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martedì 16 agosto 2016
Franco Astengo: La stagione dei contratti
LA STAGIONE DEI CONTRATTI di Franco Astengo
In pieno Ferragosto una riflessione sui contratti nazionali di lavoro da rinnovare potrà apparire davvero fuori luogo e fuori tempo, tanto più che sarà difficile nell’elaborarlo sfuggire a qualche accento nostalgico.
Pur tuttavia può essere il caso di avviare una riflessione di questo tipo rivolta soprattutto verso chi, nel sindacato confederale e in quello di base, rimane convinto della funzione fondamentale di questo istituto.
Il sindacato, quale corpo intermedio agente per davvero nel contesto sociale, dovrebbe poggiare su tre pilastri, ormai perduti nella situazione italiana: il contratto collettivo nazionale di lavoro, l’automaticità dell’adeguamento salariale alla crescita dei prezzi (do you remember “scala mobile”?), un meccanismo interno di rappresentanza basato sull’elezione diretta dei delegati sui luoghi di lavoro ( i consigli).
Tutta roba superata e ormai affidata da tempo al ferrivecchi.
Tant’è può valere la pena parlarne ancora.
Dovrebbe (uso il condizionale, è d’obbligo) il contratto dei metalmeccanici : l’antica “madre di tutte le battaglie” di questa stagione.
Ricordate “scheda rossa e contratti”. Lo slogan era proprio riferito ai meccanici che poi avrebbero trainato tutte il resto. Rimembrare la “scheda rossa” mi ha fatto pensare anche a un altro punto: quello slogan teneva assieme proprio quelli che considerati i punti strategici dell’identità operaia. Il voto e i contratti. Anche il voto ha perso colore, si è stinto, non è più elemento d’identità, di affermazione, di orgoglio dell’appartenenza di classe.
I meccanici non faranno più da traino, né per i contratti, né per il voto.
I contratti delle categorie dell’industria sono annegati nel “modello Marchionne”, nella contrattazione aziendale, nel legare l’essere dell’operaio all’intensificazione massiccia dello sfruttamento, nel riproporsi delle discriminazioni che si credevano superate con l’avvento della “modernità”. Un recupero di intensità dello sfruttamento che riguarda con particolare e specifica pressione soprattutto il lavoro femminile, ripristinando (dal punto di vista dei padroni) l’antico conflitto tra lavoro subordinato, lavoro di cura, volontà riproduttiva.
Il pubblico impiego, l’altra grande categoria in campo non rinnova ormai da moltissimo tempo (anzi c’è chi sostiene che per avere 8 euro è meglio non rinnovare del tutto).
Il segretario di un sindacato (forse la UIL) afferma che occorrono 7 miliardi.
Ma la sostanza è un’altra: chi ha vissuto la lunga, difficile, stagione della ricomposizione delle categorie della Pubblica Amministrazione (ricordate i processi organizzativi che portarono alla “Funzione Pubblica” in CGIL, poi in CISL e ancora in UIL) non può non osservare come la lama del corporativismo abbia attraversato il corpaccione del pubblico impiego come il coltello nel burro. Un fenomeno di corporativismo di ritorno dovuto essenzialmente all’esagerazione di retribuzioni e premi di pseudo dirigenti (un frutto delle famigerate Bassanini) che hanno frantumato le categorie in un divario insopportabile.
Debbono rinnovare il contratto altre categorie importanti, alimentaristi, elettrici, grande distribuzione.
Intanto il job act ha fatto saltare diritti non costruendo neppure illusione, l’economia è ferma, la disoccupazione sempre a livelli superiori alla media europea, con un’altra precisa esclusione, quella dei giovani.
Un tempo si sarebbe parlato di “stagione dei contratti”.
Adesso timidamente il tema si affaccia dalle colonne dei quotidiani e non è certo oggetto del grande dibattito politico e sociale.
Il tono di questo intervento, come si accennava all’inizio può essere frainteso come nostalgico: in realtà l’intento era quello di porre la questione all’ordine del giorno soprattutto verso gli stessi possibili protagonisti, le lavoratrici e i lavoratori.
Perché il sindacato ha perso colpi (e su questo punto dovrebbero aprire una riflessione anche le compagne e i compagni che animano e organizzazioni le organizzazioni di base), ma la causa di questo stato di cose non è colpa del destino cinico e baro e dall’accanirsi dell’avversario.
Il sindacato non conta più perché non riesce più a considerare le lavoratrici e i lavoratori protagonisti assoluti.
Non “si stava meglio quando si stava peggio” beninteso , ma è innegabile un arretramento “storico” nella materialità delle condizioni del lavoro, mentre intorno crolla il complesso del minimo di una possibile tenuta civica e sociale e si vive nel disordine voluto dall’intoccabile “più forte”.
Servirebbe un recupero di senso.
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