Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
lunedì 30 novembre 2015
domenica 29 novembre 2015
Franco Astengo: Lavoro agile e sfruttamento
LAVORO AGILE E SFRUTTAMENTO di Franco Astengo
Renzi le spara sempre più grosse: “ Si vota sulla base delle proprie speranze e delle proprie emozioni”. Dimenticando completamente che si possa votare per le idee, per un’appartenenza politica, per corrispondere a una collocazione materiale all’interno della società, allo stare da una certa parte e per non rimanere indifferenti.
E’ la premessa (questa sì subdolamente ideologica) per considerare finita l’epoca dello sfruttamento e dar via a quella della “società liquida” e del cosiddetto “lavoro agile”. La più grande mistificazione di un moderno che pericolosamente scivola nell’antico, addirittura nel preistorico.
Un “moderno” che avvolge nella retorica la realtà di un mondo nel quale l’ingiustizia sociale cresce e regna sovrana.
Una falsità costantemente sbandierata dai mezzi di comunicazione di massa e illustrata, per esempio, dal bocconiano (una delle vere e proprie Università dei padroni) Maurizio Del Conte, ideatore del job act (che, come ha fatto giustamente notare Chiara Saraceno non si occupa minimamente della creazione di posti di lavoro) che impunemente, dall’alto delle sue certezze elaborate a tavolino, parla di “lavoratori che decidono con l’azienda come ottenere incrementi di produttività”.
Sarebbe il cosiddetto “lavoro agile” fatto della stessa pasta del voto “per speranze ed emozioni”: la pasta dell’illusione in un mondo che non esiste e intende nascondere il dramma enorme delle diseguaglianze a tutti i livelli, dello sfruttamento, della sopraffazione.
Per restare all’attualità condisce il tutto il ministro del Lavoro (o forse dello “sfruttamento del lavoro”) Poletti che lancia l’opa dei padroni sull’orario di lavoro: non a caso Poletti arriva dalle cooperative, luogo nel quale da molti anni l’incremento dello sfruttamento è diventato quasi una “religione della precarietà”.
Il tutto mascherato da paroloni quali “flessibilità”, “progettualità” e altra terminologia da pura e semplice foglia di fico.
Non si ha idea, in questa folle ricorsa ideologica, della fatica del lavoro, dell’alienazione da ripetitività, dallo sfruttamento del lavoro vivo che questa presunta “innovazione” porta con sé annullando completamente il senso delle distanze sociale, annegate nel dramma di una quotidianità che non permette di alzare la testa.
La filosofia padronale, supportata da questo governo, è ancora quella del “Piccolo Vetraio” , quella dell’elemosina in nero (pensiamo al sistema dei voucher), della riduzione a sopravvivenza il compenso per le prestazioni del lavoro.
I sindacati hanno responsabilità enormi sotto quest’aspetto, in particolare quando accettarono di ridurre la loro capacità conflittuale (conflittuale e non contrattuale) in cambio di una concertazione che tale non poteva essere perché sempre e comunque sbilanciata dalla detenzione del potere.
Oggi però si punta alla cancellazione del sindacato e si passa già (ne scriveva Dario Di Vico) addirittura a puntare all’individualizzazione della contrattualità. I metalmeccanici come i calciatori?
Ci troviamo su di una china del tutto pericolosa: si vota per “emozioni”, ci si fa sfruttare per “agilità”.
Rifletterci è giusto ma non basta, è necessario riprendere la conflittualità.
Senza tema di apparire “antichi”.
In conclusione un passaggio del nuovo libro di Massimo L. Salvadori “Democrazia storia di un’idea tra mito e realtà” ( Donzelli editore)
“… Oggi il processo di impoverimento graduale della democrazia è giunto al punto per cui la sovranità del popolo non va oltre il voto di elettori nella loro maggioranza etero -diretti, atomizzati e disorganizzati; il potere economico è tornato in maniera pressoché incontrastato nelle mani dei proprietari dei ceti superiori; il potere politico, che per gran parte dell’Ottocento e del Novecento era stato un attributo dei leader dei partiti, degli organizzatori delle masse, dei parlamentari e dei componenti il governo, nei singoli Stati territoriali è infeudato nella plutocrazia sovranazionale o quanto meno influenzato in maniera decisiva da essa; il potere dell’informazione e dei media che orientano politicamente le masse è subalterno a chi ne detiene la proprietà o il controllo; quella che era stata la grande rete sia delle sezioni dei partiti di massa sia dei quotidiani o dei periodici che contribuivano in maniera determinante alla formazione e partecipazione politica e degli uomini comuni è largamente smantellata..”
Francesco Maria Mariotti: Uberizzazione o libertà
Mi sembra una riflessione molto interessante: non può bastare una "reazione difensiva" quando i cambiamenti sono strutturali.
Francesco Maria Mariotti
"(...) L’affermazione di Camusso è realistica e, allo stesso tempo, sottovaluta la portata delle tesi di Poletti. L’ora di lavoro sganciata dalla retribuzione, l’aumento dello sfruttamento, è un problema in tutti i settori indicati. La sua visione rivela un’idea di lavoro parziale, riservata al mondo del lavoro dipendente, manuale, agricolo, lì dove il lavoro è erogazione di energia meccanica. Niente di male, ma è parziale. Oggi lo sfruttamento è altrettanto intensivo nei settori dove il lavoro è relazionale, mentale, informatico.
La scelta dei soggetti del lavoro — effettuata per sintesi, non programmaticamente — non considera il problema di Poletti: immaginare nuovi strumenti contrattuali che tengano conto dei cambiamenti tecnologici. A parte il fatto che tali cambiamenti interessano anche i soggetti indicati da Camusso, l’esigenza “culturale” di Poletti dovrebbe essere raccolta al volo dai sindacati e non solo da loro.
E invece no. Si ripete una costante degli ultimi venti o trent’anni. I sindacati si rifugiano nel perimetro contrattuale dove cercano di portare alcune delle categorie dei “nuovi lavori”. E’ una buona idea, lì dove è possibile ridurre a contratto l’opera di un lavoro che non è salariato. Ma è insufficiente. Il rischio, anche a questo giro, è che lascino il campo libero agli attori che hanno gestito rovinosamente il passaggio dall’epoca del lavoro salariato a quella della precarietà generalizzata. Oggi esistono almeno due generazioni di apolidi del lavoro e del non lavoro, cittadini e non cittadini banditi dalle tutele superstiti della polis: il quinto stato.
La reazione difensiva dei sindacati non promette nulla di buono. (...)"
http://ilmanifesto.info/storia/uberizzazione-o-liberta-le-ambiguita-di-poletti-sul-lavoro/
venerdì 27 novembre 2015
giovedì 26 novembre 2015
Franco Astengo: Libertà tra l'io e il noi
LIBERTA’ TRA L’ IO E IL NOI di Franco Astengo
Nelle pagine centrali della sezione culturale di Repubblica si affronta oggi 26 Novembre, attraverso un articolo firmato da Gustavo Zagrebelsky, il tema cruciale del “moderno”: quello della libertà fra l’io e il noi.
L’occasione è fornita dall’analisi sviluppata in quella sede attorno al testo “Il diritto della libertà” del filosofo Axel Honnet.
Nel testo, secondo l’interpretazione che ne suggerisce Zagrebelsky, viene respinta la preponderanza dell’aspetto soggettivo nella concezione della libertà: aspetto soggettivo che, alla fine, condurrebbe a una concezione individualistica.
Questo rappresenta un punto di grande interesse rispetto a come il tema viene affrontato nella sfera dell’attualità: attualità così pronta a recepire e ingigantire i moti dell’individuo, del singolo, della sua affermazione in ispecie, ma non soltanto, nel campo della politica.
Non si risolve però, in questo modo, il rapporto tra l’io della libertà e il noi della libertà inteso quale nodo storico del nutrimento reciproco.
Si afferma come l’io e il noi debbono comprendersi in una concezione nella quale la libertà singolare non può esistere se non entro la libertà plurale.
All’individualizzazione non può non corrispondere la socializzazione della libertà.
Come ciò può avvenire nel mondo trasformato dalla tecnologia imperante, che esalta il mito della solitudine anche rispetto alle scelte di fondo nel rapporto con i bisogni, le distinzioni sociali, la valutazione del merito e la sua comprensione in un’equilibrata scala sociale?
In un mondo dominato dall’intensificazione dello sfruttamento e dal predominio del “pensiero unico” dell’accumulazione capitalistica sempre più incompatibile anche con gli stessi meccanismi della democrazia borghese può affermarsi ancora un’idea collettiva della libertà regolata soltanto dal rapporto con una normazione che contenga esclusivamente prescrizioni inclusive o espulsive?
Non basta neppure la “libertà sociale”, che difatti non viene indicata nel testo come alternativa.
Non ci si può fermare, come vorrebbero i teorici della “fine della storia”, allo stadio della libertà negativa: quella dell’assenza di costrizioni esterne. “E’ permesso tutto ciò che non è vietato”.
Neppure vale la correzione arbitraria dei cosiddetti “errori”.
Soprattutto perché una condizione di questo tipo finirebbe oggettivamente con il determinare ilcontrollo occulto, il dominio di una coercizione non percepibile su tutti gli atti compiuti dai singoli che dovrebbero così rientrare nelle “regole non scritte” dell’ossequio al potere.
In discussione è la relazione tra il soggettivismo e la facoltà d’espressione, di iniziativa, di ambito collettivo di intervento economico, culturale, politico.
Nel fallimento delle ideologie (ideali) del ‘900 risiede forse l’impossibilità di distinzione tra libertà positiva e libertà negativa di origine kantiana e i dilemmi che ne sono conseguiti appaiono del tutto irrisolti nella crisi verticale della struttura politica.
Tra la richiesta del singolo di non essere etero diretto e di disporre del potere di “fare qualcosa” appare ancora indispensabile collocare uno strumento di regolazione posto ben oltre il semplice tecnicismo giuridico.
La libertà ha bisogno di aspirazione ideale, di visione del mondo, di consapevolezza circa la condizione materiale.
La libertà ha bisogno di ricerca e di possibilità di essere espressa attraverso il concorso collettivo nella determinazione dei destini.
In una parola la libertà ha bisogno della politica intesa nel duplice aspetto di conflitto e di ordine.
La politica deve tornare a essere “pensabile” attraverso l’interrogativo di fondo, dalla cui risposta si può salire a un ritorno alla libertà: qual è l’origine della collettività e quali i suoi fondamenti di legittimità?
mercoledì 25 novembre 2015
martedì 24 novembre 2015
Franco Astengo: Una sinistra frutto soltanto dell'autonomia del politico?
UNA SINISTRA FRUTTO SOLTANTO DELL’AUTONOMIA DEL POLITICO? di Franco Astengo
Mentre il “Corriere della Sera” si esercita a impartire lezioni alla sinistra perché si prenda atto che il senso comune sta marciando verso la guerra e che è necessario assecondarlo (più o meno come fece Albertini cent’anni fa nel corso delle “radiose giornate di Maggio”), “Repubblica” attraverso la pubblicazione dell’”Atlante Politico” elaborato dalla Demos di Ilvo Diamanti fornisce alcuni dati sulla realtà possibile di una presenza della sinistra in Italia.
E’ il caso, allora, di soffermarci su alcuni aspetti che appunto il lavoro svolto da Demos mette in evidenza e sui quali vale la pena soffermarsi attraverso un minimo di sviluppo d’analisi.
La sinistra che viene presa in considerazione è quella derivante dalla formazione del gruppo parlamentare di Sinistra Italiana, formato da SeL e da alcuni dei parlamentari recentemente usciti dal PD (non ci sono come noto quelli raccolti attorno a Civati sotto la sigla “Possibile").
E’ bene ricordare subito come al gruppo parlamentare di Sinistra Italiana non corrisponda ancora alcuna forma organizzativa (Sel come soggetto politico è fin qui rimasto tale nella sua dimensione originaria).
Ciò nonostante Demos sottopone il soggetto alla prova del sondaggio elettorale, sommando anche il consenso virtuale assegnato a Sinistra Italiana quello attribuibile (sempre per via virtuale) al PRC e al PCd’I.
Ne vien fuori un 5,5%, ovviamente tutto da verificare e considerato dagli estensori di quest’analisi “risultato tutt’altro che irrilevante”.
Gli elementi di maggior interesse nascono però dalle rilevazioni riguardanti la composizione di questa quota di consenso.
Due considerazioni prima di tutto.
La prima riguarda la domanda relativa al sistema di alleanze preferito da chi ha espresso consenso per Sinistra Italiana.
Sotto quest’aspetto appare prevalente di gran lunga la preferenza per un rinnovo di una presunta alleanza di centrosinistra con il PD (addirittura all’87%).
Centrosinistra che, anche volendo occuparsi di formule politiche, appare inesistente nel concreto sulla scena politica italiana da circa 10 anni (fallimento della cosiddetta “Unione”) e non più recuperabile.
Si rilevano qui i guasti che ha causato la dispersione colossale di cultura politica avvenuta all’interno del possibile corpo politico della sinistra italiana nel corso di questi anni.
Una scelta di questo genere dimostra come, prima di tutto, il culto della “governabilità comunque” sia risultato prevalente in luogo della necessità di espressione di un’autonomia politica legata a precisi riferimenti sociali e a un’espressione coerente riferita alla necessità di affrontare le contraddizioni in atto.
Questo elemento di riflessione collettiva sembra proprio ormai assolutamente perduto e con esso appare smarrita la capacità di collocare i soggetti politici nella loro giusta e corretta dimensione all’interno del sistema: appare completa la sottovalutazione della tensione che anima il PD, fin dalla sua origine, sulla scorta della visione della cosiddetta “vocazione maggioritaria” a interpretare la parte del “Partito della Nazione” quale pilastro fondativo di un regime personalistico, della distruzione del Parlamento e dei corpi intermedi: gli atti di governo del PD si sono mossi tutti in questa direzione e il combinato disposto tra legge elettorale Italikum e cosiddette riforme costituzionali (in realtà vere e proprie deformazioni) dovrebbero rappresentare, negli intenti dei promotori, il momento di vero e proprio consolidamento di questo stato di cose.
Diventa difficile poter pensare a una sinistra senza che si riesca ad analizzare la situazione in questi termini, affermando la più netta opposizione e di conseguenza autonomia e alternativa.
Il secondo punto si intreccia con il primo e riguarda i livelli di consenso che, sotto l’aspetto della suddivisione per età e per condizione sociale, il soggetto “Sinistra” riuscirebbe a raccogliere.
Un dato confortante è sicuramente quello della prevalenza di un consenso giovanile (ma questo dovrebbe trovare subito uno sbocco nella ricerca della costruzione di quadri sul territorio), così come eguale livello positivo si riscontra tra le persone dotate di un elevato titolo di studio.
Questi elementi, sicuramente positivi, contribuiscono però a far sorgere una domanda: nel quadro complessivo di distruzione del sistema dei partiti, con la creazione di soggetti che appaiono come poco più di “comitati elettorali” non è forse questo un segnale di espressione di un’autonomia del politico, posta al di fuori dal collegamento con la presenza viva delle persone sulla drammatica realtà di profondissime fratture sociali?
Si tralascia, in questa sede, l’approfondimento relativo alla questione della leadership che, invece, Demos affronta nella sua elaborazione: il discorso appare, nell’eventualità, del tutto prematuro.
Nella sostanza comunque il riferimento non può che essere quello conclusivo dell’articolo citato, redatto da Roberto Biorcio e Fabio Bordignon: “ nodi strategici da sciogliere per definire l’identità e il profilo politico di un nuovo partito”.
La denominazione “partito” appare comunque condivisibile ma i nodi vanno esposti con chiarezza.
Si tratta del ruolo dell’opposizione, della rappresentanza politica delle grandi contraddizioni sociali, di una forma della soggettività politica in grado di adattarsi alla modernità senza smarrire il senso del collettivo (combattendo l’individualismo competitivo delle primarie e il personalismo di leader non legittimati), del rapporto con la storia del movimento operaio internazionale e italiano e soprattutto della capacità di espressione di un soggetto posto in grado di delineare una prospettiva per il futuro in una chiave di espressione egemonica rispetto a un’alternativa di sistema.
Pochi punti, ma da far tremare i polsi per una discussione di fondo della quale, se si vuol, essere seri, non si può fare a meno.
L’obiettivo deve essere rappresentato dalla ricostruzione assieme di una teoria, di una pratica e di una organizzazione collettiva in controtendenza con quanto appare dominante in un sistema contrassegnato dal “pensiero unico” e dalla distruzione del concetto di rappresentanza politica delle contraddizioni sociali e di una identità del cambiamento.
sabato 21 novembre 2015
Franco Astengo: Che cosa sta preparando l'occidente?
CHE COSA STA PREPARANDO L’OCCIDENTE ? di Franco Astengo
Con questo brevissimo intervento s’intende semplicemente sollevare un interrogativo, senza alcuna pretesa di fornire particolari elementi di analisi.
E’ difficile seguire la gran massa di notizie, interventi, commenti, analisi che stanno contrassegnando la fase dell’immediato post-attentati di Parigi e di altre vicende del genere accadute in questi giorni.
E’ difficile sviluppare ragionamenti per motivi di carattere quantitativo, ma anche qualitativo perché non s’intravvede l’individuazione di un nucleo di ragionamento “centrale” che non sia quello dello scontro di civiltà che appare prevalente, pur nelle sfaccettature dei diversi livelli di scontro in atto: dalla guerra tradizionale, agli episodi dei vari blitz.
Tutto concorre però ad alimentare alcuni fattori a livello di percezione di massa: al di là della paura collettiva che si avverte tangibilmente nei comportamenti collettivi sembra che si stia cercando di far tornare il tema della morte come elemento comune, implicito, nella vita quotidiana di ciascheduno.
L’idea è quella di tornare a una mentalità di tipo emergenziale simile non tanto a quella del periodo del terrorismo anni ’70 – ’80 ma a quella della seconda guerra mondiale, quando i bombardamenti aerei rendevano la possibilità dei morti dei civili nelle Città un fatto quasi “normale”, un quadro plausibile di accettazione della filosofia della morte come fatto quotidiano da affrontare fatalisticamente come fatto riguardante immediatamente noi stessi.
Tutto questo all’interno di un quadro generale di “secolarizzazione” della società rispetto al militarismo.
Da questo elemento deriva la domanda di fondo che s’intende avanzare in quest’occasione: che cosa sta preparando l’Occidente?
Forse si sta cercando di “allenare” le menti con questa accorta manovra di propaganda di massa a eventi traumatici di grandissima portata, rimettendo l’idea della morte al centro del pensiero umano, dopo decenni di vitalismo consumistico protratto apparentemente all’infinito, quasi in una logica d’immortalità virtuale?
Sarà una guerra condotta sul “campo” da un lato con gli eserciti, l’aviazione, i missili e quant’altro e dalla popolazione civile dell’Occidente dall’altro, che avrà “in casa” e “invisibili” i potenziali nemici pronti a colpire alle spalle e senza preavviso nei luoghi più impensati?
Si pensa così, come dalle avvisaglie che abbiamo già avuto in Francia, di limitare la democrazia, di “tagliare” in senso autoritario il rapporto tra la politica e la società, com’era nelle intenzioni dei teorici dell’eccesso di domanda?
Per far questo si tratta di realizzare una sorta di parità mentale nella percezione della mortalità con chi ritiene di dover cercare il martirio in nome di un esaustivo trascendente.
In nome della lotta al terrorismo si sta preparando un conflitto globale dagli esiti non controllabili in nome del mantenimento di un equilibrio così instabile e difficile nel mantenimento del potere delle classi dominanti?
Interrogativi non da poco, invero.
venerdì 20 novembre 2015
Aldo Penna: Parigi
Le detonazioni, le grida, le sirene e il pianto sono uno scenario terribile, cui per fortuna non ci abituiamo, che sconquassa la vita quotidiana in tante parti del mondo coinvolgendo centinaia e, a volte, migliaia di uomini e donne inconsapevoli delle ragioni per le quali sono attaccati e uccisi.
L’attentato di Parigi per numero di morti e l’indiscriminata scelta dei soggetti colpiti richiama stagioni lontane e, agli italiani, territorialmente molto prossime. Chi ricorda le due stragi dell’aeroporto di Fiumicino nel 1973 e poi nel 1985? Cinquanta morti, rivendicati il primo dal terrorismo non islamico ma nazionalista di Settembre Nero e il secondo da Abu Nidal un terrorista che operava come longa manus dei governi che lo proteggevano.
In Italia tra quei due attentati ve ne sono decine di origine interna che hanno provocato centinaia di vittime: Stazione di Bologna, Italicus, Piazza della Loggia, episodi terribili che hanno segnato la vita civile del nostro Paese.
Se escludiamo Africa e Asia, continenti martoriati in ogni epoca dal terrore etnico o religioso o politico, in Europa le organizzazioni terroristiche di matrice mediorientale e post coloniale agiscono da oltre 50 anni preferendo spesso azioni eclatanti e sanguinose verso obiettivi civili. L’esplosione di un aereo a Lockerbie in Scozia nel 1988 e di un altro sopra il deserto del Tenerè nel 1989 con oltre 450 morti complessivi, furono ispirati e finanziati dalla politica terrorista della Libia che un decennio dopo, in cerca di salvacondotti e buone relazioni, pagò 1 miliardo e 700 milioni di dollari ai familiari delle vittime.
L’utilizzo, dopo la rivoluzione iraniana, della religione come motivazione negli attentati terroristici, aumentò moltissimo la capacità di far proseliti, rendendo meno identificabili finanziatori e mandanti e moltiplicando gli atti di emulazione dagli effetti devastanti.
L’attacco all’Afganistan poche settimane dopo l’11 settembre segnò la fine del regime dei Taliban in quella zona del mondo ma ebbe come conseguenza la moltiplicazione degli assalti alla popolazione civile dei paesi della coalizione internazionale impegnata in quel territorio. Gli attentati a Madrid del 2004 con 190 vittime e quelli alla metropolitana di Londra del 7 luglio del 2005 con 56 morti e 700 feriti furono progettati con la tecnica della simultaneità e la motivazione della rappresaglia, la stessa vista in opera nella capitale francese.
L’attacco di Parigi e l’esplosione dell’aereo russo sul Sinai sembrano la riedizione di passate stagioni. Negli anni 80 era la Libia lo stato canaglia che foraggiava e addestrava i terroristi di mezzo mondo, negli anni 90 al Queda trasformò l’Afganistan nella terra del terrore facendo percorrere a quel paese un salto indietro di mille anni, mutando le sue campagne e città in accoglienti luoghi per i foreigner fighter dei cinque continenti.
Oggi l’IS è il luogo fisico e ideologico dove si predica l’odio religioso e il ritorno alla grandezza smarrita tanti secoli fa. Reagisce alla presenza dell’unione internazionale che per lungo tempo li ha lasciati espandere senza muovere un dito, come ieri reagivano Gheddafi e Osama Bin Laden disturbati nei loro progetti.
Il terrorismo finanziato dalla Libia cessò definitivamente agli inizi degli anni 2000 quello di al Queda si è allontanato dallo scenario occidentale dopo la morte di Osama Bin Laden, quello dell’IS rischia di avere un’accelerazione proporzionale al timore che la coalizione decida un intervento di terra, esiziale per le fortune del Califfato.
La permeabilità dei media internazionali ai racconti del terrore, veri manifesti di reclutamento, spinge altri narratori dell’orrore a far passare manipoli di seguaci dalle parole ai fatti per conquistare nuovi palcoscenici e aumentare il fascino malefico che attrae altri adepti.
E’ possibile proteggersi e debellare il terrorismo? Se si guarda alle strategie terroristiche estinte: Eta, Ira, Olp, i vari Fronti di liberazione e gli stragisti nostrani di ogni fatta e colore, tutte hanno avuto come base un insieme di più fattori: le defezioni, la trattativa, la repressione. Anche l’insorgente terrorismo dell’IS si spegnerà appena il mito della loro invincibilità inizierà a vacillare smettendo di essere il polo di attrazione ed emulazione per migliaia di nativi delle nazioni europee e americane che non si sono mai davvero sentiti cittadini del loro paese.
La difficile costruzione delle democrazie nel Medio oriente è il solo antidoto al riemergere di altre stagioni buie. Ma Europa e Stati Uniti devono mettere da parte l’opportunismo che ha consentito nel passato recente il consolidarsi di questi immensi fuochi dell’odio etnico o religioso. Disinnescare un focolaio prima che si trasformi in fiamme distruttrici è più efficace del contrasto affannoso e tardivo al largo fronte delle fiamme che, inevitabile, sorge e si diffonde.
Aldo Penna
Andrea Ermano: Allons enfants
EDITORIALE
Avvenire dei lavoratori
ALLONS
ENFANTS
L'Europa può ritornare a essere grande se sceglie la grandezza dell'altruismo, indicando al mondo una via d'uscita dall’attuale crisi di civiltà...
di Andrea Ermano
Loro sono giovani criminali europei. Questo sono, e definirli altrimenti non ci aiuterebbe a decifrare il venerdì nero di Parigi. Non più di quanto quarant'anni fa poteva servire una sofisticata analisi delle teorie rivoluzionarie dietro alle quali si nascondevano gli assassini di Aldo Moro e della sua scorta. Vili azioni criminali da perseguire, senza dispute dottrinarie, laicamente, senza teatralità o frasi storiche. E senza cadere nella tentazione emergenziale.
All'epoca, contro le Brigate Rosse fu messo in campo, sul piano culturale, il "pensiero debole", che scalzò l'egemonia marxista e agevolò il "riflusso". Nel nostro "quotidiano" di allora ogni rigida serietà divenne oggetto di minuziose pratiche ironizzanti. L'allentamento delle strutture sociali "forti" subì un'ulteriore spinta. E così, dieci anni dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, verso la fine degli anni Ottanta, i brigatisti apparvero a tutti come residuati di arcaiche glaciazioni novecentesche: tragici prigionieri di una fiaba idiota, fatta di chiasso e furore che non significava più nulla.
Però, da allora il rilasciamento dei costumi e un certo edonismo militante ci accompagnano... In origine questi fenomeni furono attribuiti alle responsabilità del Governo Craxi e del nuovo corso socialista... Qual enorme sopravvalutazione! La "società liquida" ha continuato a liquefarsi anche dopo l'inabissamento del PSI e dell'intera Prima Repubblica. I mega-trend planetari procedono imperterriti, né si curano dei nostri governi, partiti, correnti e sottocorrenti.
Oggi il fenomeno terroristico globale produce, al ritmo di circa due attentati all'ora e migliaia di morti l'anno, una carneficina permanente. Ce ne accorgiamo solo se e quando questo fenomeno percuote le nostre città.
Nelle nostre città, secondo Rossana Rossanda, gioca un ruolo importante il disagio sociale: integrazione è spesso sinonimo di frustrazione. Molti giovani musulmani europei si vedono progressivamente defraudati delle loro chances a causa delle diffuse discriminazioni che essi subiscono e che si ricombinano con la lunghissima crisi economica in atto, gran fomentatrice di xenofobia.
Ma c'è un "ma".
I terroristi di oggi "non sono i dannati della terra. A giudicare dai casi passati non sono neppure i più poveri", riflette Rossanda: "Non posso pensare che siano tutti mussulmani integralisti che si fanno uccidere perché sarebbero accolti da bellissime vergini. È un fenomeno che nel '900 non c'era, e c'è la necessità di capire come e perché avviene".
Se, come suggerisce la psicoanalista Elisabeth Roudinesco, proviamo a scindere la nozione di "disagio sociale", inteso in senso strutturalmente economico, da una dimensione di horror vacui, ciò che ci si configura sul monitor è un'immagine di panico terrore: "Il terrore di perdere la famiglia, il padre, la nazione, tutto".
Ecco allora una doppia simmetria tra polarità esteriormente contrapposte, ma intimamente alleate: la simmetria "islamismo vs. razzismo" e la simmetria "disagio sociale vs. horror vacui".
Che islamismo e populismo siano due facce della stessa crisi dovrebbe apparire assolutamente chiaro a chiunque. Basta rendersi conto che il voto popolare francese (ma non solo francese) tende a smottare tutto a destra: "Marine Le Pen ha surrogato i valori di sinistra sostituendoli con dei falsi. È questa la nuova peste politica che non a caso si nutre e prende forza da ogni attacco dell'islam radicale. Si fanno forza l'un con l'altro", ragiona Roudinesco.
L'escalation delle due estreme destre opposte-e-alleate – il fondamentalismo islamico e il populismo europeo (laddove quest'ultimo coincide per lo più con il tradizionalismo cristiano) – contiene un "minimo comun denominatore" che lega entrambi i fenomeni a un totale, violento rifiuto dello Stato laico. Ché quest’è la Francia nell'immaginario collettivo di tutti noi: lo Stato laico per antonomasia.
Agli occhi di ogni teologia politica fascistoide, il pluralismo delle opzioni, delle preferenze e delle inclinazioni personali – costituzionalizzato dopo il 1945 secondo un principio fondamentale di intangibilità della dignità umana – viene percepito come vettore di una vera e propria dissoluzione nichilistica (beninteso, il nichilismo avanza al galoppo nelle nostre società, ma certo non a causa dal rispetto, lacunoso, dei diritti umani).
Insomma, non siamo davanti soltanto al problema di un'integrazione fallita, quindi, ma anche a quello di un simmetrico rifiuto verso qualsiasi integrazione. Questi "sparano perché hanno paura dell'integrazione", conclude Roudinesco: "resistono a modo loro", reagendo in modo inaccettabile all'horror vacui di un modello sociale a sua volta assurdo, imperniato com'è sull'individualismo più sfrenato e insofferente di ogni remora.
Come scacciare l'immagine nietzschiana dell'Uomo folle che irrompendo sulla piazza del villaggio globale nell'era del suo sfarinamento relativista a propulsione turbo-finanziaria per proclamare che Dio è morto?
Consideriamo che – se Dio è morto, se tutto è permesso, se ogni perentorietà viene edipicamente sospinta verso un "oltre" indefinito e angosciante – allora dietro l'angolo ci aspetta una nuova weimarizzazione delle Grandi Insicurezze europee.
Questo, e non l’Isis, pare a me il nostro problema più serio. Perché la destra estrema – nelle due componenti predette – ha buon gioco a rivendicare il ritorno del Padre Padrone, sia esso inteso nel senso del tradizionalismo europeo sia in quello del fondamentalismo jihadista. Ovviamente, non ci sarà alcuna restaurazione patriarcale, ma in compenso l'escalation tra i rivali-alleati – populisti e islamisti – rischia di trascinarci in una conflagrazione assolutamente psicopatica.
Molti commentatori in questi giorni inneggiano alla "guerra", non però gli esperti di questioni strategiche e geo-politiche: «La bandiera nera non sventolerà in Piazza San Pietro né in nessuna capitale occidentale. Il nostro destino dipende da noi. I terroristi suicidi vogliono spingerci al suicidio civile e politico, alla "guerra santa"». Così riassume i termini della questione Lucio Caracciolo.
Bando, dunque, alle retoriche militariste. E bando alle doppiezze: a quelle della "famiglia sunnita di stampo waabita" (Emma Bonino), ma anche a quelle di molti altri Paesi che vendono armi e comprano petrolio dall'Isis (Giovanni Salvi).
Né l'intera Europa né gli USA né la NATO possono uscire vittoriose da un terzo conflitto mesopotamico (che per altro è esattamente ciò a cui puntano gli strateghi islamisti). Se Obama, Putin e Hollande si coordineranno, in tempi ragionevoli il "Califfo" sarà messo in ginocchio (Romano Prodi). L'Occidente deve solo evitare di colpire le popolazioni civili inermi. Una ricomposizione della guerra civile siriana è ormai alle viste, dopo il "passo indietro" preannunciato da Assad.
Nel nostro Continente dobbiamo del pari guardarci dalla cultura dell'emergenza (Sergio Romano), coordinare i servizi d'intelligence (Enrico Letta) e sconfiggere il razzismo (Bernard-Henri Lévy).
E la Francia, dove nacque l'esercito di leva della Rivoluzione, può procedere oggi a una trasformazione di quel glorioso ideale del patriottismo democratico: la promozione di un “esercito del lavoro” europeo capace di prosciugare la disoccupazione fornendo a tutti i giovani occasioni di esperienza e apprendimento finalizzate ad aggredire in positivo le sfide globali.
Come sostiene Jacques Attali, l'Europa può ritornare grande se sceglie la grandezza dell'altruismo, se indica al mondo una via d'uscita dall’attuale crisi, una via diversa dal conflitto di civiltà, nell'accudimento dell'ambiente, nella solidarietà sociale e nell'accoglienza dei migranti che continueranno comunque ad approdare alle nostre frontiere.
Franco Astengo: Ricostruzione della sinistra e pace
RICOSTRUZIONE DELLA SINISTRA E PACE di Franco Astengo
E’ bene rammentare comunque, in questo momento di grande difficoltà, che qualsiasi ipotesi di ricostruzione della sinistra oggi in Italia, ben oltre i riferimenti alle matrici storiche che possono contribuire in questa difficile impresa, è legata al proclamare e praticare l’assoluta priorità della pace.
Non è possibile cedere, nemmeno per un attimo, al cedere alla tentazione di trattare con gli strumenti di un pericolosamente ritrovato nazionalismo bellico i complessi temi di questa attualità contrassegnata da una tragedia incombente e al riguardo della quale va fornito un pieno contributo perché essa sia evitata.
Pensare alla pace come insostituibile bene universale non contrattabile in alcuna dimensione significa, però, avere ben presente il nesso inscindibile tra la guerra e lo sfruttamento, la guerra e la sopraffazione dei singoli e dei popoli, la guerra come emblema dell’egoismo dei potenti.
Non esiste pace senza realizzare, sul piano politico, una connessione immediata con la condizione materiale delle popolazioni sfruttate nelle periferie delle metropoli così come nelle situazioni più disagiate di quello che fu definito “terzo mondo”: le banlieue parigine sono sorelle gemelle delle discariche di Nairobi, la condizione materiale dei precari occidentali frutto immediato dalla rapacità del capitalismo coloniale, l’assalto al territorio compiuto dagli speculatori nell’Occidente avanzato direttamente connesso con le grandi desertificazioni che affamano milioni di donne e uomini in Africa.
Non può esistere una “sinistra di governo” posta in relazione a chi sta da quell’altra parte della barricata.
Ed è questo tempo di divisioni nette, di assenza di sfumature nonostante che la retorica imperante, dal pulpito dei governi che proclamano la guerra, alle pagine dei giornali, agli schermi della TV e del Web, stanno cercando di nascondere mettendo sotto il tappeto la polvere della loro ingordigia e del loro servilismo al potere.
Il proclamato fondamentalismo religioso si aggira, in vesti mascherate, nei corridoi dei grandi centri finanziari mondiali.
Può apparire semplicistico e sicuramente servono analisi più sofisticate ma gli elementi fondativi “storici” di una sinistra degna di questo nome e della sua storia: internazionalismo e lotta di classe, appaiono non solo attuali ma indispensabili da tradurre ancora in una dimensione di soggettività politica capace di promuovere azione.
Ci siamo illusi su tante cose: sarebbe bene tornare al concreto della materialità dello stato di cose in atto, al fine di perseguire ancora l’obiettivo di trasformarle.
mercoledì 18 novembre 2015
martedì 17 novembre 2015
Franco Astengo: La guerra oppio dei popoli
UN SOLO SPUNTO DI RIFLESSIONE SULL’ATTUALITA’. LA GUERRA OPPIO DEI POPOLI di Franco Astengo
Un solo semplice spunto di riflessione sull’attualità contrassegnata dalle drammatiche vicende parigine di venerdì scorso 13 Novembre.
Sommersi dai commenti più disparati e soprattutto da un clima soffocante di unanimismo perbenista rivolto a difendere la nostra “normalità” senza interrogarsi su quale dovrebbe essere la “normalità” degli altri, è il caso di interrogarsi un poco più a fondo.
Chiediamoci, allora, qual è l’esito concreto – al momento – di questa vicenda sul piano politico.
Se lo scopo era quello di allineare tutto il contesto internazionale sulla linea di un medioevale concetto di identità imbarbarita, la cui sola possibile difesa sta nel proclamare la guerra, questo pare proprio raggiunto.
Naturalmente non c’è niente di così semplice e si tratterebbe di andare a scavare negli intrecci miliardari a Wall Street e nella City tra fabbricanti e commercianti d’armi, produttori di petrolio, banche internazionali.
Tutti quei soggetti che, dalla guerra, hanno sempre prodotto profitti enormi: profitti realizzati attraverso i massacri, le sopraffazioni, gli stermini.
Fin qui però siamo ancora nel campo della retorica.
Il punto vero risiede nell’allineamento dell’insieme delle opinioni pubbliche dietro al vessillo dell’union sacrèè di una presunta civiltà occidentale, e dell’islamismo puro e incorrotto (salvo finanziamenti) dall’altra.
Le grandi potenze affronteranno questa situazione assieme per poi dividersi in un confronto bellico di portata mondiale, che appare essere il loro vero obiettivo nella contesa dell’egemonia nel quadro dell’attualità dello sfruttamento capitalistico?
Dimenticando così la globalizzazione e la spinta al consumismo collettivo e individuale che questa ha provocato, fino al limite di rottura.
Mentre centinaia di migliaia di persone percorrono a piedi nudi le strade dei Balcani per sfuggire alla guerra e Toni Blair incassa milioni per tenere conferenze sul suo errore e relativo pentimento che ha portato al disastro attuale e non viene processato dall’alta corte dell’Aja per crimini di guerra, questi sono gli esiti concreti di queste giornate.
Una spinta forte verso la guerra.
Ancora una volta “qualcuno”, investito non si sa bene da quale autorità per disporre della vita degli altri, proclama “siamo in guerra”.
Sotto la coltre dell’unità verso il comune nemico si cercheranno così di seppellire le macroscopiche diseguaglianze, lo scontro di classe, lo sfruttamento, la sopraffazione, la voglia di riscatto di intere generazioni : l’obiettivo è cancellare dietro la difesa di false identità tutto ciò che potrebbe dar fastidio agli inamovibili potenti.
A chi conviene: cui prodest?
La guerra come oppio dei popoli, ma non solo ovviamente.
Francesco Maria Mariotti: Combattere, ma non perdersi
Non devi giudicar le cose nel modo secondo il quale le giudica un uomo violento e malvagio o nel modo che costui vorrebbe che tu le giudicassi. Tu devi guardar le cose come sono, secondo verità.
> (Marco Aurelio Antonino, Ricordi, Libro Quarto, 11)
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> Di seguito alcuni articoli e spunti di riflessione apparsi in questi giorni (Romano Prodi, Alberto Negri, Mario Monti, Enrico Letta, David Bidussa e altri). Nel richiamarli, aggiungo solo alcune mie brevi considerazioni:
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> 1. Senza nulla togliere alla necessaria solidarietà atlantica ed europea, attenzione a non dimenticare pesi e responsabilità della stessa Francia nella gestione di alcune partite molto delicate. Si leggano le considerazioni di Massimo Nava, che ricorda alcuni errori di Parigi, in particolare dal punto di vista della politica estera (vd. Libia). Se dobbiamo muoverci uniti - e dobbiamo - è necessario che anche la Francia cambi atteggiamento nei confronti di tutti i suoi alleati;
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> 2. Enrico Letta - che in questi giorni è stato una delle voci più nitide che si sono ascoltate - raccomanda l'integrazione della sicurezza a livello europeo. Su questo dobbiamo essere decisi e al tempo stesso molto attenti: abbiamo visto che i passaggi di sovranità sono lunghi e perigliosi; il passaggio all'euro è stato percepito - a torto (secondo me) o a ragione - come generatore di due gruppi di paesi, uno più forte economicamente, l'altro più in difficoltà. Questo tipo di percezione non può assolutamente verificarsi sul discorso sicurezza, per cui i passi devono essere fatti con molta attenzione, e condivisione piena. Sarebbe letale se ci accorgessimo che la condivisione delle procedure di sicurezza può diventare fattore di "vantaggio" di uno Stato rispetto ad un altro. Si possono condividere anche le informazioni più riservate? Forse, ma allora deve esserci attenzione massima in questi passaggi, e assoluta reciprocità;
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> 3. Mario Monti in un bell'articolo segnala le debolezze di un'Europa che ha difficoltà a ragionare sulle necessità legate alle esigenze di sicurezza e scrive: "Ci si rende conto, sì, che sono sempre più essenziali beni pubblici, come appunto la sicurezza interna ed estera, un minimo di istruzione, una maggiore tutela ambientale, ed altri. In parte, certo, la fornitura di questi beni pubblici può avvenire anche con un’intelligente mobilitazione del settore privato. Ma in gran parte il ruolo dello Stato, in generale dei pubblici poteri, è essenziale." Oggi - guardando alle periferie di Parigi, ma anche alle nostre; guardando alla migrazione di masse sempre più ingenti, vien da pensare a un ruolo insostituibile della scuola (pubblica e privata, ma coordinata assieme) nel creare le condizioni di integrazione. Per questo è necessaria una riflessione non improvvisata sui programmi che le scuole pubbliche e private devono seguire; ed è forse il caso di tentare di rilanciare l'educazione civica, anche intesa come "educazione alla laicità", che dovrebbe prevedere momenti di scambio fra scuole, in modo che nessun allievo della Repubblica italiana - e dei futuri Stati Uniti d'Europa - rischi di rimanere legato a un solo tipo di formazione. Ed è altresì necessario pensare al modo di rendere il "panorama sociale" più integrato, il che vuol dire che nella nostra idea di società non può assolutamente mancare un welfare sostenibile e flessibile (quindi capace di esserci quando necessario, ma anche "retrattile" per evitare gli sprechi);
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> 4. Giusto non cadere nella tentazione dello "scontro di civiltà", ma attenzione a non "annacquare" il fattore religioso e culturale, comunque decisivo in questo conflitto: su questo mi sembrano particolarmente importanti i contributi di Claudio Magris (ottimo) e Giovanni Fontana (con quest'ultimo sono meno pienamente in linea, ma la sua mi sembra riflessione importante da condividere).
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> Francesco Maria Mariotti
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> L'intervento di Romano Prodi a Che tempo che fa del 15 novembre (intorno al minuto 15 fino al minuto 34)
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> http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-c9737eb0-a843-4341-ba93-7e172ce5b5d7.html#p=0
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> Alberto Negri sul Sole24ore
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> "(...) Serve una coalizione globale, un’alleanza di civiltà, da quella occidentale a quella musulmana, per combattere l’Isis. Siamo chiamati a costituire una coalizione militare e di intelligence questa volta davvero efficace non come quella che dal 2014 a oggi ha colto risultati incerti e invece di rinsaldarsi si è quasi sfaldata lasciando spazio all’intervento in Siria della Russia di Putin, senza il quale peraltro oggi al-Baghdadi farebbe colazione sulle rovine di Damasco. Gli aerei sauditi e degli Emirati non volano più e i loro raid adesso li compiono in Yemen contro i ribelli sciiti Houti; la Turchia, storico membro della Nato, fa ancora assai poco perché gli stessi occidentali le hanno dato via libera per quattro anni, alzando la sbarra della frontiera al passaggio di migliaia di jihadisti, molti europei e francesi, che dovevano sbalzare dal potere Assad e che si sono poi arruolati nell’Isis.
>
> La guerra la devono fare anche i nostri riluttanti alleati mediorientali.
>
> Musulmani che si battono sul campo contro l’Isis ce ne sono: i curdi, i più eroici, osteggiati però dalla Turchia; gli iraniani, alleati di Assad come del resto gli Hezbollah libanesi; gli iracheni, che hanno avviato un’offensiva per spezzare le linee di rifornimento dell’Isis. Questi nostri alleati oggettivi anti-Califfato, che l’Occidente ha boicottato per anni mettendoli sotto sanzioni e in lista nera, hanno due difetti, sono sciiti e alleati del regime di Damasco.
>
> Siamo al punto nodale: per una guerra efficace contro l’Isis bisogna congelare anche la storica ostilità tra sciiti e sunniti. Qualche segnale positivo c’è e proviene dal vertice di Vienna sulla Siria, che per certi versi ha anticipato quello di oggi al G-20 di Antalya.(...)"
>
> http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2015-11-15/la-grande-coalizione-battere-califfato-081119.shtml?uuid=ACrU2XaB
>
> "(...) Alla vigilia delle elezioni, dopo l’attentato di Ankara con oltre 100 morti, il braccio destro di Tayyp Erdogan, Ahmet Davutoglu, definì il Califfato «ingrato e traditore». Più che una gaffe, questi termini sono apparsi un’ammissione di colpa. Non mancano infatti le prove, se non di amicizia, almeno di compiacenza, della Turchia nei confronti dello Stato islamico. articoli correlati O si fa l’Europa o si muore Russi e americani contro il nemico ormai globale Coordinare intelligence europea e azioni militari Vedi tutti » OAS_RICH('VideoBox_180x150'); Erdogan è uno dei prìncipi dell’ambiguità mediorientale presenti al G-20 di Antalya. La guerra al Califfato è una vicenda in cui la Turchia ha giocato un ruolo essenziale con la complicità delle potenze occidentali e di quelle sunnite che in Siria hanno condotto un conflitto per procura all’Iran sciita. La svolta sono stati i negoziati sul nucleare con Teheran che hanno alimentato ancora di più la preoccupazione delle monarchie del Golfo per l'influenza iraniana. Più si avvicinava un’intesa con l’Iran e maggiori diventavano le offensive dell’Isil. Dopo Mosul, cadevano Ramadi e Falluja. Eppure la guerra della coalizione a guida americana restava inefficace: il 70% dei raid non trovava neppure il bersaglio. Ci si chiedeva come fosse possibile che non si riuscisse a fermare i jihadisti. La realtà è che il Califfato faceva comodo come mezzo di pressione per convincere gli iraniani ad arrivare a un accordo. (...)"
>
> di Alberto Negri - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/J0GbYV
>
> Mario Monti su ilFoglio
>
> "(...) Beni pubblici e benessere privato. Se l’Unione Europea entra in una fase storica carica di sfide nuove rispetto ai suoi primi settant’anni – sfide legate ai profughi e ai migranti, alla guerra asimmetrica in corso, alla sicurezza interna ed esterna, alla necessità di spendersi seriamente per lo sviluppo sostenibile dell’Africa e del Medio Oriente, anche ad evitare che si scarichino sull’Europa flussi e tensioni insostenibili – ci sono due “confini” che devono essere riconsiderati quello tra beni pubblici e benessere privato e quello tra beni pubblici nazionali e beni pubblici europei.
>
> Soprattutto in alcuni Paesi periferici, come l’Italia, si sta vivendo ora una tardiva onda lunga dell’era reaganiana. Ci si rende conto, sì, che sono sempre più essenziali beni pubblici, come appunto la sicurezza interna ed estera, un minimo di istruzione, una maggiore tutela ambientale, ed altri. In parte, certo, la fornitura di questi beni pubblici può avvenire anche con un’intelligente mobilitazione del settore privato. Ma in gran parte il ruolo dello Stato, in generale dei pubblici poteri, è essenziale. Anziché battersi a fondo perché il funzionamento dello Stato sia più efficiente, più trasparente, meno costoso, ma tuttavia dotato di risorse adeguate per svolgere i suoi compiti essenziali, sembra prevalere una certa rassegnazione. Si mira allora a sostenere il benessere privato, dando priorità alla riduzione delle tasse (“vanno ridotte tutte”, “non verranno mai più aumentate”, “alcune tasse saranno abolite” e “per sempre”) quasi come dovere morale dello Stato verso i cittadini e le imprese. Il loro consenso è assicurato, ma forse così facendo si trascurano interessi essenziali dei singoli Paesi, in un’Europa che deve “armarsi” della capacità di essere sicura, di sconfiggere il terrorismo, di farsi rispettare nel mondo. Inoltre i singoli Paesi, e l’Europa, faranno bene a tornare ad avere una certa attenzione per le disuguaglianze, cresciute a dismisura; e dovranno usare anche i sistemi fiscali per combattere le disuguaglianze eccessive, ancor più se vogliono conservare o accrescere una certa coesione sociale e nazionale dinanzi a un futuro forse caratterizzato da maggiori conflittualità esterne. (...)"
> http://www.ilfoglio.it/esteri/2015/11/14/la-visione-miope-della-europa-che-emerge-dietro-la-strage-di-parigi___1-v-135014-rubriche_c228.htm
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> Enrico Letta su laStampa
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> "(...) Sicurezza integrata
>
> I Paesi europei hanno difeso le loro prerogative nazionali in materia di intelligence, di sicurezza e di difesa. Non hanno voluto rafforzare la dimensione europea in questo campo. E non possiamo certo dire di sentirci più sicuri grazie a questa nazionalizzazione dei sistemi di sicurezza. Come pensare di essere davvero più sicuri senza una reale integrazione dei sistemi di sicurezza preventiva, e come pensare di vincere questa guerra senza una capacità complessiva coordinata a livello europeo di contrastare i fenomeni terroristici? Oggi questa capacità non c’è. I sistemi sono rimasti troppo nazionali, mentre i terroristi usano tutti i più moderni e integrati meccanismi per attaccarci.
>
> Fare finalmente un passo avanti nella capacità congiunta di reazione dei Paesi europei sarà l’altro passo fondamentale per vincere questa sfida così drammatica. (...)"
>
> http://www.lastampa.it/2015/11/15/esteri/vinceremo-questa-guerra-solo-riprendendoci-la-vita-dWNuXoJZl2UtelPG39ULTJ/pagina.html
>
>
> Massimo Nava su Facebook
>
> "(...) La realtá della guerra all'Isis é molto diversa da quanto farebbero pensare i buoni propositi e gli ambiziosi obiettivi.
> 1) Chi oggi combatte davvero sul campo l'Isis sono Paesi e forze che l'Europa e l'Occidente non considera come alleati o che ha considerato e considera ancora come nemici : la Russia di Putin, senza il quale il Califfato sarebbe giá a Damasco; gli hezebollah (che hanno subito un feroce attentato a Beiruth); l'Iran che puntella il regime di Damasco e i kurdi, massacrati dai turchi e di tanto in tanto sacrificati da tutti.
> 2) Gli Stati Uniti hanno sempre pensato che lo scontro fra potenze regionali favorisse l'equilibrio della paura. Hanno favorito la guerra Irak Iran negli anni Ottanta e oggi assistono allo scontro e alle guerre per procura fra Iran e Arabia Saudita, cioé fra il mondo sciita e il mondo sunnita.
> 3) Turchia (Membro Nato!) Arabia Saudita (sostenuta e armata dagli Usa), monarchie del golfo (con le quali tutti facciamo affari) hanno permesso l'espansione del Califfato, hanno agevolato il passaggio dei volontari combattenti dall'Europa, hanno pensato che potesse essere il grimaldello per scardinare il sistema siriano. Aperto il vaso di Pandora, nulla é piú controllabile. L'Isis controlla un grande territorio dove vivono milioni di persone. Ha armi sofisticate e addestratori, ha arruolato pezzi dell'esercito iracheno smantellato dagli americani, si finanzia con il petrolio, la droga e il contrabbando di opere d'arte (molti pezzi naturalmente finiscono sulle piazze occidentali!)
> 4) La Francia piange i suoi morti e tutti piangiamo per la Francia, ma Parigi dovrebbe hanno avviare una profonda riflessione sugli errori di politica estera e di politica socio-culturale. La battaglia della civiltà e dei valori repubblicani é nobile, ma l'ipocrisia è dietro l'angolo se non si ripensano amici e nemici, clienti di centrali nucleari e armamenti, finanziatori e investitori sul territorio francese. La battaglia della civiltá e dei valori repubblicani é nobile, ma deve essere condotta anche nelle periferie, nel mondo a parte dell'integraziona mancata o sbagliata che é diventata il terreno di proselitismo e di manovra anche dei terroristi.
> L'islamismo radicale é dentro la Francia."
>
> https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=898617013562801&id=100002435317599
>
> Mario Giro* su Limes
>
> "(...) Siamo in guerra? La guerra certo esiste, ma principalmente non è la nostra. È quella che i musulmanistanno facendosi tra loro, da molto tempo. Siamo davanti a una sfida sanguinosa che risale agli anni Ottanta tra concezioni radicalmente diverse dell’islam. Una sfida intrecciata agli interessi egemonici incarnati da varie potenze musulmane (Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Iran, paesi del Golfo ecc.), nel quadro geopolitico della globalizzazione che ha rimesso la storia in movimento.
>
> Si tratta di una guerra intra-islamica senza quartiere, che si svolge su terreni diversi e in cui sorgono ogni giorno nuovi e sempre più terribili mostri: dal Gia algerino degli anni Novanta alla Jihad islamica egiziana, fino ad al-Qaida e Daesh (Stato Islamico, Is). Igor Man li chiamava “la peste del nostro secolo”.
>
> In questa guerra, noi europei e occidentali non siamo i protagonisti primari; è il nostro narcisismo che ci porta a pensarci sempre al centro di tutto. Sono altri i veri protagonisti.
>
> L’obiettivo degli attentati di Parigi è quello di terrorizzarci per spingerci fuori dal Medio Oriente, che rappresenta la vera posta in gioco. Si tratta di una sorta di “guerra dei Trent’anni islamica”, in cui siamo coinvolti a causa della nostra (antica) presenza in quelle aree e dei nostri stessi interessi. L’ideologia di Daesh è sempre stata chiara su questo punto: creare uno Stato laddove gli Stati precedenti sono stati creati dagli stranieri quindi sono “impuri”.(...)"
>
> http://www.limesonline.com/parigi-il-branco-di-lupi-lo-stato-islamico-e-quello-che-possiamo-fare/87990 * (chi è Mario Giro)
>
> David Bidussa su GliStatiGenerali
>
> "(...) Terzo aspetto. Come si sconfigge il nemico? Anche in questo caso è importante la forma in cui inquadrarlo. Perché sapere come lo si sconfigge è conseguente a inquadrare la natura di Isis, ovvero descrivere che cosa sia in quanto espressione, cultura e pratica politica. Ritenere che ciò che abbiamo di fronte sia un attacco terroristico implica intraprendere un percorso di contrasto che fa della controinformazione, dell’uso spregiudicato dell’intelligence, l’arma essenziale. Tutti i movimenti terroristici in età contemporanea sono stati sconfitti in seguito a un processo di rottura al loro interno, in altre parole “per defezione”. A un certo punto si è prodotta una falla e in forza di una capacità di contrasto e di intelligence qualcuno ha attraversato quella terra di nessuno in cui si era ritirato e “ha parlato”.
>
> È pensabile che accada anche con ISIS? Vorrei pensarlo, ma non credo. ISIS ha la fisionomia del movimento politico, ideologico che si fa esercito, movimento fondato sulla convinzione. Movimento costituito da “soldati politici”.
>
> Una sola esperienza nel corso del Novecento ha avuto questo percorso. L’esperienza politica, culturale, ideologica e mentale rappresentata dal nazismo. Il nazismo non è stato sconfitto da nessuna defezione. I suoi sopravvissuti, non hanno mai intrapreso una strada di pentimento, non hanno mai “abbandonato il campo”. Hanno attraversato il lungo dopoguerra senza mai aprire i conti con il loro passato, semplicemente perché ritenevano di avere ragione, ma di avere avuto il solo torto di essere sconfitti.(...)"
>
> http://www.glistatigenerali.com/terrorismo/da-ieri-sera-siamo-tutti-meno-liberi-nessuno-escluso/
>
> Claudio Magris sul Corriere della Sera
>
> "(...) A questa inaudita violenza si collegano, indirettamente, il nostro rapporto col mondo islamico in generale e la convivenza con gli islamici che risiedono in Occidente. A chiusure xenofobe e a barbari rifiuti razzisti si affiancano timorose cautele e quasi complessi di colpa o ansie di dimostrarsi politicamente ipercorretti, che rivelano un inconscio pregiudizio razziale altrettanto inaccettabile. È doveroso distinguere il fanatismo omicida dell’Isis dalla cultura islamica, che ha dato capolavori di umanità, di arte, di filosofia, di scienza, di poesia, di mistica che continueremo a leggere con amore e profitto. Ma abbiamo continuato ad ascoltare Beethoven e Wagner e a leggere Goethe e Kant anche quando la melma sanguinosa nazista stava sommergendo il mondo, però è stato necessario distruggere quella melma. Le pudibonde cautele rivelano un represso disprezzo razzista ossia la negazione della pari dignità e responsabilità delle culture camuffata da buonismo.
>
> È recente la notizia di una gita scolastica annullata dalle autorità della scuola elementare «Matteotti» di Firenze perché prevedeva una visita artistica che includeva un Cristo dipinto da Chagall, nel timore che ciò potesse offendere gli allievi di religione musulmana. Il Cristo di Chagall è un’opera d’arte, come le decorazioni dell’Alhambra, e solo un demente o un fanatico razzista può temere che l’uno o le altre possano offendere fedi o convinzioni di qualcuno. (...)"
>
> http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_15/gli-attentati-parigi-quel-complesso-colpa-che-ispira-l-equivoco-buonista-0e5ec956-8b65-11e5-85af-d0c6808d051e.shtml
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> Giovanni Fontana su DistantiSaluti
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> "Tutti quelli che, in queste ore, stanno dicendo la sciocchezza che ciò che motiva gli attentati di Parigi è la politica e non la religione provi a rispondere a una semplice domanda: perché, in questa fase d’incertezza, siamo certi che tutti gli attentatori siano mussulmani? Attenzione: non sto dicendo che non esiste un terrorismo non mussulmano, non sono scemo, la storia ne è piena. Sto domandando: se la causa di questi attentati è politica e non religiosa perché sappiamo che tutti gli attentatori di questi attentati sono mussulmani? Saranno francesi, siriani, potrebbero essere marocchini, sauditi, belgi, tunisini, britannici, iracheni, italiani, giordani, kuwaitiani, spagnoli, libici, turchi (queste sono alcune delle nazionalità che hanno commesso attentati suicidi in Iraq e Siria) eppure siamo certi che siano tutti mussulmani. (...)"
>
> http://www.distantisaluti.com/e-la-religione-non-la-politica/
>
> Daniele Bellasio su Danton (Blog del Sole24Ore)
>
> "(...) La prima ragione per cui diciamo “è colpa nostra” è l’antiamericanismo, che poi assume forme di antiisraelismo, se non di antisemitismo, e ovviamente di antioccidentalismo. E’ colpa nostra perché gli americani sono brutti, sporchi e cattivi e siccome noi siamo alleati degli americani siamo anche noi un po’ brutti, sporchi e cattivi.(...)
>
> La seconda ragione per cui diciamo “è colpa nostra” è un nostro merito, un nostro pregio, cioè un aspetto positivo delle culture liberal-democratiche, della civiltà occidentale, ovvero la diffusione di una sana consapevolezza sociale, mai abbastanza profonda ma pur sempre presente, che intravede nella difficoltà a risolvere alcune gravi questioni legate alle diseguaglianze economiche, e appunto sociali, una ragione di autocritica severa, la scaturigine cioè di un senso di colpa che ci fa dire, di fronte a reazioni da noi non controllate e non controllabili, che in fondo è colpa nostra. Se questa riflessione è corretta, se questa sensazione/opinione è frutto di un aspetto positivo della nostra civiltà, dobbiamo prenderne il buono – l’anelito a migliorare le nostre società – senza però dimenticare che allora, proprio e anche per questo motivo, le nostre società sono meritevoli di esistere, di continuare a proteggere i propri valori e a battersi per i propri principi. Senza cambiare la base della nostra convivenza. In poche parole, per continuare a migliorare le nostre società dobbiamo continuare a vivere. E dunque dobbiamo vincere contro chi ci vuole annientare.(...)
>
> La terza ragione per cui diciamo “è colpa nostra” è un’illusione, naturale ma pur sempre un’illusione, cioè la voglia di credere che se noi facciamo qualcosa di diverso da quello che stiamo facendo loro, i terroristi jihadisti, ci lasceranno in pace. In fondo, è una naturale, ovvia, giustificata e giustificabile speranza quella di pensare: “Ci uccidono perché facciamo qualcosa, se smettiamo di fare quel qualcosa non ci uccideranno più”. Ma se è naturale questa illusoria speranza, allora bisogna rispondere con sincerità alla seguente domanda: che cosa dobbiamo smettere di fare perché ci lascino in pace? La drammatica risposta è che dovremmo smettere di essere noi stessi. Vogliamo?
>
> http://danielebellasio.blog.ilsole24ore.com/2015/11/16/perche-diciamo-sempre-che-e-colpa-nostra/
lunedì 16 novembre 2015
sabato 14 novembre 2015
Franco Astengo: Superficialità e manicheismo
SUPERFICIALITA’ E MANICHEISMO di Franco Astengo
La lettura delle prime analisi, commenti, valutazioni sui fatti di Parigi desta un’impressione di complessiva superficialità e di espressione di manicheismo nel dividere con nettezza il bene dal male, il giusto dall’ingiusto determinando le parti da assegnare attorno ad un recupero pieno dell’idea di Samuel Huntington sullo “scontro di civiltà”.
Questa impressione di superficialità e di tendenza a sfuggire i nodi veri delle questioni globali che ci si trova davanti in questa fase proviene un po’ da tutti i campi politici e culturali: naturalmente questo stato di cose fa gioco alla destra razzista che tutto ha da guadagnare dallo stato di panico e dalla proclamazione di condizioni di emergenza (vere o presunte).
Appaiono, invece, omessi alcuni elementi che dovrebbero far parte dell’analisi di questo complicato e drammatico frangente.
A livello planetario è in atto, infatti, un processo di ridefinizione dell’insieme delle relazioni geopolitiche al centro del quale vi è il tema della supremazia in materia energetica.
Materia energetica che si trova al centro di uno scontro che pure dovrà trovare soluzione circa il modello da seguire per il futuro, in particolare rispetto al peso che il petrolio dovrà continuare ad avere nell’economia mondiale e a livello di produzione di ricchezza nelle prospettive dell’egemonia del capitalismo.
Sono questi due fattori determinanti nella contesa planetaria che portano anche a riflettere sul fatto che, a seconda dell’esito di questo scontro, necessiteranno nuovi gruppi dirigenti dotati di una cultura diversa da quella che ha contraddistinto le diverse leadership almeno dalla crisi del 73-74.
Non è poi difficile per chi dispone di enormi mezzi e può far leva sulla disperazione di popolazioni povere, sulla rabbia di uno stuolo di immigrati messi ai margini all’interno dei paesi colonialisti, su di una massa facilmente manovrabile, allestire tragedie in nome di un’identità religiosa o di un riscatto nazionale e/ di etnia, per combattere questo scontro seminando il terrore fra le popolazioni.
Un modo diverso di definire la “prima linea” da ciò che accadde nella seconda guerra mondiale.
Il pericolo vero che stiamo correndo è quello di un conflitto globale, magari mascherato nella sua definizione concreta, ma in realtà destinato a decidere un nuovo livello di potere mondiale, terminata la fase della logica dei blocchi contrapposti e anche quella del solitario “gendarme del mondo”.
venerdì 13 novembre 2015
Franco Astengo: Politica, scienza, tecnologia
POLITICA , SCIENZA, TECNOLOGIA di Franco Astengo
Ben al di là della presunzione contenuta nel testo del titolo questo intervento mira semplicemente a ripresentare una questione, sicuramente fondativa, nel contesto delle relazioni necessarie per esercitare il governo dei sistemi politici e combattere efficacemente la sindrome di un “nuovo dominio” che si sta affacciando sulla scena del mondo.
Molti sottolineano come stiamo vivendo un’epoca di straordinari cambiamenti, soprattutto dal punto di vista della portata dell’innovazione tecnologica .
Cambiamenti che riguardano l’insieme dei rapporti umani e sociali e il grado – ormai insostenibile - di antropizzazione del territorio in tutti i Continenti.
Per di più l’utilizzo sbilanciato del profitto derivante proprio dalle detenzione del potere esercitato dalle novità tecnologiche e il prevalere del processo di finanziarizzazione dell’economia hanno portato a una crescita esponenziale dei livelli di squilibrio e di diseguaglianza in tutte le dimensioni: squilibri e diseguaglianze considerate, a ragione, la causa principale della grave situazione di difficoltà con la quale ci si sta misurando a livello globale.
Difficoltà causate da un fenomeno di impoverimento generale, di dissesto ambientale, di forte innalzamento nella presenza di conflitti armati al punto tale da causare il rischio di guerra generale, nel quadro di un ritorno alla “logica dei blocchi”: la logica di tipo geopolitico relativo allo “spazio vitale” è tornata prepotentemente sulla scena, mentre appare in declino il modello di globalizzazione sviluppatosi nel primo decennio del secolo e svaniscono le illusioni di un multipolarismo capace di far nascere nuovi modelli di sviluppo in diverse parti del mondo.
E’ in crisi il rapporto di credibilità tra politica e cultura.
La questione che si presenta come da affrontare con un nuovo approccio dal punto di vista della ricerca filosofica è quella del rapporto tra politica e scienza.
Appaiono evidenti le modificazioni del quadro di rapporti in tutte le dimensioni pubbliche e private e la formazione di nuovi interrogativi al riguardo della “costruzione politica”.
Il tema è quello del dominio della scienza, in un’ipotesi di indiscriminato soggiacere al dominio di una forma inedita di positivismo: un “credo” fondato sulle risorse in mano a pochi, utilizzato in funzione del ricostruire muri e sbarramenti.
Una scienza che cesserebbe così di rappresentare uno strumento in mano comunque ai gruppi dominanti in ogni caso sottoposti (come è stato nel “glorioso trentennio”) a forme di controllo interno/esterno sia pure limitato.
Una scienza che finirebbe per diventare un fine in sé trasformandosi in una sorta di soggetto impersonale, capace di imporre proprie logiche coattive alla società.
Ritorna così in campo, almeno dal nostro punto di vista, il vecchio schema già contenuto nell’“Ape e l’Architetto”: la scienza non è neutrale, e anzi è in realtà una manifestazione piena del dominio, più radicale ancora dell’economia ( politica ancilla oeconomia, come si era pensato nei giorni ruggenti della globalizzazione imperante).
Nell’applicazione del dominio della scienza e dei suoi effetti tecnologici, infatti, emerge un rapporto mercificante tra soggetto e oggetto in una forma sempre più piena.
Quindi la tecnologia non solo assume il comando politico e tutti i sistemi (anche quelli che si proclamano ancora legati al socialismo) resteranno prigionieri di questa logica.
Il punto sarebbe quello, non ancora rinvenuto nell’insieme dell’odierno equilibrio culturale dominato dalla necessità indotta della velocizzazione nella comunicazione di massa, di essere capaci di esercitare una funzione critica sulla violenza che la tecnica, frutto della scienza del dominio, esprime implicitamente.
Il punto vero, allora, è quello della critica nel solco della “Kritik der Zeit”.
Una critica che reclami il recupero delle finalità umanistiche che avevano contraddistinto l’emergere della civiltà moderna, anche attraverso l’espressione delle utopie egualitarie e della “critica all’economia politica”.
Sarebbe necessaria una “critica all’egemonia della scienza”.
Prestando attenzione, comunque, a non prestare il fianco alle idee del “ritorno all’indietro”, di un decadente conservatorismo , o peggio ancora del lasciare le scelte collettive semplicemente in mano agli egoismi o ai tormenti dell’anima dei singoli.
Queste contraddizioni non possono essere considerate irrisolvibili oppure da affidare a una sorta di “risoluzione trascendente” alla quale pare intendano affidarsi una nuova leva di intellettuali folgorati su di una ritrovata via di Damasco.
Deve essere sconfitta una ritrovata “rivoluzione conservatrice” e recuperato il senso di una razionalità fondata sull’espressione della politica intesa come frutto di una dialettica sistemica.
Il pericolo vero è quello del riproporsi di un’idea eroica della guerra come sublimazione del dominio: con i detentori delle leve della scienza capaci di intenderla come la sola possibilità per la loro conservazione.
La scienza come espressione della volontà di potenza, non più attraverso i giganteschi apparati di coercizione di massa e di avvio verso lo sterminio, ma più sottilmente di costrizione occulta dei popoli dentro i confini della miseria e della diseguaglianza.
Si costruirebbero così gli strumenti materiali per una nuova enorme “selezione di massa”.
Il solo antidoto possibile a questo tragico scenario è quello del ritorno alla politica e all’espressione attraverso di essa di finalità umanistiche che, ostinatamente, possono essere ancora comprese nell’ideale di un obiettivo di eguaglianza economica, sociale e culturale.
Un’eguaglianza diffusa come base per affrontare l’inedito quadro di contraddizioni che la tragica maschera della modernità ci sta mettendo di fronte.
Politica, insomma, come suo primato inteso come fattore dell’umana coesistenza che assume l’aspetto di una identità collettiva, considerata non tanto dal punto di vista del potere (normato quale concreta modalità di funzionamento di un ordine) ma essenzialmente intesa quale energia, anche conflittuale, che deve essere all’origine della sua forma da concretizzarsi attraverso soggetti che concorrono alla legittimità, per far sì che proprio il potere non tenda ad accrescere se stesso.
Politica come generazione di controforze che sfidano il potere in nome di un concetto non astratto di libertà e di capacità di fornire un senso alle scelte collettive di contrasto alla sopraffazione della tecnica e dell’economia.
Utopia? Necessaria quanto l’etica intesa sul fondarsi su valori morali condivisi.
Andrea Ermano: Un tentativo di riflessione
EDITORIALE
Un tentativo di riflessione
dedicato a Helmut Schmidt
di Andrea Ermano Avvenire dei lavoratori
È scomparso martedì a 96 anni Helmut Schmidt, decano della socialdemocrazia europea. Una delle sue ultime interviste, l'ha rilasciata qualche mese fa alla anchorwoman televisiva Sandra Maischberger (vai al link), rispondendo per un’ora e più alle domande della giornalista talvolta scomode e incalzanti, con grande lucidità, ma anche biblicamente "stanco di giorni".
Helmut Schmidt (1918-2015) con Sandra
Maischberger il 28 aprile scorso – © ARD
Nell’occasione di quest’ultima intervista-testamento, Schmidt ha esposto alcune valutazioni politiche che varrebbe la pena tenere a mente. Di seguito ne riassumiamo quattro:
1) Lo stato del mondo è "non buono", mentre invece la Germania gode di salute sorprendente, che però non durerà molto senza una strutturazione europea in grado di fare fronte “tutti insieme” alle sfide globali.
2) Le riparazioni di guerra richieste dalla Grecia sono sostanzialmente legittime e giustificate.
3) La Russia di Putin va sì "contenuta", come ogni grande potenza tendente per natura all'espansionismo, ma non va esposta a provocazioni sconsiderate né considerata il "male assoluto"; e ben gravi responsabilità in merito alla crisi ucraina gravano invece sulle politiche di "allargamento a est".
4) I mussulmani europei hanno diritto di costruire le loro moschee anche "vicino a casa mia", ma l’idea di una società radicalmente multiculturale non appare realizzabile nel breve o medio periodo. E quindi rimane apertissimo il problema della crescente onda migratoria.
Sull'ultimo punto, riguardante i migranti e il pluralismo, due esempi emblematici ci vengono dalla cronaca di questi giorni.
Primo esempio. La Germania della signora Merkel, pressata da una levata di scudi xenofoba, ha revocato le aperture estive circa l’accoglienza dei profughi siriani.
Secondo esempio. In Francia, la visita di Stato dei vertici iraniani avrà luogo senza alcun banchetto ufficiale. La ragione di ciò? I due Stati non sono d'accordo… sul vino.
Non che la Repubblica francese e quella islamica dell’Iran abbiano rilevato una reciproca indisponibilità a convergere sul tipo di spumante. È che proprio non si sono messi d’accordo sul fatto stesso che a tavola potessero esserci anche bevande alcoliche. Un’altra difficoltà “diplomatica” consisteva nella preclusione dei dignitari iraniani verso pietanze a base di carne di porco o anche di altri animali, ove non macellati secondo le regole coraniche. Su ciò Parigi sarebbe stata disponibile a cedere. Ma in orecchie francesi l’interdetto islamico contro il Bordeaux, il Bourgogne, lo Champagne eccetera dev'essere suonato totalmente inaudito. E completamente inaccettabile. In un Paese libero ciascuno deve poter scegliere da sé di bere o di non bere. E poi non ha forse, la Grande Nation, i migliori vini del mondo?!
Sembra roba da ridere. Ma teniamo presente che Gesù e Maometto discordano completamente in tema di vino. Che per Gesù è simbolo del sangue versato in remissione dei nostri peccati; mentre per Maometto rappresenta una droga pericolosa, "opera di Satana", da evitarsi tassativamente.
Questo problema, non solo teorico, dei due profeti in disaccordo tra loro non è nuovo. Venne dottamente discusso tre secoli fa da John Locke allo scopo di dimostrare che solo la ragione naturale può veramente discernere se l’un profeta dica la verità, oppure l’altro, o nessuno dei due.
Oggi si sarebbe portati a congetturare che entrambi i profeti in un qualche modo ermeneutico potrebbero avere ciascuno per parte sua un frammento di ragione, essendo interpreti dello stesso e unico Dio. Ma il fallimento del pranzo diplomatico franco-iraniano, in sé una piccola cosa, mostra che il conflitto multiculturale si è frattanto dislocato più oltre. Perché qui non si discute se la preghiera verso la Mecca debba o meno includere la transustanziazione del vino o se la liturgia dell’Offertorio debba escluderla. Qui ci si chiede "solo" se un Capo di Stato occidentale, andando a pranzo con un Ayatollah, sia ancora libero di bere un bicchiere, o alcuni bicchieri, o molti bicchieri, o nessun bicchiere, di spremuta d’uva fermentata.
Sembrava roba da ridere!
E invece eccoci qua, di fronte a un dissidio teoricamente insanabile tra due sacrilegi, il sacrilegio laicista verso la parola del Profeta e il sacrilegio integralista verso la libertà enologica dell'individuo e la sovranità vinicola della nazione. Bel groviglio, non c'è che dire. Un groviglio che nessun rigorismo, né laicista né clericale, risolverà mai, perché il dialogo tra le culture richiede ben altri approcci.
E però non è facile dire quali.
In ogni caso l'interdetto coranico sull'alcol non deve servire a molto se taluni esponenti del clero islamico, super-astemio, si comportano talvolta come ubriachi. E un quantum d'astinenza non danneggerebbe nemmeno certi nostri grandi intellettuali europei che paiono anch'essi in preda a una sorta di delirio etilico galoppante.
Irrisolta la questione del "pluralismo", resta il problema delle ondate migratorie. Sul quale problema in questi giorni si è espresso persino un filosofo della politica elvetico, il professor Georg Kohler di Zurigo, il quale parla di "tumulto apocalittico" e non esclude l’opzione bellica. Poi si appella a una barzelletta di Orson Wells sulla Svizzera: il miglior Paese in cui rifugiarsi in caso di fine del mondo, giacché nella Confederazione scudocrociata l' Armageddon avrebbe certo luogo "con un giorno di ritardo".
Beati i ricchi… Metafora quasi perfetta dell'autocompiacimento un po' borioso in cui ci avvitiamo tutti, fruendo lo spettacolo mediatico-circense di gente in fuga dalla morte, dalla guerra e dalla carestia.
Il retrogusto cinico di questa nostra “situazione postmoderna” rinvia per associazione al peso massimo del cinismo mondiale, Peter Sloterdijk, che reputa indispensabile mettere in campo una crudeltà ben temperata: "Si può procedere come i Canadesi o gli Australiani o gli Svizzeri. In ognuno di questi casi ne va di una nazione, una nazione troppo attraente, che deve strutturare un sistema di difesa alla cui costruzione è indispensabile qualcosa come una crudeltà ben temperata. Ora, questo è il problema principale: gli Europei si definiscono benevoli e non crudeli; e c'è tutta una pubblicistica subito pronta a denunziare il benché minimo tentativo d'assumere atteggiamenti più difensivi, cioè più crudeli, come uno scandalo civilizzatorio di prima grandezza."
Che dire?
La locuzione "ben temperata" rinvia a Johann Sebastian Bach e a una sua celeberrima raccolta di preludi e fughe nota sotto il titolo Das wohltemperierte Clavier. Ma la nozione di "crudeltà", inalveata da Sloterdijk entro una figura “musicale” di freddezza psichica, evoca impressioni che preferirei non definire.
Si deve, per esempio, “aiutarli” a casa loro e /o “selezionarli” all’arrivo da noi, separando i profughi veri dai semplici migranti? Bando agli eufemismi: con simili espressioni è inteso che si vada "a casa loro" per fare soprattutto la guerra. E “selezionarli” vuol dire lasciare annegare un altro po' di gente di fronte alle nostre coste. Quali mai potrebbero essere, di grazia, i criteri di codesti aiuti e di codeste selezioni sul terreno di “atteggiamenti più difensivi, cioè più crudeli”?
In realtà, le grandi migrazioni accadranno. Accadranno comunque. E l'unico modo di fronteggiarle sarà sviluppare, come ha di recente ribadito Massimo Cacciari, "una disponibilità cosciente e non sentimentale all'accoglienza, sapendo che l'esodo avverrà… Dobbiamo comprendere che i modi puramente difensivi, quelli che vorrebbero tornare alla potenza occidentale sono disastrosi".
giovedì 12 novembre 2015
martedì 10 novembre 2015
lunedì 9 novembre 2015
Franco Astengo: L’IMPOSSIBILE CONNESSIONE: CAPITALISMO E DEMOCRAZIA
L’IMPOSSIBILE CONNESSIONE: CAPITALISMO E DEMOCRAZIA di Franco Astengo
Osservatori attenti e di lunga esperienza quali Marc Lazar e Ilvo Diamanti hanno posto in evidenza come, nella fase di modernità della comunicazione di massa, stia rivelandosi impraticabile la connessione tra capitalismo e democrazia e come ci si stia avviando verso forme di nuovo autoritarismo.
Scompaginamento sociale, crisi del modello di partito, personalizzazione, individualismo competitivo paiono rappresentare la frontiera di una dimensione di vero e proprio “abbattimento” dei meccanismi storicamente collaudati della rappresentanza , del confronto, della decisionalità.
La struttura decisionale delle politiche pubbliche dell’Unione Europea, dopo il fallimento del tentativo di costituzionalizzazione avvenuto all’epoca dei Trattati di Nizza e di Lisbona, è apparsa, per un certo periodo, il “punto – limite” di un assestamento del processo di riduzione della democrazia novecentesca di stampo parlamentare, ma adesso ci si sta inoltrando per sentieri apparentemente non ancora battuti: l’U.E., cresciuta a dismisura e con un Parlamento pletorico e dalle prerogative vieppiù incerte, sta lasciando via libera a esprimenti di inediti accentramenti di espressione del potere, tra i quali il “caso italiano” assume sicuramente un ruolo di preminenza, quasi un modello per altre situazioni.
La situazione italiana si sta consolidando sulla base di una complicata “crisi di transizione” che ha attraversato il Paese per oltre 20 anni, mutandone i connotati politico – istituzionali così come questi erano stati introdotti dalla Costituzione del ’48.
Un quadro che, nel periodo del dopoguerra, era stato resto anomalo dall’impossibilità di un’alternanza al governo per via della presenza dell’opposizione comunista, fortissima sul piano della presenza politica ed elettorale ma legata indissolubilmente alla logica della divisione del mondo in blocchi.
Maastricht e la caduta del Muro segnarono una differenza di fase che fu affrontata con taglio incerto, in un tentativo non riuscito di bipolarismo e dominato in sostanza da un originale populismo personalistico che ha attraversato un intero periodo storico marchiandone a fondo l’identità sociale nel segno del consumismo individualistico e dello strapotere della televisione quale soggetto formativo dell’intera opinione pubblico.
Non hanno funzionato, in Italia (ma nel complesso del quadro dell’esperimento europeo) né la “democrazia del pubblico” di Manin, né la cosiddetta “democrazia deliberativa” e tantomeno la spinta a un nuovo assetto ed equilibrio istituzionale nel segno del federalismo.
Il risultato, sul piano politico, è sotto gli occhi di tutti: l’elettorato attivo ridotto al 50% degli aventi diritto, l’elettorato passivo appannaggio di un ceto composto da cercatori di multiruolo in buona parte d’appoggio a una corruzione imperante e percepita come ben più estesa di quella che era stata scoperta con Tangentopoli, una parte cospicua di coloro che sono rimasti a partecipare nella politica anche soltanto attraverso una semplice espressione di voto che si affidano a soggetti di stampo precipuamente populista all’insegna della indifferenzazione della protesta.
Uno smarrimento complessivo molto grave e che nulla lascia presagire di buono per il futuro, nel senso che sempre di più si è incuneata l’idea del decisionismo solitario, esercitato in indifferenza alle proposizioni sociali più evidenti, in nome dell’esercizio di un potere conservativo delle logiche e dei privilegi dei tradizionali "lorsignori".
In questo quadro la sinistra appare completamente smarrita e brancola non oltre il richiamo a una qualche idea di più o meno convinto recupero del keynesismo e senza alcuna ipotesi di elaborazione di una forma politica in grado di riaggregare spezzoni di società elaborando così un progetto di reale alternativa.
In verità quello che manca, in primo luogo, è una proposta che fronteggi il quadro di svillaneggiamento della democrazia rappresentativa cui si accennava all’inizio: un dato sicuramente limitato rispetto alla necessità di operare in funzione della “abolizione dello stato di cose presenti”, ma in questo momento fondamentale da affrontare e da mettere in campo.
Si può provare allora ad avanzare due elementi di proposta recuperando questioni che fanno parte dell’identità e della storia della sinistra italiana.
Il primo punto riguarda la “democrazia progressiva”: il ritorno cioè all’idea del cioè di uno Stato democratico avanzato basato sul riconoscimento non solo delle libertà e dei diritti politici, ma anche dei diritti sociali, della proprietà pubblica e cooperativa accanto alla proprietà privata, e della programmazione economica. Una democrazia che potremmo definire “aperta”.
Un punto fondativo, nella sostanza, rispetto alla regressione che stiamo attraversando, sulla base del quale tornare a esercitare una funzione egemonica sul terreno politico e su quello culturale: punto fondativo di un’aggregazione sociale fondato sulla lettura concreti delle contraddizioni operanti nella realtà, rifuggendo dai gravi pericoli di politicismo che stanno segnando il periodo.
Attraverso l’adozione del concetto di egemonia si potrà allora comprendere al meglio la necessità di operare in un contesto di “rivoluzione passiva” (esattamente quello dentro al quale ci stiamo trovando) e di conseguenza di “guerra di posizione” verificando anche il modificarsi nel rapporto tra struttura e sovrastruttura, al riguardo del quale la sinistra dovrebbe ritrovare anche la capacità di sviluppare un’aggiornata “teoria delle fratture”.
In sostanza un’operazione di opposizione per l’alternativa rispetto al processo di assunzione di dominio in atto di cui il PD appare il soggetto portante, e di nuova relazione tra la politica , la cultura, la progettualità . Un nesso il cui senso appare, oggi come oggi, completamente smarrito.
venerdì 6 novembre 2015
giovedì 5 novembre 2015
Nadia Urbinati: Perché ha ancora un senso parlare di destra e di sinistra
PERCHÉ HA ANCORA SENSO PARLARE DI DESTRA E SINISTRA da la repubblica 5 novembre 2015
NADIA URBINATI
GIUDICARE in politica è tenere una parte o prendere parte, scriveva Hannah Arendt commentando Aristotele. Non si può giudicare senza stare da una qualche parte o schierarsi. Questo vale soprattutto per i cittadini nelle loro considerazioni ordinarie sulle cose relative alla loro città o al loro Paese; anche quando dichiarano di volersi astenere dal giudicare o si professano indifferenti alle parti politiche. È a partire dalla natura fallibile del giudizio politico che i governi liberi vantano di essere quelli nei quali la ricerca del giudizio migliore trova la propria sede, poiché garantiscono le libertà civili grazie alle quali il giudicare pro e contro si dipana in un clima di tranquillità e rispetto. Giudizio e politica stanno in stretta connessione. Un narratore della condizione politica, Thomas Mann, diceva che, per questo, la democrazia è tra tutti i regimi quello più compiutamente politico, perché qui anche chi vuole tirarsi fuori da ogni giudizio politico deve fatalmente schierarsi, facendo della propria posizione impolitica un giudizio di parte.
Le pretese che oggi si levano contro il giudizio politico destano quindi legittimo sospetto. Un candidato possibile alla poltrona di sindaco del Comune di Roma, Alfio Marchini, si propone come al di sopra delle parti politiche — né di destra, né di sinistra.
È un imprenditore, parte della società civile intraprendente, ed è romano. Due ragioni certo rilevanti, la seconda soprattutto, ma non sufficienti.
Perché amministrare una città non è lo stesso che amministrare un’azienda, anche se le città hanno bisogno di buoni amministratori che sappiano ragionare in termini di prudenza, opportunità ed efficienza. Ma non basta. Poiché, contrariamente alle aziende private, l’amministratore di una città deve rendere conto delle sue decisioni, non ai suoi azionisti ma a tutti i cittadini, residenti che hanno diversissime condizioni sociali, economiche e culturali, tutte rappresentate nel voto che esprimono, pro o contro. Solo la politica può rappresentare questa generalità e insieme partigianeria.
E torniamo così al punto di partenza, al giudizio politico. Presentarsi come candidato né di destra né di sinistra è una strategia molto politica, che cerca di capitalizzare a partire dai fallimenti delle precedenti amministrazioni, di destra e di sinistra, le quali — per ragioni e con responsabilità molto diverse tra loro — hanno generato i problemi che portano ora al voto anticipato, dopo essere passati per una gestione commissariale della città capitale d’Italia. Ma si deve dubitare di questo ecumenismo poiché se Marchini diventasse sindaco dovrà pur scegliere dove investire o disinvestire le risorse pubbliche, se occuparsi delle periferie e come, se occuparsi del malgoverno e come, se prediligere il trasporto pubblico e come, eccetera. In tutti i casi, egli dovrà scegliere e si rivolgerà a una parte del consiglio comunale per avere sostegno e voti.
Destra/sinistra sono distinzioni generali che servono a orientare elettori ed eletti. Sono sempre più approssimative e sempre più liminali, ma esistono. La confusione prodotta in questi mesi non aiuta a distinguerle, è vero: la destra parlamentare spesso alleata del partito di centro-sinistra che governa, il quale ha una sua sinistra interna, e un’opposizione grillina che si definisce in ragione di chi contrasta, senza chiarezza sulle proprie posizioni. Tanta confusione disorienta. Ma non elimina le distinzioni di giudizio sulle politiche, che esistono. Rinunciare ad esse o pretendere che non esistano non è indice di oggettiva chiarezza, ma di strategica ambiguità — la speranza di capitalizzare dalla memoria vecchia e recente dei fallimenti della politica.
Scriveva John Stuart Mill — un liberale diffidente verso i partiti—che il sistema rappresentativo non può evitare divisioni di schieramento ideale o ideologico: la divisione tra “progressisti” e “conservatori” (alla quale egli pensava), ovvero tra “sinistra” e “destra”, corrisponde a due modi di giudicare, relativi a due criteri o principi generali non identici e nemmeno interscambiabili. Uno di essi orientato direttamente verso la promozione del benessere della maggioranza con scelte amministrative volte a risolvere i bisogni più urgenti e a includere quanti più possibile nel godimento del benessere generale; l’altro orientato a pensare che favorendo l’interesse dei pochi che hanno risorse da investire ne verrà giovamento per molti, eventualmente. Si tratta, come si vede, di divisioni molto meno esplicite di quelle che la vecchia terminologia ideologica offriva. Ma sono abbastanza chiare nonostante tutto, e corrispondono a due modi di intendere e di amministrare il bene pubblico.
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