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lunedì 18 gennaio 2016
Franco Astengo: Malthus
ADAM SMITH, MARX, MALTHUS: DA UNA “PROVOCAZIONE” DI CLAUDIO BELLAVITA di Franco Astengo
Il compagno socialista Claudio Bellavita di Torino è uno degli intelligenti animatori del dibattito sul sito del Circolo Rosselli di Milano, trattando soprattutto di temi economici.
E’ autore spesso di provocazioni acute e interessanti, com’è stato nel caso dell’intervento diffuso nella serata del 17 Gennaio, del quale si riporta di seguito la parte conclusiva:
“Senza contare che il fondamento della dottrina della scuola di Chicago e dell’austerità che viene
predicata di conseguenza dal FMI, e cioè che lo scopo del mondo è di far diventare sempre più ricchi qualche migliaio di ultramiliardari, a lungo termine si troverà con meno consumatori e a breve con meno elettori. E se si continua a dare a consumatori impoveriti beni di poca sostanza e di tanta pubblicità, c’è il problema che le risorse agricole e abitative del mondo possono non bastare. E certo non basterebbero a reggere l’estensione a tutto il mondo dello stile di vita e di consumo degli statunitensi poveri...stile che per l’80% della popolazione mondiale è un mito da raggiungere a ogni costo.
Forse, dopo 150 anni di liberisti e di Marx (“la lotta di classe c’è stata e la ha vinta il capitale” ha detto Warren Buffett, il mago delle start-up che non ha nessuna intenzione di chiudere baracca) è il caso di dare una spolverata a Malthus...”
Un’annotazione questa sviluppata dal compagno Bellavita nell’ambito complessivo di un suo filone di ricerca tendente a dimostrare il superamento del concetto di lotta di classe e la necessità di percorrere nuove strade rispetto al passato per una sinistra che egli ritiene ancora debba essere “di governo” sul piano politico al riguardo delle esplosive contraddizioni dell’oggi: “di governo” nel senso di un’impronta decisamente decisionistica nel tenere assieme equità sociale, sviluppo economico, democrazia.
L’impianto che regge, tanto per fare un esempio, il corposo testo recentemente uscito a cura di Massimo L. Salvadori “Democrazia, storia di un’idea tra mito e realtà" editore Donzelli di rilancio di una visione classicamente “riformista”. Pur, naturalmente, tra punti inesplorati e spunti critici di rilievo.
Il riferimento a Malthus, contenuto nel testo elaborato dal compagno Bellavita, fornisce però l’occasione per un approfondimento di merito, sia pure molto sommario nell’occasione, e il caso di provare a misurarsi.
Il fondamento della teoria maltusiana consisteva nell’idea che la povertà non dipendesse da fattori istituzionali, ma da cause naturali derivanti da un’asimmetria strutturale tra crescita (limitata) dei mezzi di sussistenza e crescita (illimitata) della popolazione (ci troviamo all’inizio del XIX secolo).
Se la miseria era frutto di una legge naturale essa non poteva essere eliminata, al più arginata attraverso un controllo demografico delle classi lavoratrici da ottenere con “restrizioni morali” e con livelli salariali tali da scoraggiare progetti procreativi.
Per tale ragione Malthus polemizzò con la legislazione assistenziale nei confronti dei poveri vigente nell’Inghilterra del suo tempo (il “Poor Law”).
In seguito lo stesso Malthus modificò la sua analisi convincendosi che le cause della recessione derivassero non da una scarsità di risorse ma da una sottoutilizzazione delle medesime, dovuta a una carenza di domanda effettiva.
La soluzione maltusiana (sarà in questo senso la proposta di “rispolverata” avanzata da Bellavita?) fu trovata nella promozione del consumo improduttivo delle classe abbienti: in questo modo, esercitando la logica del superfluo (tanto cara oggi agli esegeti del consumismo individualistico di lusso) andava esclusa ogni ipotesi di aumento dei salari che intaccasse il complesso dei profitti. Di conseguenza l’ordine costituito andava difeso a vantaggio delle classi sociali dominanti.
Un quadro che portato all’oggi laddove il tema è quello dello spostamento di popolazione dalle zone del mondo infestate dalla guerra o impoverite dal sottosviluppo chiederebbe di applicare, nella sostanza, queste indicazioni: chiusura dei passaggi verso l’Occidente opulento, mantenimento di forti livelli di diseguaglianza sia all’interno delle aree sviluppate sia tra queste e il resto del Pianeta.
Diseguaglianze sulle quali costruire una difformità di ordini sociali e politici tra le diverse parti del mondo, con l’espressione di una “democrazia governante” da considerare lo strumento per realizzare, insieme, la crescita della domanda dei beni di lusso intangibili per la maggioranza e la difesa dei criteri di diversità di “status”.
Appare evidente, più che mai proprio nell’attualità, la somma di ingiustizie che questa prospettiva contiene e comporta: forse la lotta di classe, proprio per questo motivo, non è stata vinta da un capitalismo in crisi ciclica che si rafforza soltanto estendendo lo sfruttamento, il dominio, la sopraffazione.
Si sta tentando di far divorziare definitivamente la politica dall’economia per imporre l’egemonia della tecnica cancellando la società esistente in quanto fondamento dell’azione politica collettiva definita nelle sua varie accezioni come democrazia.
E’ proprio questo il punto al quale rivolgersi nell’approfondimento dell’analisi a partire proprio dalla crescita delle diseguaglianze come fenomeno che sta avvenendo su larga scala (Piketty, Atkinson).
In gioco sono soprattutto il ruolo dello Stato e il rapporto tra pianificazione economica e mercato quale elemento fondativo di una nuova qualità di compromesso sociale.
Tempi difficili ci stanno attendendo e in questa schermaglia dialettica non è possibile far entrare, per mere ragioni di spazio, il rischio serissimo di guerra globale che pure esiste concretamente: forse può tornare ancora utile il Marx della “critica all’economia politica” e della critica del falso universalismo giuridico formale delle cosiddette “relazioni di mercato”.
Sono i rapporti capitalistici di produzione che danno luogo allo sfruttamento della forza – lavoro fino alla conseguenza dell’insopportabilità delle differenziazioni sociali ed economiche (tenendo ben conto naturalmente della complessità delle contraddizioni dell’oggi al riguardo delle “fratture” di genere, nell’utilizzo del suolo, ai temi ambientali, soltanto per citarne alcune più evidenti di altre).
Ricordando, infine, come già in altre occasioni: all’orizzonte appaiono guerre e dittature, anche in Occidente.
E’ bene non sottovalutare.
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4 commenti:
Non vorrei interferire nella discussione tra Astengo e Bellavista che richiederebbe uno spazio e un tempo superiore a quello ragionevole in questa sede. Mi limito, quindi, a segnalare alcune questioni che potrebbero interessare ed entrare in quella discussione. La prima si riferisce a Malthuse e alle sue ossessive previsioni fatte di carestie e peggio, in relazione alla contraddizione tra i limiti della produzione degli alimenti, vincolati a loro volta, dalla finitezza nella disponibilità del suolo e una crescita demografica ad un certo punto incompatibile con quella limitatezza e “affrontabile” solo con eventi come quelli delle carestie o simili che, effettivamente, in qualche misura e in qualche luogo si verificavano. Questa specie di dannazione non fu smentita ed è rimasta per molto tempo tra le pieghe del dibattito economico e alle volte sembra riemergere anche ai tempi attuali come nel caso della “decrescita” più o meno felice. A questo proposito vorrei segnale che le previsioni demografiche danno il raggiungimento entro questo secolo di un equilibrio entro il limite di 9-10 miliardi di persone. Se si è in grado produrre cibo per questo livello della domanda, il problema – che è a mio parere quello vero – è quello della cattiva distribuzione, non certi dei limiti naturali. Una recente ripresa di una questione, similare a quella sollevata a suo tempo da Malthuse, è stata espressa avendo come “teorico” il pensiero di un economista di un certo valore e cioè da Nicholas Georgescu-Roegen il cui pensiero economico è stato ripreso in un volume pubblicato da Bollati-Boringhieri nel 2003: Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile. Il volume assume, in questo caso, che non il vitto verrà prima o poi a mancare, ma l’energia, con effetti, si presume, non molto dissimili. Questa assunzione del tutto originale nasce da una lettura del secondo principio della termodinamica secondo il quale in un sistema “chiuso” e che cioè non scambia né materia ne energia con l’esterno, qualunque azione prevede una consumo di energia in parte non recuperabile. Poiché le fonti energetiche sulla terra sono per definizione finite ecco che si ripresenta una conclusione ancora più drammatica di quella prospettata da Malthuse. Le considerazioni contenute in quel volume sono state variamente riprese da una certa cultura ambientalista.
Senza entrare nel merito sarà sufficiente ricordare che quel principio della termodinamica non vale per la terra nel suo insieme – che non è un sistema chiuso - per cui possiamo passare oltre e occuparci delle questione politiche che riguardano l’attuale sistema capitalistico entro il quale occorre attrezzarsi dal momento che in questo caso esistono delle condizioni sociali che sono diversamente apprezzabili. Mi riferisco, e anche in questo caso in una forma sin troppo sintetica, alla critica di origine marxista e variamente discussa e approfondita – secondo la quale quel sistema si regge su due ingiustizie: una distribuzione della ricchezza per cui chi fornisce il lavoro si trova in condizioni subordinate di dover vendere se stesso e – seconda ingiustizia – nella distribuzione dei ruoli sociali che devono necessariamente distinguere tra chi comanda e chi deve obbedire. La storia passata ci dice che sulla “prima ingiustizia” si è operato attraverso l’azione della sinistra e dei sindacati con risultati non certo decisivi ma tutt’altro che trascurabili. I richiami alle attuali tendenze ad accrescere le disuguaglianze sono certamente vere ma non contraddicono una storia che ha visto ben altre disuguaglianze. Il capitalismo peraltro non può campare senza fabbricare e vendere prodotti in termini crescenti e questi prodotti possono anche essere dei simil-prodotti di carta ma gli acquirenti non possono essere solo i capitalisti o i finanzieri. Se oggi ha un senso parlare di un proletariato come nuovo ceto-medio o di un ceto-medio come proletariato, un qualche motivo ci dovrà essere.
Molto meno, se non nulla, è stato fatto per superare la seconda ingiustizia e le due questioni, a mio parere, stanno sempre più per essere connesse.
Che poi il capitalismo abbia una flessibilità notevole e una capacità di adattarsi a diversi regimi politici e indubbio, ma è certo che la sua flessibilità è molto agevolata da un regime autoritario. Con il che si torna al punto precedente.
Sergio Ferrari
No, io non suggerisco soluzioni, cerco di provocare la discussione, perchè sono contrario a qualunque dottrina più o meno dogmatica...Mi pongo da sempre il problema come è possibile che la maggior felicità collettiva derivi dalla sommatoria degli egoismi individuali, e su questa considerazione mi sono beccato l’unico 18 della mia carriera universitaria da parte di un prof seguace della scuola viennese e amante delle “curve di indifferenza”. Ho citato Malthus perchè oggi comincia veramente a porsi il problema che siamo troppi per le risorse della vecchia palla, soprattutto in una prospettiva di eguaglianza nella distribuzione delle risorse e dei consumi. E bisogna anche approfondire se ci sono valori diversi dalla massimizzazione del guadagno che possono fare da motore di uno sviluppo economico che porti anche a una più equa distribuzione delle risorse. L’eguaglianza comporta che ciascuno fa il lavoro per cui si sente più portato e non quello da cui si attende i migliori guadagni. In che modo si rende di più? posso sbagliare ma è questo principio che ha determinato il successo dei primi piani quinquennali sovietici, poi portati alle falsificazioni dei dati e al sostanziale fallimento dall’estendersi del burocratismo. E sono convinto che l’eguaglianza nata in un esercito poverissimo che ha battuto la più grande potenza mondiale spieghi il successo economico del Vietnam, di cui si parla troppo poco...
Un'analisi che richiama vecchi problemi, ma sempre più attuali su cui bisogna riflettere per trovare soluzioni adeguate.
Le prospettive non sono rosee sia sul piano delle risorse che su quello demografico . Di fronte ai fallimenti sovietici e tenendo conto della logica del capitalismo che è quella dello sfruttamento sempre più intensivo di risorse umane e materiali, come far fronte alle disuguaglianze che rappresentano una minaccia sempre più incombente per la "democrazia" e per gli equilibri internazionali?
Tornando con lo sguardo ad alcune esperienze europee, sarebbe utile conoscere, per es., le valutazioni di Astengo e di altri provvisti di capacità analitiche, sulle esperienze maturate e realizzate dalle socialdemocrazie scandinave, che, a quanto è dato sapere, una maggiore ridistribuzione della ricchezza hanno saputo realizzare, evitando gli enormi squilibri esistenti nell'occidente tra poveri , ricchi e ricchissimi. Nei paesi del nord Europa è stato realizzato un modello di socialismo libertario con rilevanza equitativa? Potrebbe rappresentare anche oggi, quantomeno, un'indicazione da non sottovalutare?
In attesa di qualche riscontro,invio i saluti, Roel
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