Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
mercoledì 31 agosto 2016
martedì 30 agosto 2016
sabato 27 agosto 2016
Franco Astengo: Terremoto
I giornali parlano di 2.500 sfollati. Cifra definitiva, considerata la
ristrettezza dell'area terremotata. Un paese di 60 milioni di abitanti che
non riuscisse, provvisoriamente per qualche mese, a sistemare dignitosamente
e non sotto le tende questi suoi cittadini davvero fornirebbe la misura
dell'inciviltà con la quale l'Italia è stata governata nel corso di questi
anni. Un paese nel quale il ministro dell'Interno ha il coraggio di parlare di "miracolo laico
dei soccorsi" e che ha l’impudenza di volersi candidare a ospitare la maxi-macchina mangia soldi delle Olimpiadi.
Siamo alla reazione "doverosa" e "minima" di uno Stato di
diritto, che davvero in frangenti di questa entità non dovrebbe fari ricorso
al volontariato e alle sottoscrizioni dei privati. Adesso parte il grande
affare dell'antisismicità, si parla di 300 miliardi. Da affidare a chi ,
proprio ad Amatrice, ha costruito una scuola usando la sabbia al posto del
cemento? Deve essere chiaro che si tratta di una ricostruzione di
modestissime dimensioni, nella fattispecie ma che buona parte d'Italia
rimane a rischio. Con tutto il cordoglio per le vite umane perdute, ma
dimensioniamo le cose al loro punto giusto. Magari allontanando buona parte
degli "inviati speciali" che mettono il microfono sotto il naso della povere
gente chiedendo se "sono contenti di andare in tendopoli". La tendopoli la
meriterebbero ben altri, e sarebbe già una sistemazione " de luxe".
Franco Astengo
venerdì 26 agosto 2016
Giancarlo Bosetti: Socialdemocrazia
Da Repubblica, 26 agosto 2016
Dalla Grecia alla Scandinavia, passando per la Brexit, in tutta Europa i partiti progressisti vivono un declino elettorale che sembra inarrestabile di fronte all’avanzata populista Ma un percorso di rilancio è ancora possibile
Socialdemocrazia quel che resta di un’utopia razionale
GIANCARLO BOSETTI
Mentre Jeremy Corbin alla guida del Labour medita di riproporre socialismo e nazionalizzazioni tornando persino a discutere l’articolo 4 dello statuto del partito (la nota clause IV con il cui emendamento Blair aveva aperto la via a tre vittorie consecutive), questa estate 2016 — ironie della storia — può celebrare il punto più basso della ritirata della socialdemocrazia europea. Non tutti i partiti della categoria sono precipitati, finora, come il Pasok dal 44 al 6% in soli 6 sei anni, ma i segni del declino sono drammatici nelle urne, nei sondaggi, nell’invecchiamento dei sostenitori rimasti fedeli. I numeri aggregati su una distanza più lunga dicono che la forza elettorale della socialdemocrazia in Austria, Danimarca, Francia, Germania e Regno Unito è passata dal 41% nei primi anni ottanta al 28 (l’Italia ha una storia in parte diversa),
mentre sono cresciuti in parallelo gli sfidanti anti-sistema, di destra e di sinistra, passando dal 9 al 23% (da un’analisi Hobolt-de Vries per Policy Network). Il 52% per il “leave” nel referendum britannico del 23 giugno è anche da mettere nel conto dei passivi della socialdemocrazia (come il 55% del referendum francese del maggio 2005 che bocciò la costituzione europea), per la stessa ragione per cui è da mettere tra gli attivi dei movimenti nazionalisti, anti-Ue. Sono molti gli appuntamenti ai quali la sinistra è arrivata divisa — a Parigi, Londra, Berlino e Roma — e con le idee poco chiare (vero anche per i suoi avversari tradizionali) e incerta nelle risposte da dare a movimenti piuttosto abili — da Ukip al Front National, da M5S al Partito liberale austriaco — nell’imporre una agenda flessibile, plasmata sugli umori dell’elettorato (sì, anche improvvisata e superficiale) ma capace di raccogliere rabbia e insicurezza, ricca di promesse e libera da responsabilità e verifiche di governo.
Il declino del ciclo socialdemocratico (o «la fine», come la chiamava Ralf Dahrendorf, già vent’anni fa, «fine — diceva — per compimento dei suoi obiettivi ») non è un tema nuovo e ogni volta che se ne è parlato i difensori più strenui dell’idea, tra i quali alcuni dei migliori politici espressi dalla classe dirigente europea, hanno sfoderato l’argomento forte della “adattabilità” dei partiti socialisti o laburisti a interpretare il conflitto politico contemporaneo in forme aggiornate, nonostante gli sconvolgimenti accaduti in cielo e in terra, nell’economia, nella cultura, nella tecnologia. Ora però la rimonta sembra più difficile, perché le defezioni avvengono in direzione dei nuovi sfidanti, mentre l’agenda del nostro tempo presenta contraddizioni insormontabili per partiti di tradizione socialista: la indispensabile legislazione sul lavoro flessibile, la “platform economy” (eBay, Amazon etc) al posto delle fabbriche, la liberalizzazione piena di una economia digitale (Uber), la sharing economy, i consumi collaborativi, il crowdfunding, i mercati ibridi, l’immigrazione sono tutti campi dove gli incursori dei partiti sfidanti possono liberamente schierarsi nel modo più redditizio. Le Monde, a metà agosto, ha dedicato due pagine all’impasse della sinistra europea: alla crisi del Psf arrivato terzo alle ultime regionali, 40mila tessere restituite dal 2012; agli spagnoli lacerati su appoggiare o no la coalizione con Rajoy; al caso slovacco, con un segretario, Robert Fico, alleatosi con due partiti di estrema destra; al duello in corso nel Partito laburista tra gruppo parlamentare e segretario. Avrebbe potuto raccontare il clamoroso caso danese, dove il Dansk Folkeparti, esemplare perfetto di malleabilità populista si è costruito come l’idrovora più efficiente nel succhiare voti ai vecchi partiti: meno tasse, blocco degli immigrati, protezionismo contro la globalizzazione. Il Df ha raggiunto il 33,7% contro il 26% dei socialdemocratici, ma non va al governo nonostante sia il primo partito. E sulla paradigmatica questione di Uber i populisti danesi si scagliano all’arma bianca contro, mentre la ragionante sinistra è divisa tra una vocazione liberale e una protezionista: quindi un po’ di Uber, ma non troppo. La natura di governo della socialdemocrazia, che si è stabilita così solidamente in Europa, la rende meno mobile sulle gambe nel corpo a corpo con i populisti, anche quando è all’opposizione.
Chi difende la “adattabilità” dei partiti socialdemocratici, comunque si chiamino, fa valere la forza di strumenti politici, che si sono mostrati capaci di metabolizzare nuove stagioni politiche e nuove culture. Ma lo sono ancora? Il dubbio adesso è lecito e potrebbe essere giunta davvero la fine di molti vecchi partiti. Diverso il caso del Partito democratico americano, che ha dimostrato di non conoscere aggressioni da “fuori”, ma di essere pienamente contendibile da outsider (Bernie Sanders) dall’interno. A dire il vero la stessa cosa si può dire ad abundantiam anche per i Repubblicani (Trump, più che outsider, un intruso indesiderato). Prendiamo atto che quel sistema è davvero molto rappresentativo e “inclusivo”. La vicenda è solo apparentemente simile a quella di Corbin, perché — qui sta la differenza chiave — in questo caso le primarie sono circoscritte all’area dei sostenitori e affiliati del partito, mentre negli Stati Uniti sono aperte a tutti. Gli affiliati tendono a eleggere un candidato più partigiano e meno attraente per gli elettori in generale. I laburisti usavano il gruppo parlamentare come contrappeso all’estremismo (i deputati ci tengono a vincere). E infatti oggi la spaccatura passa di lì, appare insanabile, e c’è chi parla di scissione.
Il Partito democratico italiano, costruito dalla nascita su una ipotesi di contesa bipartitica “americana”, ha adottato primarie aperte il che spiega, nel 2014, la vittoria schiacciante dell’allora outsider Renzi. Il Partito socialista francese è orientato a primarie per le presidenziali del 17, aperte alla coalizione, dunque non solo agli affiliati. Un cambiamento capace di rendere i socialisti una “scatola elettorale” buona per ora e per sempre in Europa potrebbe essere proprio questo. Non basteranno certo le primarie aperte. Bisognerà anche mettere fine alle “guerre civili” che dividono i partiti di centrosinistra, aprire il dossier dell’innovazione nel modo di far politica, nell’era di Change.org e di Avaaz, integrare le politiche di governo con strumenti di mobilitazione e partecipazione, utilizzare strumenti e tecniche della democrazia deliberativa, perché si veda quanto la politica tiene all’opinione dei cittadini, specie se arrabbiati, e non solo dei suoi simpatizzanti. Non mancano eccellenti ricette per risorgere, ma vanno utilizzate, se non si vuole che la nave vada a fondo.
giovedì 25 agosto 2016
Franco Astengo: L'attimo
L’ATTIMO di Franco Astengo
E’ facile, e da più parti lo si sta già facendo, avviare la discussione sul post – terremoto scrivendo di costruzioni anti – sismiche, di piano nazionale di riqualificazione del territorio, di funzionalità della protezione civile, di mezzi e risorse a disposizione.
Sarebbe banale, anche se sempre necessario, riflettere sull’attimo fuggente alla rovescia, il contrario del carpe diem: quando il diem afferra la vita delle persone e la azzera, non tanto e non solo sottraendo il soffio vitale, ma mandando all’aria il bilancio di intere esistenze, l’accumulo di cose semplici e il lascito di pensieri profondi di quelli che segnano il cammino dell’individuo.
L’attimo provoca l’abbandono, il sentirsi trafitto sul sentiero della vita,l’abbandonarsi alla fatalità come meta estrema dell’ingegnarsi umano.
Tutto questo è vero, è stato detto tante volte, rappresenta il bagaglio dell’ovvietà che pure in ogni simile occasione va disfatto e ritrovato.
Probabilmente, però, occasioni come questa – proprio in relazione al momento storico che non è mai specifico e insieme non è mai il banale scorrere del fiume – fanno sì che risulti possibile una riflessione sulla folle corsa che la modernità impone alla ricerca di un verticismo assoluto nella detenzione del potere, nell’assolutismo dell’io come essere esaustivo della finalità umana come punto di ricerca dell’assolutismo politico.
Emerge un contrasto evidente, si sente uno stridore terribile proprio tra questa ricerca della verticalità del potere assoluto e l’orizzontalità piatta dello scorrere della vita umana.
Una orizzontalità perenne, che si perpetua nonostante le deviazioni improvvise che un itinerario di vita trova strada facendo.
Questi frangenti impongono di tornare a riflettere proprio sull’appiattirsi delle relazioni, sull’impossibilità di riconoscere un ordine e un comando che appaiono inutili nel loro vano dimostrarsi.
L’orizzontalità dell’essere reclama il collettivo, il “noi”, e respinge l’io.
Non si tratta di un richiamo, pur doveroso, all’uguaglianza e alla solidarietà ma qualcosa di più profondo di rifiuto dell’esercizio dell’io in funzione della sopraffazione dell’altro.
L’ingiustizia come fattore della convivenza sociale, elemento essenziale del verticismo politico, non può essere accettata quando l’attimo livella le esistenze e appiattisce il divenire della storia indirizzandolo verso l’assenza di esito.
L’attimo fa sparire il potere come arroganza e suoi epigoni si aggirano orfani e smarriti in cerca della zattera di una telecamera.
L’Occidente , residuo invertebrato della “politica di potenza”, sembra arrendersi all’ineluttabile e non basta più una teodicea laica per giustificare l’imposizione del proprio governo verso altri.
Sarà difficile evitare un rinnovamento del nichilismo, come forma estrema della propria soggettiva affermazione di fronte al dramma collettivo.
Tornare dal soggettivo all’oggettivo, dall’individuale al collettivo, dal non riconoscimento del potere all’esercizio di una gestione sociale delle risorse disponibili, non sarà semplice in una società che abbiamo voluto organizzata “in pianura”.
Il terremoto impiega un secondo a distruggere individualismo e consumo.
Costruire un’alternativa sarà compito lungo e arduo: avremo bisogno soprattutto di motivare un senso, un indirizzo, un destino.
La politica come destino riprendeva tempo addietro Antonio Peduzzi da Karl Lowith.
Ecco, appunto: la politica come destino non come potere.
martedì 23 agosto 2016
Franco Astengo: Inganni
I MAESTRI DELL’INGANNO di Franco Astengo
Il senso di confusione sembra essere l’elemento prevalente di questa fase nel sistema politico italiano.
L’opinione pubblica appare pressata da un governo che non è riuscito a fornire una minima risposta ai gravi problemi del Paese, sia sul piano interno sia su quello internazionale.
Dopo essersi insediato attraverso una manovra non legittimata (com’era già avvenuto in precedenza con i governi Monti e Letta) da alcun suffragio popolare, tramite l’acquisizione di un premio di maggioranza alla camera ottenuto dal PD grazie ad una legge elettorale dichiarata incostituzionale (e al voto all’estero) e l’appoggio di varie cordate di transfughi eletti in altri schieramenti, il governo Renzi (personaggio il cui unico riscontro derivante dal suffragio popolare risiede nelle primarie del PD dove ottenne 1.900.000 voti pari al 3,8% dell’intero corpo elettorale: il che significa che non è stato votato da ben oltre il 95% degli aventi diritto) ha impostato la propria attività sulla propaganda e il facile populismo.
Populismo che ha retto per un breve periodo, grazie alla famosa mancia degli 80 euro che fornirono un rendimento notevole sul piano elettorale, anche se, alla fine, non va dimenticato che gli 11 milioni di voti ottenuti dal PD nelle elezioni europee del 2014 valevano soltanto il 22% dell’intero corpo elettorale. Il PD non fu votato, in quell’occasione dal 78% del totale degli aventi diritto.
Questi dati, il 3,8% di Renzi, il 22% del PD diventano significativi allorquando si pretende, non tanto di governare un Paese attraverso una maggioranza, ma di spostarne addirittura l’asse costituzionale imponendo un regime di tipo plebiscitario – personale.
In seguito la dura realtà dei fatti nel campo dell’economia, della politica estera, della politica riguardante i migranti ha fatto scemare rapidamente quell’effimero e presunto patrimonio elettorale, come si è constato in diverse tornate elettorali successive.
Ciò nonostante questo governo ha imposto un imponente pacchetto di deformazioni della Costituzione Repubblicana, contenente norme tali da stravolgere l’impianto parlamentare voluto dall’Assemblea Costituente e ha fatto approvare, a colpi di voti di fiducia, una legge elettorale che ricalca i termini di quella precedente bocciata dalla Corte Costituzionale: Corte Costituzionale che, in seguito a ricorsi presentati da molti cittadini, riesaminerà la materia il prossimo 4 Ottobre.
Nel frattempo le deformazioni costituzionali, non avendo ottenuto la maggioranza qualificata prevista in sede di approvazione definitiva da parte del Parlamento, saranno sottoposte a referendum popolare confermativo: referendum popolare confermativo per il quale, è bene ricordarlo, non è previsto alcun quorum di partecipazione come invece avviene nei casi di referendum abrogativo.
Rispetto al referendum popolare confermativo c’è da ricordare ancora come, nonostante la Corte di Cassazione abbia già pronunciato in data 14 Agosto il proprio “via libera”, il Consiglio dei Ministri non abbia ancora fissato la data del voto.
E’ stato sul referendum confermativo che si è scatenata la ridda della confusione.
Il governo, o meglio il suo Presidente del Consiglio (in Italia non esiste né Premier, né Primo Ministro), aveva inizialmente messo in gioco, sull’esito referendario, non solo la prosecuzione dell’esperienza dell’esecutivo ma addirittura la propria personale “carriera” (molto tra virgolette) politica.
Si è tentato anche di delegittimare in maniera molto pesante chi si è mosso per contrastare questa deriva organizzando i comitati del “NO”: gli strali si sono rivolti soprattutto verso l’Associazione dei Partigiani (partigiani veri o partigiani finiti), gli illustri costituzionalisti presenti nello schieramento del NO (parrucconi). Si è persino detto che votare NO avrebbe significato votare contro il Parlamento.
Insomma: la previsione di un’apocalisse, ben alimentata anche da Confindustria e da alcuni giornali economici stranieri legati alla strategia liberista e di finanziarizzazione dell’economia (i promotori della “logica delle disuguaglianze”) che hanno tirato in ballo questioni legate all’andamento complessivo dell’economia (fin qui pessimo, con riforme tutte tese a favorire lo sfruttamento intensivo delle lavoratrici e dei lavoratori) e – addirittura – dell’assetto della disgraziata Unione Europea (messa a rischio dalla fuoriuscita decisa dai cittadini della Gran Bretagna).
Proprio ieri, a questo proposito, si è svolta un’inaudita manifestazione propagandistica, davvero del tutto fuori senso, sia rispetto al luogo sia al riguardo del riferimento storico incautamente utilizzato.
Intanto, però, il registro sembra essere cambiato: l’esito del referendum non mette più a rischio il governo (e soprattutto la “carriera”, sempre tra molte virgolette di Renzi), si cerca il dialogo sia con la minoranza PD, sia con l’ANPI proponendo dibattiti tra il “SI” e il “NO” come se si trattasse di una normale kermesse e cancellando (o meglio tentando di cancellare) tutto quanto di catastrofico era stato detto in precedenza.
Tutto ciò nel solito stile arrogante, cercando di coniugare ricatto e mistificazione.
Occorre chiarezza estrema per come questa vicenda si sta sviluppando ed è necessario che il NO della sinistra abbia piena consapevolezza dell’importanza della coerenza nel sostegno della propria posizione.
Sulle colonne del “Fatto quotidiano” Alfiero Grandi ha messo tutti giustamente, in guardia, rispetto all’enormità delle pressioni cui sarà sottoposta, nei prossimi mesi, l’opinione pubblica e specificatamente quella parte orientata verso il “NO.
In un’intervista al Corriere della Sera, invece, il presidente del Comitato per la Democrazia Costituzionale Alessandro Pace rigetta l’accusa di conservatorismo rivolta al campo del NO, smontando il presunto “riformismo” contenuto nella deforma e avanzando anche una serie di proposte tese al miglioramento dell’assetto istituzionale del Paese.
Entrambi i testi, quello di Grandi e quello di Pace, pongono oggettivamente alle espressioni di sinistra presenti nel variegato fronte del “NO” una questione molto importante: quella di dotarsi di una precisa fisonomia politica, di evitare di apparire quasi come un’appendice di un regolamento di conti interno al PD (con le visioni di deleterio compromesso che già appaiono all’orizzonte a questo proposito) e soprattutto di svolgere una funzione di aggregazione e raccolta di consenso utile a favorire il successo dell’opzione contraria alla deformazione costituzionale in oggetto.
E’ necessaria l’espressione di un “NO” a sinistra che insieme rappresenti l’opposizione a questo Regime, nel suo complesso, e l’alternativa possibile sul piano politico.
La scienza e la coscienza (tanta) di cui dispone il fronte del NO va adoperata essenzialmente in funzione pedagogica perché le buone ragioni dell’opposizione siano diffuse in tutta la società attraverso un’opera di convincimento capillare dotando tutte le persone disponibili dei necessari strumenti di conoscenza della materia e dell’analisi del quadro politico dentro il quale questa vicenda s’inserisce.
E’ il caso allora di ripensare alle roboanti affermazioni della “vocazione maggioritaria”, dell’ “Italia che cambia verso”, del nazionalismo sparso a piene mani, delle passeggiate con Marchionne, della fiducia posta a ogni piè sospinto per soffocare il dibattito parlamentare, dell’irrisione delle minoranze, della promozione del trasformismo, dei “salvataggi” delle banche di famiglia, delle nomine interne al “Giglio Magico”, della pretesa di attaccare la Costituzione nel senso indicato dai grandi finanzieri globali, e capiremo meglio la ragioni di costruire, da sinistra, una presenza importante del “NO” come pieno fatto politico, senza incertezze e concessioni e senza cadere nella trappola di una confusione inventata a bella posta da maestri dell’inganno.
domenica 21 agosto 2016
Livio Ghersi: Il dramma di Aleppo
Il dramma di Aleppo
Tutti abbiamo visto in televisione Omran, il bambino di Aleppo fotografato subito dopo essere stato estratto dalle macerie dell'edificio in cui abitava. Omran non piangeva; era frastornato, stupito. Cercava di togliersi dal volto la polvere ed il sangue.
Un bambino di cinque anni, testimone perfetto del fatto che le guerre non risparmiano niente e nessuno.
Eppure, tra i tantissimi commentatori intervistati dagli organi di informazione, ci è sembrato di cogliere accenti stonati; tanto più stonati quando espressi da persone che rendevano dichiarazioni in qualità di rappresentanti di Organizzazioni non governative che operano nel settore del volontariato.
Sembrava, infatti, che tutto questo orrore avesse un unico responsabile: il Governo siriano di Bashar al-Assad e la Russia che lo sostiene. Rappresentanti ufficiali di importanti Organizzazioni di volontariato non governative dovrebbero sapere che potranno operare più efficacemente se è riconosciuta la loro neutralità rispetto alle parti belligeranti; così come serve davvero a poco piagnucolare che occorre imporre la pace subito!
In Siria, almeno dal 2012, si svolge una sanguinosissima guerra civile e le vittime fra la popolazione inerme (bambini, donne, vecchi) non sono cadute da una parte sola. Fino all'estate dell'anno scorso (2015) sembrava che la sorte del regime siriano di al-Assad fosse segnata. Gli organi d'informazione diffondevano mappe che dimostravano come l'ISIS ed altri gruppi combattenti controllassero ormai la quasi totalità del territorio siriano, eccetto Damasco, che pure era minacciata da vicino. Quando la Russia ha deciso di intervenire e le dinamiche della guerra guerreggiata hanno cominciato ad invertirsi, è successa una cosa curiosa: i medesimi organi di informazione hanno diffuso nuove mappe del territorio, da cui risultava che la presenza dell'ISIS in Siria era in fondo marginale (Raqqa e poco più), perché gli altri gruppi armati ribelli sarebbero stati niente meno che "moderati" e "filo occidentali". Ci vuole proprio una grandissima faccia tosta nel presentare i combattenti del Fronte di al-Nusra, per intenderci quello che ancora controlla una parte di Aleppo, come "moderati". Al-Nusra è una filiazione di al-Qaida. Ricordate l'attentato terroristico che determinò la distruzione delle torri gemelle a New York nel settembre del 2001? Due semplici domande. Prima: al-Nusra vuole imporre con la forza la sharia, ossia la legge islamica, a tutti gli abitanti? Seconda: al-Nusra, esattamente come l'ISIS, perseguita tutti i non credenti nell'Islam rettamente inteso (islamici sciiti, cristiani di tutte le osservanze, altre minoranze religiose, pagani)? La risposta ad entrambe le domande è sì. Sarebbe questa la formazione "filo-occidentale"?
Bisogna avere chiaro cosa sia diventata la guerra, in relazione al progresso scientifico e tecnologico che ha reso possibile la produzione di armamenti sempre più distruttivi.
Le armi sempre più distruttive possono essere usate anche da coloro che, in un conflitto, teoricamente stanno dalla parte giusta. Si pensi all'aviazione inglese e americana che, per affrettare la conclusione della seconda guerra mondiale in Europa, iniziò a bombardare grandi città con il deliberato intento di raderle interamente al suolo, come nel caso di Dresda nel febbraio del 1945. Si pensi all'aviazione degli Stati Uniti che, per affrettare la conclusione della seconda guerra mondiale in Asia, sganciò bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, nell'agosto del 1945. Di fronte ad episodi come quelli richiamati, si smarrisce la distinzione fra buoni e cattivi. In modo pianificato si decide di togliere la vita, non a forze combattenti, ma a centinaia di migliaia di persone inermi che costituiscono la popolazione civile. In questi casi, ciò che sicuramente viene sconfitto e mortificato è il sentimento di umanità, che dovrebbe derivare dalla coscienza di appartenere all'unica specie umana.
Non si cada nell'errore di pensare che Dresda e le bombe atomiche sul Giappone siano episodi isolati. Per limitarci alla storia recente della nostra Italia, basti richiamare alla memoria qualche fatto: lo sbarco alleato in Sicilia (iniziato nel luglio del 1943) fu preceduto e accompagnato da importanti bombardamenti aerei delle maggiori città siciliane, come Palermo e Messina. Le bombe non cadevano soltanto su obiettivi militari, ma anche al centro delle città, dove c'erano edifici di civile abitazione. Sempre nel luglio 1943 ci fu il bombardamento aereo di Roma, in particolare nel quartiere San Lorenzo, ed il Papa del tempo, Pio XII, accorse subito per portare conforto alla popolazione. L'elenco potrebbe essere molto lungo, purtroppo; ci limitiamo a ricordare che, ad esempio, anche Milano fu oggetto di violenti bombardamenti aerei.
Bisogna avere chiaro che, quando una guerra è in corso, è quasi impossibile presentarsi a chi sta vincendo militarmente e chiedere che si fermi. La risposta sarà che non può fermarsi, perché anni ed anni di guerra civile non sono stati uno scherzo, e ci vuole rispetto anche per i tanti che sono morti combattendo per la propria causa. Il ritorno alla normalità, la costruzione della pace, che coinciderà con la ricostruzione materiale, saranno possibili soltanto dopo che il territorio sarà riportato sotto il sicuro controllo di un'unica autorità di governo, con l'eliminazione sistematica di tutte le sacche di resistenza armata.
Il regime degli Assad è sicuramente una dittatura, che si protrae dagli anni Settanta del Novecento. Ribellarsi ad una dittatura è giusto; ma non tutto ciò che fanno gli oppositori in armi è altrettanto giusto. I ribelli possono essere, a loro volta, non innocenti.
Ad esempio, non è innocente farsi scudo della popolazione civile. Un comandante militare che sa di avere perduto cerca di trattare, non soltanto per salvare i propri soldati, ma anche e soprattutto per evitare ulteriori inutili devastazioni ed ulteriori inutili lutti alla popolazione civile. Recentemente la città siriana di Manbij è stata liberata (dai Curdi, sostenuti dagli Stati Uniti) ed è stato consentito ad una colonna di miliziani dell'ISIS di abbandonare la città e di mettersi in salvo, oltre tutto portando con sé le armi.
A differenza di chi soffre di preconcetti negativi, ritengo che né il Presidente russo Putin, né il Presidente siriano Bashar al-Assad, siano indifferenti a vicende come quella del piccolo Omran. Tutte le persone responsabili vorrebbero farla finita con la violenza, soprattutto quando fa versare sangue innocente. Di conseguenza, i nostri pacifisti, invece di preoccuparsi soltanto dei corridoi umanitari per portare acqua e viveri alla popolazione civile, dovrebbero comprendere che è almeno altrettanto importante favorire una trattativa affinché sia consentito ai miliziani combattenti di al-Nusra di lasciare vivi la città di Aleppo e trovare riparo altrove, con un percorso di fuga concordato e garantito. Qualora invece i predetti miliziani volessero inutilmente resistere fino all'ultimo uomo, il giudizio etico e politico su di loro non potrebbe essere diverso da quello che gli storici hanno espresso su Adolf Hitler, il quale, chiuso nel bunker della Cancelleria a Berlino, voleva che tutti i tedeschi morissero con lui, per espiare la colpa di essere stati sconfitti.
Quando finalmente sarà possibile chiudere la guerra in Siria, con l'assenso di tutti i soggetti internazionali coinvolti, è probabile che Bashar al-Assad dovrà lasciare il potere; ma è importante che si determinino le condizioni per mantenere quello che è il lascito migliore del regime. Perché qualcosa di buono ha fatto, oltre i tanti difetti. Gli al-Assad, facenti parte, dal punto di vista religioso, di una comunità di Alauiti, di osservanza sciita (ma, non coincidente con gli Sciiti duodecimani dell'Iran), hanno realizzato un regime di tolleranza religiosa che per decenni ha effettivamente garantito sia gli islamici Sunniti, che sono la stragrande maggioranza della popolazione in Siria, sia tutte le minoranze cristiane, o di altri culti. Tale tolleranza religiosa trae origine anche dalle caratteristiche laiche del partito Ba'th, manifestazione peculiare del socialismo arabo, in cui gli al-Assad si sono formati. La Siria ha una storia antichissima e lì tutte le religioni si sono confrontate ed hanno lasciato importanti tracce di sé. Azzerare tutto per imporre l'Islam rettamente inteso dei fanatici wahhabiti (originari dell'Arabia Saudita, fin dal diciottesimo secolo) o salafiti (originari del Nord Africa, dal diciannovesimo secolo), significa perdere tesori di cultura, di spiritualità, di umanità.
Altro merito del regime è quello di aver rispettato, conservato e valorizzato tutti gli importanti monumenti e resti archeologici che si trovano nel territorio siriano. Emblematica, da questo punto di vista, l'uccisione, da parte di miliziani dell'ISIS, il 18 agosto 2015, dell'anziano archeologo Khaled al-Asaad, responsabile del sito archeologico di Palmira.
Bisogna comprendere che numerosi oppositori del regime non chiedevano le nostre libertà (di manifestazione del pensiero, di associazione, di culto, di iniziativa economica, eccetera), ma volevano abbattere uno Stato dal loro punto di vista ateo, per imporre la legge islamica, secondo l'osservanza delle frange più radicali dei Sunniti.
Palermo, 21 agosto 2016
Livio Ghersi
Franco Astengo: Praga
ANCORA SU PRAGA ’68: IL CONTESTO POLITICO E CULTURALE DELLA “PRIMAVERA” di Franco Astengo
Ancora una volta è importante ricordare Praga ’68, momento fondamentale di snodo nella storia europea e mondiale. Una vicenda molto diversa da quella di Budapest ’56. Da Praga sortì la lunga fase del “gelo brezneviano” e si posero le condizioni oggettive del crollo del sistema sovietico. Emerse l’impossibilità di una autoriforma che pure nel periodo ’56- ’64 aveva animato il dibattito all’interno del movimento comunista internazionale. Questa analisi intende proprio addentrarsi, sia pure superficialmente, in questo fondamentale aspetto di una delle più drammatiche vicende del ‘900.
L’invasione di Praga, da parte delle truppe del Patto di Varsavia, avvenuta il 21 agosto 1968 allo scopo di stroncare il tentativo di riforma del “socialismo reale” da parte del Partito Comunista Cecoslovacco guidato da Dubcek è stato un punto di tale importanza nella storia della sinistra mondiale che è giusto, ancor oggi, analizzarne gli sviluppi con il massimo dell’attenzione e della capacità di approfondimento.
Ritorniamo allora sull’argomento, uscendo da un filone forse eccessivamente “italocentrico” (pur importantissimo per i riflessi che quella vicenda ebbe su di un soggetto di grande portata come il PCI) ed esaminare con maggior cura il contesto politico – culturale al cui interno i fatti avvennero.
Il tentativo della “primavera di Praga” iniziò coltivando l’ipotesi che fosse possibile andare oltre le diagnosi e i rimedi proposti dal XX congresso del PCUS nel 1956, utilizzando lo spazio aperto dalla nuova politica di destalinizzazione inaugurata da Kruscev.
Data la situazione complessiva entro il blocco sovietico, in un primo tempo, i successi dei tentativi che furono svolti sulla base di quell’ analisi, risultarono scarsi ed effimeri.
L’idea di “andare oltre” il XX congresso pur essendo presente come corrente all’interno dei partiti comunisti in tutto l’ambito del Patto di Varsavia, ebbe effettivamente una funzione politica decisiva soltanto in due casi: in Ungheria e in Cecoslovacchia.
Il caso ungherese risultò anomalo in due sensi: infatti, il primo insorgere di un movimento di riforma comunista (il governo Nagy tra il 1953 e il 1955) si verificò addirittura in precedenza alla celebrazione del XX congresso e fu inevitabilmente destinata al fallimento; il secondo tentativo, invece, nel 1956 la temporanea egemonia della corrente riformista era solo la conseguenza di un’esplosione rivoluzionaria incontrollabile e la reazione dell’apparato dirigente conservatore e dell’URSS fu, logicamente, commisurata a quel dato d’incontrollabilità.
In contrasto con la nascita precoce e la distruzione prematura della variante ungherese, il tentativo di riforma in Cecoslovacchia fu più lento a maturare, più saldamente radicato e meglio attrezzato per una graduale radicalizzazione.
Ebbe origine, infatti, da una reazione tardiva rispetto al XX congresso e acquisì un più deciso impulso a partire dal 1963; la sua vittoria nel 1968 fu il segnale di partenza per movimenti di base, che avevano negli intellettuali il supporto più attivo, ma si espandevano ad altri settori della popolazione.
Il modello cecoslovacco può essere perciò considerato il solo caso completo di tentativo di riforma di un regime “a socialismo reale”.
Su queste basi si verificò una grande osmosi tra l’ideologia di trasformazione del regime e l’analisi critica complessiva del “socialismo reale” stesso.
Negli anni’60 il crescente movimento di riforma assorbì l’immissione di energie intellettuali di varie correnti e discipline e anche dopo l’invasione, l’eredità della “primavera” continuò a influire in modo diretto sull’insieme del dissenso, a Est come a Ovest.
Si dimostrò subito come il programma di riforme fosse incompatibile con gli interessi costituiti del gruppo dirigente sovietico, nel quadro – tra l’altro – di un nuova forzatura bipolare dell’equilibrio mondiale in conclusione del tentativo di distensione attuato nella prima metà degli anni ’60 (pur con grandi contraddizioni: muro di Berlino, missili a Cuba).
Dopo la seconda guerra mondiale, la Cecoslovacchia (paese di grande tradizione industriale, con una classe operaia molto avanzata fin dagli anni’20 in un contesto di disponibilità di alta tecnologia in campo meccanico , dell’industria di precisione e degli armamenti) era il paese nel quale il partito comunista disponeva del maggior sostegno di massa tra i lavoratori e gli intellettuali.
Ciò aveva reso più facile la conquista del potere e meno vulnerabile il regime postrivoluzionario, anche se il meccanismo iniziale era stato quello del classico colpo di stato nella primavera del ’48.
Di fronte alla politica di “normalizzazione” si aprì, dunque, fin dall’inizio degli anni’60 per poi prendere corpo nel corso del decennio l’idea di un nuovo sistema politico.
Questa idea fu al centro dei più franchi dibattiti pubblici che ebbero luogo nei Paesi dell’Est, tra il gennaio e l’agosto del 1968.
Nella sinistra in cui i comunisti lavoravano in direzione dell’emancipazione politica delle forze sociali, c’era una traccia autenticamente pluralista.
Nel loro programma c’era anche, e veniva apertamente affermato da alcuni teorici del movimento, uno sforzo per cambiare i rapporti tra stato e società civile.
In questo senso, un primo documento programmatico di Zdenek Mlynar rappresentava in modo fedele questa linea di sviluppo “ Prima di tutto si deve riconoscere che lo status di agente politico indipendente doveva essere attribuito alle diverse componenti specifiche dei gruppi e degli strati sociali, ai gruppi d’interesse comune e, in ultimo, a ogni cittadino in quanto individuo”.
Nelle discussioni meno ufficiali emergevano due linee di differenziazione: una di esse divideva i gradualisti da coloro che sostenevano che solo un’accettazione immediata dei principi pluralistici poteva assicurare il successo a lungo termine del movimento.
Il tema dibattuto in modo più vivace era quello dell’istituzionalizzazione dell’opposizione politica.
Questo tema, dopo un serrato scambio di vedute fra maggio e giugno, fu posto in ombra da questioni più urgenti ma non vi è ragione per dubitare che per molti all’interno del PCC si concepisse l’introduzione di un sistema pluripartitico come lo sbocco logico del processo di democratizzazione, anche se non si arrivava a pensare che le condizioni del 1968 fossero mature per un simile esito.
Il secondo aspetto delle discussioni si sviluppò più lentamente e riguardava l’introduzione di elementi di democrazia diretta, in luogo della scelta di una più stretta osservanza dei principi della democrazia parlamentare.
In termini più pratici ciò significava la richiesta di autogestione.
Dopo alcuni inizi incerti l’idea di “organi democratici di gestione” guadagnò rapidamente terreno e quando apparvero sulla scena i “Consigli del popolo lavoratore” (da non confondersi con i consigli operai intesi in senso stretto) il conflitto prima latente fra concezioni democratiche e tecnocratiche si fece più acuto.
I tentativi di difendere i Consigli furono gli atti più importanti della resistenza durante i sette mesi tra l’invasione e l’avvento della normalizzazione completa avvenuta nell’aprile del 1969.
A posteriori, si può vedere in questo passaggio un primo accenno a una strategia che, più tardi, sarebbe stata applicata in Polonia: basare la lotta per le riforme su un movimento sociale esterno al Partito.
Ma in Cecoslovacchia questa ipotesi fu prospettata solo quando il movimento della “primavera” era ormai sulla difensiva.
Il dibattito sull’autogestione chiamava in causa anche il terzo pilastro dell’ideologia delle riforme: la teoria della “produzione socialista di beni di consumo”.
Riforme del genere erano discusse e in una qualche misura messe in atto dappertutto, ma solo in Cecoslovacchia questo tema era legato a quello di un generale rinnovamento di carattere intellettuale e politico.
In Ungheria le riforme economiche si spinsero più avanti rispetto agli altri paesi dell’Est europeo, ma il loro contesto sociale fu determinato dalla sconfitta della rivoluzione del 1956 e dalla distruzione dell’ipotesi di riforme politiche; in Polonia le proposte di riforme economiche divennero negli anni’60 sempre più accademiche e fuori sintonia con la politica di Gomulka.
Dopo l’aprile del 1969 il tentativo di riforma, nel senso tradizionale del termine, non costituì più un’opzione praticabile, ma le conclusioni da trarre dalla sconfitta non erano per nulla ovvie.
In seguito Rossana Rossanda introducendo, dieci anni dopo a Venezia, un convegno su “potere e opposizione nelle società post – rivoluzionarie” organizzato dal PdUP-Manifesto e al quale parteciparono per la prima volta di persona dissidenti dell’Est russi, polacchi, cecoslovacchi, sostenne che si era smarrita in quel frangente l’idea del socialismo, non come generica aspirazione, ma come “teoria di una società”, modo diverso degli uomini di organizzare la loro esistenza.
Ricordare gli elementi fondativi della primavera di Praga, oggi di fronte al fallimento epocale dell’ipotesi capitalistica seguita alla caduta dei blocchi e all’affermazione di un solo modello di egemonia sociale fondato sull’ìper-liberismo e sull’assolutismo della finanza, è ancora esercizio utile se partiamo proprio dall’idea di non abbandonare l’obiettivo di una società “altra” fondata sull’eguaglianza e sulla fine dello sfruttamento indiscriminato sul genere umano e nella stessa divisione di genere e sulla natura, che erano rimaste le aspirazioni di fondo anche di coloro che condussero, sconfitti, quel drammatico tentativo dei primi mesi di quel fatidico ’68. I carri armati lo spezzarono irrimediabilmente nella notte tra il 20 e il 21 agosto.
venerdì 19 agosto 2016
giovedì 18 agosto 2016
Franco Astengo: Democrazia costituzionale
DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE di Franco Astengo
Un importante contributo al dibattito in vista del referendum confermativo sulle deformazioni costituzionali ci è venuto, in questi giorni, da un intervento di Roberto Esposito pubblicato nelle pagine culturali di “Repubblica”.
Esposito prende le mosse da quello che lui definisce, all’interno dei sistemi politici occidentali, come l’emergere di un deficit di legittimazione nella frattura che si è aperta tra valori e norme.
Ci troviamo, in sostanza, in una non generica crisi di valori e si ricordano così i passaggi fondamentali dei tre maggiori teorici dello Stato: da Hobbes e la legittimazione del potere statale attraverso il patto tra gli individui che lo istituiscono, a Weber e le sue tre forme di legittimità: la tradizione dell’eterno ieri, il dono di grazia del capo carismatico e la fiducia razionale nelle leggi e, infine, lo Schmitt del principio di autorità che deve prevalere sulla “pura legalità”.
Su questi basi Esposito giudica il dibattito italiano sulle riforme costituzionali inadeguato alla profondità del problema così come questo si presenta nell’incerta “modernità” che stiamo vivendo.
Una “modernità” contesa tra definitività della secolarizzazione e ritorno agli integralismi d’ogni tipo.
Ci troviamo così ben oltre il tema del bilanciamento dei poteri e del cortocircuito tra assetto costituzionale e sistema elettorale (che pure rappresenta un rischio che si corre tra deformazione costituzionale e Italikum).
Secondo Esposito e su questo punto si può davvero concordare, non si può ridurre la legittimità alla governabilità.
A essere in gioco è la relazione tra potere costituente e potere costituito.
Un punto che, nel ventennio dell’infinita “transizione italiana”, è stato fatto passare come il contrasto tra costituzione formale e costituzione materiale, da risolversi a vantaggio della costituzione “ materiale” così come questa appariva saldata al principio presidenzialista.
Esposito conclude con quello che, almeno a giudizio di chi scrive, potrebbe essere considerato come un punto di partenza: “Esaurite le sue fonti tradizionali, la legittimazione non è un dato, ma un processo. Essa non serve solo a giustificare i significati già costituiti, ma anche a integrarli con le nuove esigenze che salgono dalla società”.
Da sinistra, allora, il NO alle deformazioni costituzionali non può che ripartire da questa idea della rilegittimazione e del recupero di senso e direzione etica e politica nel rapporto tra norme e valori.
Crisi economiche, innalzamento dei muri, terrorismi non debbono farci dimenticare che la crisi democratica nasce dell’interno stesso del sistema (come sostiene del resto lo stesso Esposito) e che la risposta che ci viene fornita è quella di un pauroso arretramento verso il restringimento della stessa prospettiva di costituzionalità della democrazia.
Non a caso, inizialmente, si era tentata la strada – addirittura – del plebiscito in funzione della legittimazione del regime.
La risposta della sinistra del “NO” deve essere quella proprio della democrazia costituzionale repubblicana, quella della “Repubblica che riconosce”, della centralità dei consessi elettivi e del parlamento in particolare.
Non possiamo però fermarci lì : avremo una campagna elettorale piena di “ingerenze umanitarie” che instilleranno dalle pagine dei giornali della City, della BCE, di Wall Street la paura dell’”instabilità”.
Bisogna saper affermare che l’instabilità sta dentro a questo sistema e non c’entra nulla con l’esito referendario.
Quella della democrazia “occidentale” è una crisi endemica che trova il suo costante alimento sul piano generale nell’arresto di un processo di globalizzazione fondato sulla crescita delle disuguaglianze e sulla guerra come espressione dell’allargamento dei confini di una presunta democrazia, mai come in questo caso maledettamente sottintesa.
Sul piano interno la crisi della democrazia nasce e si sviluppa nel collocarsi delle forze maggioritarie del sistema fuori dalla Costituzione come sta avvenendo da troppo tempo.
Soprattutto il recupero del rapporto tra norme e valori attraverso difesa e applicazione della Costituzione non può che essere un passaggio di avanzamento di un progetto di ripresa democratica.
Al momento dell’Assemblea Costituente l’idea – forza della sinistra era quella della democrazia progressiva.
“L’idea di uno Stato democratico avanzato basato sul riconoscimento non solo delle libertà e dei diritti politici, ma anche dei diritti sociali, della proprietà pubblica e cooperativa accanto alla proprietà privata, e della programmazione economica. Una democrazia liberale molto diversa da quella prefascista, aperta a trasformazioni di contenuto socialista (le "riforme di struttura") e alla possibilità che la classe operaia, mostratasi la più aderente all'interesse nazionale nella lotta al fascismo e nella guerra di liberazione, si affermasse come classe dirigente del paese.”
Il punto d’approdo della democrazia progressiva sul piano teorico stava però all’interno del concetto di egemonia .” Nel sistema egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui lo sviluppo dell'economia e quindi la legislazione, che esprime tale sviluppo, favorisce il passaggio (molecolare) dai gruppi diretti al gruppo dirigente.» (Note sul Machiavelli - Gramsci) ”.
Naturalmente sono questi esempi di riflessione “storica” e non certo proposizioni immediate, ma indicano il terreno politico – culturale sul quale muoverci per fornire un’identità al “NO” che non sia semplicemente collocata sull’immediatezza del politicismo di basso profilo così come questo viene avanti da parte dei proponenti delle deformazioni costituzionali in questione.
E’ necessario fornire una prospettiva di avanzamento della democrazia :serve anche distinguerci dal basso profilo di chi intende usare il referendum come semplice clava per i propri scopi di potere.
Una sinistra che dica NO proponendo un’aggregazione basata sul recupero della capacità indispensabile per riflettere sulla frattura tra norme e valori e quindi sulla crisi complessiva della democrazia liberale potrebbe rappresentare davvero un passo avanti rispetto alla palude nella quale ci stiamo trovando.
mercoledì 17 agosto 2016
martedì 16 agosto 2016
Franco Astengo: La stagione dei contratti
LA STAGIONE DEI CONTRATTI di Franco Astengo
In pieno Ferragosto una riflessione sui contratti nazionali di lavoro da rinnovare potrà apparire davvero fuori luogo e fuori tempo, tanto più che sarà difficile nell’elaborarlo sfuggire a qualche accento nostalgico.
Pur tuttavia può essere il caso di avviare una riflessione di questo tipo rivolta soprattutto verso chi, nel sindacato confederale e in quello di base, rimane convinto della funzione fondamentale di questo istituto.
Il sindacato, quale corpo intermedio agente per davvero nel contesto sociale, dovrebbe poggiare su tre pilastri, ormai perduti nella situazione italiana: il contratto collettivo nazionale di lavoro, l’automaticità dell’adeguamento salariale alla crescita dei prezzi (do you remember “scala mobile”?), un meccanismo interno di rappresentanza basato sull’elezione diretta dei delegati sui luoghi di lavoro ( i consigli).
Tutta roba superata e ormai affidata da tempo al ferrivecchi.
Tant’è può valere la pena parlarne ancora.
Dovrebbe (uso il condizionale, è d’obbligo) il contratto dei metalmeccanici : l’antica “madre di tutte le battaglie” di questa stagione.
Ricordate “scheda rossa e contratti”. Lo slogan era proprio riferito ai meccanici che poi avrebbero trainato tutte il resto. Rimembrare la “scheda rossa” mi ha fatto pensare anche a un altro punto: quello slogan teneva assieme proprio quelli che considerati i punti strategici dell’identità operaia. Il voto e i contratti. Anche il voto ha perso colore, si è stinto, non è più elemento d’identità, di affermazione, di orgoglio dell’appartenenza di classe.
I meccanici non faranno più da traino, né per i contratti, né per il voto.
I contratti delle categorie dell’industria sono annegati nel “modello Marchionne”, nella contrattazione aziendale, nel legare l’essere dell’operaio all’intensificazione massiccia dello sfruttamento, nel riproporsi delle discriminazioni che si credevano superate con l’avvento della “modernità”. Un recupero di intensità dello sfruttamento che riguarda con particolare e specifica pressione soprattutto il lavoro femminile, ripristinando (dal punto di vista dei padroni) l’antico conflitto tra lavoro subordinato, lavoro di cura, volontà riproduttiva.
Il pubblico impiego, l’altra grande categoria in campo non rinnova ormai da moltissimo tempo (anzi c’è chi sostiene che per avere 8 euro è meglio non rinnovare del tutto).
Il segretario di un sindacato (forse la UIL) afferma che occorrono 7 miliardi.
Ma la sostanza è un’altra: chi ha vissuto la lunga, difficile, stagione della ricomposizione delle categorie della Pubblica Amministrazione (ricordate i processi organizzativi che portarono alla “Funzione Pubblica” in CGIL, poi in CISL e ancora in UIL) non può non osservare come la lama del corporativismo abbia attraversato il corpaccione del pubblico impiego come il coltello nel burro. Un fenomeno di corporativismo di ritorno dovuto essenzialmente all’esagerazione di retribuzioni e premi di pseudo dirigenti (un frutto delle famigerate Bassanini) che hanno frantumato le categorie in un divario insopportabile.
Debbono rinnovare il contratto altre categorie importanti, alimentaristi, elettrici, grande distribuzione.
Intanto il job act ha fatto saltare diritti non costruendo neppure illusione, l’economia è ferma, la disoccupazione sempre a livelli superiori alla media europea, con un’altra precisa esclusione, quella dei giovani.
Un tempo si sarebbe parlato di “stagione dei contratti”.
Adesso timidamente il tema si affaccia dalle colonne dei quotidiani e non è certo oggetto del grande dibattito politico e sociale.
Il tono di questo intervento, come si accennava all’inizio può essere frainteso come nostalgico: in realtà l’intento era quello di porre la questione all’ordine del giorno soprattutto verso gli stessi possibili protagonisti, le lavoratrici e i lavoratori.
Perché il sindacato ha perso colpi (e su questo punto dovrebbero aprire una riflessione anche le compagne e i compagni che animano e organizzazioni le organizzazioni di base), ma la causa di questo stato di cose non è colpa del destino cinico e baro e dall’accanirsi dell’avversario.
Il sindacato non conta più perché non riesce più a considerare le lavoratrici e i lavoratori protagonisti assoluti.
Non “si stava meglio quando si stava peggio” beninteso , ma è innegabile un arretramento “storico” nella materialità delle condizioni del lavoro, mentre intorno crolla il complesso del minimo di una possibile tenuta civica e sociale e si vive nel disordine voluto dall’intoccabile “più forte”.
Servirebbe un recupero di senso.
lunedì 15 agosto 2016
Franco Astengo: Il sistema elettorale al giudizio della suprema corte
IL SISTEMA ELETTORALE AL GIUDIZIO DELLA SUPREMA CORTE di Franco Astengo
Eugenio Scalfari nel suo editoriale apparso domenica 14 Agosto sulle colonne di “Repubblica” pone l’attenzione sul dibattito in corso al riguardo del nuovo sistema elettorale “Italikum” (la K è copyright di Felice Besostri) ricordando come essa sarà esaminata il prossimo 4 Ottobre dalla Corte Costituzionale che ne valuterà gli eventuali profili di non rispondenza al dettato della Costituzione Repubblicana.
Un fatto già accaduto recentemente allorquando con sentenza n.1/2014 furono dichiarate illegittime parti fondamentali della legge elettorale vigente dal 2005 e con la quale erano stati eletti i parlamenti nel 2006, 2008 e 2013.
Ciò nonostante la maggioranza ha voluto far esprimere al Parlamento, eletto – appunto – nel 2013 attraverso una legge dichiarata illegittima , la volontà di modificare ancora la legge elettorale, mantenendo inalterati i due punti sui quali si era già appuntato il giudizio negativo dell’Alta Corte: premio di maggioranza e quota di parlamentari “nominati”. Una nuova legge elettorale che si è accompagnata a un’inopinata deformazione costituzionale, con la modifica nel ruolo e nella composizione del Senato che, senza ovviare alle difficoltà insiste in un sistema a bicameralismo paritario (anzi accentuandole), pone nella mani di una maggioranza che si vuole di un solo partito la fiducia al Governo, l’elezione del Presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali e dei componenti del CSM, attuando in più una sorta di surrettizia elezione diretta del Presidente del Consiglio attraverso un eventuale ballottaggio che potrebbe premiare alla fine una formazione politica dal consenso oscillante tra il 25 e il 30% dei voti validi, in una situazione nella quale – ormai- partecipa al voto tra il 50 e il 60% dell’intero corpo elettorale.
Tutto questo si verifica in un Paese che ha cambiato tre leggi elettorali tra il 1993 e oggi e ha sistemi elettorali diversi per i Comuni e tra le stesse Regioni in nome di un inaudito “federalismo” (dopo aver abolito il sistema elettorale delle Province, senza abolire le Province stesse, tanto per ricordare un’altra grande contraddizione pendente sul sistema politico italiano).
Nel suo editoriale già citato l’ex-direttore di Repubblica si occupa soprattutto della soglia di voti necessaria per l’accesso al ballottaggio dimenticando però di approfondire altri aspetti fondamentali che, invece, dovrebbero far parte di un ampio dibattito pubblico da far precedere al giudizio dell’Alta Corte.
Giudizio dell’Alta Corte che non dovrà essere “interpretato” in modo da togliere le castagne dal fuoco di chi si è accorto che il ballottaggio, in questo caso, è semplicemente una colossale “cavolata”.
E’ necessario, infatti, ricordare che le elezioni legislative generali (proprio perché legislative) non sono finalizzate all’elezione di un governo, bensì a determinare il peso della diverse forze politiche nel Parlamento, assegnando i seggi.
Vanno ricordati così i principi fondamentali riguardanti il “che cos’è un sistema elettorale”.
In questo senso può risultare utile riprendere i termini di una possibile analisi teorica, delineando una prima distinzione tra il sistema elettorale, che è un insieme di varie leggi elettorali, la legge elettorale che riguarda le procedure attraverso cui le preferenze divengono voti e i voti seggi, e la formula elettorale, che concerne strettamente le procedure per la distribuzione dei seggi in base ai voti.
Eppure è proprio con riferimento a queste ultime due, legge e formula elettorale, che il termine di sistema elettorale è stato ed è frequentemente utilizzato, specie nel linguaggio corrente.
Ciò non è avvenuto, e non avviene, per caso e per meglio comprenderne la ragione conviene, anzitutto, adottare una definizione generale di sistema elettorale da cui, poi, analizzando il contenuto concettuale, derivarne una più specifica e ristretta a quegli aspetti che interessa approfondire.
In linea generale possiamo definire un sistema elettorale come “l'insieme delle regole e delle procedure che disciplinano tutte le operazioni che precedono, accompagnano e seguono lo svolgimento delle elezioni”.
Questo procedimento è, a sua volta, composto da diversi piani o livelli, che non sono omogenei tra loro e non hanno tutti la stessa portata o il medesimo significato.
E' perciò necessario scomporre il procedimento elettorale nei suoi diversi momenti costitutivi, per meglio comprendere la correlata complessità dello stesso concetto di sistema elettorale.
Citiamo, a questo proposito, Stein Rokkan nel suo “Electoral Systems” per analizzare , di seguito, le sei differenti dimensioni di classificazione del sistema:
- chi vota;
- il peso di ciascun elettore;
- la standardizzazione delle procedure e la libertà di scelta;
- il tipo di circoscrizione;
- i livelli di scelta offerti all'elettore;
- la procedura di calcolo con cui i voti sono trasformati in seggi.
La formazione del governo con il sistema elettorale non c’entra nulla: sarà compito delle maggioranze che si formeranno a seconda degli accordi e delle convenienze politiche.
Questa schematizzazione può rivelarsi utile nell'individuazione delle diverse fasi del procedimento elettorale e ci aiuta a chiarire la differenza tra i diversi concetti di sistema elettorale.
Se ci concentriamo sui primi tre punti, infatti, notiamo che questi riguardano essenzialmente tre questioni: chi partecipa alle elezioni, in quale modo, con quali procedure e garanzie.
Il primo punto riguarda essenzialmente il diritto di elettorato attivo e il problema del suffragio e risponde alla domanda “chi ha diritto di votare?”; il secondo concerne la effettiva eguaglianza di tale voto, nel rispetto del principio “una testa, un voto”; il terzo attiene alle procedure per la tutela delle altre condizioni fondamentali del voto, segretezza e libertà.
Questi aspetti, peraltro fondamentali, per l'espressione di un voto realmente democratico e di sicura incidenza sul risultato di una elezione, costituiscono tuttavia delle condizioni preparatorie e di garanzia rispetto alla manifestazione di volontà, che avviene attraverso il voto.
Accanto a queste tre potremmo aggiungerne altre, come il diritto di elettorato passivo o la disciplina delle campagne elettorali e dei sondaggi, intese a garantire, almeno in linea di principio, le stesse condizioni sull'altro versante, quello dell'offerta politica da parte dei candidati.
Stabilito perciò chi partecipa alle elezioni, secondo quali principi, modalità e garanzie a tutela dei fondamentali criteri democratici, resta da vedere in che modo le preferenze espresse dal lato della domanda politica potranno interagire con quello dell'offerta e determinare l'assegnazione della posta in palio, cioè dei seggi parlamentari.
Invece Il dibattito che ha portato all’elaborazione dell’Italikum è stato viziato fortemente da una vera e propria “torsione istituzionale”, legata alla contingenza dell’attualità politica in senso di utilitarismo favorevole alla maggioranza pro – tempore.
Non si è modificata la Costituzione in questo senso ma si è voluto indirizzare tutto il meccanismo elettorale proprio alla costruzione del governo all’insegna dello slogan “ alla sera delle elezioni si saprà chi ha vinto”.
Nasce da qui l’abnormità del premio di maggioranza, istituto che è bene ricordarlo esiste soltanto in Grecia e a Malta.
I sistemi per garantire una qualche stabilità politica alla legislatura nascente sono molti e vari ma quasi nessuno contempla un ballottaggio con premio di maggioranza fra le due prime liste.
Inoltre è necessario distinguere tra ballottaggio e doppio turno (qualcuno nel PD, infatti, ha esclamato: abbiamo realizzato il doppio turno che stava da tempo nei programmi della sinistra).
Il ballottaggio, infatti, è una sorta di spareggio fra i primi due classificati al primo turno nel caso di elezione diretta: si usa, infatti, nelle elezioni presidenziali di molti Paesi come la Francia, l’Austria, in molti paesi sudamericani. Non certo negli USA, laddove non c’è neppure l’elezione diretta ma tramite l’elezione di delegati.
In Italia è usato per l’elezione dei Sindaci, mentre i Presidenti di Regione sono eletti a turno unico: nei Comuni la maggioranza dei seggi segue l’elezione del Sindaco.
Il caso di doppio turno “classico” è quello francese, dove il Parlamento è eletto sulla base di collegi all’interno dei quali il candidato viene eletto al primo colpo se supera il 50 più uno per cento dei voti validi. In caso contrario si va al secondo turno: secondo turno al quale accedono tutti i candidati che nella prima occasione hanno superato il 12,5% degli aventi diritto, e non dei voti validi espressi.
Attenzione: proprio degli aventi diritto.
In questo modo al secondo turno in Francia sono possibili dei “triangolari”, quando non dei”quadrangolari”: in moliti casi interviene, però, il meccanismo delle desistenze concordate attraverso le quali si assicura anche una rappresentanza alle formazioni minori.
L’accenno al doppio turno francese consente di toccare un tasto ignorato nel testo già citato di Scalfari: quello della partecipazione al voto.
Infatti, prima ancora che stabilire una soglia di percentuale sui voti validi ottenuti per accedere al ballottaggio sarebbe importante stabilire una quota minima di partecipanti al voto per rendere il ballottaggio stesso valido.
Trattandosi di elezioni il cui esito è destinato a comporre un Parlamento e non a eleggere una persona o un governo il dato di disaffezione al voto, così come si sta rilevando in Italia, rende tutta l’impalcatura presentata dall’Italikum davvero di mediocre rappresentatività democratica.
Così si tradisce lo spirito della Costituzione che, senza occuparsi specificatamente della legge elettorale, tratta la materia nell’idea prevalente della rappresentanza politica rispetto alla governabilità pensando a una Repubblica fondata sui partiti e non su personalismi e “individualismo competitività” come invece si vorrebbe adesso, sulla scia di scelte sciagurate che hanno attraversato il nostro sistema politico fin dagli anni ’90.
Infine: non si accusi chi si oppone alla nuova legge elettorale e propone il NO nel referendum costituzionale di conservatorismo.
Chi scrive, nel piccolissimo esempio che può personalmente fornire, è da molto tempo favorevole a una sola Camera di 400 deputati, ma eletta con una formula elettorale di tipo proporzionale.
Il modello del vecchio “ Hare corretto” in vigore in Italia dal 1948 al 1992 (dove serviva una quota di voti “nazionale”, 300.000, e un quoziente pieno in almeno una circoscrizione) andrebbe benissimo.
Del resto fino al 1987 i partiti presenti in parlamento non erano più di 7/8, poi è mutato il quadro e adesso siamo al liberi tutti e con una Camera composta da 400 deputati, avremmo – oggettivamente – uno sbarramento attorno al 3% (come previsto dall’Italikum) e un piccolo ma significativo vantaggio per i partiti più grandi.
All’epoca richiamata PCI e DC pagavano, infatti, ogni deputato circa 50.000 voti l’uno, mentre PLI, PR, PRI,PdUP più o meno 100.000.
Ricordando ancora che l’Italia non è terra di bipolarismo .Quello costruito con il Mattarellum era finto e condizionato: è bastato che la Lega da una parte, e Rifondazione dall’altra se ne staccassero (come accadde nelle elezioni del 2001 e nel corso della stessa legislatura 1996 – 2001 salvata da una duplice scissione a sinistra come a destra) per farlo saltare ben prima che comparisse sulla scena il movimento 5 Stelle.
Del resto il bipolarismo non regge più da nessuna parte: né in Gran Bretagna, né negli USA dove verificheremo il peso di una terza candidatura (quella vedere) e di una quarta (quella liberal conservatrice), senza dimenticare le precedenti performance di Ross Perot e Bill Nader a suo tempo decisive per l’elezione di Clinton e Bush jr.
Un quadro complessivo che davvero, in precedenza all’esame dell’Italikum da parte della Corte Costituzionale, meriterebbe un informato dibattito di merito e non la semplicistica propaganda di cui si avvalgono oggi governo e PD pagando profumatamente, tra l’altro, presunti guru d’Oltreoceano.
sabato 13 agosto 2016
Franco Astengo: Impoverimento
I FIGLI PIU’ POVERI DEI GENITORI : L’ITALIA FANALINO DI CODA
ANCORA SULLA SVOLTA POLITICA ( A cura di Franco Astengo con un prologo e due capitoli)
PROLOGO di Franco Astengo
PRIMO CAPITOLO: uno stralcio del rapporto McKinsey sull’economia mondiale
SECONDO CAPITOLO: stralcio di un articolo di Marianna Mazzucato
PROLOGO: Mi permetto di disturbare ancora una volta tutti quanti per raccomandare la lettura dei due stralci riportati di seguito.
La gravità della situazione è evidente, sul piano internazionale ma soprattutto in Italia nel quadro di una complessiva inesistenza politica dell’Unione Europea.
I risultati dell’economia italiana sulle condizioni materiali dei maltrattati cittadini di questo disgraziato Paese sono ben riportati dal rapporto McKinsey, e sono il frutto di politiche profondamente sbagliate portate avanti dal centrosinistra e dal centrodestra nel periodo sciagurato del finto bipolarismo.
Politiche colpevolmente sbagliate accentuatesi nella loro negatività con i governi Monti e Letta, sorti sotto il patrocinio del “riformatore” Napolitano, e soprattutto con il governo Renzi, autore dell’incredibile performance degli 80 euro, un’elemosina che – incredibilmente – ha causato un colossale fraintendimento di massa dimostrando tutta la fragilità culturale di un popolo allo sbando, privo di corpi intermedi e di seri soggetti politici di riferimento.
Soggetti politici ormai ridotti a terreno di contesa per gruppi di piccolo cabotaggio del potere, come ben dimostrano anche le vicende di questi ultimi giorni.
Nello stralcio dell’articolo di Marianna Mazzucato, che costituisce il “capitolo secondo” (ho suddiviso in presunti “capitoli” tanto per alleggerire il tono è chiaro il richiamo all’economia “mista” che aveva caratterizzato la situazione italiana dal dopoguerra agli anni ’70.
Non si tratta di nostalgia, la situazione era difficile e complicata in allora, si avviava l’invadenza dei partiti, fallì il progetto di programmazione del primo centrosinistra (quello vero), la nazionalizzazione dell’energia elettrica si rivelò, alla fine, una delle fonti della corruzione che erose il sistema nei decenni seguenti.
Ciò nonostante si andò avanti modernizzando il Paese, portando all’altezza delle economie più forti: oggi ricorrono i cinquant’anni dell’inaugurazione di Togliattigrad, nel cuore dell’”impero del male”, a dimostrazione che si trattava di un mondo che alla fine era in grado di muoversi in avanti e non soltanto all’indietro come accade adesso.
Adesso il mondo si muove all’indietro come dimostra bene anche il rapporto McKinsey per conservare ricchezza e potere per pochi, abbandonando intere aree del mondo alla sopraffazione, alla guerra, al terrorismo dei nuovi /antichi fondamentalismi.
Torno all’Italia per concludere: gli anni ’60 che l’articolo di Marianna Mazzucato ricorda erano gli anni dei partiti organizzati, del sistema proporzionale, di forti convulsioni politiche ( l’estate 1960 fu quella dei fatti del Luglio e del governo Tambroni, non soltanto delle meravigliose Olimpiadi di Roma), della “conventio ad excludendum e di un sistema politico bloccato.
Però si allargava la democrazia, gli enti locali costituivano la vera spina dorsale del Paese, l’industria pubblica era il nerbo della ricostruzione, nessuno pensava a mettere in discussione la Costituzione, anzi a sinistra, soprattutto dall’opposizione comunista, si spingeva per applicarla pienamente, l’economia mista era considerata un fattore di possibile avvio di una “fase di transizione”.
Era una fase di difficile, complicato, “riformismo vero” dove la discussione era se si dovesse puntellare comunque un capitalismo italiano considerato ancora “straccione” (era la visione un po’ arcaica di Amendola) oppure se si dovesse proporre un “nuovo modello di sviluppo” (come sostenevano i lombardiani impegnati nelle difficoltà del governo, e gli “ingraiani”, Trentin e Magri relatori in un fondamentale convegno del Gramsci nel 1962).
Era quello il livello del dibattito. Descritto soltanto per conoscenza, senza nostalgia ma soltanto per ricordare e proporre la lettura nuda e cruda di questi due stralci.
Serve una svolta politica ma l’interrogativo è pesante: esiste ancora una sinistra in grado almeno di pensarla?
Rinnovo le mie scuse e ringrazio per l’attenzione
Franco Astengo
CAPITOLO PRIMO: Questo che segue è un resoconto sommario dei contenuti del rapporto McKinsey sull’andamento dell’economia mondiale
L’ultimo decennio ha sconvolto l’ordine economico: i figli sono più poveri dei genitori, e forse destinati a rimanerlo. Non era mai accaduto dal Dopoguerra fino al passaggio del Millennio. L’Italia si distingue, fra tutti i paesi avanzati, come quello in cui questo ribaltamento generazionale è più dirompente.
L'impoverimento generalizzato e l'inversione delle aspettative sono i fenomeni documentati nell'ultimo Rapporto McKinsey. Il titolo è "Poorer than their parents? A new perspective on income inequality" (Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sull'ineguaglianza dei redditi). Il fenomeno è di massa e praticamente senza eccezioni nel mondo sviluppato. Contribuisce a spiegare - secondo lo stesso Rapporto McKinsey - il disagio sociale che alimenta populismi di ogni colore, da Brexit a Donald Trump. Per effetto dell'impoverimento e dello shock generazionale, una quota crescente di cittadini non credono più ai benefici dell'economia di mercato, della globalizzazione, del libero scambio.
Lo studio di McKinsey ha preso in esame le 25 economie più ricche del pianeta. C'è dentro tutto l'Occidente più il Giappone. In quest'area il disastro si compie nella decade compresa fra il 2005 e il 2014: c'è dentro la grande crisi del 2008, ma in realtà il trend era cominciato prima. Fra il 65% e il 70% della popolazione si ritrova al termine del decennio con redditi fermi o addirittura in calo rispetto al punto di partenza. Il problema affligge tra 540 e 580 milioni di persone, una platea immensa. Non era mai accaduto nulla di simile nei 60 anni precedenti, cioè dalla fine della Seconda guerra mondiale. Tra il 1993 e il 2005, per esempio, solo una minuscola frazione della popolazione (2%) aveva subito un arretramento nelle condizioni di vita. Ora l'impoverimento è un tema che riguarda la maggioranza. L'Italia si distingue per il primato negativo. È in assoluto il paese più colpito: il 97% delle famiglie italiane al termine di questi dieci anni è ferma al punto di partenza o si ritrova con un reddito diminuito. Al secondo posto arrivano gli Stati Uniti dove stagnazione o arretramento colpiscono l'81%. Seguono Inghilterra e Francia. Sta decisamente meglio la Svezia, dove solo una minoranza del 20% soffre di questa sindrome. Ciò che fa la differenza alla fine è l'intervento pubblico. Il modello scandinavo ha ancora qualcosa da insegnarci. In Italia, guardando ai risultati di questa indagine, non vi è traccia di politiche sociali che riducano le diseguaglianze o compensino la crisi del reddito familiare.
L'altra conclusione del Rapporto McKinsey riguarda i giovani: la prima generazione, da molto tempo, che sta peggio dei genitori. "I lavoratori giovani e quelli meno istruiti - si legge nel Rapporto - sono colpiti più duramente. Rischiano di finire la loro vita più poveri dei loro padri e delle loro madri". Questa generazione ne è consapevole, l'indagine lo conferma: ha introiettato lo sconvolgimento delle aspettative.
Lo studio non si limita a tracciare un quadro desolante, vi aggiunge delle distinzioni cruciali per capire come uscirne. Il caso della Svezia viene additato come un'eccezione positiva per le politiche economiche dei governi e gli interventi sul mercato del lavoro che hanno contrastato con successo il trend generale. "Lo Stato in Svezia si è mosso per mantenere i posti di lavoro, e così per la maggioranza della popolazione alla fine del decennio i redditi disponibili erano cresciuti per quasi tutti". Perfino l'iperliberista America, però, ha fatto qualcosa per contrastare le tendenze di mercato. Riducendo la pressione fiscale sulle famiglie e aumentando i sussidi di welfare, gli Stati Uniti hanno agito per compensare l'impoverimento con qualche successo. In Italia, una volta incorporati gli effetti delle politiche fiscali e del welfare, il risultato finale è ancora peggiore: si passa dal 97% al 100%, quindi la totalità delle famiglie sta peggio in termini di reddito disponibile.
Se lasciata a se stessa, l'economia non curerà l'impoverimento neppure se dovesse ricominciare a crescere: "Perfino se dovessimo ritrovare l'altacrescita del passato, dal 30% al 40% della popolazione non godrà di un aumento dei redditi". E se invece dovesse prolungarsi la crescita debole dell'ultimo decennio, dal 70% all'80% delle famiglie nei paesi avanzati continuerà ad avere redditi fermi o in diminuzione.”
CAPITOLO SECONDO: Un passaggio di un articolo di Mariana Mazzucato pubblicato da Repubblica in risposta a un intervento di Franco De Benedetti
…” il nostro miracolo economico è stato reso possibile da una manciata di imprenditori illuminati, fra i quali Adriano Olivetti, che ha sempre raccomandato la collaborazione tra gli operatori privati e lo Stato.
Sono stati gli investimenti diretti (non semplici sussidi) dello Stato con l’Eni e l’Iri, a rendere possibile, insieme a questi pensatori visionari, il miracolo economico.
Ma che cosa è successo?
La rigida contrapposizione tra pubblico e privato ha condotto allo smembramento della Montedison (poi diventata Enimont) alla frantumazione della Olivetti e alla frettolosa svendita dell’IRI.
E non dimentichiamoci di Telecom Italia che era un operatore di livello internazionale nel campo delle telecomunicazioni fino a quando non è stata privatizzata decimando, guarda caso, proprio il suo dipartimento ricerca e sviluppo.
venerdì 12 agosto 2016
Franco Astengo: Svolta
LA PROPAGANDA E’ FINITA: SERVE PRIMA DI TUTTO UNA SVOLTA POLITICA di Franco Astengo
Mentre si levano pericolosi venti di guerra e l’Italia è impegnata sul campo in Libia con una decisione che ha sorpassato il Parlamento con una palese violazione da parte del governo dell’articolo 11 della Costituzione la notizia di queste ore è la seguente:
“L’Istat ha diffuso oggi il dato sul prodotto interno lordo del secondo trimestre dell’anno, che risulta invariato rispetto ai primi tre mesi a fronte di attese che speravano in un piccolo progresso dello 0,2%. Economia ferma, quindi. Ma il dato sul pil guarda al recente passato. Il vero problema è che anche i dati più recenti, compresi quelli che cercano di anticipare i futuri andamenti, sono ormai in territorio negativo. Le esportazioni non tirano più da mesi, i consumi non ripartono, gli investimenti non lo hanno mai fatto e l’industria accusa un inatteso passaggio a vuoto. Quanti indizi servano per comporre una prova è questione spesso opinabile, ma di questo passo la già di per sé non esaltante previsione di un pil 2016 vicino al +1% si trasforma in un miraggio”
L’epoca della propaganda così incautamente e stoltamente diffusa negli ultimi mesi è finita.
E’ finito il regno del Bengodi degli 80 euro: quella della pizza in più.
La realtà è quella di un fallimento totale, così come si erano dimostrate un fallimento totale le scelte passate compiute dai governi Berlusconi, Monti e Letta.
Intanto sempre più, in un quadro europeo di vero e proprio sfilacciamento anche in seguito alla scelta coraggiosa del popolo inglese, l’Italia appare un paese sfibrato, percorso da situazioni di vera e propria dissoluzione strutturale, con servizi pubblici che non funzionano, un’evidente “questione morale”, pezzi interi del Paese in mano alla criminalità organizzata che si occupa anche dell’”accoglienza” ai migranti che vengono “sistemati” addirittura sotto i ponti come al tempo dei “Misteri di Parigi”.
Un paese che intende far indebitare fino agli ottant’anni i pensionandi di sessanta. Una vera e propria tortura morale, annunciata con grande nonchalance proprio dagli autori del disastro fin qui descritto. Personaggi privi di vergogna. Il tutto mentre il capo di gabinetto della Sindaca di Roma viene ingaggiata a 193.000 euro l’anno.
La situazione istituzionale appare molto pericolosa, pendente il referendum confermativo sulle deformazioni costituzionali, attraverso le quali il governo Renzi punta direttamente a superare la democrazia repubblicana con una svolta autoritaria personalistica (servirà a intensificare la repressione in caso di crescita oggettiva degli spunti di ribellione sociale?).
Servirebbe un’inversione di rotta nella politica economica attraverso forti investimenti pubblici nei campi minati delle infrastrutture stradali e ferroviarie (abbandonando da subito l’assurdità degli sprechi dell’impossibile Alta Velocità), nell’assetto idrogeologico a partire dagli acquedotti, del varo di una vera politica industriale.
Serve una svolta nella politica agricola, che sta dimostrando segnali di vero e proprio cedimento strutturale (altro che italian food ed effetti positivi dell’Expo).
Sul tappeto i temi irrisolti del rapporto con l’UE, del ruolo dell’euro, lo scandalo delle banche.
Soprattutto appare necessaria una svolta politica.
Svolta politica che può principiare da una chiara vittoria del NO nel referendum: non si tratterebbe soltanto di un, pur fondamentale, stop alla deriva autoritaria ma di un fatto politico molto più importante a significativo.
A Sinistra ci si dovrebbe organizzare in questo senso, ma si stanno ancora accumulando colpevoli ritardi e incertezze.
In una situazione di questo genere non si tratterebbe di un errore, ma di un vero e proprio delitto politico.
giovedì 11 agosto 2016
Franco Astengo: Illegittimità
ILLEGITTIMITA’ di Franco Astengo
In evidente violazione dell’articolo 11 della Costituzione questo Governo ha portato il Paese in guerra al di fuori da qualsiasi procedura parlamentare, salvo una “informativa” al COPASIR a cose già fatte.
Un governo che ha ricevuto la fiducia da un Parlamento eletto attraverso una legge elettorale dichiarata, nei suoi principi fondamentali e in particolare rispetto al premio di maggioranza, incostituzionale dall’Alta Corte con la sentenza 1/2014.
L’Alta Corte precisava che il Parlamento in carica (questo: eletto nel febbraio 2013) restava legittimato soltanto per la “continuità dello Stato”.
Senso della morale pubblica e della correttezza istituzionale avrebbero voluto che, espletati gli affari correnti, le Camere fossero sciolte e si fosse votato con la legge così come uscita dalle indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale.
Ciò non è avvenuto: non solo, con una procedura del tutto extraparlamentare, il Presidente della Repubblica in allora ha provveduto alla sostituzione del Primo Ministro (indicato attraverso una manovra interna di Partito) e alla legittimazione di una nuova maggioranza parlamentare sostenuta da transfughi eletti in una formazione che alle elezioni si era presentata come avversaria di quella, il PD, che aveva ottenuto lo spropositato premio di maggioranza alla Camera dei Deputati (spropositato è l’esatta valutazione della Corte Costituzionale nella già citata sentenza 1/2014).
Si è così provveduto a imporre al Parlamento, a colpi di voto di fiducia, una serie di deformazioni costituzionali che saranno sottoposte a referendum popolare confermativo nel prossimo autunno: deformazioni costituzionali che stravolgono, nel loro insieme, l’impianto parlamentare delineato dal modello di democrazia repubblicana voluto dall’Assemblea Costituente.
Inoltre si è varata una “nuova” legge elettorale che riassume in sé tutti i vizi della precedente e che sarà nuovamente sottoposta tra pochi giorni al vaglio della Corte Costituzionale.
Obiettivo di questo governo: allineare l’Italia ai modelli autoritari voluti dal grande capitale multinazionale (come auspicato a suo tempo da J.P. Morgan) nei cui salotti si ritiene eccessivamente “complessa” la stessa democrazia liberale, da sostituire con governi estranei alla dialettica parlamentare e totalmente ossequienti alle logiche tecnocratiche del primato dell’economia finanziaria e speculativa.
In queste condizioni di palese illegittimità complessiva si sono mandati soldati italiani sul fronte di guerra libico.
Una situazione quella attuale sicuramente peggiore di quella nella quale si approvarono i bombardamenti della Serbia nel 1999 (governo D’Alema) e di quella presentatasi nell’estate – autunno 2011 quando i livelli di conduzione economica e morale del Paese raggiunsero il punto più basso (così almeno ci pareva in allora) e il governo di destra (governo Berlusconi) fu liquidato con un’operazione assolutamente border – line rispetto al dettato costituzionale, ancora attraverso una manovra extraparlamentare, con il Presidente della Repubblica che nominò al sabato senatore a vita il signore che, poi, al lunedì incaricò di formare il governo.
La reazione ai fatti di questi giorni da parte dei sinceri democratici ,che sicuramente ci sono, appare davvero troppo blanda e misurata.
mercoledì 10 agosto 2016
Franco Astengo: Mistificazioni
LA RETORICA DELLA MISTIFICAZIONE di Franco Astengo
“Dedicato alla dichiarazioni rilasciate ieri da Matteo Renzi : “ Sarebbe bello dare i 500 milioni di risparmio ai poveri” e di Maria Elena Boschi “Chi vota no vota contro il Parlamento”
All’interno di un quadro internazionale drammatico contrassegnato dalla crescita esponenziale delle ingiustizie e delle disuguaglianze, da guerre locali che minacciano l’esplosione di un conflitto globale, l’Italia si appresta a completare il ciclo tragico dei primi decenni del nuovo secolo correndo il rischio di finire completamente avvolta nella retorica della mistificazione.
E’ questo della retorica della mistificazione il senso vero, profondo, delle deformazioni costituzionali imposte a un Parlamento delegittimato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 1/2014 e composto di soggetti tesi esclusivamente alla conservazione dei propri personali privilegi.
La Costituzione viene deformata soltanto per consentire ad una sola fazione di poter disporre della potestà sul Parlamento al di fuori dalla dialettica democratica e dall’esistenza di contrapposizioni e di separazioni tra i poteri.
Non parliamo poi di un’estensione della dialettica sociale, di ruolo dei movimenti, di influenza della società civile nelle sue tante articolazioni: toccherà direttamente al Capo e al suo “Giglio Magico” colloquiare con la folla e somministrare il suo indefettibile “credo”.
La “deformazione costituzionale”èe ispirata proprio da quella retorica della mistificazione avviata tanti anni fa quando si fece credere che la caduta del muro di Berlino avrebbe aperto l’era del regno del Bengodi, che la “democrazia” dei lorsignori facenti parte di un circolo rigorosamente chiuso di “familismo amorale” utilizzato da laureati rigorosamente a Harvard ,andava esportata con la forza, che le elezioni dovevano servire soltanto per suffragare la vittoria dell’ “unto del signore”, che il consumismo del singolo o del piccolo gruppo corporativo doveva rappresentare la ragione esaustiva dell’esistenza, che la logica della nostra “superiorità” di genere e di razza valeva per l’eternità dei secoli e che era impossibile sovvertire quello che appariva come l’ordine naturale del dominio delle cose perché la “storia era finita”.
IL ‘900 era descritto come il secolo della “grande illusione”, così come dal titolo del libro di Furet: ogni utopia di uguaglianza avrebbe dovuto essere seppellita nella fossa comune della storia.
La superiorità della forza discendente diretta di quel del danaro considerata, così, l’unica fonte del diritto: debbono sparire dalla scena tutti i possibili “giudici di Berlino”.
Il referendum italiano sulle deformazioni costituzionali è poca cosa rispetto a questo grande disegno di perpetuazione dell’ingiustizia portato avanti in nome dell’eternità dell’oligarchia del potere che avviluppa inevitabilmente il mondo con la sua rete di insopportabili ingiustizie.
Il “NO” a questo disegno potrebbe però servire a dare un esempio di repulsione per questa retorica della mistificazione, di questo inganno assurto a identità nazionale.
Piero Gobetti scrisse di fascismo come autobiografia della nazione, oggi si può scrivere di un ceto politico autocooptato come nuova espressione di una identità fondata sull’inganno perpetuo.
Si scrive di nuovo (naturalmente su Twitter) di “orgoglio tricolore”: è la stessa insopportabile retorica che portò i regimi autoritari della monarchia e del fascismo a condurre milioni di italiane e di italiani a morire per una Patria comandata da normali ingrassatori di se stessi.
L’unico lampo, nella storia recente d’Italia, è stato quello di imporre, attraverso l’Assemblea Costituente e in conclusione della Lotta di Liberazione, una “Repubblica Parlamentare” dotata di consessi elettivi capaci di rappresentare “lo specchio del Paese”.
Questo principio, che è fondamentale per la ripresa dal disastro bellico e per lo sviluppo degli anni dell’effettiva crescita tecnologica, economica e sociale (avvenuta certamente tra enormi contraddizioni e ingiustizie, ma verificatasi), è stato via via attaccato e cancellato dalla nostra identità collettiva: oggi si sta tentando di dannarne definitivamente la memoria per un “via libera” ad un clamoroso ritorno al passato dell’esclusività dell’imposizione dall’alto di un potere ignoto.
Il “NO” nel referendum assume così il significato di opporsi concretamente alla finalizzazione di questo disegno eversivo della nostra dignità collettiva.
Ripeto: piccola cosa nell’insieme delle tragedie del mondo, ma importante non solo per noi.
Un segnale per tutti anche al di fuori dalle miserie di questo “caso italiano” di misera retroguardia: c’è chi non si arrende e magari prova anche a invertire un corso che apparirebbe così, a prima vista, tragicamente ineluttabile.
martedì 9 agosto 2016
domenica 7 agosto 2016
Franco Astengo: Marcinelle
Marcinelle, 60 anni dalla tragedia ( a cura di Franco Astengo)
8 Agosto 1956
Ancora e sempre per non dimenticare, ancora e sempre per testimoniare la sofferenza, la fatica, il martirio del lavoro. Non dovrà mai esserci tregua per chi sfrutta il lavoro altrui in modo ignobile e disumano.
A sessant’anni da Marcinelle assistiamo, oggi come sempre, alla realtà del senso disumano dello sfruttamento del lavoro e – ancora – si considera chi lotta per una società giusta come un sovversivo dell’ordine costituito, un perturbatore dei tranquilli ozi delle classi agiate.
Oggi come allora.
Dalle classi dominanti non arriva mai un segnale di comprensione della vastità dei delitti da esse commesse nella grandezza e nella complessità del procedere storico: anzi verifichiamo una intensificazione, un accanimento, che i Governi agevolano e i possessori dell’informazione non solo giustificano ma anzi esaltano in un crescendo di ignobile mistificazione.
Oggi qualcuno farà finta di piangere lacrime di coccodrillo.
Marcinelle però non ci richiama semplicemente al lutto e al dolore.
Marcinelle richiama all’eternità insuperabile della lotta di classe, all’insopprimibile realtà dello sfruttamento e alla necessità della lotta per sovvertirne il corso soffocatore di tutte le istanze di libertà e di dignità umana.
“PROLETARI DI TUTTI I PAESI UNITEVI !”
L’8 agosto del 1956 136 minatori italiani trovarono la morte nella miniera di carbone Bois du Cazier, in Belgio, insieme a 95 belgi, 8 polacchi, 6 greci, 5 tedeschi, 5 francesi, 3 ungheresi, un inglese, un olandese, un russo e un ucraino. In totale, morirono 262 minatori su un totale di 274 presenti: 12 lavoratori vennero tirati su il primo giorno, mentre i famigliari degli altri dovettero aspettare fino al 22 agosto, tra angoscia e speranza, quando i soccorritori dichiararono: “Tutti cadaveri“. L’incidente – il terzo più grave per gli italiani all’estero dopo quello di Monongah, in Virginia, dove morirono 171 connazionali, e di Dawson, nel Nuovo Messico, dove ne morirono 146 – avvenne alle 8,11 del mattino, quando un errore di manovra agli ascensori al livello 975 provocò un massacro .La tragedia di Marcinelle, rievoca anni bui della storia italiana. Alla fine della Seconda guerra mondiale, la necessità di una ricostruzione industriale porta il governo belga a lanciare la ‘battaglia del carbone’. La prima volontà delle autorità è quella di evitare di ricorrere alla manodopera straniera, ma ben presto si comprende che l’obiettivo non potrà mai essere raggiunto contando unicamente sulla manodopera belga. Si rende così obbligatorio il ricorso all’immigrazione massiccia degli stranieri e poiché l’Europa dell’Est e, più in particolare, la Polonia non sembra più una potenziale riserva di manodopera, il Belgio si rivolge all’Italia, che esce esangue dalla II guerra mondiale dopo 20 anni di fascismo. Il protocollo di intesa italo-belga del 23 giugno 1946 prevede l’invio di 50.000 lavoratori italiani in cambio della fornitura annuale di un quantitativo di carbone, a prezzo preferenziale, compreso tra due e tre milioni di tonnellate. Per convincere gli uomini a lavorare nelle miniere belghe, si affiggono in tutta Italia manifesti che presentano unicamente gli aspetti allettanti di questo lavoro (salari elevati, carbone e viaggi in ferrovia gratuiti, assegni familiari, ferie pagate, pensionamento anticipato). In realtà, le condizioni di vita e di lavoro sono veramente dure. All’arrivo a Bruxelles, comincia lo smistamento verso le differenti miniere, dopodiché i lavoratori vengono accompagnati nei loro ‘alloggi’, le famose ‘cantines‘: baracche, insomma, o ‘hangar’, gelidi d’inverno e cocenti d’estate, veri e propri campi di concentramento dove pochi anni prima erano stati sistemati i prigionieri di guerra. La mancanza di alloggi decenti, previsti peraltro dall’accordo italo-belga, impedisce alla maggior parte dei minatori il ricongiungimento con la propria famiglia. Trovare un alloggio in affitto è infatti quasi impossibile all’epoca. Senza contare la discriminazione. Spesso sulle porte delle case da affittare, i proprietari scrivono a chiare lettere ‘ni animaux, ni etranger‘ (né animali, né stranieri). Un’integrazione difficile, dunque, a cui si sommano le condizioni di lavoro particolarmente dure e insalubri, nonché le scarse misure di igiene e sicurezza. Tra il 1946 e il 1955, quasi 500 operai italiani trovarono così la morte nelle miniere belghe, senza contare il lento flagello delle malattie d’origine professionale, tra cui la silicosi. Una mostra con le immagini dei minatori di oggi nel mondo è aperta fino a dicembre al Bois du Cazier, il sito a sud di Charleroi diventato un museo del ricordo e che dal 2012 è diventato Patrimonio dell’umanità dell’Unesco.
venerdì 5 agosto 2016
Franco Astengo: Banche
VICENDA BANCHE: QUALCHE ANNOTAZIONE E UNA PROPOSTA di Franco Astengo
La vicenda riguardante i crediti deteriorati accumulati nel tempo dal sistema bancario italiano e affrontata dal Governo con il criterio della “soluzione politica” e del “nascondere la polvere sotto il tappeto” rappresenta il punto di potenziale maggior rottura del sistema, nel senso del rapporto tra il complesso delle istituzioni e i cittadini.
Un punto di rottura ancor più pericoloso che non quello rappresentato dalle deformazioni costituzionali che saranno sottoposte al voto referendario, il cui esito può determinare il mantenimento o meno della Repubblica Italiana nell’ambito della democrazia parlamentare (è questa, al di là dei tecnicismi, la vera posta in gioco nella consultazione d’autunno).
La storia delle banche, però, è ancora più grave perché è una storia provvista di punti di tale oscurità da rendere incredibile l’intero sistema proprio nel suo insieme di relazioni sociali e politiche.
Un punto deve essere svelato assolutamente davanti all’opinione pubblica: quello dell’elenco dei destinatari dei crediti andati deteriorandosi e la loro destinazione.
Si scoprirebbero così tutti gli inghippi, gli insopportabili favoritismi, le trame politiche più o meno occulte attraverso le quali sono stati dirottati fiumi di denaro sottratti ai risparmiatori: i casi delle famose “4 banche” (Etruria, in testa), delle Banche Venete, di MPS, di CARIGE e quant’altro stanno dentro questo quadro di opacità strutturale, di subalternità del sistema ai soliti “padroni del vapore” che hanno continuato a operare impoverendo sempre di più il Paese e contribuendo a trattar male (sì proprio a trattar male, senza un minimo di coscienza civica) le sue cittadine e i suoi cittadini.
Manca, naturalmente, per arrivare a quest’esito la volontà politica che, invece, la gran parte dei soggetti interessati esprime nella direzione dell’insabbiamento.
Si grida al pericolo del salto nel buio, all’assenza di soluzioni alternativa ai vari Atlante che altro non rappresentano che l’ennesima sottrazione, non solo alla chiarezza, ma alla disponibilità effettiva dei risparmiatori che, alla fine, si troverebbero nella condizione di riacquistare surrettiziamente i debiti contratti da altri sulle loro teste, perdendo cifre enormi.
I governi che si sono succeduti nel corso di questi anni hanno commesso errori fondamentali come quello del bail – in e, adesso, perfino economisti come Zingales avanzano l’ipotesi della nazionalizzazione (ben più quindi dell’intervento pubblico).
Preliminare a tutto, però, è lo squarcio del velo che oscura la destinazione e la consistenza dei debiti, voce per voce, debitore per debitore.
E’ necessaria una grande inchiesta pubblica: difficile da farsi perché non ci si può fidare né della Banca d’Italia (per la quale si dovrebbe cominciare a esplorare la strada della “culpa in vigilando”), né del Parlamento perché troppi partiti hanno avuto interessi diretti nella vicenda, né dell’Anticorruzione, mera appendice subalterna del Governo.
Rimane, com’è accaduto tante volte nella storia d’Italia la Magistratura (c’è il precedente storico della Banca Romana, ad esempio).
La Magistratura che svolgerebbe così ancora una volta un compito di supplenza rispetto all’incapacità della politica di affrontare i problemi veri del Paese.
Alla Magistratura dovrebbe essere affidato un compito d’inchiesta a tutto campo su questa delicatissima situazione con il compito alla fine di indicare le responsabilità e attuare le relative procedure.
Si tratterebbe di una procedura straordinaria per la quale il Parlamento dovrebbe comprendere l’eccezionalità affidando un mandato alla Suprema Corte di Cassazione.
Si comprendono benissimo i rischi di una tale scelte e gli elementi di pericolosità insiti in essa, ma appare necessario rimarcare l’assoluta gravità dello stato di cose in atto.
Alla libera stampa tocca il compito di svolgere un ruolo di promozione e di controllo.
Siamo nuovamente dentro la “notte della Repubblica”: una notte probabilmente ancora più buia e piena d’insidie di quella che attraversammo alla fine degli anni’70 sotto l’incombere del pericolo stragista
giovedì 4 agosto 2016
Franco Astengo: Ingiustizie
IL SENSO PROFONDO DELL’INGIUSTIZIA di Franco Astengo
Avvertiamo salire attorno a noi la crescente consapevolezza di un senso profondo d’ingiustizia che percorre questa nostra martoriata società che i corifei del potere vorrebbero definire come “moderna”.
Neppure il riformismo riesce ad indicare una direzione di marcia, seppure segnata da tappe graduali e si limita a ricordare la necessità di conservare.
Conservare è indispensabile, ma la testa rimane rivolta all’indietro.
Una società che i fatti di questi ultimi decenni hanno profondamente trasformato nel senso dell’individualismo fine a se stesso, del consumismo quale unica vocazione del sngolo, della perdita di senso di un pensiero diventato superficiale.
Un pensiero che non riesce più a penetrare gli interrogativi di fondo del vivere sociale e politico.
Si sono perse per strada le argomentazioni dell’uguaglianza e della solidarietà intese come fattori per la crescita collettiva, organizzata, di una nuova dimensione civile, di una diversa prospettiva sociale e politica da quella dettata dall’immutabile esistente.
Tutti i “provvedimenti” che arrivano dal cosiddetto “alto” hanno il segno della perpetuazione di un domini.
Il segno di una sopraffazione da parte esercitata da dominatori invisibili, irraggiungibili nel loro infinito potere.
I mezzi di comunicazione di massa, oggi moltiplicati dalle novità tecnologiche che in apparenza appaiono promuovere addirittura il “far da sé”e il dibattito più largo, propagano questo messaggio di eternità del potere perché riducono sempre più al soliloquio dell’uomo solo al comando di sé stesso, avvolto nella cupola orwelliana del comando totale.
La grande finzione scenica messa in atto dal “pensiero unico” e dal “sempre uguale” giunge al suo culmine nei messaggi apparentemente religiosi: da papa Francesco sofisticato interprete di una “pietas” apparentemente consolatoria e in realtà destinata alla conservazione di tutti gli equilibri in una “rottura” di schemi che si ferma all’apparire in luogo dell’essere, al ritorno della spada del Profeta, vendicatrice dei potenti sui poveri della terra dei quali acuisce, con azioni ben mirate e spettacolarmente propagandistiche, le sofferenze più inaudite. Eguali nella loro apparente asimmetria : in realtà “defensor civitatis” dell’obbligo dell’obbedire.
E’ assente la profondità di una cultura politica capace di disegnare un’alternativa, proprio a partire dal modo di pensare.
I bersagli degli antichi canti anarchici sono sempre lì : le banche, i padroni, i generali con i baffi a svolgere la loro funzione di oppio dei popoli e di sterminatori di chi osa proporre un pensiero “diverso”.
I governi mai come oggi appaiono come “i comitati d’affari della borghesia” e la democrazia mostra la corda da un lato dell’impossibilità e dell’incapacità di rappresentare le istanze sociali e dall’altra di riferirsi esclusivamente al “pensiero unico” della “fine della storia”.
Chi non si adegua viene emarginato, considerato un disturbatore dell’equilibrio consolidato, ritenuto inadatto a comprendere la “complessità” disegnata da lor signori.
Le democrazie occidentali non reggono il passo dello sviluppo dei tempi e la risposta (come nel “caso italiano”) è quella di una riduzione drastica degli spazi e delle possibilità di confronto anche in sede parlamentare e, più in generale, di rappresentatività politica.
Le contraddizioni emergono stridenti, strisciano sulla pelle degli schiavi mandati al macello lungo i mari e le strade d’Europa.
Valgono ancora le antiche divisioni di classe, di genere, di status intese proprio nel senso dell’espressione di una sopraffazione collettiva.
Ancora la guerra, la schiavitù, lo sfruttamento, la rapina appaiono come i fattori sempiterni nell’equilibrio di rapporti umani sempre più legati all’uso della forza.
Nessuno però ha il coraggio di prendere coscienza di questo stato di cose, nessuno compie lo sforzo di ricominciare a conoscerle.
Anzi il torpore di una politica rarefatta nell’idea della governabilità e non più intesa come fattore primario del riscatto di classe sembra ormai aver presto il sopravvento in una dimensione di unanimità di casta.
Un mondo confuso, dove neppure si riesce a intravvedere la realtà della fine e dell’inizio dei grandi cicli di gestione del capitale.
Uno smarrimento collettivo che sembra ignorare le voci di chi , dal basso, sale a reclamare giustizia
Non s’impugnano più le parole sacre del sacrificio umano: giustizia, libertà, riscatto sociale.
Forse, in questo immane degrado, vale la pena ricordarle proprio quelle parole indicandole nel concreto delle piaghe dell’umanità quali fattori di un concreta ripresa di visione collettiva del cambiamento di una società così profondamente ingiusta.
Non dobbiamo intendere l’avvenire come visione escatologica, bensì come concreto traguardo dell’operato umano; qui e ora.
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