sabato 4 febbraio 2012

Franco Astengo: Una proposta politica

UNA PROPOSTA POLITICA
Coscienti di rischiare un forte richiamo alla ripetitività e alla noia, ma non per questo senza esprimere quella tenacia che è necessaria per riproporre le proprie idee in un frangente così complicato e difficile quale quello che stiamo vivendo, mi è parso il caso di ricordare come l’analisi dei fatti di questi giorni dimostri, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, la complessiva inadeguatezza delle forme politiche espressa dalla sinistra italiana.
Su questo punto occorre la massima sincerità: questa inadeguatezza permane ormai da vent’anni, dal momento in cui liquidato il PCI, l’area che si era opposta a quell’operazione si divise senza riuscire a realizzare un punto di coagulo tale da riproporre una soggettività politica effettivamente in grado di evidenziarsi quale punto di riferimento alternativo all’interno del colossale processo di riallineamento sistemico avvenuto all’interno del quadro politico italiano, anche e soprattutto sotto l’aspetto della natura dei partiti politici, ridotti, a somiglianza di quello dominante, o partiti elettorali-personali oppure pallide imitazioni del “partito pigliatutti”, già analizzato a suo tempo da Katz e Mair.
Lo si era paventato: al governo territorial – populista è subentrato il governo della destra tecnocratica, che non si capisce bene perché piaccia tanto ai potenziali “centristi” presenti in FLI,UDC,PD incapaci di essersi resi conto del superamento avvenuto nei loro confronti da parte del Presidente della Repubblica e dei poteri “forti” che reggono questo dicastero anche in chiave elettorale: un superamento, uno scavalcamento che potrebbe presupporre un’altra fase di passaggio nell’infinita transizione del sistema italiano, comprensiva della piena affermazione in chiave presidenzialista della cosiddetta “Costituzione materiale”
La deterministica pervicacia con la quale, attraverso la manovra ci si accanisce verso determinati settori sociali e viene posta in discussione ciò che resta in difesa dei diritti dei lavoratori, proponendo anche una politica economica del tutto interna alla logica che è stata definita della lettera della BCE, rappresenta il riferimento di fondo sulla base del quale è possibile affermare la necessità di un’opposizione da sinistra al tentativo, insito dentro ai meccanismi di affrontamento della crisi, di ristabilire precise condizioni di “classe” all’interno dell’agire sociale.
Sul piano più propriamente politico il mutamento avvenuto con l’operazione “governo dei tecnici” pone problemi, a mio giudizio, esiziali a coloro i quali puntavano su di un centro-sinistra formato “Ulivo”: al riguardo della cosiddetta “foto di Vasto” infatti il punto non è quello di strapparla o meno, ma semplicemente il fatto che appare già irrimediabilmente ingiallita.
Un dato che pone oggettivamente due questioni: l’unità del PD e la riconsiderazione complessiva della linea politica di SeL, ormai del tutto smentita dai fatti.
Appare allora necessario ed urgente porre ancora una volta il tema di una nuova soggettività politica unitaria di una sinistra che oggi si colloca all’opposizione, e su questa base rientra in Parlamento, costruisce una propria autonomia organizzativa, politica, programmatica e nel medio periodo lancia una proposta di alternativa che coinvolga anche forze moderate all’interno di un sistema che non potrà più essere bipolare.
Riprendo allora, cercando di aggiornarli, alcuni dei punti sui quali mi è capitato più frequentemente di esercitarmi nel corso degli ultimi mesi.
Tanto per cominciare occorre chiarezza su di un punto fondamentale: entrambi i tentativi in atto di ricostruire, dopo il clamoroso disastro dell’Arcobaleno, nuove e diverse soggettività politiche nella sinistra italiana non appaiono adeguate allo scopo di poter disporre di un soggetto politico effettivamente all’altezza delle sfide del futuro: da un lato, infatti, si persegue la via (ormai in declino nella percezione comune, com’è già stato osservato) di un leaderismo presidenzialista eccessivamente accentuato e posto su di un terreno dell’agire politico, quello delle primarie, del tutto angusto proprio dal punto di vista di una prospettiva di lungo periodo (una strategia, insomma, pensata per un uomo solo che pare avere esigenza di bruciare tutte le proprie carte nel brevissimo periodo); dall’altro lato si prospetta l’ipotesi di una riunificazione di tipo partitico (assente un’analisi, tra l’altro, sulla trasformazione subita dai partiti nel corso egli ultimi decenni) su basi strettamente identitarie, sicuramente nobili per ascendenti, ma eccessivamente ristrette al fine di costituire una soggettività in grado di articolare progettualità e relazioni all’altezza di questa società “complessa” (non “liquida” ma sicuramente complessa).
Si notano poi tentativi “altri” in particolare in aree di derivazione socialista di sicuro interesse dal punto di vista dei contenuti (penso al gruppo di Volpedo) che abbisognano, a mio giudizio, di entrare rapidamente in contatto con una pluralità di soggetti presenti sul territorio e che potrebbero rappresentare gli interlocutori idonei al tipo di disegno che si va delineando.
Egualmente appare insufficiente, se pur espressa in termini di apprezzabile generosità politica, la piattaforma uscita dal recente convegno svoltosi a Napoli sul tema dei “beni comuni” e presentata oggi sulle colonne del “Manifesto”: alcuni temi sono sicuramente condivisibili, ma manca – a mio modestissimo giudizio – prima di tutto l’analisi delle forze sociali in campo, il riferimento alle “fratture” sia “materialiste”, sia “post-materialiste” da intrecciare in una nuova progettualità alternativa ed appare del tutto al di sotto del richiesto l’idea di una semplice “rete” di collegamento che lascerebbe inalterato il distacco esistente anche a sinistra tra base sociale e ceto politico, esaltando ancora la voglia di “presidenzialismo” che anima molti imprenditori politici anche a sinistra, che forse non hanno ancora compreso che il tempo della “personalizzazione” appare in declino.
Va affrontato, invece, con grande coraggio il tema del partito politico.
Un tema apparentemente impopolare specialmente dopo la vicenda riguardante la Margherita ed il suo tesoriere (vicenda del tutto mortale rispetto alla credibilità dei soggetti politici e delle istituzioni: occasione ghiottissima per il qualunquismo più deteriore).
Servirebbe, insomma, aprire una riflessione sulla necessità di poter disporre di una soggettività politica nuova, frutto dell’incontro tra diverse culture, tradizioni, collocazioni sociali, costruita con l’idea di durare nel tempo, magari capace di fornire già un contributo al superamento di questa fase così drammaticamente negativa senza porsi però, da subito, il tema del “governo” inteso quale ingresso in coalizioni improbabili e del tutto destinate ad esercitare una logica di tipo meramente politicista.
Per avviare questo itinerario in una forma produttiva andrebbe aperto un dibattito particolarmente spregiudicato, soffermandoci maggiormente sugli elementi di carattere “strutturale” che ci consegna la migliore tradizione della sinistra italiana.
Il tema della cessione di sovranità dello “stato-nazione”, quello della globalizzazione (uso definizioni di carattere giornalistico, sicuramente imprecise, ma è per farmi capire nella sintesi, delle contraddizioni post-materialiste, trovano infatti necessità di corresponsione e risoluzione (almeno dal punto di vista programmatico) sul terreno “classico” della costruzione di un indirizzo collettivo in campo economico e sociale, di una trasformazione radicale posta sul tema dell’intervento pubblico in economia (con particolare attenzione al tema di una ripresa effettiva di una politica industriale), della programmazione, del welfare state, del ruolo internazionale del Paese, in modo da aggredire la crisi pesantissima provocata dal liberismo e dalla sua traduzione in individualismo consumistico.
Particolare attenzione dovrà anche essere riservata ai temi della struttura politico-istituzionale del nostro Paese, quale l’evidente crisi del bipolarismo (che riguarda il necessario processo di mutamento del sistema elettorale); l’assunzione di centralità del tema dell’unità nazionale; il riemergere di una contraddizione Nord/Sud versione aggiornata del conflitto centro/periferia.
Non si tratta in questo, ovviamente, di limitarci al “caso italiano”, ma di avere la forza e la capacità di guardare avanti, ad un quadro internazionale molto complesso, puntando all’Europa politica come obiettivo di rilancio del “modello renano” che appare ancora un punto di riferimento, nella necessaria logica di superamento di questo terribile meccanismo in atto di finanziarizzazione dell’economia.
In quest’ambito il social-liberismo (secondo la definizione di Joseph Halevi) che pare ormai patrimonio di quella parte della maggioranza del PD che vorrebbe stringere l’alleanza con il cosiddetto “centro” (una strategia politica anch’essa ormai comunque “bruciata” dai fatti) risulterà del tutto inefficace: un punto di riflessione, anche questo, che porta alla conclusione della necessità della presenza di una sinistra capace di produrre cultura politica, iniziativa sociale, presenza istituzionale senza essere strangolata al cappio della “governabilità”.
Siamo del resto di fronte, in Italia ad una crisi della democrazia tale da minacciare sbocchi imprevedibili e particolarmente pericolosi.
Proviamo a tracciare i tratti fondativi di questa sinistra, cui ho cercato di accennare: in precedenza: serve il meglio della tradizione socialista e comunista (senza trascurare altri filoni culturali, da quello ambientalista a quello azionista), per quelle che sono state le vicende politiche italiane degli ultimi sessant’anni ed è necessario non essere legati ad uno schema falsamente unitario”, anzi bisogna muoversi sul terreno di un’espressione di egemonia, su tutti i fronti, quello del “partito liquido” e quello del “partito identità”.
Occorre un nucleo fondativo, ed in passato ho osato rivolgermi alla dirigenza di SeL e della FdS: l’analisi dello stato di cose in atto mi fa pensare che questo livello sia ormai del tutto insufficiente.
Serve una forte mobilitazione dal basso, portata avanti in partite da quelle compagne e compagni, in particolare giovani, che in questi anni non hanno trovato spazi concreti per un impegno politico, allontanati da verticismi di varia natura.
Una forte mobilitazione dal basso che, a mio modesto avviso, dovrebbe sfociare in una ripresa del principio dell’autoconvocazione che, negli anni’80 aveva fornito comunque risultati apprezzabili sia in campo sindacale, sia in campo politico, con l’obiettivo di formare un vero e proprio “nucleo fondativo” che ponga ai partiti la questione dell’unità e del rinnovamento.
Un nucleo fondativo che verifichi la possibilità di intraprendere un cammino del genere, con un traguardo parziale davanti, delineato in modo molto preciso: la costruzione di un soggetto politico, un partito, fondato sul modello dell’integrazione di massa, posto non tanto sul piano della ricerca immediata della dimensione numerica, ma della struttura organizzativa.
Rischio il pre-politico ma oso pensare di aver scritto una sorta di “messaggio in bottiglia”. Se qualcuna/o delle compagne e dei compagni che, per caso, dovessero leggere queste note avesse intenzione di misurarsi con questa ipotesi faccio presente la mia, modestissima e del tutto insufficiente disponibilità ad una discussione collettiva.
Questa discussione potrebbe principiare dalla ricorrenza dei 120 anni dalla fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani (Genova 1892; poi trasformatosi l’anno successivo a Reggio Emilia in Partito Socialista) e riguardare un’ipotesi di inedito Partito del Lavoro, con il concetto di lavoro inteso come crogiuolo, punto di raccolta per le contraddizioni sociali e per le nobili tradizioni politiche della sinistra italiana, da quella socialista, a quella comunista, azionista, libertaria e della più recente sensibilità ambientalista. Un partito unitario dalle aspirazioni concrete verso la dimensione e la struttura di massa, escludendo quei populismi e quei personalismi estranei alla nostra storia.
Savona, li 6 febbraio 2012 Franco Astengo

4 commenti:

claudio ha detto...

Astengo fa delle analisi teorich profonde, ma trascura del tutto i movimenti di massa che si sono espressi al di fuori dei partiti, alcuni dei quali han raggiunto risultati di partecipazione imponenti come "se non ora quando" e il movimento per l'acqua pubblica, che ha vinto un referendum nonostante la palese ostilità e fastidio del sistema politico e mediatico. Questo tipo di partecipazione,come quella degli indignati, rifiuta di farsi ingabbiare da questo sistema politico, anche quando va a richiamarsi a analisi storiche e vicende gloriose, che non riescono più a nascondere il comportamento vergognoso degli ultimi 25 anni.

franco ha detto...

Il rapporto con i movimenti di massa è evidentemente fondamemtale, ma sarebbe sbagliato limitarsi ad offrire loro "reti" di comunicazione. In quel modo resterebbe tagliati fuori, come adesso, dal confronto con il complesso delle contraddizioni sociali, limitandosi alle proprie specifiche "single issues". L'idea del partito politico, aggiornato agli strumenti ealla realtà dell'oggi, va rilanciata e non abbandonata. Soprattutto vanno combattuti il "partito pigliatutti" (compresa l'idea insita dello scappare con la cassa) e il "partito elettorale personale", rilanciando anche l'idea di una "struttura" politica. Non credo che tutti debbano vergognarsi del loro comportamento nel corso degli ultimi 25 anni: anzi su questo vanno distinti i piani, con grande discernimento e capacità politica, riprendendo i termini complessivi di una discussione che non deve essere abbandonata. In questo senso il quadro offerto dal meccanismo che ha portato alla conferenza di Napoli sui beni comuni ed al suo esito è sicuramente interessante, ma del tutto insufficiente. Tutto questo, sinteticamente, in amichevole risposta a Bellavita, nella speranza che il dibattito continui e possa trovare sedi adeguate. Grazie per la vostra attenzione Franco Astengo

claudio ha detto...

La mia idea è che bisogna ricostruire un ceto politico, quello attuale è troppo screditato e inetto, ha mandato a picco la seconda repubblica per garantirsi la perpetuazione personale. A chi attingere? secondo me ai promotori dei nuovi movimenti di massa

francesco ha detto...

L'idea di mettere un cappello politico sui movimenti non è certo nuova,ma in genere è piuttosto raro che essa possa concretamente realizzarsi. Più facilmente i movimenti "spontanei" tendono semmai a produrre da sè una propria leadership politica, oppure si sfarinano nel nulla, secondo quei processi di disgregazione ben descritti da Elias Canetti nelle folgoranti pagine iniziali di "Massa e potere".

Più che dialogare coi movimenti, magari con il retro-pensiero di proporci in qualche modo come coloro guidano i movimenti stessi su posizioni meno estemporanee e più ancorate ad un chiaro orizzonte ideologico e valoriale e ad un solido programma politico, noi dovremmo quindi cercare di fare bene il nostro lavoro: e cioè diventare più competenti e chiari nella proposta e più efficaci e convincenti nella comunicazione, il che poi significa, in definitiva, acquisire visibilità e credibilità.

Voglio dire, cioè, che non dobbiamo tanto cercare di inseguire i movimenti, quanto puntare ad accreditarci come interlocutori seri, competenti e, appunto, credibili.

Con questo, sia chiaro, non intendo affatto sostenere che si debba rimanere indifferenti rispetto alle istanze che i movimenti portano di volta al volta al centro dell'attenzione (o peggio che si debba assumere un atteggiamento di schifiltosa superiorità verso tutto ciò che si sprigiona "dal basso"). Ciò che volgio dire, più semplicemente, è che anziché affannarci nell'inseguire i movimenti, magari addirittura illudendoci di poterli in qualche modo guidare o di orientarli verso un agire meno episodico e più continuo, noi dovremmo cercare semmmai di metterci nella condizione di acquisire una credibilità tale per cui siano semmai i movimenti, ad un certo punto della loro parabola, a cercare noi: riconoscendoci appunto come un possibile approdo.

E quando dico noi, intendo le realtà associative tendenzialmente più strutturate e durature nella quali noi preferibilmente operiamo, e cioè i circoli, le associazioni, i network e le reti, e al limite perfino i partiti (se i partiti non fossero, ahimè, quella fetecchia che sono: il che peraltro rappresenta un altro corno del problema).

Un saluto,

Francesco Somaini