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domenica 30 novembre 2014
A QUARANTACINQUE ANNI DA PIAZZA DELLA FONTANA: TERRORISMO E DEMOCRAZIA ITALIANA di Franco Astengo
A QUARANTACINQUE ANNI DA PIAZZA DELLA FONTANA: TERRORISMO E DEMOCRAZIA ITALIANA di Franco Astengo
Tra pochi giorni, il 12 Dicembre, ricorreranno quarantacinque anni dalla strage di Piazza della Fontana, snodo fondamentale nella storia della democrazia italiana.
Sarà del tutto naturale il presentarsi, nel campo della pubblicistica e dell’analisi storico-politica, di tutta una serie di importanti riflessioni su quell’avvenimento e sui tragici fatti che seguirono negli anni che furono definiti “di piombo”.
In questo intervento si cercherà di rispondere a una domanda: nell’intento di attaccare al cuore la democrazia italiana perché, rispetto al terrorismo, hanno ottenuto maggiori risultati gli attori del sistema politico riducendola ormai a un brandello di simulacro?
Per quindici anni l’Italia è apparsa al mondo intero immersa in una crisi caratterizzata dal succedersi di stragi e atti terroristici che hanno provocato più di 360 vittime e circa 4.500 feriti.
Sono stati gli anni che si collocano storicamente tra l’emergere della contestazione studentesca e delle lotte operaie e lo stabilizzarsi della situazione politica con l’ascesa al potere del leader socialista Bettino Craxi, alla guida di una coalizione di pentapartito che resse fino al crollo del vecchio sistema politico nei primi anni’90: crollo del sistema dovuto all’implosione die partiti storici causata da tre fattori concomitanti, l’approdo europeo attraverso il trattato di Maastricht, “Tangentopoli”, la caduta del muro di Berlino.
La vicenda del terrorismo ha le sue radici però in un periodo antecedente e anzi percorre tutto il cinquantennio dalla Liberazione coincidendo, in sostanza, con la fase della guerra fredda: si esaurisce quando viene a cadere un’alternativa al sistema di produzione fondato sul capitalismo liberale, così come era andato evolvendosi nella seconda metà del ‘900.
Proprio in quel momento, tra la fine degli anni’80 e l’inizio degli anni’90, all’interno della struttura capitalistica andava affermandosi proprio quell’idea di “iperliberismo” che poi avrebbe contrassegnato i decenni successivi fino all’esplosione delle crisi finanziaria globale nel corso del primo decennio del XXI secolo.
E’ giusto, ancora in questo momento, chiarire ancora una volta il quadro d’insieme entro cui si è collocata la stagione delle stragi e dei terrorismi.
In particolare è indispensabile spiegare in che senso si parlava allora di “doppio stato” o “stato parallelo” giacché molte diverse accezioni si sono diffuse nel corso di questi anni in particolare dopo la pubblicazione nel 1989 di un importante saggio di Franco De Felice con il quale si propose il tema del “doppio stato” e soprattutto della “doppia lealtà” alla Costituzione e all’Alleanza Atlantica che avrebbe contrassegnato il comportamento di una parte della classe dirigente italiana e che spiegherebbe appunto la partecipazione di quegli uomini alla “strategia della tensione” proprio a partire da Piazza della Fontana per arrivare al rapimento Moro.
La categoria di “doppia lealtà” introdotta da De Felice fu assunta peraltro come fondamentale nella proposta di relazione del presidente della Commissione stragi Pellegrino nel dicembre 1995.
Per quel che riguarda il caso italiano però la migliore definizione, quella che meglio si può attagliare alla qualità della vicenda, è quella proposta da Paolo Cucchiarelli e Aldo Giannuli e che è stata anche ripresa da Nicola Tranfaglia nel suo saggio compreso nel nono volume della Storia dell’Italia Repubblicana edito da Einaudi nel 1995.
Scrivono dunque Cucchiarelli e Giannuli:
“si dà Stato duale quando una parte delle élite istituzionali, ai fini di conservazione, si costituisce in potere occulto, dotato di un proprio principio di legittimazione, estraneo e contrapposto a quello della Costituzione formale, per condizionare stabilmente il sistema politico attraverso metodi illegali, senza giungere al sovvertimento dell’ordine formale che conserva una parte della propria efficacia”.
Gli elementi di fondo che hanno caratterizzato il quindicennio delle stragi e dei terrorismi possono essere così riassunti: un quadro internazionale che forniva all’Italia una sovranità limitata; la persistenza del più forte partito comunista occidentale tollerato ma non legittimato al governo; il ripetersi di gravissimi atti di rilevanza penale all’interno del sistema politico; la presenza di organizzazioni criminali colluse con gli apparati dello Stato e complici della repressione poliziesca nei confronti delle manifestazioni popolari; l’emergere frequente di organizzazioni occulte, come quella emblematica della loggia massonica segreta P2.
Riflettendo su questi punti si ha ancora adesso la chiarezza e la forza nell’interpretazione del fenomeno contenuta nell’analisi di Cucchiarelli e Giannuli.
Quali erano gli obiettivi degli epigoni dello “Stato duale”: sfruttando l’idea dell’esistenza di un pericolo di invasione dall’Est fin dagli anni’50 e poi in quelli’60 si pensò a un tentativo di instaurare nel nostro Paese un regime militare sull’esempio greco o turco.
Poi l’avanzata delle lotte operaie e studentesche alla fine del decennio e la pressante richiesta di una più ampia democratizzazione del Paese portarono, proprio in coincidenza con piazza della Fontana, all’idea che occorresse arrestare quel flusso, stabilizzando gli equilibri politici italiani all’interno di un quadro moderato secondo l’impostazione sostenuta dai governi degli Stati Uniti, dell’alleanza atlantica e delle loro organizzazioni militari e di spionaggio.
L’obiettivo fu conseguito ma si trattò di un obiettivo parziale, di “tenuta” occorreva andare ben oltre.
A questo punto, infatti, al momento dell’implosione del sistema e del procedere dell’egemonia di un capitalismo iperliberista insediatosi anche ai vertici della Comunità Europea si è proceduto allo smantellamento della democrazia italiana attraverso vie diverse da quelle terroristiche (atti terroristici non sono comunque mancati all’interno della lotta/collusione/trattativa) fra la criminalità organizzata e poteri dello Stato.
La base di riferimento di questo smantellamento della democrazia repubblicana, principiato con l’adozione del sistema elettorale maggioritario nel 1993 e l’elezione diretta di Sindaci e Presidenti di Provincia e di Regione, è stata rappresentata dal documento di “Rinascita Nazionale” redatto proprio all’interno della già citata loggia massonica P2 nel 1975.
Gli obiettivi contenuti in quel documento sono stati quasi tutti raggiunti e si sta dando l’assalto alle residue cittadelle diminuendo lo spettro delle possibilità di incidenza dell’elettorato che, nel frattempo, con la sparizione dei partiti si è vieppiù rarefatto con una caduta impressionante della partecipazione al voto e attaccando i corpi intermedi rappresentativi dei più importanti settori sociali, in primis il sindacato confederale e puntando a farli sparire.
Le bomba di Piazza della Fontana non scoppiò invano; allora si trattò di contenere e fermare l’ondata democratica, poi – con mezzi più raffinati – si è smantellata la democrazia.
L’obiettivo era però rimasto comune, tra strategia della tensione e progetto di distruzione della democrazia: quello della svolta autoritaria.
Oggi a 45 anni dalla strage più importante tra le tante verificatesi nella storia d’Italia, non possiamo non porci di fronte a questo tipo di riflessione: da Portella della Ginestra al governo Renzi un filo (sicuramente non rosso) lega l’idea della cancellazione della rappresentanza politica e della repressione anche violenta delle istanze democratiche e di riscatto sociale.
sabato 29 novembre 2014
giovedì 27 novembre 2014
Gim Cassano: Una sinistra per salvare il paese
Una Sinistra per salvare il Paese.
Più volte, e da più parti, si è affermato che una peculiarità delle vicende dell’Italia negli ultimi decenni sia quella dell’avvitarsi e del mutuo amplificarsi, in una molteplicità di rapporti causa/effetto, di aspetti di crisi politica, istituzionale, economica, sociale. Pur non essendo questa la sede per descrivere i caratteri specifici dei diversi aspetti della crisi italiana, che mi sembra che siano stati sufficientemente analizzati, questa constatazione, che condivido, porta alla necessaria conseguenza che le difficoltà che il nostro Paese incontra nel superare una crisi che non ha solo caratteri economici, e che preesiste alla crisi finanziaria del 2008, richiedano approcci sistemici e non settoriali.
Tra le democrazie industriali, è proprio in Italia che si osservano sia la maggior gravità che la presenza contemporanea di tutti quei fattori di criticità che caratterizzano variamente l’Occidente industrializzato e che sono stati oggetto di specifici studi e ricerche. In nessun’altra democrazia, si presentano a tal punto, e simultaneamente, il degrado delle istituzioni democratiche e della partecipazione dei cittadini, la paralisi della mobilità sociale, l’eccessiva concentrazione della ricchezza e l’impoverimento della base della piramide sociale e del ceto medio, il degrado delle condizioni di vita dei più, la stagnazione dell’economia e della produzione, la generalizzata incapacità dello Stato a svolgere efficacemente le proprie funzioni ed a promuovere sviluppo, equità, protezione dei più deboli; in nessun’altra democrazia corruzione, evasione ed elusione fiscale, criminalità organizzata, occupano tanto spazio economico, politico, sociale quanto in Italia.
In Italia, il ventennio della Seconda Repubblica, insieme all’abbandono delle ragioni della politica ed al crollo del partito politico come strumento -per quanto imperfetto- della democrazia, ha visto generalizzarsi la reazione nei confronti di una fase riformista che si era sviluppata sin verso la fine degli anni ’70, per poi esaurirsi nel corso degli anni ’80, parallelamente all’avvento di Ronald Reagan negli USA, e di Margaret Thatcher nel Regno Unito.
In quel ventennio, passo dopo passo, rinuncia dopo rinuncia, sono state create le premesse per la limitazione degli spazi di democrazia a disposizione dei cittadini e per la subordinazione rinunciataria della politica alle scelte dei centri di potere economico e finanziario, e non si è fatto nulla per correggere l’allargarsi delle disparità economiche tra categorie sociali e tra aree territoriali; anzi, sono state incentivate con politiche fiscali e di investimento a ciò indirizzate. Oltre che impoverire ulteriormente i più ed arricchire i pochi, e svantaggiare sempre più un Mezzogiorno abbandonato al suo destino, e non consentire un adeguato accesso al lavoro a giovani e donne, alimentando la percezione oggettiva di abbandono, insicurezza e sfiducia crescenti, ne è risultato un generale infragilimento dell’economia che ha collocato l’Italia, che era all’ultimo posto tra i paesi industriali in quanto a rischi di esposizione nei confronti della crisi finanziaria del 2008, al primo posto nel subirne effetti economici che tuttora perdurano.
Lo svilimento della democrazia e del ruolo della politica, ridotta a gioco di gestione di se stessa, hanno impedito un serio dibattito pubblico al riguardo, con la conseguenza fatale della sua riduzione ad un’alternanza inutile nella quale l’agenda politica era pur sempre quella dettata dalla destra, dalle esigenze personali del suo leader, e dagli interessi dell’area sociale che ad essa si riferiva e che ad essa forniva consenso.
Gli assetti e gli indirizzi politici che sono andati affermandosi dopo il tracollo dell’ultimo governo Berlusconi con la benedizione di un Presidente della Repubblica che ha rispolverato lo Statuto Albertino e fatta propria e promossa apertamente la politica delle larghe intese, non rappresentano né un’inversione di rotta, né una discontinuità con il precedente ventennio.
Al contrario, rappresentano il consapevole tentativo di dare forma compiuta a concezioni della politica e della società che già erano andate sviluppandosi nel corso di quegli anni, e sulle quali hanno concordato la destra e buona parte di quello che fu il centrosinistra. Ciò è passato per l’avvento di Matteo Renzi alla segreteria del PD: un abile imbonitore, non dissimile neanche in questo da Berlusconi, ed altrettanto propenso a considerare parole al vento i propri tweets.
Il Patto del Nazzareno, che ben pochi dei partecipanti alle primarie del PD avrebbero a priori accettato, ha rappresentato la premessa logica e politica della defenestrazione di Letta, imposta al suo partito come la manifestazione di una necessaria discontinuità: ma non quella di ribaltare gli indirizzi seguiti negli anni della seconda repubblica, quanto quella derivante dal considerare insufficiente e bisognoso di completamento un cammino che la destra non aveva saputo realizzare compiutamente.
Ciò rende impossibile il continuare a parlare di un sistema politico fondato su una destra ed un centrosinistra tra loro alternativi: quello che si sta instaurando è un sistema polittico fondato su un blocco centrista, in larghissima misura costituito dal PD renziano, rispetto al quale la Lega trova tanto più facilmente spazio sulla destra quanto meno Forza Italia si differenzia dal PD, e rispetto al quale un’opposizione di sinistra che abbia possibilità di crescita deve ancora consolidarsi. I risultati del voto in Emilia ed in Calabria confermano questa valutazione: l’unico partito che non perda voti è la Lega, ed il pur decoroso 4% della sinistra in Emilia è da valutare in rapporto al 37% di votanti.
Qui sta il senso dell’affermazione che da più parti viene fatta circa il fatto che si stia instaurando un regime. Affermazione che, pur se contestata da molti, anche in buona fede e sulla scorta del fatto che non si stia affermando l’egemonia forzosa di un solo partito, trova la sua validità nel fatto che l’attuale assetto politico è stato reso possibile solo per via della tregua richiesta da Berlusconi ed imposta da Napolitano e, tecnicamente, da una pessima legge elettorale; e nel fatto che questo assetto rischia di divenire permanente in via forzosa grazie all’ulteriore peggioramento della legge elettorale, alla sostanziale abolizione del Senato, alla farsa delle Città Metropolitane, a norme del tutto antidemocratiche sull’accesso all’elettorato passivo.
E, in ultimissima ma forse ancor più importante considerazione, il suo mantenimento si autoalimenta in virtù del fatto che, impedendo dialettica politica e possibilità di mutamento, gli italiani si convincono dell’inutilità di utilizzare i residui strumenti democratici a loro disposizione, e non vanno più a votare.
E’ una ben strana concezione della democrazia, quella che fonda le maggioranze sul non-voto dei cittadini.
La combinazione del progressivo aggravarsi delle condizioni economiche complessive del Paese con il peggioramento delle disparità sociali, delle condizioni di vita e lavorative di molti, del degrado urbano, con il contrarsi della spesa sociale e con il venir meno degli ambiti di democrazia, sta creando una miscela che alimenta, in alternativa, ed a seconda dei punti di vista e degli interessi dei singoli, o una sfiducia che rischia di trasformarsi in rassegnazione, o il ribellismo. Dell’una e dell’altro si vedono segni evidenti nel crollo della partecipazione al voto e nel manifestarsi di iniziative violente e proteste nelle nostre periferie urbane, poco importa se alimentate da coloro che non hanno nulla da perdere o da coloro che invece temono di perdere quel poco che hanno. E a poco vale il liquidare la questione col qualificare i primi come antagonisti ed i secondi come tendenzialmente reazionari.
La storia e l’esperienza insegnano quanto siano frequenti le risposte autoritarie a situazioni di stallo di quei sistemi politici che non riescono ad affrontare per la via della democrazia il protrarsi di situazioni di crisi economica, sociale, politica. Nell’Italia di oggi, si sta dichiaratamente sottraendo ai cittadini gran parte degli strumenti che, in una democrazia, sarebbero a loro disposizione per esercitare quella sovranità che la Costituzione loro assegna. E non solo per quanto riguarda le regole e le Istituzioni della democrazia, ma anche per quanto riguarda quelle forme di partecipazione intermedia che dovrebbero trovare il loro ambito nei partiti politici, nei sindacati, nell’associazionismo.
I primi, trasformatisi da libere associazioni di cittadini in corpi feudali nei quali ogni scelta emana da vertici ed apparati di professione aventi nella propria sopravvivenza la principale preoccupazione, e che l’abolizione del finanziamento pubblico rende sempre più dipendenti dalle oligarchie economiche.
E, per quanto riguarda i sindacati, dietro la discussione in atto sull’Art.18 e lo scontro politico che vi si è collegato, c’è la questione ancor più generale se al sindacato, nei nuovi assetti che si sta cercando di porre in atto, spetti un ruolo di rappresentanza generale del lavoro, o se invece non debba avere altra funzione che quella di pura controparte aziendale o di categoria. Si vorrebbe cioè per questa via ridimensionare, dopo quello più propriamente politico, un altro aspetto degli strumenti di partecipazione e rappresentanza di gran parte dei cittadini e togliere dalla scena un altro fattore di articolazione di quei contropoteri, anche non istituzionali, la cui presenza ed operatività è richiesta in una democrazia. Ed è significativo che men che mai una simile questione sia stata posta nei confronti di chi rappresenta il mondo delle imprese.
Anche queste sono questioni che entrano a pieno titolo nel valutare le condizioni di funzionamento della democrazia nel nostro Paese.
Il venir meno degli strumenti e dei processi democratici impedisce una seria discussione sul significato e sull’efficacia delle politiche e delle cosiddette riforme che vengono sottoposte al Parlamento come articoli di fede da accettare o respingere in blocco, il più delle volte ricorrendo ad interpretazioni estensive dell’istituto della delega, che sottrae al Parlamento ulteriore capacità di intervento e di controllo. Non c’è quindi da stupirsi se poi, in mancanza di una appropriata funzionalità del Parlamento e di un’adeguata opposizione politica, dilaghi la protesta sociale. E non c’è neanche da stupirsi se, da parte di molti commentatori, non certo catalogabili sbrigativamente come appartenenti all’antagonismo di sinistra, si manifesti più di un dubbio su proposte che appaiono, molto spesso e di volta in volta, velleitarie, prive di adeguate coperture, inefficaci, o indirizzate a prefigurare forme oligarchiche di controllo politico ed economico. Ma, soprattutto, appaiono inadeguate a far uscire il Paese dalla sua crisi economica e sociale.
Questo stato di cose non può iniziare a modificarsi se non per effetto della presenza di una forza di sinistra adeguata nei termini della capacità politica e culturale di svolgere un ruolo che si limiti a quello di essere forza di opposizione ed antagonista. Una tale sinistra, indispensabile a fornire possibilità di rappresentanza ad una parte importante della società italiana, ad indirizzare in termini politici quei conflitti sociali che si vorrebbe elidere in parte ricorrendo all’effetto placebo ed in parte per via normativa, ed a ripristinare un dibattito politico non formale e fondato sulle condizioni reali del paese e senza il quale la democrazia risulterebbe ulteriormente svuotata, ancora manca.
Le iniziative intenzionali ed esplicite del governo in carica ed i mancati interventi da parte dello stesso governo e della politica in generale su un altro hanno però fatto maturare in molti un comune giudizio di pericolosità dell’attuale conduzione del Paese, pur se in un quadro articolato e non omogeneo di atteggiamenti che vanno dall’esprimere gravi preoccupazioni sino al manifestare una determinata e consapevole opposizione. Si tratta di espressioni politiche che vanno dalle minoranze interne di PD e PSI, a SEL, a coloro che si sono riconosciuti nella “Lista Tsipras”, alla CGIL ed ora anche alla UIL, ad una galassia di associazioni di sinistra senza partito ed aventi diverse connotazioni politico-culturali, una parte delle quali ha dato vita e partecipa ad “Iniziativa 21 Giugno”; e, soprattutto, si tratta di quel milione di cittadini che ha coscientemente manifestato il 25 Ottobre scorso e di coloro che il 12 Dicembre aderiranno allo sciopero indetto da CGIL ed UIL.
Da questi, molti di coloro che domenica 23 Novembre non sono andati a votare in Emilia ed in Calabria attendono una risposta.
Se tutto ciò non costituisce ancora una forma politica, ne è però il terreno di coltura, e non può trovare che uno sbocco: quello del formarsi, in tempi non biblici, di una Sinistra ampia e degna di tal nome, a partire da chi ci sta, senza escludere a priori chi potrebbe, o meglio dovrebbe, starci.
E’ compito di coloro che più sono convinti di tale necessità -e tra questi va annoverata “Iniziativa 21 Giugno”, col metodo non formalistico ed aperto che ha voluto mettere in campo- quello di avviare e favorire in ogni modo un percorso in questa direzione, nella convinzione che questa sia una condizione necessaria, non tanto a far rinascere una sinistra politica, quanto a salvare il Paese dall’involuzione verso un’oligarchia che, avendo più interesse al tornaconto dei pochi che ad una prospettiva di sviluppo complessivo, lo condanna ad una lunga stagnazione.
Il compito non è facile, e richiede che siano chiarite alcune linee di indirizzo, riguardo alle quali qui di seguito mi limito ad esprimere dei punti di vista (non di programma) non esaustivi e non conclusivi, ma che mi paiono toccare le questioni principali sulle quali verificare la possibilità di procedere.
A- Per quanto riguarda i connotati di fondo:
- Saper sviluppare non solo le capacità di analisi e di critica tipiche di una forza di opposizione, ma soprattutto quelle di indicare un’alternativa che si misuri attraverso iniziative, indicazioni e proposte, concrete, realistiche, comprensibili.
Vanno in questa direzione l’attività di Felice Besostri e degli avvocati e giuristi che con lui collaborano nei ricorsi giudiziari diretti a difendere le forme democratiche in uno Stato di Diritto e, su un altro versante, l’approccio seguito nella definizione di un documento di politica economica che, senza rinunciare ad individuare prospettive di indole generale, è stato formulato nei termini estremamente concreti e misurabili della proposta “Per una legge di stabilità alternativa”.
- Avere la capacità di raccordarsi con forze e movimenti che, pur non schierati su un fronte di sinistra, siano disponibili ad impegnarsi in iniziative, lotte politiche, campagne di opinione volte alla difesa della democrazia e dello Stato di Diritto, allo sviluppo di politiche riguardanti i diritti individuali e civili e la laicità dello Stato e delle Pubbliche Amministrazioni, alla difesa di consumatori, utenti dei pubblici servizi, ed in generale, delle parti deboli nei rapporti tra soggetti privati e tra privati e settore pubblico.
- Essere pienamente consci di dover parlare all’intero paese, e non solo a sue parti: politiche alternative a quelle presenti trovano credibilità solo se tendono ad affrontare un’emergenza che è nazionale e sistemica, che riguarda cioè l’intero sistema-paese. Dato per scontato che una qualsivoglia forza di sinistra non possa prescindere dalla tutela delle condizioni di vita dei più svantaggiati e dalla difesa del lavoro in termini quantitativi, economici e normativi, la sinistra di cui oggi c’è bisogno non può lasciare che un ceto medio impoverito identifichi i propri interessi con quelli di coloro che ne hanno determinato l’impoverimento e, in termini politici, con la destra o con la Lega di Salvini; e non può non sostenere lo sforzo che moltissimi onesti e capaci imprenditori, artigiani, operatori commerciali, professionisti, compiono quotidianamente nel competere in termini di innovazione di prodotto e di processo più che di dumping salariale o normativo, di idee e conoscenze, di metodi, dando il loro contributo ad ammodernare e rendere competitivo il Paese.
- Aver chiaro come la correttezza e l’efficienza della Pubblica Amministrazione, il rigore nella gestione della spesa, l’intransigenza nei confronti di disonestà, incapacità, sprechi e cattivi utilizzi del denaro pubblico, siano nell’interesse generale del Paese, ed in particolare dei più deboli. Una Pubblica Amministrazione moderna, efficiente, motivata, capace di controllare e controllarsi, di dare risposte rapide e chiare, di esser vista come un sostegno e non come un freno allo sviluppo, è una precondizione necessaria ad un ruolo attivo in termini di capacità di indirizzo e programmazione.
- La visione di una “società diversamente ricca”, per usare l’espressione di Riccardo Lombardi, presuppone un ruolo attivo della scuola, della conoscenza e della cultura, della ricerca e dell’innovazione, dell’arte, mobilitando capacità e risorse pubbliche e private, finalizzate a nuove occasioni di sviluppo ed a mettere in luce nuove risorse umane e materiali, a riequilibrare le prospettive e le condizioni di vita economica e civile delle diverse aree del Paese, a combatterne il degrado territoriale, ambientale, urbano, a preservarne i beni culturali.
- Avere la consapevolezza di dover operare criticamente, ma senza indulgere a preconcette avversioni, all’interno di un quadro di riferimento europeo tutt’altro che facile: cosa che richiede non un tiepido, ma un elevato senso di appartenenza europea. Occorre attrezzarsi, anche su un piano tecnico/scientifico, per respingere il semplicismo populista che tende a distinguere i paesi virtuosi dai PIGS, chiarendo come non sia tutto oro quel che riluce nei conti dei primi, come alcuni parametri indichino una solidità di fondo del nostro sistema economico ben superiore a quella espressa dal rapporto debito/PIL, e come gli squilibri interni all’area-euro non siano determinati solo dai deficit di bilancio di alcuni, ma anche dalle politiche deflazionistiche ostinatamente seguite da altri. Ragionamenti simili verrebbero a cadere sul nascere, se non preparati da un punto di vista scientifico e politico, e se non sviluppati nel quadro di una forte spinta verso un’Europa politica, che la sinistra deve saper fare propria.
- E, non ultima questione, anzi premessa metodologica e condizione necessaria al formarsi di una sinistra aperta ed adeguata alle necessità che sono state definite, è quella della capacità critica di tutti nei confronti delle proprie storie, sovente conflittuali tra loro, e costellate da errori, incomprensioni, pregiudizi; e dalle conseguenti sconfitte. La constatazione del deserto attuale impone più di una riflessione, ed impone a tutti la disponibilità a ripartire dall’oggi col rimettersi in gioco senza presunzioni egemoniche che non trovano fondamento nella realtà dei fatti e che farebbero immediatamente fallire ogni tentativo di avvio.
B- Per quanto riguarda il percorso politico da compiere:
- Non si può pensare di poter avviare questa costruzione sulla presunzione del mantenimento in vita di un centrosinistra che, da tempo, non esiste più. Occorre esser chiari al riguardo: l’idea di un centrosinistra capace di essere alternativo alla destra è tramontata con il sostanziale affossamento della neonata coalizione Italia Bene Comune, avviato dal PD già prima dell’insulsa campagna elettorale politica del 2013, e definitivamente certificato con il Patto del Nazzareno. Parlare ancora di centrosinistra significa semplicemente proseguire negli equivoci e, di fatto, fornire a chi oggi governa una comoda, ancor più gradita in quanto gratuita, copertura politica.
E’ evidente come questa consapevolezza non sia ancora generale. Però il suo maturare è nei fatti, a meno di un’improbabile mutamento di rotta da parte del PD sulle questioni degli assetti istituzionali e degli indirizzi economici; e, pur ammesso il verificarsi di un’ipotesi di tal genere, resterebbe comunque viva la necessità di una forza che possa costituire un solido punto di riferimento politico a sinistra.
- La costruzione di una sinistra ampia e capace di rapportarsi alla realtà complessiva del Paese presuppone il concorso plurale di espressioni politiche e soggetti diversi e caratterizzati, oltre che da storie politiche e radici culturali diverse, anche da ruoli, dimensioni, modi di operare, diversi.
Non può quindi realizzarsi per aggregazioni o cooptazioni centrate sull’uno o sull’altro dei soggetti politici esistenti, e nemmeno per via della semplice aggregazione orizzontale di pezzi di politica, che verrebbe percepita unicamente come l’unione di più debolezze, tutte modeste in quanto a capacità di proposta, e nessuna delle quali capace di vita ed autonomia politica ed elettorale propria. Deve anche tener conto del fatto che la necessità di questo processo, ad oggi, non è ancora percepita da tutti con la stessa chiarezza. Il percorso possibile passa quindi per un processo largo, non precostituito, aperto a tutti coloro che, anche in un prossimo futuro, vi siano disponibili, rispetto al quale il veicolo più adatto appare quello di una forma federativa che consenta la partecipazione di forze politiche, associazioni, movimenti, individualità, nonchè l’articolazione territoriale; e, al tempo stesso, capace di definire comportamenti politici omogenei e di non parlare con una babele di linguaggi diversi.
- La questione del rapporto col sindacato è centrale. E’ necessaria una forza di sinistra che sappia essere interlocutore politico delle forze sindacali. Più che la recita di giaculatorie in tal senso, ciò comporta, nel rispetto della diversità di ruoli tra forze sindacali e politica, la capacità costante di confronto e verifica nel già citato riferimento alle condizioni reali del paese, nello sviluppo di proposte realizzabili ed empiricamente misurabili nei loro effetti, e comporta la capacità di dare sostanza e contenuti politici, senza opportunismi, al concetto dell’inscindibilità dei diritti individuali, civili, sociali.
Un processo di questo tipo è reso ineludibile sia dal precipitare di una crisi economica e sociale che, ove non trovi espressione politica, rischia di degenerare in ribellismo, che dall’approfondirsi di una crisi politica di cui il crollo della partecipazione al voto è una manifestazione, ed i cui termini sfuggono, con voluto opportunismo, alla quasi totalità delle forze politiche oggi presenti in Parlamento che, in definitiva, traggono dalla sfiducia degli italiani la loro legittimazione elettorale. Ed ancora, è reso ineludibile dal fatto che non basta stare in attesa che gli eventi confermino la convinzione, largamente diffusa, dell’inadeguatezza degli indirizzi di politica economica e delle cosiddette riforme a rimettere in movimento il Paese.
Ad evitare che la sfiducia si trasformi in definitiva rassegnazione, o in ribellismo, entrambi esiziali per una democrazia, occorre una sinistra capace di concezioni aperte e non anguste, e capace di guardare in grande ed oltre le contingenze dell’oggi, per salvare l’Italia.
In questa direzione, “Iniziativa 21 Giugno” e le associazioni e gruppi che vi partecipano, tra cui Alleanza Lib-Lab, Critica Liberale, Iniziativa Socialista, Laboratorio Politico per la Sinistra, Network per il Socialismo Europeo, Rete Socialista, Sinistra d’Azione, nonché diverse individualità ed esponenti di altri circoli e gruppi politici, possono e devono dare un contributo in termini di idee e di facilitazione nella costruzione di rapporti e percorsi politici.
Gim Cassano, 26-11-2014
mercoledì 26 novembre 2014
Dario Allamano: Riflessioni su Decoubertin
Senza essere un decoubertiniano (l’importante è partecipare) ritengo che non sia possibile pensare di archiviare quanto avvenuto in Emilia Romagna con “l’importante è vincere” come dice Renzi, la partecipazione alle elezioni indica lo stato di salute o di malattia della politica, ed oggi la malattia è molto grave.
Il crollo verticale dei votanti, al di sotto del 40% degli aventi diritto, in una realtà oltretutto che fino a pochi anni fa ne portava al voto l’80% è un segnale che deve preoccupare chiunque abbia a cuore il futuro dell’Italia. La disaffezione era già stato anticipata dal dato delle Elezioni Europee, in cui erano già scesi al 60%, e che solo una visione strabica portò ad archiviare come un’epocale vittoria del PD.
Alle Europee il PD ottenne 1,5 milioni di voti in meno di Veltroni nel 2008, e già questo avrebbe dovuto far riflettere.
L’altro dato di fatto è che questo “sciopero generale dal voto” avviene con un’offerta partitica molto ampia, erano presenti molte formazioni politiche e di varia estrazione e ideologia, l’effetto è stato però evidente: i cittadini non si sentono più rappresentabili dagli eredi di un ventennio fallimentare che ha portato l’Italia sull’orlo del default.
Dopo i risultati di domenica non esistono più vincitori ma solo partiti “diversamente perdenti”.
Ma quanto è successo riguarda direttamente anche noi socialisti e ci riguarda perché per la prima volta, dopo ventanni, si è creato un vuoto politico ed in politica il vuoto non regge a lungo, in un paio d’anni qualcuno lo deve riempire sia di contenuti che di presenze; quel che oggi manca sono i contenuti e sono contenuti che interpellano la migliore storia del socialismo democratico.
Le domande che mi sto ponendo sono tante:
- possiamo noi, che abbiamo fatto del recupero della migliore storia del socialismo, essere attori “importanti” nel governare il cambiamento che ormai è sempre e con sempre maggiore evidenza richiesto dai cittadini?
- Il crollo di rappresentanza del PD trascinerà con se anche la residuale forza politica del PSI? Se si quale potrebbe essere il ruolo di una rete di circoli ed associazioni che, sia pure con difficoltà, si sta aggregando in Italia? È sufficiente continuare con una fase di pura testimonianza o è necessario passare alla costruzione di un Progetto per Governare il Cambiamento?
- Quale potrebbe essere il ruolo dei Sindacati, che hanno dimostrato di poter fare molto male al PD, quello di oppositori senza progetto o quello di primattori nella costruzione di una forza politica dei lavoratori, tutti, nessuno escluso?
Sono tutte domande a cui non ho risposte precise e definite, ma ritengo che una fase sia finita, quella della denuncia di una mancanza di un’area socialista, magari anche sovranazionale, non basta più dire che manca una sinistra socialista occorre dire cosa dovrebbero fare i socialisti se governassero questo Paese, a partire da Nencini che al Governo c’è.
Oggi ai cittadini interessa molto poco sapere se esista un Gruppo, una Rete di Socialisti, una Costituente o una Federazione Socialista, se ci concentriamo sui nominalismi offriamo agli Italiani poco, oggi i cittadini vogliono innanzitutto capire perché l’Italia è in queste condizioni e soprattutto vorrebbero ricevere proposte su cosa intende fare un’organizzazione, che fa dell’equità e della democrazia i proprii assi portanti, per contribuire a redistribuire solidalmente le poche ricchezze che ancora si producono.
Se davvero intendiamo proseguire nel nostro cammino di recupero della migliore Storia dei Socialisti per costruire un Avvenire interessante per i nostri figli ed i nostri nipoti occorre prendere atto che da domenica scorsa, almeno in Italia, una piccola storia è finita, quella di un ventennio nato male e finito peggio, nato, per come ce la raccontavano nel 1992 per risanare moralmente l’Italia e finita con un’Italia in cui si continua a gestire un potere senza etica e senza capacità, ma è finita anche un’Italia che stava fiduciosa a SPERARE CHE qualsiasi COSA si presentasse come NUOVA fosse davvero in grado di rinnovare questo Paese.
Ho la netta impressione che d’ora in poi gli Italiani non daranno più deleghe in bianco
Fraterni saluti
Dario
martedì 25 novembre 2014
lunedì 24 novembre 2014
Gim Cassano EMILIA, CALABRIA: UNA LEZIONE PER RENZI (ED ANCHE PER TUTTI NOI).
Trasmetto quanto ho messo in rete ieri sera, prima della chiusura dei seggi e di conoscere i risultati definitivi sull’affluenza alle urne in Calabria ed Emilia. I dati definitivi confermano ad abundantiam quanto avevo affermato, al punto che non ha alcun senso lo stabilire chi abbia vinto.
Gim Cassano
EMILIA, CALABRIA: UNA LEZIONE PER RENZI (ED ANCHE PER TUTTI NOI).
Le urne non sono ancora chiuse, e quindi non si può fare alcun commento sull’esito delle Regionali in Emilia ed in Calabria. Ma, sin d’ora una cosa può esser detta: dato che alle 19,00, nelle due regioni, aveva votato circa un terzo degli aventi diritto, a meno di una corsa ai seggi nelle ultime ore, è possibile che avvenga che due Presidenti di Regione e due Consigli Regionali siano eletti da meno del 50% dei cittadini-elettori.
Nell’ipotesi che questo calo dell’affluenza sia confermato, due cose mi paiono evidenti:
la prima: che Renzi non potrà cantare nessuna vittoria.
la seconda: che, quando ci si mette a giocare con le Istituzioni e le regole della democrazia, riducendo gli spazi di libera scelta dei cittadini, il risultato è quello di allontanarli ulteriormente da un’inutile partecipazione, e di favorire, a seconda dei casi, rassegnazione o ribellismo.
Ciò rende ancora più urgente la costruzione di un’opposizione politica.
Gim Cassano, 23-11-2014
domenica 23 novembre 2014
sabato 22 novembre 2014
venerdì 21 novembre 2014
Felice Besostri: Fatti nuovi
FATTI NUOVI: il mondo si muove, ma non intorno all’ombelico della sinistra italiana
In Germania per la prima volta, nel Land tedesco orientale della Turingia, si è fatta una coalizione rosso-rosso –verde con un Presidente del Land della Linke. Maggioranze SPD- Linke o, in passato, SPD-PDS non sono una novità, reggevano fino a alle elezioni scorse un Land come Berlino e tuttora il Brandeburgo. Purtroppo queste maggioranze sono state sconfessate in altri Land dai risultati elettorali dopo una legislatura o al massimo due. Questa maggioranza in Turingia sarebbe stata posibile già nel 2009, pur di realizzarla la Linke era disposta ad affidare la Presidenza del Land ad una esponente della sinistra SPD.Nel 2009 i Verdi non erano necessari in quanto la coalizione rossa-rossa aveva la maggioranza assoluta di 45 seggi su 88 del Landtag con i 27 della Linke e i 18 della SPD. La nuova coalizione nasce da una pesante sconfitta della SPD che scende a 12 seggi e con la Linke che aumenta a 28, da qui la necessità di allargare ai Verdi, che hanno mantenuto i 6 seggi del 2009. Questi fatti rendono più significativa politicamente la scelta della SPD, che ha imputato la sconfitta alla Grande Coalizione con la CDU. La coalizione ha infatti premiato la CDU che guadagna a coalizione ha infatti premiato la CDU che guadagna 4 seggi su i 30 del 2009. La Grande Coalizione avrebbe mantenuto la maggioranza con 46 seggi sui 91 del Landatag, quindi pari a quella della coalizione rosso-rosso-verde ( 28+12+6). In termini assoluti la sinistra non è progredita perché la CDU guadagna 4 seggi e AfD( Azione per la Germania), il partito euroscettico, entra per la prima volta nel Landtag con 1 seggi, vampirizzando la FDP, che perde i 7 seggi del 2009 e resta sotto la soglia del 5%, con un misero 2,5% (- 5,2% rispetto al 2009). La destra non era in grado di fare coalizione non tanto per ragioni numeriche, 45 seggi su 91, ma politiche in quanto sull’Europa la CDU-CSU sono alternative e in Germania non si fanno alleanze solo numeriche e i problemi non si risolvono attribuendo la maggioranza assoluta dei seggi alla lista di maggioranza relativa. In Turingia con il Porcellum la CDU avrebbe avuto 49 seggi e con l’Italikum sarebbe andata al ballottaggio con la Linke. Anche a sinistra ci sono problemi dentro alla SPD e alla Linke, quest’ultimi si preferisce ignorarli nella sinistra italiana, Nel caso della Turingia la Linke aveva candidato alla presidenza del Land , come nel 2009, Bodo Ramelow, un tedesco dell’Assia, che si è traferito all’Est dopo la caduta del Muro e quindi totalmente estraneo al Passato della SED e della DDR. Non solo è stato tra i promotori nel gennaio 1997, ben 17 anni fa, della Dichiarazione di Erfurt( una città simbolo della storia della socialdemocrazia tedesca che diede il nome al Programma di Erfurt del 1891, uno dei più radicali della SPD) di appena una quarantina di artisti, intellettuali, sindacalisti e politici per più giustizia sociale e per un cambiamento politico attraverso una stretta collaborazione della SPD, dei Verdi e dell’allora PDS. Un precursore in tempi in cui nella PDS c’erano settori per i quali ogni collaborazione con la SPD era tradimento e adesione al capitalismo. Credo che ci sia da imparare quando nella sinistra i socialisti in quanto tali sono da escludere da ogni progetto di una nuova formazione a sinistra del PD.
Stavolta le buone notizie arrivano in coppia. In neoeletto segretario della UIL, Barbagallo ha dato un segnale forte di discontinuità aderendo allo sciopero generale indetto dalla CGIL. Si deve sperare che si sviluppi un’iniziativa sindacale unitaria contro la deriva del Job Act. Le reazioni rabbiose non si sono fatte attendere e il ministro del Lavoro Poletti ne è stato il capofila. Ad una nuova sinistra con aspirazione a rappresentare la maggioranza degli italiani e non di fare testimonianza sono necessari molteplici apporti pluralisti, senza primi della classe. I socialisti che vogliono collocarsi a sinistra, anzi che già sono una parte indispensabile di una sinistra plurale saranno della partita. La maggioranza del PSI ha rinunciato a svolgere un ruolo politico, di questo va preso atto con rammarico, ma senza fermarsi in nostalgie o rimpianti, in questo senso la proposta di una Federazione Socialista avanzata dalla Rete Socialista-Socialismo Europeo è un tassello senza pretese di esclusivismo, autosufficienza e autoreferenzialità, che si può sviluppare anche nell’ambito dell’Iniziativa 21 giugno in perfetta autonomia delle sue componenti
Roma 20 novembre 2014 Felice Besostri, Presidente della Rete Socialista-Socialismo Europeo
PERCHE’ LA SINISTRA: LA DESCRIZIONE DELLO STATO DI COSE IN ATTO NON E’ FARINA DEL NOSTRO SACCO MA L’INTERROGATIVO RIMANE QUELLO DI SEMPRE “SOCIALISMO O BARBARIE” di Franco Astengo
giovedì 20 novembre 2014
Luciano Belli Paci: La prescrizione
Perfino Renzi ogni tanto ne dice una giusta.
La prescrizione penale va cambiata.
Peccato che ci si accorga della cosa solo sull’onda dell’emozione suscitata dalla sentenza della Cassazione nel processo Eternit, perché sarebbe meglio ragionarci sopra a mente fredda.
Ne discuto da anni e so bene che i miei colleghi penalisti non sono d’accordo con me perché dicono che, se non ci fosse neppure lo spettro della prescrizione ad imporre un ritmo ai procedimenti, la giustizia penale sarebbe ancora più lenta.
L’obiezione non mi convince, fa parte di questa idea molto italiana che di fronte ai problemi occorra arrangiarsi, magari curando un male con un altro male. Non funziona quasi mai. Quasi sempre i mali non si elidono tra loro ma si sommano, ingigantendo i danni, come in questo caso.
Per chi non lo sapesse, la prescrizione opera in modo completamente diverso nel civile e nel penale. Nel processo civile, dal momento in cui viene promossa l’azione fino al passaggio in giudicato della sentenza, la prescrizione rimane sospesa.
Nel processo penale, invece, continua a correre.
Sul piano dei principi la cosa è assurda, visto che la ratio della prescrizione è quella che l’inerzia del soggetto interessato (nel civile la parte che intende far valere un proprio diritto, nel penale il potere pubblico tenuto a garantire l’osservanza della legge), quando si protrae oltre un certo limite, determina l’estinzione del diritto o della pretesa punitiva.
Perciò, dove l’inerzia non c’è perché la macchina penale si è mossa, questa giustificazione non esiste più.
Sul piano pratico la cosa ha effetti paradossali e perniciosi per l’intero sistema.
Lo Stato impiega enormi risorse per la repressione dei reati: gli organi di polizia svolgono le indagini – spesso complesse e dispendiose -, poi il pubblico ministero le approfondisce e predispone l’accusa, poi dopo un primo vaglio si arriva al rinvio a giudizio, poi si celebra il processo di primo grado, poi l’appello, poi la cassazione. In qualunque momento, anche alla fine di questo lungo iter che ha impegnato persone e mezzi per anni, se arriva la scadenza della prescrizione tutto viene completamente annullato, buttato via.
Il meccanismo perverso ovviamente alimenta l’abnorme numero dei processi, visto che anche quando il reato è ampiamente provato – mentre all’estero l’imputato si affretterebbe a patteggiare evitando il processo – da noi spesso non solo si affronta il processo e lo si dilata con tutte le possibili istanze istruttorie, ma poi si percorrono tutti i successivi gradi di giudizio nella speranza (che a volte è una certezza, quando il reato non è stato scoperto subito e magari è già passato qualche anno) di arrivare all’agognata prescrizione.
In nessun paese al mondo la macchina della giustizia potrebbe funzionare decentemente celebrando tutti i processi che si fanno da noi.
Questo, oltretutto, produce una giustizia di classe, visto che solo i ricchi possono pagare gli avvocati per sfruttare fino in fondo i vantaggi di questo insensato meccanismo. I poveracci vengono processati per direttissima, non fanno appello e vanno in galera.
Ecco una riforma semplice e senza costi: abolire la prescrizione penale dopo il rinvio a giudizio.
Invece per ora il Governo ha preferito dedicarsi alla falsa riforma del processo civile escogitata dal ministro Orlando, che non serve a nulla ma ha il pregio di non mettere a repentaglio il patto del Nazzareno.
Luciano Belli Paci
mercoledì 19 novembre 2014
lunedì 17 novembre 2014
sabato 15 novembre 2014
venerdì 14 novembre 2014
giovedì 13 novembre 2014
mercoledì 12 novembre 2014
lunedì 10 novembre 2014
livio ghersi: Dopo Napolitano non c'è il diluvio
Dopo Napolitano non c'è il diluvio.
In un ordinamento democratico nessuno è insostituibile. Tanto più lo è una persona che il prossimo 29 giugno compirà 90 anni. Questa, appunto, è la condizione dell'attuale Presidente della Repubblica.
Difficile fare un bilancio della lunga presidenza di Giorgio Napolitano. Per quanto mi riguarda, vedo luci ed ombre; sicuramente, non è stato il salvatore della Patria, come per tanto tempo alcuni si sono sforzati di farci credere. L'aver accettato il secondo mandato, alla sua età, ha costituito oggettivamente una forzatura. Si tratta di argomenti da rinviare, comunque, al giudizio degli storici.
L'attuale Parlamento, con tutti i suoi limiti, è perfettamente in grado di eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Ci vorranno cinque votazioni, ce ne vorranno dieci, ce ne vorranno venti, ma alla fine si troverà un'ampia convergenza su un nome. Basta mantenere i nervi saldi. L'importante è che emerga la figura di un Presidente della Repubblica di garanzia, per tutti. Che sia uomo, o donna, poco importa. L'importante che abbia una sua personalità, una sua capacità di giudizio, e molto buon senso.
Tante questioni difficili e complesse sono oggi al centro del dibattito politico e dell'azione del Governo: la legge elettorale (che delinea le caratteristiche del sistema politico); la tenuta dei conti pubblici; i rapporti con l'Unione Europea; le riforme della nostra Costituzione. Di fronte a questo scenario, occorre un Presidente della Repubblica che sia nel pieno delle energie fisiche e mentali. E che si comporti da servitore delle Istituzioni democratiche, non da servitore degli interessi di un partito.
Gli stessi ambienti che avevano esercitato una forte pressione affinché Giorgio Napolitano accettasse il secondo mandato, lasciando intendere che altrimenti ci sarebbe stato il caos, ancora oggi sembrano non sapersi rassegnare all'evidenza del dato anagrafico. C'è chi sostiene che il Presidente, forzando la sua stessa volontà, dovrebbe consentire in tempi rapidi uno scioglimento delle Camere, per andare prima possibile al voto. In questa tesi leggo un unico intento: dare tutto il potere all'attuale Presidente del Consiglio dei Ministri. Nella previsione che Renzi possa vincere facilmente le elezioni politiche e poi far eleggere un Presidente della Repubblica di sua stretta fiducia, che lo lasci lavorare. Secondo questo disegno, si tratterebbe di passare da un assetto in cui il Presidente della Repubblica è stato al centro del sistema politico italiano ed ha avuto fin troppo potere decisionale, ad un diverso assetto in cui il Presidente potrebbe avere le caratteristiche di un cameriere, o di una cameriera.
Il disegno è puro avventurismo; perché una nuova legge elettorale non c'è ancora e, se si votasse con una legge elettorale prevalentemente proporzionale, qual è quella che residua dalla sentenza della Corte Costituzionale, l'esito delle elezioni potrebbe essere molto diverso da quanto immaginato.
Con tutto lo scetticismo che si può nutrire nei confronti della lungimiranza degli attuali protagonisti della vita politica italiana, i dirigenti dei vari partiti rappresentati in Parlamento sono in grado di comprendere quale sia il proprio interesse immediato. Di conseguenza, penso che nessuno sarebbe disposto ad approvare in tempi rapidi una legge elettorale costruita su misura per far vincere, anzi stravincere, Renzi.
Da questo stallo non si uscirà in tempi brevi. Nel frattempo, liberiamo il Presidente Napolitano.
Palermo, 10 novembre 2014
Livio Ghersi
domenica 9 novembre 2014
PERCHE’ LA SINISTRA: RAPPRESENTATIVITA’ POLITICA E CONSENSO ELETTORALE: UN SISTEMA COSI’ FRAGILE COME QUELLO ITALIANO POTRA’ REGGERE UNA FORZATURA COME L’ITALIKUM? di FRANCO ASTENGO
venerdì 7 novembre 2014
giovedì 6 novembre 2014
Felice Besostri: Spigolando
SPIGOLANDO
OBAMA non capisce nulla
Nello staff dei consiglieri presidenziali negli USA non c’è nessun esperto di sistemi elettorali italiani, altrimenti ad OBAMA sarebbe stata risparmiata la cocente sconfitta subita nelle elezioni di Mezzo Termine.
Bastava dare agli elettori delle schede dove accanto ai nomi dei deputati o senatori ci fosse anche quello di Obama. Se Obama prendeva anche un voto in più di un rivale repubblicano il 54% dei posti in palio sarebbe andato ai candidato democratici indipendentemente dal risultato ottenuto nel singolo collegio. Obama non ha seguito l’esempio italiano, perché non sapeva o temeva di essere processato per attentato alla Costituzione? Con il sistema statunitense alla SERA DELLE ELEZIONI SI SA CHI LE HA PERSE.
MISTERI RENZIANI
Ad ogni piè sospinto Renzi ci ricorda che alle europee 2014 ha ottenuto quasi il 41%, cioè il miglior risultato percentuale della storia di PD, DS, PDS e PCI. Il PD è stato di gran lunga il partito al Governo più votato nelle UE. La celebrata e potentissima Frau Merkel se si fosse candidata contro Renzi per la leadership della UE in un’elezione diretta sarebbe stata stracciata. La sua CDU infatti con 8.812.653 voti ha superato di poco il 30%, ma anche con i 1.567.448 voti della CSU arriva ad uno stentato 35,3% e a un totale di 10.380.101 voti. Il PD renziano, invece, di voti ne ha avuti 11.172.861, cioè 792.760 in più.
Dunque il miglior risultato percentuale della storia è stato ottenuto in una elezione senza premio di maggioranza e con le preferenze e una soglia di accesso del 4%. Orbene con una soglia del 5% si sarebbe preso 5 dei 6 seggi di NCD+ Altra Europa, quindi 36 seggi su 73, praticamente la maggioranza ASSOLUTA ( Un RAZZI O SCILIPOTI SI SAREBBE SICURAMENTE TROVATO A GRATIS). Non solo questo risultato è stato ottenuto con un simbolo del PD che in basso aveva un striscia rossa con la scritta PSE e l’adesione non era stata ancora perfezionata. Ebbene, cosa fa Renzi? Toglie la scritta PSE dal simbolo e cerca di far passare a rischio di forti controversie interne e opposizione parlamentare una legge elettorale con premio di maggioranza e liste bloccate e con una soglia del 8%. Proponesse una legge alla tedesca avrebbe una maggioranza in Parlamento senza voto di fiducia. Aspetto che un renziano mi sveli il mistero, perché la spiegazione, che il 41% sia irripetibile con una più elevata partecipazione di votanti, sarebbe treoppo semplice
Felice C. Besostri
mercoledì 5 novembre 2014
martedì 4 novembre 2014
domenica 2 novembre 2014
sabato 1 novembre 2014
Luciano Belli Paci: Gentiloni e il Pse
Non mi pare che il nuovo ministro degli esteri si sia molto occupato di politica internazionale durante la sua lunga carriera.
Una delle poche volte che se ne è impicciato lo ha fatto così:
http://www.europaquotidiano.it/2014/02/28/il-mio-no-e-uno-schema-che-ci-riporta-al-passato/
Pier Paolo Pecchiari: La posizione della CGIL non ha nulla di estremista o di radicale.
La posizione della CGIL non ha nulla di estremista o di radicale.
E questo governo non ha nulla di riformista.
Sulla piattaforma politica che ha messo benzina nel motore della manifestazione di Sabato 25 Ottobre basta documentarsi. Il punto del contendere non è tanto l’articolo 18, quanto l’evanescenza della proposta di politica economica del governo Renzi . La discussione sarebbe lunga, ma in sostanza si affrontano due posizioni. Da un lato, chi pensa di uscire dalla crisi con l’iniezione di modeste dosi di liquidità a famiglie e imprese, e soprattutto con interventi sul mercato del lavoro; dall’altro chi chiede investimenti per l’ammodernamento della macchina dello Stato e delle nostre reti infrastrutturali, e politiche industriali degne di questo nome. Cito i primi passaggi del documento approvato dal direttivo nazionale della CGIL il 27 settembre scorso: “Il Paese ha bisogno di lavoro: solo attraverso investimenti pubblici e privati che lo creino si può praticare quella svolta essenziale per una politica economica espansiva. È inutile e sbagliato cercare di nascondere la situazione dell’Italia – ancora in recessione ed in presenza della deflazione – come si vuole fare affermando che l’unica priorità è cambiare, per l’ennesima volta, le regole del mercato del lavoro. Alla vigilia della legge di stabilità significa avere scelto di dare continuità alle politiche di austerità, causa – non conseguenza – della stagnazione recessiva del Paese”.
Tutto si può dire, tranne che questa sia la posizione di una sinistra radicale, conservatrice e ottusa. Anzi, direi che queste sono le posizioni di politica economica del PSE e dalla maggior parte, se non della totalità, dei partiti nazionali ad esso aderenti.
C’è poi un’altra questione, che è questione di metodo, in cui metterei insieme “annuncite” (vale a dire l’idea che una concreta e fattiva azione di governo possa essere sostituita da presentazioni in stile convention aziendale), e la riesumazione di un “decisionismo” oggi del tutto inattuale.
Non si tratta di questione secondaria, perché sono i metodi usati da Renzi ad aver indotto alcuni osservatori, peraltro lontanissimi dall’area della “sinistra conservatrice che sa solo opporsi al cambiamento”, come Piero Ostellino, a parlare di “deriva autocratica mascherata da riformismo”, o ad evidenziare la “necessità di un soprassalto dello spirito repubblicano”, come fa Giampaolo Pansa; oppure, come Ferruccio De Bortoli, a spiegare che “Il marketing della politica se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso”. Sull’annuncite si è espresso recentemente in termini molto duri anche l’Economist.
E non si tratta solo di una questione di “stile” del personaggio Renzi. E’ infatti l’annuncite a far ipotizzare a De Bortoli che l’azione di governo di Renzi, insufficiente e concentrata più sull’apparenza che sulla sostanza, - laddove la sostanza è una sola: come far ripartire la crescita in questo paese - aumenti il rischio che il Paese cada nelle mani della trojka.
E’ sicuramente annuncite, ad esempio, immaginare di poter adottare un sistema di flex-security finanziandolo con 1,5 miliardi di Euro l’anno, quando tutte le stime del costo di politiche attive e ammortizzatori universali si collocano, per un Paese come l’Italia, tra i 15 e i 20 miliardi l’anno.
Quanto alla riesumazione del “decisionismo” d’antan: Renzi sta dimostrando un disprezzo inusitato per i corpi intermedi, rivendicando un primato della politica che interpreta in modo totalmente distorto. E lo stesso disprezzo è stato mostrato verso il Parlamento: in pochi mesi Renzi è diventato il recordman della storia repubblicana per l’uso (abuso?) della decretazione d’urgenza e del voto di fiducia.
Ora, capisco che in tempi turbolenti e difficili ci possa essere la tentazione di recuperare efficienza e velocità del processo decisionale accentrando tutti i poteri nelle mani dell’esecutivo, depotenziando il Parlamento e ignorando i corpi intermedi, nella convinzione che “l’intendence suivra”.
Ma questi non sono gli anni ’80, riesumare il “decisionismo” di quegli anni rischia di essere un errore colossale.
Quelli furono gli ultimi anni in cui le democrazie occidentali detenevano il primato economico, e il G8 era davvero l’insieme dei Paese più ricchi e delle economie più dinamiche del pianeta . Non a caso, la società che abbiamo conosciuto in quegli anni in Occidente era definita “dei due terzi”, perché si riteneva che grosso modo i due terzi della popolazione stessero sfruttando ascensori sociali per migliorare la loro condizione. Il che significa che le tensioni sociali erano contenibili, e che vi era ancora una qualche disponibilità di risorse per finanziare politiche redistributive.
Oggi le cose stanno molto diversamente. Il 90% circa della popolazione è in condizioni di disagio o insicurezza, e sta comunque arretrando sulla scala sociale. Le risorse disponibili per politiche redistributive in Occidente sono scarse, perché non sappiamo più come favorire o far riprendere l’espansione delle forze produttive. Inoltre la società si è fatta totalmente “liquida”, per usare la definizione di Baumann, quindi più difficile da leggere.
Se i tempi sono più turbolenti, la complessità delle dinamiche sociali molto maggiore, e le risorse scarse, allora per risolvere i problemi bisognerebbe poter contare su un’intelligenza collettiva e diffusa nell’intera società, per leggere i processi di trasformazione sociale in atto e per poter reperire e allocare risorse scarse mantenendo il consenso ed evitando così la disgregazione del tessuto sociale.
Purtroppo non c’è mediazione tra chi crede che la politica debba favorire l’accentramento dei poteri, liberando gli esecutivi da lacci e lacciuoli, e chi invece ritiene – e io sono fra questi – che la politica debba favorire il sorgere e l’operare di questa intelligenza collettiva, rafforzando il ruolo del Parlamento rispetto all’esecutivo e introducendo strumenti di democrazia diretta, partecipata e di “contro-democrazia” (secondo la definizione di Rosanvallon). Esattamente l’orientamento che il dibattito sta prendendo in Francia, laddove si giudica che il sistema semipresidenziale basato su una legge elettorale maggioritaria non sia più adatto ai tempi.
Ora.
I Socialisti dovrebbero sostenere la necessità di politiche economiche espansive, non di politiche basate sulla “svalutazione interna” (il recupero di produttività tramite la compressione del costo del lavoro. Il risultato che si otterrà rendendo più flessibile il mercato del lavoro, vale a dire aumentando la precarizzazione del lavoro, senza finanziare adeguatamente il sistema di ammortizzatori sociali universali).
I Socialisti dovrebbero sostenere processi di democratizzazione della società, non processi involutivi che portano alla concentrazione dei poteri nelle mani degli esecutivi.
E queste posizioni – che ci portano, se non in rotta di collisione, quanto meno in dissenso con il Governo Renzi - non sono né insostenibili, né in contrasto con la nostra storia.
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