Ridare la parola ai popoli contro il fiscal compact
di Alfonso Gianni
Il Fiscal compact è quindi passato. 25 su 27 paesi della Ue lo hanno ingoiato, con l’eccezione, per motivi diversi, dell’Inghilterra – sempre più lontana da uno spirito europeo, qualunque esso sia – e della Repubblica ceca. L’accordo è stato accolto da noi con manifestazioni di gioia bipartisan. Era stato preceduto da una mozione unitaria alle camere che, accogliendo persino la proposta leghista delle radici cristiane dell’Europa cui finora il Parlamento non aveva consentito, valeva ben più di un paio di tradizionali fiducie. Full Monti si potrebbe dire con un gioco di parole troppo facile. In effetti risale il gradimento nei sondaggi al falso governo tecnico, il più politico degli ultimi anni. Una sorta di cupio dissolvi pare essersi impadronito della classe dirigente italiana, compresa buona parte del centrosinistra. Anzi, a essere più precisi, si tratta di un cupio servendi, visto che tutti si sono inchinati alla dottrina tedesca, vera vincitrice della partita, almeno sul corto periodo. La Merkel era di fronte al celebre bivio tracciato da Helmut Kohl: o la Germania si europeizza o l’Europa si germanizza. Ha scelto la seconda strada, nell’interesse della grande borghesia tedesca che vuole continuare a dominare in un mercato europeo dove invia il 60% delle proprie esportazioni. Che poi questa strategia sia miope, che essa può portare al fallimento dell’euro e dell’Europa, che questo provocherebbe la rivalutazione del marco e il rilancio dell’inflazione a due cifre nei paesi mediterranei, che quindi il prezzo delle merci tedesche diventerebbe proibitivo, che dunque tutto ciò infliggerebbe un colpo micidiale alla politica neomercantilista tedesca, è del tutto vero, ma la attuale classe dirigente che domina a Berlino – almeno fino alle prossime elezioni del 2013 – vuoi per mancanza di visioni lunghe, vuoi per tracotanza derivante dagli attuali rapporti di forza, è per ora in grado di fregarsene. Ma questo è un aggravante, non un attenuante come viene ridicolmente invocata nei salotti televisivi, da parte di chi vi va dietro, in primis il nostro governo.
Il giro di vite del nuovo patto sta nella rigidità della diminuzione di un ventesimo annuo della differenza che separa gli attuali livelli di debito dal “virtuoso” 60%, nel fatto che lo sforamento del deficit strutturale annuo dello 0,5% debba essere immediatamente sanzionato in modo automatico – il che, al di là delle differenze fra deficit congiunturale e deficit strutturale che qui tralascio, rappresenta un enorme inasprimento rispetto al vincolo del 3% di Maastricht -, nella imposizione di controlli che espropriano la sovranità dei singoli stati. Persino Papadimos, messo lì dalla Ue, ha capito che qualche protesta la deve elevare sul fatto che il bilancio greco venga fatto direttamente a Bruxelles.
Ma il problema riguarda tutti. La realtà è che siamo di fronte a un balzo in avanti nella espropriazione della sovranità dei singoli popoli senza alcuna compensazione in sistemi di governo democratico a livello europeo, visto che le decisioni sono saldamente in mano a organi non elettivi. Siamo al rovesciamento del principio liberale, sancito dalle celebri parole no taxation without representation che infiammarono la rivolta americana contro gli inglesi nella seconda metà del Settecento (i Boston tea party, ma quelli veri però). Abbiamo infatti una fiscalità senza rappresentanza democratica a livello europeo.
Le conseguenze per l’Italia sono pesantissime. Il nostro debito si aggira poco sopra i 1900mld, il 120% del nostro attuale Pil. Portarlo al 60% significa ridurlo della metà. Farlo in ragione di un ventesimo all’anno, significa ridurre il bilancio del 3%. In termini monetari ciò significa prepararsi a manovre annue di riduzione nell’ordine di 48 mld. Ma se il nostro prodotto interno lordo è in discesa, come dice il Fmi che prevede una riduzione del 2,2%, la situazione peggiora ulteriormente. Non è una grande scoperta. E’ il cane che si mangia la coda. Solo molto più in fretta. L’austerità strangola l’economia, altro che “austerità espansiva” di cui parlano la Merkel e i suoi seguaci con un irresponsabile ossimoro. I dati raccolti recentemente da Paul Krugman (vedi il grafico in appendice) usando come fonti il Fmi e il gruppo degli studiosi fondato a Gottinga dal grande storico dell’economia Angus Maddison, dimostrano che la reazione dell’Italia alla crisi è molto più lenta e peggiore di quanto non fu nella recessione seguente al grande crollo del 1920!
L’anno che abbiamo davanti sarà durissimo. Come comportarsi di fronte a questo è l’essenza della politica. Il resto sono chiacchiere e schermaglie. Poiché il moderno capitalismo ha scelto di separarsi dalla democrazia, la difesa strenua di quest’ultima può essere il classico granello di sabbia negli ingranaggi del primo.
Bisogna quindi ridare la voce ai popoli sul nuovo trattato. Sappiamo che non è possibile ricorrere direttamente al referendum nel caso italiano – mentre già il 72% degli irlandesi lo richiedono -, in virtù dei vincoli posti dall’articolo 75 della nostra Costituzione. Ma è possibile progettare un referendum consultivo. Come successe nel 1989. Il che permetterebbe di risollevare, per assoluta analogia di materia, la questione del pareggio di bilancio in Costituzione già votato in prima lettura dalla Camera, ma in attesa di ulteriori passaggi parlamentari.
E’ necessario organizzare iniziative di lotta, sia in Europa che da noi. Possiamo augurarci che la manifestazione nazionale della Fiom dell’11 febbraio contenga anche questo. In ogni caso non possiamo lasciare che contro questa governance a-democratica della Ue si scaglino solo i vari populismi di destra, indirizzando nella direzione sbagliata una sacrosanta protesta. L’Ungheria già ci dice che, seppure in forme nuove, il fascismo può anche tornare.
Il punto zero sull’orizzontale indica l’anno 2007, inizio della crisi; il numero 100 sulla verticale indica la percentuale del Pil nel 2007; la linea azzurra indica l’andamento del Pil nel 1929 e anni seguenti; la linea rossa l’andamento del Pil dal 2007 in poi. Come si può vedere dopo sei anni di crisi (previsione a fine 2012) la moderna Italia, a differenza di quella degli anni trenta, non ha recuperato sul livello del Pil dell’inizio della crisi.
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