umut Oran (Turkey), Julião Mateus Paulo (Angola), Sandra Torres (Guatemala) and Ouaffa Hajji (ex-officio vice-president, SIW). Representatives of the governments of Burkina Faso, Dominican Republic and Montenegro were also present.

martedì 27 settembre 2016

David Ellwood: Corbyn resiste

Regno Unito Corbyn resiste al terremoto post-Brexit David Ellwood 26/09/2016 In un’epoca di grandi problemi per il reclutamento politico in ogni angolo dell’Occidente, la conferma del vecchio Jeremy Corbyn alla leadership dei laburisti inglesi (battendo Owen Smith con un margine del 24%) esprime una fortissima reazione - soprattutto da parte dei giovani - contro i metodi di mobilitazione e persuasione praticati dalle macchine partitiche tradizionali negli ultimi decenni, tutti apparentemente convinti che la politica sia un gioco di mercato anch’esso, dove le regole sono dettate dai mass media. Corbyn invece ha concentrato i suoi sforzi sui social media dove ha trovato il richiamo che ha favorito l’entrata di una straordinaria massa di nuovi iscritti al vecchio partito laburista. Il fenomeno è particolarmente impressionante dato che questa fascia d’età si è rivelata negli ultimi anni allergica a qualsiasi forma di partecipazione politica, a partire dal voto. Basti pensare che solo il 30 per cento di questa fetta della società si è espresso nel referendum per la Brexit. Il futuro del governo ombra Resta da vedere in che modo questa affermazione di Corbyn si tradurrà in una effettiva leadership dentro e fuori il parlamento. Contestato duramente, formalmente sfiduciato dai parlamentari labour prima dell’estate, Corbyn deve ora ricostruire il governo ombra - più di 50 posti sono attualmente vacanti - e far capire come intende gestire il Comitato centrale del Partito. A differenza del Partito conservatore, dove vige un inossidabile rispetto per le gerarchie di status, successo e pedigree politico, all’interno del partito laburista c’è la convinzione che tutti abbiano gli stessi diritti - o almeno pari dignità - nel ricercare un posto negli vari organi del partito. Nella situazione attuale regna una confusione totale su come Corbyn intenda gestire le sue responsabilità di leader: favorendo elezioni democratiche per il governo ombra o imponendo regole che possano garantire a lui e i suoi - compreso i super-militanti del movimento che lo hanno sostenuto fino ad ora, ‘Momentum’ - un controllo completo del Consiglio nazionale esecutivo del partito. Movimento di massa più che partito di governo Tutti si aspettano ora - anche dentro e dopo il congresso del partito che si è svolto in questa fine settimana - un duro regolamento dei conti con la maggioranza in Parlamento che non aveva mai espresso tanta fiducia nei confronti di Corbyn, arrivando addirittura a sfiduciarlo. Molti temono che la lotta per domare le varie faide in corso nel partito - e dentro il mondo sindacale, anch’esso diviso sul personaggio - possa assorbire gran parte delle energie, della credibilità e del capitale politico di Corbyn. In tal caso, che fine faranno la passione e le energie dei tanti nuovi iscritti che si sono commossi per la purezza e coerenza di questa vecchia figura di profeta del socialismo stile britannico, così dogmaticamente pragmatico e moralistico, così poco ideologico ? Anche se Corbyn è convinto che il suo partito deve esprimersi soprattutto come movimento che nasce dal basso, piuttosto che come pura forza di governo, non ha ancora presentato alcun progetto per la sua corrente. Oltre alle solite assemblee locali e alle mobilitazioni in vista delle varie scadenze elettorali, servirebbe un progetto per rilanciare l’antica tradizione laburista di istruzione ed educazione politica, tentando di elevare il livello culturale - ora penoso - dei dibattiti politici in Gran Bretagna. Regno disunito Nonostante il suo legame con i nuovi media, in termini di contenuti e di proposte politiche specifiche, Corbyn torna al tradizionale modello del welfare state: sistema sanitario, edilizia sociale, scuola pubblica non privata; ri-nazionalizzazione delle ferrovie e di altri settori; rilancio del ruolo dello Stato nell’economia in grande stile; terzomondismo; opposizione al nucleare sia in campo militare che civile. Eppure ora nel Regno Unito non c’è solo questo in gioco. La sfida della Brexit dominerà per anni l’evoluzione economica e politica del Paese. Il Partito laburista è crollato proprio in Scozia, dove ha stravinto il Remain (sostenuto blandamente da Corbyn) e che vuole sempre più autonomia da Londra anche per questo motivo. Si profila un’inedita crisi costituzionale per il sempre meno United Kingdom. Intanto il ruolo delle grandi potenze nel mondo - Usa, Cina, Russia, India - e la globalizzazione in tutte le sue versioni condizioneranno la situazione di tutti gli europei con modalità ben diverse rispetto a quelle terzomondiste e buoniste di Corbyn. Avanzano le problematiche delle migrazioni, del cambiamento climatico, del fondamentalismo islamico. Chi riuscirà a domare i mercati finanziari internazionali e quelli energetici e digitali? Corbyn è convinto davvero che si possa affrontare tutto ciò - e sconfiggere i Tories alle elezioni generali - chiamando ogni tanto alla riscossa i suoi tanti giovani fan tramite Facebook e Twitter? David Ellwood, Johns Hopkins University, SAIS Bologna Center.

Franco Astengo: Contributo di idee per il no

UN CONTRIBUTO DI IDEE PER IL “NO” NEL REFERENDUM COSTITUZIONALE di Franco Astengo Fissata la data del 4 Dicembre, si profila così una lunghissima campagna elettorale (del resto già cominciata da tempo) che risulterà particolarmente difficile da portare avanti dalla parte del “NO” i cui esponenti si troveranno a combattere con una pluralità di avversari esterni, fuori e dentro l’Italia, in possesso di strumenti finanziari e comunicativi del tutto esorbitanti: le TV, la gran parte dei giornali, le centrali finanziarie, gli apparati di governo. Inoltre il cosiddetto “fronte del NO” appare variegato e frastagliato con punti di debolezza interni sicuramente sensibili per un tratto così lungo alle sirene del potere: non a caso, sul terreno della legge elettorale che è strettamente connesso a quello delle deformazioni costituzionali sottoposte al voto, si stanno muovendo i consueti trasformisti, quelli che al Senato rappresentano l’indispensabile stampella del governo, allo scopo di elaborare un progetto sulla base del quale, superato l’Italikum, possa rinnovarsi il quadro dell’usato “Patto del Nazareno”. “Patto del Nazareno” da rinnovare e da utilizzare già nella contesa del 4 Dicembre. Questi motivi debbono indurre quella consistente parte di sinistra schierata con il “NO” ad evitare, prima di tutte, strumentalizzazioni finalizzate alla lotta interna al PD: è necessario muoversi in campagna elettorale in totale autonomia di pensiero e di azione fissando con grande chiarezza alcuni punti distintivi che consentano, superato positivamente il guado delle urne, di fissare alcuni tasselli utili alla costruzione di un soggetto politico all’altezza della sfida per l’alternativa che richiesta dalla drammaticità della situazione, sia sul piano internazionale sia interno. Limitiamo comunque il campo d’osservazione all’elaborazione di una strategia referendaria. Mi permetto, quindi, di riproporre – almeno parzialmente, due elaborati già resi pubblici nei giorni scorsi e afferenti quei due nodi che possono essere ritenuti dirimenti all’interno di questa vicenda: 1) Il primo riguarda la domanda: qual è la scaturigine vera di questa esigenza di riforme orientate alla sostanziale limitazione del confronto democratico e allo sbilanciamento a favore della governabilità nell’asse di riferimento del sistema politico? 2) Il secondo posto in relazione direttamente al primo: come si colloca, in realtà, nel quadro delle deformazioni costituzionali che saranno sottoposte al voto la questione dei “poteri”? Al primo punto è possibile rispondere rispolverando i rapporti che il Governo Italiano mantiene con la grande banche d’affari JP Morgan, come appariva ieri in un articolo pubblicato dall’inserto “ Affari e Finanza di Repubblica”. Una situazione già denunciata proprio domenica scorsa da chi scrive queste note in un articolo che si riproduce parzialmente in questa sede, scusandoci della (necessaria) ripetitività. Ecco di seguito “Ricordiamo prima di tutto l’orientamento politico sostenuto da questa banca (JP Morgan) e cominceremo a capire molte cose : Report della banca d'affari statunitense, considerata dal governo Usa responsabile della crisi dei subprime: "I sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l'integrazione. C'è forte influenza delle idee socialiste". E cita, tra gli aspetti problematici, la tutela garantita ai diritti dei lavoratori. Quella stessa JP Morgan, che attraverso un’operazione di “derivati” il cui costo lo stato italiano sta ancora pagando in maniera occulta senza che ciò compaia come passività nella contabilità nazionale favorì l’ingresso dell’Italia nell’Unione Europea, conta molto il governo Renzi per mettere in sicurezza il sistema bancario italiano, quello di MPS , CARIGE e Banca Etruria. Anzi, sempre nella definizione usata dall’articolo di “Affari e Finanza”, JP Morgan è definita la “più preziosa alleata di Palazzo Chigi nelle scelte più importanti di economia pubblica degli ultimi anni”. Naturalmente tutto ciò comporta anche l’occupazione “fisica” del potere: Marco Morelli alla guida di MPS, Matteo Del Fante ad di Terna, Giovanni Gorno già numero uno di Cassa Depositi e Prestiti, mentre Vittorio Grilli, già ministro, siede nel board della banca americana. Grilli che, nel frattempo : “Ieri Repubblica ha confermato che i manager della banca e quattro dirigenti di via XX Settembre dovranno presentarsi alla Corte (dei Conti n.d.r). Secondo l'edizione online sarebbero Maria Cannata, attuale direttore del Debito, il suo predecessore Vincenzo La Via, Domenico Siniscalco, direttore generale del Tesoro poi passato in forze proprio a Morgan Stanley e anche Vittorio Grilli, anche lui ex direttore generale del Tesoro”. La vicenda in questione è così riassunta : “Alcuni contratti derivati sottoscritti dall'Italia, secondo i magistrati, erano delle vere e proprie speculazioni andate male. Tanto da consentire a Morgan Stanley di guadagnare 1,3 miliardi a fronte di un esborso di 47 milioni di euro, riporta Repubblica”. Fino a questo punto siamo di fronte a un classico delle truffe legate alla finanziarizzazione dell’economia. E’ il caso però di approfondire due punti : quello sopra riportato riguardante il parere di JP Morgan sulle Costituzioni europee e la definizione della stessa banca d’affari come alleata di Palazzo Chigi. Non nascono forse da questo connubio le deformazioni costituzionali approvate dalla maggioranza di un Parlamento eletto con una legge elettorale giudicata incostituzionale dall’Alta Corte ? La prima conclusione da trarre è quindi molto semplice: i veri mandanti di questo itinerario di deformazioni costituzionali sono proprio quelle banche d’affari che, attraverso il giochetto dei subprime, sono state le prime artefici di quel tipo di gestione del ciclo capitalistico che, a partire dal 2007, ha accresciuto enormemente il quadro complessivo delle diseguaglianze a livello planetario : livello di diseguaglianze intollerabili che stanno a ragione come causa principale dell’escalation bellica in tante parti del mondo con la conseguente fuga di milioni e milioni di profughi in un quadro di destabilizzazione sociale e di secco spostamento autoritario nel complesso del quadro politico internazionale” Il secondo punto da analizzare è quello della definizione dei poteri all’interno del sistema politico italiano, così come questo si configurerebbe se le deformazioni costituzionali sottoposte a referendum dovessero diventare effettivamente operative. Anche in questo caso riprendo parti di un testo elaborato qualche giorno fa e già pubblicato: “Riprendo da Felice Carlo Besostri, vera punta di diamante nello schieramento del “NO” alle deformazioni costituzionali e attore tra i principali nella fondamentale lotta sulla legge elettorale, alcune argomentazioni nel merito di un aspetto di cui si sta discutendo in questi giorni con grande intensità, in particolare dopo l’intervista dell’ex-sindaco di Milano Pisapia che ha affermato di non “vedere pericoli per la democrazia”: l’argomento è quello dell’accentramento dei poteri nella figura del Presidente del Consiglio. Prima di tutto però mi preme riportare una frase dello stesso Besostri :”Se siete favorevoli fa parte della libertà di opinione ma non dite una mezza verità, che come insegna il Talmud è UNA BUGIA INTERA.” Dunque andando per ordine è vero che I poteri del Presidente del Consiglio formalmente non sono toccati, ma questo avviene perché, nel pieno dell’ipocrisia dominante si diminuiscono i poteri delle altre istituzioni. Del resto aumentano formalmente i poteri del Governo attraverso la formulazione del ballottaggio così come appare enunciata nell’Italikum (anche la K è copyright del già citato Besostri). Questo è affermato con chiarezza nel testo, e rafforza l’altra verità che deve essere conclamata e che invece è negata dai corifei di regime, circa la stretta connessione tra legge elettorale e deformazioni costituzionali, che rappresentano un tutt’uno nella logica di privilegio assoluto della governabilità e di dispregio altrettanto assoluto della rappresentatività politica. Dunque l’Italikum prevede – al momento – il ballottaggio (non secondo turno che è cosa diversa: in questo il programma dell’Ulivo non c’entra proprio nulla) tra 2 liste identificate attraverso i cosiddetti " capi della forza politica"(figura che, come già il capo della coalizione nel Porcellum non esiste da nessuna parte sul piano costituzionale). Questo significa, in pratica, una forma surrettizia di elezione diretta e di conseguenza una modifica sostanziale negli equilibri istituzionali. Abbiamo già tante volte indicato come vero e proprio “vulnus” della democrazia rappresentativa il fatto che è possibile (anzi probabile) che il premio di maggioranza di 340 deputati (pari al 53,96% dell’assemblea) risulti, alla fine appannaggio di una lista che al primo turno raggiunga – più o meno il 30% dei voti validi. Calcolata una percentuale di votanti attorno al 60%, così come indicano adesso come adesso i sondaggi più accreditati, si avranno all’incirca 30 milioni di voti validi. Una lista che arrivasse al ballottaggio con il 30% assommerebbe all’incirca 9 milioni di voti (quelli attribuibili al PD in proiezione sulla base dell’esito delle più recente amministrative): quindi un partito che vale 9 milioni di voti si vedrebbe attribuito un premio di maggioranza del valore (fermi restando i 30 milioni di voti validi, ovviamente) di oltre 16 milioni di voti: un regalo di circa 7 milioni di voti. Discorso eguale, naturalmente, in caso di successo del M5S o di una lista unitaria della destra : inoltre permane l’incognita sulla partecipazione al voto nel ballottaggio. Le esperienze in sede di enti locali indicano un calo fisiologico tra i due turni e non si prevede, come in Francia, una validità del voto in relazione ad una percentuale riguardante gli aventi diritto e non i voti validi (regola in vigore Oltralpe per il passaggio dal primo e il secondo turno dei candidati nei collegi che debbono raggiungere, nel primo passaggio, il 12,5% proprio degli aventi diritto). Risultato finale su questo punto: avremo un’elezione diretta mascherata di un Presidente del Consiglio espresso da una lista la cui maggioranza in Parlamento scaturirà da un regalo di circa 7 milioni di voti (su circa 30 milioni di voti validi, il 23%). Ne sortiranno due effetti ben precisi: il primo è quello dell’oggettiva inversione di ruoli tra Presidente della Repubblica (eletto per via indiretta dal Parlamento) e il Presidente del Consiglio (eletto direttamente attraverso l’ipocrita formula del “capo della lista”). Inversione di ruoli che avviene senza mutamenti formali. Il Presidente del Consiglio eletto in questo modo usufruirebbe, inoltre, della facoltà di approvazione a data fissa dei ddl autodefiniti essenziali e la possibilità sempre su iniziativa del Governo di deliberare in materie non comprese nella sua competenza esclusiva. In primo luogo, riconosce all’esecutivo una corsia privilegiata, ovvero il potere di chiedere Che un disegno di legge indicato come essenziale per l'attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all'ordine del giorno della Camera e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della stessa entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione, ulteriormente prorogabili per non oltre quindici giorni (istituto del voto a data certa). Da questo itinerario sono escluse le leggi bicamerali, le leggi elettorali, le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, le leggi che richiedono maggioranze qualificate (artt. 79 e 81, comma sesto, Cost.). L’esito concreto di questa vicenda, se prevarrà la conferma delle deformazioni costituzionali e sarà applicato l’Italikum nella versione “ballottaggio”, presenterà almeno 3 aspetti certi : un “presidenzialismo” dell’esecutivo in forma mascherata; una subordinazione di fatto del Presidente della Repubblica; una limitazione, di fatto, del ruolo del Presidente della Camera e della conferenza dei capigruppo nella potestà di redazione del calendario d’Aula. Conclusione su questo secondo punto : Ci apprestiamo così ad uscire, melanconicamente e dolorosamente, dalla Repubblica parlamentare disegnata dall’Assemblea Costituente con lo scopo prioritario di evitare il ritorno del fascismo. Pericolo più che mai incombente se guardiamo sia alle dinamiche interne, sia a quelle in atto nell’Unione Europea e che gli attenti guardiani dell’austerity non solo tollerano ma incoraggiano con le loro disastrose politiche. Tornando comunque al caso italiano :La centralità del parlamento cederà così il passo al personalismo, alla concentrazione dei poteri, al propagandismo spicciolo, all’incultura politica, alla dittatura di una maggioranza costruita artificialmente.” Dunque tanto per fissare con chiarezza: 1) I veri mandanti di questo perverso itinerario di deformazioni costituzionali sono proprio quelle banche d’affari che, attraverso il giochetto dei subprime, sono state le prime artefici di quel tipo di gestione del ciclo capitalistico che, a partire dal 2007, ha accresciuto enormemente il quadro complessivo delle diseguaglianze a livello planetario : livello di diseguaglianze intollerabili che stanno a ragione come causa principale dell’escalation bellica in tante parti del mondo con la conseguente fuga di milioni e milioni di profughi in un quadro di destabilizzazione sociale e di secco spostamento autoritario nel complesso del quadro politico internazionale” 2) La centralità del parlamento cederà così il passo al personalismo, alla concentrazione dei poteri, al propagandismo spicciolo, all’incultura politica, alla dittatura di una maggioranza costruita artificialmente.” Per concludere: all’interno di quale quadro generale si svolgerà il referendum ? Per ben due volte nel giro di vent’anni chi si occupa dell’analisi al riguardo delle dinamiche del sistema politico italiano si è mosso sulla base di un abbaglio, dal quale sono scaturite situazioni imbarazzanti e molto negative per il nostro Paese e per il quadro complessivo delle sue relazioni internazionali. Due casi clamorosi: quelli dell’avvento alla presidenza del Consiglio di Berlusconi nel 1994 (presidenza poi intervallata in più di un’occasione come sappiamo fino al Novembre 2011) e quello, riguardante lo stesso incarico di Matteo Renzi a far data dal 2014. Entrambi questi frangenti furono catalogati come frutto dell’accentuarsi del processo di personalizzazione della politica (esito mortale del referendum Segni – Occhetto del 1993 sul sistema elettorale) che aveva portato alla guida del Paese uomini del “fare” che avrebbero buttato per aria il vecchio sistema sostituendolo con il pragmatismo e l’efficienza. Pragmatismo ed efficienza che reclamavano gran parte degli italiani in una situazione dominata dalle difficoltà economiche, dalla crescita delle disuguaglianze, da vasti fenomeni di corruzione. Al secondo passaggio contribuì fortemente, promuovendo alcune operazioni al limite della legalità repubblicana il presidente della Repubblica Napolitano, ormai definitivamente convintosi della necessità di inserire una forte dose di autoritarismo nel processo di riduzione dei margini di esercizio della democrazia, come richiesto da un presunto allineamento all’Europa dei banchieri e delle grandi lobbie che detengono il potere a Bruxelles e Francoforte e dalle pressioni delle grandi banche d’affari intestatarie della gestione del ciclo capitalistico portato avanti in chiave puramente speculative e le cui ricette, tra l’altro, si stanno rivelando clamorosamente fallimentari. Non c’è stato pragmatismo ed efficienza nelle gestioni Berlusconi e poi Renzi, condite entrambi da una politica – spettacolino molto provinciale . Intanto il punto vero che accomuna le due disgraziate gestioni (a differenza, in verità, di quelle pur negative dei governi Prodi, Monti Letta. Mentre per quello D’Alema restano aperti due grandi dossier: quella relativo alla Bicamerale e quello riguardante i bombardamenti sulla Jugoslavia nel 1999) è stato quello dell’attacco alla Costituzione Repubblicana: respinto dal voto popolare quello portato da Berlusconi, da respingere seccamente nello stesso modo quello portato da Renzi. Una gestione del Paese, quello dei governi succedutisi tra il 1994 e il 2016, davvero disastrosa. Ma c’è dell’altro: in realtà ciò che è accaduto di analogo nelle due “gestioni” è stato l’avvento di fameliche orde di “parvenu” assetati di potere, pronti a spartirsi le spoglie, dalla gestione delle grandi utilities, alle banche, ai più diversi centri di potere. In entrambi i casi all’insegna del “nuovo”. Via, via è andato così definitivamente in pezzi l’intero sistema politico, si sono dissolti i partiti, ridotta al minimo storico la credibilità delle istituzioni con esiti molto negativi sul piano economico – sociale. E’ aumentata a dismisura la disaffezione rispetto all’impegno politico delle cittadine e dei cittadini anche soltanto per il semplice atto della partecipazione al voto, scesa da oltre l’80% a meno del 60%. Sul piano più strettamente politologico c’è ancora da ricordare come l’esito di questa avventura abbia, ovviamente, frantumato il tentativo (che pure era stato svolto) di costruire un quadro bipolare all’interno del sistema politico: questi brillanti interpreti della politica – spettacolo non si sono accorti che si stava costruendo una situazione diversa, dando spazio a soggetti costruiti per “l’interdizione del sistema”. Tutto ciò avveniva mentre la sinistra si consumava in una posizione di retroguardia ancora assunta all’insegna di categorie ormai superate sia sul piano delle contraddizioni sociali, sia delle dinamiche di sistema. Nella loro assurda vanità e cecità di potere i corifei del governo Renzi hanno anche pensato a un sistema elettorale (convinti della loro invincibilità) che finisce con il favorire questo potere d’interdizione, a scapito della loro tanto decantata “governabilità”, ma soprattutto cancellando il dato essenziale della rappresentatività politica. Intanto si scivola verso una sorta di “dissoluzione civile” all’interno della quale emergono retaggi fascistoidi non propriamente secondari: un nazionalismo d’accatto molto simile a quello del colonialismo straccione degli anni’30 del XX Secolo, addirittura il varo di una politica di crescita della natalità degna dell’Opera della Madre e del Fanciullo nella quale emerge un incredibile ritorno del ruolo della donna a quello di “fattrice” delle future 8 milioni di baionette, l’assoluta incapacità di affrontare i temi decisivi della politica internazionale e delle sue conseguenze (in primis il tema dei migranti), il favorire una visione del lavoro tutta incentrata su di una costruzione dell’offerta in un senso fortemente accentuante i termini di sfruttamento e precarietà per le lavoratrici e i lavoratori già insistiti per tutti gli anni ’90 e primi ‘2000 favoriti anche dalle politiche del centro sinistra, l’annullamento delle autonomie territoriali. Un paese in mano, per buona parte del territorio in mano alla criminalità organizzata (che del resto esercita la sua potenza economica anche ben al di fuori dalle zone di suo tradizionale insediamento), e alla corruzione politica. Questo il quadro, riassunto sinteticamente, alla vigilia del referendum: poche righe, in sostanza, per fornire un quadro più che sufficiente al fine di esprimere un voto consapevole a favore del “NO”, chiaro e tondo, ben motivato da parte di una tensione alternativa da sinistra. “Tensione” e non di più perché dal punto di vista politico e organizzativo la sinistra non esiste ed è tutta da ricostruire: ci sono le buone ragioni, ma mancano i frati e i conventi per ospitarli.

Luciano Belli Paci: Craxi non ha colpe per la riforma Boschi

La grande riforma di Craxi non c’entra nulla con la deforma Boschi Il dibattito sul referendum costituzionale del prossimo autunno è accompagnato dalla pubblicazione di numerosi saggi nei quali si ricostruisce la storia dei ripetuti tentativi di riformare la nostra Costituzione che, nel corso dei decenni e con alterne fortune, hanno visto impegnati esponenti politici, commissioni bicamerali e governi. Tra i più recenti è il caso di menzionare il libro di Nadia Urbinati e David Ragazzoni “La vera Seconda Repubblica - l’ideologia e la macchina” e quello di Antonio Ingroia "Dalla parte della Costituzione - da Gelli a Renzi: quarant'anni di attacco alla Costituzione". Ho l’impressione che nessuno di questi autori si sottragga al vizio di inserire Craxi e la sua idea di Grande Riforma dello Stato in un indistinto calderone con tutti gli altri che nei decenni hanno mirato a stravolgere la nostra Carta fondamentale e questo mi induce, da socialista impegnato per il No alla deforma Renzi-Boschi, a proporre qualche considerazione critica. Se si vuole evitare di fare di tutte le erbe un fascio, di appiattire disegni molto diversi tra loro in un coacervo senza tempo, nella classica notte in cui tutte le vacche sono nere, occorre tracciare alcune nette linee di demarcazione. La prima è di carattere storico, giacché il diverso contesto politico nel quale le proposte di riforma si sono via via inserite è di decisiva importanza. Fino alla caduta del muro di Berlino la nostra democrazia ha vissuto in una condizione patologica. Eravamo una democrazia bloccata perché, essendo l'opposizione di sinistra egemonizzata dal più grande partito comunista dell'occidente, non è mai stata possibile quella fisiologica alternanza tra diverse coalizioni di governo che invece altrove era la regola. Questo ha fatto sì che durante tutto il corso della cosiddetta Prima Repubblica vi fosse un gruppo di partiti permanentemente al potere, la Dc ed i suoi alleati, e che di conseguenza si creasse quella commistione insana tra partiti ed amministrazione pubblica che è stata chiamata partitocrazia. Anche la cronica instabilità dei governi di quell'epoca deriva principalmente dalla stessa patologia, visto che le normali fibrillazioni prodotte dalla dialettica politica, non potendo mai trovare sfogo in una vera alternanza, si traducevano in crisi governative foriere ogni volta di balletti di poltrone e limitati aggiustamenti programmatici, ma nell'ambito di una stabilità sostanziale tale da rasentare il rigor mortis. L'idea di Craxi, peraltro rimasta a livello di ipotesi politica e mai trasfusa in definite proposte di revisione costituzionale, era quella che per forzare questa situazione di paralisi di cui all'epoca – si parla del 1979 ! – nessuno vedeva la fine potesse servire una riforma del sistema politico tale da imporre una competizione tra proposte di governo (e non solo tra singoli partiti come accadeva allora) e così stimolare una vera alternanza, una democrazia compiuta. Il sistema semipresidenziale francese, che proprio in quegli anni vedeva l'impetuosa crescita del partito socialista e del suo leader Mitterrand (che nel 1981 sarebbe stato eletto per la prima volta presidente), pareva il modello più adatto allo scopo. È innegabile che dentro questa riflessione vi fosse anche un calcolo di parte perché solo un netto cambiamento dei rapporti di forza tra comunisti e socialisti avrebbe potuto consentire, proprio come stava accadendo in Francia, di rendere rassicurante e dunque competitiva una coalizione di sinistra; però la diagnosi del male italiano e la strategia per curarlo erano corrette. Di tutt'altro segno sono i progetti di "Grande Riforma" che hanno accompagnato la nascita e poi il corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Essi non hanno avuto più lo scopo di creare le condizioni dell'alternanza, che dopo la fine della guerra fredda e la trasformazione del Pci erano ormai acquisite, bensì quello di produrre un prosciugamento della democrazia, attraverso la trasformazione dei partiti in ectoplasmi, la personalizzazione forsennata della politica, lo svuotamento del parlamento e delle assemblee politiche locali, la concentrazione illimitata del potere negli esecutivi, la sterilizzazione della sovranità popolare attraverso leggi elettorali incostituzionali che stravolgono il principio di rappresentanza. La seconda linea di demarcazione riguarda il merito dei disegni riformatori. Altro è delineare a viso aperto una riforma in senso presidenziale, riprendendo proposte che furono avanzate all'assemblea costituente da personaggi del calibro di Piero Calamandrei e Leo Valiani e che comprenderebbero sia nel modello statunitense sia in quello semipresidenziale francese tutti i pesi e contrappesi del caso, e altro è tentare di introdurre surrettiziamente adulterazioni del nostro modello costituzionale attraverso forme di premierato assoluto instaurate de facto da inediti e selvaggi meccanismi ultramaggioritari. Quest'ultima tendenza, che è davvero eversiva sia nei metodi sia negli obiettivi, raggiunge l'apoteosi nella Grande Riforma prodotta dal governo Renzi e sulla quale saremo chiamati, prima o poi, ad esprimerci nel referendum. In essa, alcune mirate manomissioni della funzione legislativa, presentate come innocenti razionalizzazioni a fini di efficienza e risparmio, sono funzionali al solo scopo reale di portare a compimento lo stravolgimento della democrazia parlamentare innescato dall'Italicum, senza ahinoi portarci al vero presidenzialismo con la sua accurata separazione dei poteri. No, obiettivamente Craxi non merita di essere annoverato tra i progenitori di questo scempio. Luciano Belli Paci Milano, 23 settembre 2016

sabato 24 settembre 2016

Franco Astengo: Per il no

PER IL NO NEL REFERENDUM: PRESSIONI E FORZA MORALE di Franco Astengo La provocazione attuata dal Governo nella stesura del testo del quesito da apporre sulla scheda referendaria (reso noto tra l’altro a referendum ancora formalmente da convocare) rappresenta soltanto un passaggio nell’insieme delle formidabili pressioni che i sostenitori del “NO” dovranno fronteggiare nelle prossime settimane e delle quali abbiamo già avuto larghe avvisaglie: ambasciatore USA, minacce di disastro economico, disimpegno di investitori stranieri, ecc, ecc., partigiani veri e partigiani finti. Indicativa, sotto questo aspetto, la questione riguardante il testo del quesito da sottoporre alle elettrici e agli elettori, che segna sicuramente il carattere meramente propagandistico dell’operazione segnalando, però, anche un ritardo evidente dell’incerta opposizione parlamentare. Non è questo però il punto. Il punto risiede nella necessità che lo schieramento del NO, almeno dal punto di vista dei riferimenti ideali, culturali e politici posti nel solco della migliore tradizione della sinistra italiana, sia posto in grado di esprimere il massimo della forza morale, dell’autorevolezza del pensiero. Serve un elemento fondativo : quello dell’affermazione (non della difesa, beninteso: difesa è un termine da abbandonare) del concetto di Democrazia Repubblicana, in piena sintonia e continuità con il lavoro dell’Assemblea Costituente che disegnò appunto una repubblica fondata sulla centralità di un parlamento che rappresentava “lo specchio del Paese”. Questo concetto fondamentale deve essere contenuto, assieme ad un giudizio netto e senza equivoci sul degrado della qualità nella vita democratica avvenuto nel corso di questi anni, in un Manifesto della Sinistra per il NO sul quale dovrebbero convergere tutti i principali esponenti dei diversi comitati. Per dirla in soldoni : un vero e proprio CLN. Deve essere chiaro che questa contesa politica non serve agli interessi di corrente o al rilancio di questo o quell’esponente politico, ma serve a fare in modo che l’Italia esca dal pericolo concreto di una “recessione autoritaria”. Si tratta di un giudizio morale prima ancora che politico ? Certo, perché fu un giudizio morale quello che mosse i nostri Padri sulla via della montagna, a scrivere l’epopea della Resistenza. C’era anche la politica beninteso e in seguito diede frutti dolci e amari, ma prima veniva la “qualità morale” e la Repubblica fu l’esito di quell’affermazione di moralità.

venerdì 23 settembre 2016

Come cambiano le pensioni | S. Ferro

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Politica monetaria: ritorno gli anni Settanta | T. Monacelli

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Olimpiadi sì o no? Vediamo i conti | J. Massiani e F. Ramella

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Caro Giuliano, l'alternativa a Renzi passa dal No al Referendum | Marco Furfaro

Caro Giuliano, l'alternativa a Renzi passa dal No al Referendum | Marco Furfaro

Franco Astengo: Industria 4.0

Ben più importante della decisione presa dalla Sindaca di Roma di rinunciare alla candidatura olimpica (decisione, sia scritto per inciso, assunta esclusivamente allo scopo di ricompattare il M5S, ma accolta da tutti con un sospiro di sollievo, al di là delle recriminazioni di facciata sulla “grande occasione perduta” nel più puro stile farisaico della politica italiana) è stata la presentazione del progetto di Industria 4.0 da parte di Renzi e del ministro Calenda. Ancora una volta, su questo tema del tutto decisivo rispetto al futuro del Paese, siamo su di una strada completamente sbagliata. Ci si balocca di nuovo con i super – ammortamenti e le detrazioni fiscali a uso delle imprese senza entrare minimamente nel merito di un minimo di programmazione industriale rivolta ai settori manifatturieri nei quali l’Italia è ormai da tempo del tutto carente. E’ assente del tutto un’ipotesi – almeno – di programmazione industriale, ci si rivolge a settori nei quali l’innovazione tecnologica ha camminato ben oltre a quanto individuato dai nostri sapientoni : soprattutto un’innovazione tecnologica fine a se stessa, mancando i settori industriali di riferimento. Quando si legge, da parte del presidente di Federacciai, che l’Italia ha una produzione insufficiente di laminati piani, quando il Governo lascia morire Alcoa principale produttrice di alluminio, quando ci si accorge che i destini della Piaggio, massima industria aeronautica , sono in mano a sceicchi del Dubai ovviamente incuranti di quello che doveva essere lo strategico trasferimento da Finale e Villanova d’Albenga, eseguito in vista di nuovi livelli di produzione, si hanno soltanto piccoli esempi della drammatica situazione in atto. Ci si trascina ancora nel novecentesco dilemma tra lavoro e ambiente: dall’Ilva di Taranto alla Tirreno Power della martoriata Vado Ligure, mentre a 15 anni dalla chiusura i lagoon dell’ACNA di Cengio sono ancora lì intatti a testimoniare non solo la mancata bonifica ma ciò che è stato e ancora è nel disastro del capitalismo italiano. Una situazione , quella della nostra industria, che può essere affrontata soltanto attraverso la messa in campo di investimenti pubblici rivolti ai settori strategici nei quali siamo drammaticamente carenti: investimenti accompagnati da una seria e rigorosa programmazione industriale. Investimenti non rivolti, attraverso gli incentivi, a fare in modo che come al solito la centralità delle imprese come riceventi dei benefici non si risolva (com’è stato ed era facilmente prevedibile) con il job act attraverso il classico “prendi i soldi e scappa”. Non si vive di speculazione edilizia, turismo, agricoltura (in questo campo si sono illusi un po’ di ragazzi attirati dal ritorno alla vita nei campi: la terra è bassa si diceva un tempo e , in questo quadro, la redditività reale è sottozero.) Franco Astengo

giovedì 22 settembre 2016

Per la ripresa non basta l’economia dell’offerta – Parte II | Sviluppo Felice

Per la ripresa non basta l’economia dell’offerta – Parte II | Sviluppo Felice

Inequality: What Can Be Done About It?

Inequality: What Can Be Done About It?

Franco Astengo: Intellettuali e politica

Cari compagni e amici del “Rosselli” holetto Piero Bevilacqua questa mattina sul Manifesto ho integrato un pezzo che avevo scritto sulla critica di Severino agli scritti di Carl Schmitt, apparsa sul Corriere della Sera. Mi permetto inviarti il tutto soltanto come esempio del tipo di dibattito che dovrebbe, a mio modesto giudizio, essere sviluppato coinvolgendo socialisti e comunisti, sulla prospettiva di un nuovo soggetto politico della sinistra italiana. Scusami per il disturbo. UN caro saluto Franco Astengo INTELLETTUALI E POLITICA TRA ILLUSIONI E VERITA'. Di Franco Astengo Per contrastare una rilettura di Carl Schmitt intesa nel senso dell’assolutismo nel predominio della tecnica sulla politica: Un ritorno alla politica da considerare quale imperativo categorico. Un nuovo punto di partenza per la riconnessione dell’impegno. E’ grave che alle conclusioni dell’inevitabile declino della politica siano giunti anche a sinistra i fautori dell’universalismo dei “social forum” animatori della contestazione globale all’inizio degli anni’2000. Piero Bevilacqua, oggi sulle colonne del “Manifesto” arriva alla conclusione di un declino della politica e alla sostituzione del concetto di “contraddizione principale” con quello della frattura “ecologista”. Un cedimento alla tecnica, con una improvvida sottovalutazione dell’arretramento della globalizzazione così come intesa negli scorsi decenni. Le note che seguiranno in questo testo intrecciano quindi la critica ala riflessione filosofica di stampo autoritario di Carl Schmitt, al vero e proprio cedimento attuato dai “neo ecologisti” sul terreno della ricerca dell’attualità delle contraddizioni sociali e della relativa possibilità di una costruzione politica alternativa. Un cedimento che coinvolge la ricerca sulla teoria del potere, ormai ridotta alla sola logica del suo esercizio da parte dei ceti dominanti. Una rinuncia grave, pressoché esiziale che apre spazio proprio alle teorie schmittiane cancellando la storia del movimento operaio e della sinistra nel ‘900. Comunque andando per ordine. Sotto il titolo “Stato, grande spazio, nomos”, a cura di Gunter Maschke (edizione italiana a cura di Giovanni Gunsanti) Adelphi ha pubblicato la raccolta degli scritti di Carl Schmitt. Giurista cattolico, Schmitt fu oppositore del progresso specialistico e sostenitore del nazismo. Schmitt oggi viene descritto come un “terribile giurista”, un teorico discusso e ostile alle democrazie liberali, ma è allo stesso tempo indicato come un “classico del pensiero politico” (Herfried Münkler). Un giudizio oggettivamente basato per l'influenza esercitata dai suoi scritti sul diritto pubblico e sulla scienza del diritto nella prima Repubblica Federale Tedesca . In Italia, dopo un periodo di diffidenza dovuta ai suoi legami con il nazismo, il suo pensiero è ricorrentemente oggetto di attenzione, soprattutto con riferimento ai problemi giuridici e filosofico - politici della globalizzazione (Danilo Zolo, Carlo Galli, Giacomo Marramao), alla crisi delle categorie giuridiche moderne (Pietro Barcellona, Massimo Cacciari, Emanuele Castrucci), ai processi di transizione costituzionale e all'esperienza paradigmatica della Repubblica di Weimar (Gianfranco Miglio, Fulco Lanchester, Angelo Bolaffi, Giorgio Lombardi). In un vero e proprio saggio Emanuele Severino ha affrontato, nei giorni scorsi, sulle colonne del “Corriere della Sera” una critica relativa alla pubblicazione edita da Adelphi (i testi di Carl Schmitt spaziano tra il 1916 e il 1978). Il saggio di Severino è riassunto così nel titolo: “ Schmitt contro la tecnica (e la globalizzazione) “. Il filosofo bresciano coglie quindi l’occasione per rilanciare un tema sul quale molto si è esercitato in anni recenti: quello del rapporto tra filosofia, politica e sviluppo tecnico – scientifico. Nella conclusione di questo suo intervento, in relazione al contrasto che Schmitt pone nei riguardi dell’universalismo dell’egemonia tecnica, Severino fa coincidere il tema del potenziamento della tecnica da parte delle superpotenze, Russia e USA, come l’elemento comune utilizzato per mantenere il predominio sul mondo. Lo scopo sarebbe quello di conservare i propri privilegi – appunto – di superpotenze ma alla fine, si nota, sarà la tecnica a dominare. E chiude: “ E questo sarà appunto il senso autentico di quell’unità (tra le superpotenze, n.d.r.) tecnica del mondo, attorno al quale si continua a girare a occhi bendati”. In questo modo Severino pone quindi oggettivamente in discussione il tema dell’impegno filosofico e politico proprio in relazione all’idea di fondo del progresso tecnico – scientifico inteso come illimitato: un’idea di progresso che oggi pare irrimediabilmente in crisi. Un’idea di progresso, di “magnifiche sorti e progressive” andata in crisi attraverso l’erezione di nuovi muri. La risposta alla crisi dell’idea di progresso è dunque quella arretrata del rilancio del concetto di territorialità, di legame dell’uomo alla terra, di definizione dell’avanzata tecnico – industriale come causa livellatrice delle differenze culturali e storiche tra i popoli. I punti cioè cheben possiamo definire come di arretramento “storico”. Un “arretramento storico” al livello di sviluppo del pensiero umano che oggi sembrano prevalenti nelle espressioni culturali e politiche. Come si recupera, allora, quell’idea di progresso che ci ha accompagnato per almeno due secoli, nell’edificazione della modernità nel ruolo dello Stato e delle relazioni politiche e civili e sociali? In sostanza, cambia il nostro mestiere di interpreti possibili della necessità della polis: quella, cioè, che con linguaggio filosofico si definirebbe “dover essere della politica”. Il “dover essere della politica” viene meno nel momento in cui gli intellettuali si adeguano al messaggio corrente, non scavano più nel profondo della ricerca, si alienano alla verità. L’ultimo decennio del secolo scorso è stato contrassegnato dall’acquiescenza del concetto di “fine della storia”, di assuefazione al colossale fraintendimento che la fine del bipolarismo coincidesse con l’apertura di mercati senza fine, con lo spargimento della buona novella del trionfo della globalizzazione e della fine dello “Stato – Nazione”. Concetti adottati da tutti e che hanno dato vita a una “pericolosa illusione”, com’è stato – ad esempio – nell’idea prevalente dell’espansione del capitalismo europeo sulla base dell’allargamento dell’UE. Si tratta beninteso soltanto di un esempio, tra i tanti che si potrebbero sviluppare, usato per dimostrare come la fine del fraintendimento rappresentato dal “sociale reale” (la “fine dell’illusione” di Furet) si sia accompagnato, senza soluzione di continuità, a un altro clamoroso abbaglio degli intellettuali in una interpretazione sbagliata della storia. Gli intellettuali, nel momento in cui la storia del mondo sembrava aver svoltato (almeno in apparenza) hanno inteso servirsi della tecnica, guidata dalla scienza moderna, per realizzare l’omologazione di un certo tipo di uomo e di società, attorno ad una “polis” concepita attraverso il “pensiero unico”. Ognuno intendeva porsi, cioè, come il fine rispetto allo strumento esasperando il concetto dell’immutabilità della storia (e della negazione dello storicismo) fino a oscurare la ricerca della verità. E' in atto invece, almeno a mio modesto avviso, un processo che, daccapo, è il rovesciamento del rapporto tra mezzo e fine. Non sarà più la polis capitalistica a servirsi della tecnica, ma la tecnica a servirsi del capitale, e non sarà più la polis democratica a servirsi della tecnica, ma la tecnica a subordinare a sé la democrazia. L’esempio facile, sotto quest’aspetto, è- si ribadisce ancora una volta -quello dell’Unione Europea fondata sulla tecnica, in questo caso quella monetarista. Altro esempio da sviluppare, assolutamente legato all’attualità della vicenda italiana, riguarda l’assoluta prevalenza della “tecnica di governo” sull’effettiva capacità di resa del sistema sul piano della rappresentatività politica. Una forma, questa del rapporto tecnica di governo /rappresentatività politica che sta assumendo aspetti di assolutismo per i quali davvero il richiamo a Schmitt non appare davvero peregrino. Il nuovo universalismo della sinistra, quello ecologico, richiamato appunto da Bevilacqua nell’articolo apparso sul “Manifesto” si allinea proprio a questa politica assolutistica, negando il conflitto di classe e affidandosi al predominio della tecnica sul potere politica, rifugiandosi in una teoria della “decrescita” di stampo assolutamente conservatore. Questo della “decrescita” e dell’esaustività della contraddizione ecologista non è certo il terreno dei socialisti e dei comunisti. Contraddizione ecologista che può rappresentare una parzialità significativa nel quadro della contraddizione dello sfruttamento. Questi sono i punti, grossolanamente esposti, sui quali sarebbe necessario avviare una riflessione, per porsi sulla strada di ricerca una diversa via dell'agire politico, posto in relazione, ancora, a una ricerca, aperta e problematica della verità. La rilettura di questo tema, così come è accaduto con il testo di Emanuele Severino riferito a Carl Schmitt, ci pone nell’attenzione di ciò che va evitato proprio sul terreno del cedimento all’omologazione proprio sul piano storico. Forse, sul piano dell’intreccio filosofico/politico in relazione alla modernità della tecnica ci troviamo in una condizione di minorità e non possiamo far altro, a questo punto, che allinearsi a Montale: “Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Non siamo attaccati alla terra d’origine e non vogliamo abbandonare la visione dell’universalismo dettata dall’Utopia. Universalismo dell’Utopia che dovrebbe nuovamente essere inteso come internazionalismo della visione politica da declinare come mezzo concreto per il riscatto umano. E’ necessario riflettere attorno a un vero mutamento di paradigma tornando ancora, gramscianamente, a intendere la politica come tensione egemonica, recuperando lo spirito “ di parte”. Uno “spirito di parte” da porre al centro nel processo di evoluzione storica di mutamento nell’insieme delle relazioni politiche e sociali. La modernità può essere intesa partendo dalla proposizione di una concezione della critica che raccolga le differenze (penso al pensiero femminista, ecologista, pacifista) puntando a realizzare una sintesi progettuale raccolta in una scansione concreta dell’insieme delle contraddizioni moderne e post – moderne. Una nuova “sintesi del progredire umano”: questo manca alla filosofia e alla politica. Si tratta di tornare a essere in grado, perlomeno sul piano teorico, di porci sul terreno della proposizione di una “diversità sociale” al riguardo dell’esistente. Esistente che non deve essere considerato come immutabile nell’espressione di una sorta di pigrizia di una dominante intellettualità conformista. Non può esistere neutralità rispetto a questo passaggio, né arrendevolezza verso gli estremi dell’abbandono alla logica del potere che proprio la rilettura di Schmitt ci propone. Torna alla memoria, per rimanere a Gramsci, “odio gli indifferenti”. Essere consapevoli di questa esigenza di non neutralità, di intervento attivo, di rinuncia all’astrattezza e al disimpegno, ci fa tornare alla politica. Un ritorno alla politica (1) da considerare quale imperativo categorico. Un nuovo punto di partenza per la riconnessione dell’impegno. (1) Politica intesa come umana coesistenza quando questa assume l’aspetto di una consapevole identità collettiva, considerata dal punto di vista del Potere e del Conflitto (dalla voce Politica redatta da Carlo Galli in Enciclopedia del Pensiero Politico diretta da R.Esposito e C.Galli, editori Laterza, Roma – Bari 2005)