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domenica 11 maggio 2014
Franco Astengo: Ritornare allo studio del pensiero politico
RITORNARE ALLO STUDIO DEL PENSIERO POLITICO di FRANCO ASTENGO dal blog: http://sinistrainparlamento.blogspot.it
La proposta contenuta in questo documento è rivolta a quanti si trovano costretti a rilevare una pressoché totale impreparazione nell’esercizio dell’azione politica a tutti i livelli, fuori e dentro le istituzioni, da parte degli epigoni – giovani e meno giovani – di un presunto “rinnovamento” fondato semplicisticamente sulle categorie dei sondaggi e di un pragmatismo di bassa lega esercitato essenzialmente attraverso “annunci” elargiti al pubblico attraverso i social network (prediletto quello che non consente di scrivere più di 140 caratteri, così si riesce a non spiegare nulla a nessuno) e la televisione.
Un “agire politico” esercitato attraverso la costruzione di “cerchi magici” composti da corifei/e di accumulatori di adulazione e facile consenso che hanno finito con il sostituire la complessa macchina delle organizzazioni costruite nella storia, da quelle partitiche a quelle sindacali agli altri “corpi intermedi” associativi di varie espressioni della società.
Tutto un patrimonio da cancellare perché limitante il potere del “gonfiare il petto” di diversi aspiranti dittatori.
In Italia questo fenomeno è comparso sulla scena ormai da più di vent’anni perpetuando tutto il negativo (vedi corruzione) che si era accumulato fin dalla fondazione della Repubblica, eliminando il positivo (soprattutto sul terreno della partecipazione e dell’aggregazione politica e sociale) esaltando piccoli e grandi conflitti d’interesse a tutti i livelli, trasformando le occasioni di confronto anche elettorale in referendum “pro” o “contro” questo e quello, in un vero delirio di personalizzazione.
La sinistra italiana, quella “storica” che aveva contribuito in maniera determinante alla Liberazione e nell’Assemblea Costituente è stata colpita al cuore da questi fenomeni, così come anche la Nuova Sinistra sorta in esito alla ventata del’68, e il fenomeno più inquietante è che “Sinistra Storica” e “Nuova Sinistra” rappresentate per decenni da gruppi dirigenti di altissimo livello e intellettuali di primo piano; radicate profondamente sul territorio attraverso ramificate strutture organizzate hanno prima ceduto sul piano culturale (pensiamo proprio alla personalizzazione come già accennato poc’anzi e alle logiche del maggioritario e della governabilità ad ogni costo) e poi su quello concreto della presenza sociale e politica, lasciando dietro di sé il vuoto e aprendo la strada ad avventurieri della politica, se non a faccendieri della tangente, come stiamo ancora una volta osservando nella più stretta attualità.
IL fenomeno, naturalmente, riveste dimensioni internazionali che non possono essere sottovalutate ma ha assunto nello specifico del “caso Italiano” (quello delle anomalie positive del ’68 più lungo perché intrecciato tra studenti e operai, e della presenza del più grande partito comunista d’Occidente pilastro della democrazia repubblicana) una valenza del tutto particolare, al punto da farci pensare dell’esistenza di rischi seri di involuzione autoritaria.
Una situazione determinata, a nostro avviso, dalla rescissione del rapporto tra politica e cultura che ha determinato questo gigantesco sbandamento al punto che neppure una crescita esponenziale dei livelli di diseguaglianza politica e sociale appare foriera dell’apertura di una fase di conflitto tale da prevedere un mutamento di fondo del pericoloso stato di cose in atto.
Più prevedibile l’esplosione di una sorta di “jacquerie” facilmente domabili a livello di ordine pubblico (dal G8 ai No TAV la storia più recente ci sta insegnando moltissimo) e, di conseguenza, propedeutica appunto a quella svolta autoritaria cui già si accennava.
Il recupero di un’identità, prima di tutto, e poi della capacità di espressione politica e anche organizzativa di una sinistra italiana, di opposizione e di alternativa, non passa però semplicemente dall’avvio di un tentativo di ricostituzione di una soggettività politica fondata prima di tutto sull’aggregazione dei soggetti agenti all’interno delle grandi contraddizioni della modernità ma anche, e soprattutto, da un recupero nel rapporto tra cultura e politica, dalla ricostituzione di un nucleo intellettuale all’altezza ramificato in vari settori della vita non soltanto del Paese ma a dimensione internazionale.
Un nucleo intellettuale che recuperi l’idea di una politica considerata anche come oggetto di studio e sede di riflessione sulle grandi prospettive epocali, sulla storia, sull’approfondimento del pensiero politico.
Per questo motivo seguiranno considerazioni di merito rivolte proprio all’aspetto dello studio del pensiero politico, invitando coloro che non intendono abdicare dall’impegno nascondendosi (come sempre più spesso purtroppo accade) dalla loro identità a riflettere attorno a questo elemento.
Dalla “filosofia della prassi” gramsciana va ripresa in pieno l’idea di fondo del ruolo dell’intellettuale:
“Elemento vitale del partito politico è l'unità di teoria e pratica. Questo, però, non è un problema filosofico ma, una "quistione" che deve "essere impostata storicamente, e cioè come un aspetto della quistione politica degli intellettuali".
Gramsci si pone quindi il problema di elaborare una teoria generale della funzione e del ruolo degli intellettuali (a essa sono dedicate le note raggruppate nel Quaderno 10), il cui concetto principale è quello di "intellettuale organico". Esso sta a indicare che gli intellettuali, contrariamente a come generalmente si autorappresentano, non costituiscono "un gruppo sociale autonomo e indipendente", ma "ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o più ceti di intellettuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico" (ibid., p. 1513). Le funzioni degli intellettuali sono eminentemente "organizzative e connettive", e dipendono dal ruolo che essi hanno in rapporto al mondo della produzione, all'organizzazione della società e dello Stato.
LA PROPOSTA DI UN LAVORO DI RICERCA SULLA STORIA DEL PENSIERO POLITICO DA SVILUPPARE IN CONNESSIONE CON LA PROPOSTA DI COSTRUZIONE DI UNA NUOVA SOGGETTIVITA’ POLITICA DELLA SINISTRA D’OPPOSIZIONE E D’ALTERNATIVA
L’idea è quella di lavorare, con tutti gli strumenti disponibili, intorno al rapporto tra cultura e politica, un rapporto che accusa ormai da molti anni un deficit particolarmente vistoso, ridotto all’assemblaggio di un insieme di tecnicismi, in diversi campi da quello accademico, per arrivare a quello istituzionale, laddove la politica appare ormai confusa con l’economicismo e il giurisdizionalismo astratto.
Si tratta di partire per una ricognizione di fondo, prescindendo dal proposito di sviluppare una “ricerca di parte”, con l’ambizione - prima di tutto – di intrecciare gli insegnamenti che ci vengono dalla storia della “filosofia politica” con quelli derivanti dalla storia della “scienza politica”, per ottenere il risultato di provocare una riflessione complessiva tale da superare le settorializzazioni, gli schematismi oggi imperanti che, alla fine, hanno danneggiato non soltanto la qualità degli studi e delle ricerche, ma soprattutto la qualità dell’“agire politico”.
La “scienza politica”, come già aveva ben descritto Giorgio Sola, è entrata nel XXI secolo con un patrimonio di ipotesi conoscitive, teorie, modelli e risultati di ricerca, che le conferisce un posto di primissimo piano nel panorama delle scienze dell’uomo.
Un sia pur rapido confronto con la sociologia e l’economia permette di affermare che, sotto il profilo quantitativo, la disciplina presenta un livello di sviluppo e consolidamento di gran lunga superiore a quello raggiunto da queste scienze.
Tuttavia, in questo quadro che testimonia una situazione di assestamento, sviluppo e diffusione che solo pochi decenni or sono gli stessi politologi non sarebbero neppure stati in grado di immaginare, si individuano zone d’ombra che possono attenuare il carattere trionfalistico di questa descrizione.
Chi si appresta a tracciare una rassegna delle elaborazioni teoriche e delle ricerche empiriche che caratterizzano quel campo del sapere che viene accreditato sotto la formula “scienza della politica” si trova, cos’, a dover affrontare due problemi strettamente connessi.
Il primo riguarda il contenuto, ossia i temi, i metodi, i risultati e gli scopi della disciplina.
Il secondo è relativo alla scelta del momento storico, e conseguentemente degli autori e delle opere, da cui far partire l’esposizione.
Si tratta di individuare un’accezione “estesa” del concetto di scienza politica, connessa ad altre discipline quali la filosofia politica, la sociologia politica, il diritto costituzionale, che con essa si trovano a condividere gli stessi temi di ricerca, attraverso il ripercorrere criticamente il pensiero politico che ha contraddistinto, nei secoli, la cultura occidentale.
La prima caratteristica da ricercare sviluppando questo tipo di lavoro sarà quella di collocarci tra l’informazione di carattere generale e la narrazione di lungo periodo e fra la precisione riguardante la necessità di esporre “dati eruditi” e il loro inquadramento storico – concettuale e, in generale, tra storia e filosofia.
Il primo obiettivo dovrà essere quello di ricostruire una sorta di percorso nella storia del pensiero politico, cercando di riassumerne le fasi più importanti, individuare i passaggi al fine di orientare l’idea di una dialettica possibile attorno a questi temi, in modo da renderli fruibili, alla fine, nelle sedi correnti dell’agire politico.
L’esigenza di ricercare questo equilibrio tra “storia del pensiero politico” e realtà “dell’agire politico”, che poi dovrebbe trovare sbocco nell’elaborazione complessiva della “scienza politica”, nasce dalla convinzione che il pensiero politico sia un “pensiero concreto”, coinvolto attivamente nel mondo, sia come critica dell’esistente, cioè come de-costruzione, sia come costruzione, cioè come progetto di edificare un ordine migliore, ovvero rispondente a criteri di legittimità diversi da quelli dell’ordine presente.
Il riferimento è rivolto a un pensiero politico in grado di esprimere interessi, finalità aspirazioni ben individuabili che, a partire da precisi punti di vista di soggettività determinate, è capace di interpretare le sfide reali della storia, e vi risponde in base a parametri e a esigenze di volta in volta mutevoli.
E questo intreccio di esperienze teoriche e pratiche, di critiche e di costruzioni, di riflessioni e di azioni, si articola tanto come “dottrine politiche” (cioè come apparati intellettuali complessi, riflessioni più o meno direttamente orientate alla prassi, che sono anche organismi storici in continua trasformazione) quanto come “concetti politici” (cioè come le strutture categoriali che organizzano le dottrine, che ne sono per così dire lo scheletro teorico).
Si tratta, allora, di proporre, prima di tutto, una schematica storia evolutiva delle dottrine politiche, da quelle antiche fino all’utopia del razionalismo moderno fino alla tradizione dialettica delle grandi ideologie, alle tematiche della globalizzazione, e al tempo stesso segnalare le loro strutture costitutive concettuali.
In tal modo potrebbe diventare possibile, com’è necessario, leggere in controluce, accanto alla storia delle dottrine politiche, anche un’elementare storia dei concetti politici.
Serve legarsi a un filo conduttore, coscienti del fatto che ciò non significa che il pensiero politico si sia rivolto sempre ai medesimi problemi attraverso le medesime categorie.
Al contrario è necessario prestare grande attenzione e insistenza nel mettere in luce che, se è vero che i concetti politici sono la struttura-ponte di lungo periodo, l’asse portante della storia politica dell’Occidente (perché è dell’Occidente che si è chiamati a occuparci, sia pure giocoforza) è anche vero che solo le trasformazioni epocali, il mutare degli orizzonti di senso, il modificarsi catastrofico degli scenari sociali e politici, oltre che intellettuali, hanno consentito ai concetti politici di assumere di volta, in volta, il loro significato concreto.
Insomma, è necessario mettere in rilievo che la concretezza del pensiero politico consiste proprio nel fatto che esso aderisce alle drammatiche discontinuità dell’esperienza storica, e anzi le riconosce, le interpreta, le mette in forma.
Il succedersi delle epoche del pensiero politico, la loro reciproca discontinuità e il costituirsi relativamente unitario di ciascuna di esse attraverso a un nucleo definito di problemi, azioni, soluzioni, dovrà rappresentare un oggetto importante di questo studio e di questa proposta di riflessione.
Ed è importante anche sottolineare la coesistenza della storia del pensiero con la geografia del pensiero, rivolgendosi quindi all’illustrazione tanto dell’evolversi delle tradizioni intellettuali che innervano la riflessione politica quanto le specificità, rilevanti e riconoscibili, con cui ciascuna delle grandi aree geografiche dell’Occidente le ha sviluppate e interpretate.
Occorre mostrare, come, di volta, in volta nel corso della storia sia strutturato quello spazio in cui si sono attuale le relazioni tra i sistemi politici; il rapporto tra la politica e la guerra (o la pace), fra l’ordine interno e l’ordine (o disordine) esterno.
Si deve avere fiducia, ed è questa l’unica nota di ottimismo permessa, nell’importanza e nell’efficacia formativa della storia del pensiero politico, nel suo senso più vasto, fornendo strumenti per interpretare lo spessore storico e concettuale, per decifrare i momenti di crescita e di crisi, di dramma e di trionfo, di chiusura localistica e di apertura universale della nostra civiltà intellettuale e politica.
Accingersi ad affrontare la complessità del tema fin qui delineato, con tutti i limiti soggettivi e oggettivi del caso, appare un compito rispetto al quale, dal mio modestissimo punto di vista, ben pochi altri possono essere giudicati più importanti e affascinanti
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2 commenti:
Rispondo a distanza alla sollecitazione avvenuta qualche giorno fa circa l’imperativo categorico secondo cui occorre ridarsi allo studio del pensiero politico, considerato strumento necessario non solo alla crescita soggettiva ma, e soprattutto, a quella collettiva.
Quando si fa cenno agli elementi teorici il rischio è sempre quello di voler apparire come chi desidera collocarsi in una sorta di “torre d’avorio”, dalla quale far giungere insegnamenti e verità per interpretare il mondo.
Tralasciando quindi il puro gusto all’esegesi, che pure è necessaria, resta intatto il bisogno di dotarsi di strumenti significativi che portino almeno alla capacità di analisi dell’esistente.
Mi permetto una ipotesi di ragionamento per la quale sento forte la necessità di analisi e risposte.
Lo stato in cui si trova la politica italiana, e chi la agisce, è davvero colmo di spunti.
Tutto nasce, come una sorta di big bang, dal substrato culturale e politico in cui nacque l’idea secondo cui un sistema elettorale maggioritario avrebbe salvato l’Italia.
Banale, qualcuno potrebbe dire, ed in aggiunta: come è possibile che una legge elettorale sia in grado di trasformare così profondamente lo stato della politica italiana?
Eppure così è stato. Non la legge in se’ ovviamente, ma ciò che rappresentava in una determinata fase della storia italiana. E chi come me ha pensato che forse in venti/venticinque anni sarebbero tornate le condizioni per riparlare di rappresentatività in luogo di governabilità, deve assumersi la responsabilità d’aver sbagliato completamente non solo l’analisi, ma anche il pronostico.
Dopo vent’anni infatti siamo restati senza partiti (quelli conosciuti nel nostro pieno ’900 europeo), e con la loro scomparsa è tramontata l’idea che il collettivo politico potesse crescere sulla base di identità di classe, di interpretazione dei conflitti, di risposte strutturali compiute.
Abbiamo visto nascere la personalizzazione della politica (prima dal famigerato Silvio Berlusconi, con il suo iniziale partito-azienda, e poi via via da tutte le altre formazioni politiche, a prescindere dalla propria consistenza elettorale). L’opinione pubblica ha cambiato ruolo, l’agenda politica è stata surrettiziamente fatta intendere come “voler di popolo”, il popolo è diventato uno spettatore, l’annuncio politico esaurisce l’azione politica.
L’elisione sempre più marcata di valori di riferimento, a destra come a sinistra, ha fatto dapprima rincorrere le maggiori formazioni politiche verso un “centro” idealmente più forte elettoralmente (mentre paradossalmente il “centro” si svuotava), per poi esplicitarsi in una nuova (?) auto-definizione, urlata o espressa fattivamente:
né di destra né di sinistra (con buona pace di chi nel passato tale si definiva e ritiene ancora di poter usare tale etichetta).
É probabile che -almeno stante le condizioni attuali- ben presto troveremo a muoversi sul terreno politico e a scontrarsi, non solo elettoralmente, forme esclusivamente populistiche.
Da una parte l’approdo recente del PD, epifenomenicamente rappresentato da Renzi che ha saputo cogliere, sul piano soggettivo, il frutto ormai maturo di una trasformazione strisciante e generale ormai in atto da anni, dall’altra il M5S, a cui si possono aggiungere altri, affascinati da questo nuovo (?) pensiero.
Ora, le domande che mi pongo sono tremendamente semplici, per le quali non riesco -per colpa dei pochi strumenti culturali che possiedo- a trovare adeguata risposta.
1 – se è vera l’ipotesi (scontro tra populismi), siamo in un sistema dato che escluderà per una certa fase l’interpretazione della società secondo i canoni classici delle fratture (dato che di fatto ciascuna formazione -per una sua dichiarata mobilità e fluttuazione – può di volta in volta illudere d’interpretarne gli effetti e gli esiti)?
2 – se questi anni hanno visto la scomparsa di soggetti politici alternativi che pure avrebbero avuto un ruolo nel sistema ancora ibrido e in transizione, quale deve essere il terreno di coltura (e di cultura) di chi ritiene ancora valide e decrittanti quelle stesse fratture per la creazione ex-novo di organizzazioni politico/partitiche ?
Come già scritto non ho risposte, ammesso e non concesso che appunto l’ipotesi sia vera, salvo l’idea che qualora nell’infausto caso lo scenario prospettato si realizzi compiutamente non potremo neppure auspicare eventi traumatici che riportino a zero il sistema, poiché il rischio è quello della palude.
Patrizia Turchi
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