sabato 1 novembre 2014

Pier Paolo Pecchiari: La posizione della CGIL non ha nulla di estremista o di radicale.

La posizione della CGIL non ha nulla di estremista o di radicale. E questo governo non ha nulla di riformista. Sulla piattaforma politica che ha messo benzina nel motore della manifestazione di Sabato 25 Ottobre basta documentarsi. Il punto del contendere non è tanto l’articolo 18, quanto l’evanescenza della proposta di politica economica del governo Renzi . La discussione sarebbe lunga, ma in sostanza si affrontano due posizioni. Da un lato, chi pensa di uscire dalla crisi con l’iniezione di modeste dosi di liquidità a famiglie e imprese, e soprattutto con interventi sul mercato del lavoro; dall’altro chi chiede investimenti per l’ammodernamento della macchina dello Stato e delle nostre reti infrastrutturali, e politiche industriali degne di questo nome. Cito i primi passaggi del documento approvato dal direttivo nazionale della CGIL il 27 settembre scorso: “Il Paese ha bisogno di lavoro: solo attraverso investimenti pubblici e privati che lo creino si può praticare quella svolta essenziale per una politica economica espansiva. È inutile e sbagliato cercare di nascondere la situazione dell’Italia – ancora in recessione ed in presenza della deflazione – come si vuole fare affermando che l’unica priorità è cambiare, per l’ennesima volta, le regole del mercato del lavoro. Alla vigilia della legge di stabilità significa avere scelto di dare continuità alle politiche di austerità, causa – non conseguenza – della stagnazione recessiva del Paese”. Tutto si può dire, tranne che questa sia la posizione di una sinistra radicale, conservatrice e ottusa. Anzi, direi che queste sono le posizioni di politica economica del PSE e dalla maggior parte, se non della totalità, dei partiti nazionali ad esso aderenti. C’è poi un’altra questione, che è questione di metodo, in cui metterei insieme “annuncite” (vale a dire l’idea che una concreta e fattiva azione di governo possa essere sostituita da presentazioni in stile convention aziendale), e la riesumazione di un “decisionismo” oggi del tutto inattuale. Non si tratta di questione secondaria, perché sono i metodi usati da Renzi ad aver indotto alcuni osservatori, peraltro lontanissimi dall’area della “sinistra conservatrice che sa solo opporsi al cambiamento”, come Piero Ostellino, a parlare di “deriva autocratica mascherata da riformismo”, o ad evidenziare la “necessità di un soprassalto dello spirito repubblicano”, come fa Giampaolo Pansa; oppure, come Ferruccio De Bortoli, a spiegare che “Il marketing della politica se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso”. Sull’annuncite si è espresso recentemente in termini molto duri anche l’Economist. E non si tratta solo di una questione di “stile” del personaggio Renzi. E’ infatti l’annuncite a far ipotizzare a De Bortoli che l’azione di governo di Renzi, insufficiente e concentrata più sull’apparenza che sulla sostanza, - laddove la sostanza è una sola: come far ripartire la crescita in questo paese - aumenti il rischio che il Paese cada nelle mani della trojka. E’ sicuramente annuncite, ad esempio, immaginare di poter adottare un sistema di flex-security finanziandolo con 1,5 miliardi di Euro l’anno, quando tutte le stime del costo di politiche attive e ammortizzatori universali si collocano, per un Paese come l’Italia, tra i 15 e i 20 miliardi l’anno. Quanto alla riesumazione del “decisionismo” d’antan: Renzi sta dimostrando un disprezzo inusitato per i corpi intermedi, rivendicando un primato della politica che interpreta in modo totalmente distorto. E lo stesso disprezzo è stato mostrato verso il Parlamento: in pochi mesi Renzi è diventato il recordman della storia repubblicana per l’uso (abuso?) della decretazione d’urgenza e del voto di fiducia. Ora, capisco che in tempi turbolenti e difficili ci possa essere la tentazione di recuperare efficienza e velocità del processo decisionale accentrando tutti i poteri nelle mani dell’esecutivo, depotenziando il Parlamento e ignorando i corpi intermedi, nella convinzione che “l’intendence suivra”. Ma questi non sono gli anni ’80, riesumare il “decisionismo” di quegli anni rischia di essere un errore colossale. Quelli furono gli ultimi anni in cui le democrazie occidentali detenevano il primato economico, e il G8 era davvero l’insieme dei Paese più ricchi e delle economie più dinamiche del pianeta . Non a caso, la società che abbiamo conosciuto in quegli anni in Occidente era definita “dei due terzi”, perché si riteneva che grosso modo i due terzi della popolazione stessero sfruttando ascensori sociali per migliorare la loro condizione. Il che significa che le tensioni sociali erano contenibili, e che vi era ancora una qualche disponibilità di risorse per finanziare politiche redistributive. Oggi le cose stanno molto diversamente. Il 90% circa della popolazione è in condizioni di disagio o insicurezza, e sta comunque arretrando sulla scala sociale. Le risorse disponibili per politiche redistributive in Occidente sono scarse, perché non sappiamo più come favorire o far riprendere l’espansione delle forze produttive. Inoltre la società si è fatta totalmente “liquida”, per usare la definizione di Baumann, quindi più difficile da leggere. Se i tempi sono più turbolenti, la complessità delle dinamiche sociali molto maggiore, e le risorse scarse, allora per risolvere i problemi bisognerebbe poter contare su un’intelligenza collettiva e diffusa nell’intera società, per leggere i processi di trasformazione sociale in atto e per poter reperire e allocare risorse scarse mantenendo il consenso ed evitando così la disgregazione del tessuto sociale. Purtroppo non c’è mediazione tra chi crede che la politica debba favorire l’accentramento dei poteri, liberando gli esecutivi da lacci e lacciuoli, e chi invece ritiene – e io sono fra questi – che la politica debba favorire il sorgere e l’operare di questa intelligenza collettiva, rafforzando il ruolo del Parlamento rispetto all’esecutivo e introducendo strumenti di democrazia diretta, partecipata e di “contro-democrazia” (secondo la definizione di Rosanvallon). Esattamente l’orientamento che il dibattito sta prendendo in Francia, laddove si giudica che il sistema semipresidenziale basato su una legge elettorale maggioritaria non sia più adatto ai tempi. Ora. I Socialisti dovrebbero sostenere la necessità di politiche economiche espansive, non di politiche basate sulla “svalutazione interna” (il recupero di produttività tramite la compressione del costo del lavoro. Il risultato che si otterrà rendendo più flessibile il mercato del lavoro, vale a dire aumentando la precarizzazione del lavoro, senza finanziare adeguatamente il sistema di ammortizzatori sociali universali). I Socialisti dovrebbero sostenere processi di democratizzazione della società, non processi involutivi che portano alla concentrazione dei poteri nelle mani degli esecutivi. E queste posizioni – che ci portano, se non in rotta di collisione, quanto meno in dissenso con il Governo Renzi - non sono né insostenibili, né in contrasto con la nostra storia.

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