Ho appena finito di leggere il libro Storia della mia gente, di Edoardo Nesi. E' un bel libro, nonostante si sia aggiudicato qualche importante premio letterario. Nel penultimo capitolo c'è una invettiva appassionata contro la globalizzazione. Secondo me vale la pena di leggerla.
<È questa la nostra storia. La storia di milioni di persone tradite anche e soprattutto dai loro politici, che d'economia si sono occupati solo per amministrare ogni tanto, a seconda di chi vincesse le elezioni, condoni tombali o tosature radicali, e intanto vergavano in gran silenzio le centinaia di firme in calce ai trattati che avrebbero scotennato l'industria manifatturiera italiana. Mentre questo succedeva, nemmeno un referendum, nemmeno uno sciopero, nemmeno una manifestazione di piazza. Nemmeno una legge, nemmeno un progetto di legge, nemmeno un'interrogazione parlamentare. Nemmeno un digiuno. Nemmeno un incatenamento davanti a Montecitorio. Nemmeno una di quelle miserande piazzate in televisione. Nemmeno un appello, una petizione, una raccolta di firme per difendere il posto di lavoro di quei milioni di italiani che oggi si ritrovano in balia di una versione nuovissima e crudele e anabolizzata del libero mercato. È un gigantesco complesso d'inferiorità, quello che impedì e impedisce ancor oggi ai nostri politici di difendere gli interessi dell'industria manifatturiera e dei milioni di persone che direttamente o indirettamente ne campano? Dopotutto i politici francesi hanno difeso e difendono con i denti e contro ogni logica i sussidi alla loro agricoltura e ai loro contadini; i politici tedeschi fanno scudo coi corpi alla loro potentissima industria chimica; gli svedesi e i danesi non sono nemmeno entrati nell'euro per paura di veder snaturato il proprie stato sociale; gli inglesi si sono tenuti la sterlina e non hamo nemmeno firmato l'accordo di Schengen.
Cosa pensavano, invece, i nostri politici quando firmavano quei fogli per conto nostro e svendevano la nostra industria manifatt iriera? Davvero credevano che si potesse trovare il modo di rivaleggiare con chi produce i nostri stessi articoli a una frazione del nostro costo? E come immaginavano che si potesse fare? Quali nuovi prodotti avremmo dovuto inventare per non farceli subito copiare dai cinesi? Forse le gabardine fatte con la tramontana, le flanelle con l'acqua del Bisenzio, il loden con l'olio degli ulivi di Fi-lettole? E quali avrebbero dovuto essere i nuovi mercati che i nostri garruli ministri ci esortavano a esplorare, quelli extraterrestri? Venere ammantato d'ammoniaca? Marte gelido dall'atmosfera finissima? O forse pensavano a Mercurio bifronte, che tiene una faccia sempre al buio e una sempre rivolta verso il sole, cosicché avremmo potuto vendere il panno a taglio vivo ai mercuriani che vivono nell'oscurità e il lino grosso ai mercuriani che vivono al sole? Lo sapevano, i nostri politici, cosa vuoi dire concorrenza? Sapevano quanto può essere sano quel termine? Sapevano quanto bene può fare a un mercato? Ma che concorrenza ci può essere col braccio economico di una dittatura?
No, l'apertura totale dei mercati bisognava abbracciarla a parole ma combatterla nei fatti. Combatterla dal didentro, certo, senza mai vagellare d'uscir dall'euro e dall'Europa, con la giusta passione e con il giusto entusiasmo: come si deve fare ogni volta che si è parte di un'associazione che inizia a difendere gli interessi di alcuni soci a scapito degli altri. Bisognava lottare con le unghie e con i denti, palmo a palmo, come hanno fatto tutte le altre nazioni. Bisognava trattare, trattare e trattare, non stancarsi di portare le nostre ragioni, e mandare a trattare quelli bravi davvero, esperti che fossero duri, capaci - quelli che Sun Tzu non l'hanno letito e von Clausewitz non sanno nemmeno chi è - ma i loro insegnamenti li hanno incisi nel cuore e nell'anima; quelli che sentono istintivamente quando nelle trattative arriva il momento di tirare gli schiaffi e quando invece bisogna sapersi piegare come il giunco: i figli di puttana, insomma, non professori, non quei conigli bagnati che si facevano zittire a scapaccioni ogni volta che provavano ad aprir bocca. Umiliati alla sola menzione di quel colossale debito pubico che pure avevano visto lievitare ogni anno senza far nulla, e che a Bruxelles gli veniva continuamente sventolato davanti agli occhi come il marchio dell'infamia.
Perché può darsi che sia facile dirlo oggi che in Europa sono entrate anche la Romania e la Bulgaria, e che l'euro è diventato la moneta di corso legale a Cipro, a Malta, in Slovacchia e in Slovenia, ma io sono convinto che nemmeno la Bundesbank avrebbe avuto la forza e l'interesse, nell'anno 2000, di tener fuori dall'euro per un artificio contabile (i parametri di Maastricht, ricordate?) l'Italia, uno dei paesi fondatori dell'Europa Unita, la culla dell'arte mondiale, un mercato di 60 milioni di persone, un sistema industriale aggressivo e capace collocato nel centro del Mediterraneo, disponibile a svalutare la lira ogni volta che gli fosse convenuto e incurante dell'astronomicità del suo debito, perché quasi tutto collocato sul mercato interno e dunque, alla bisogna, come poi si vide, perfettamente tassabile. Bisognava avere coraggio, però, fors'anche incoscienza. Bisognava saper trasformare in forza la nostra maggior debolezza. Bisognava aver letto quelle pagine di Machiavelli in cui si dice che un buon principe deve imparare .
Bisognava abbandonare la prosopopea e l'orgoglio gratuito, e prendere atto d'essere i più deboli, i più esposti al ciclone dell'apertura dei mercati, e di conseguenza, nel nostro interesse, proteggersi - sì, certo, naturalmente, proteggersi - con ogni mezzo, dal cavillo al cazzotto, dall'ostruzionismo alla carezza, e non ci si doveva vergognare di far arrivare a Bruxelles qualche treno speciale pieno di incazzati, e farli scendere in piazza con gli striscioni a vociare tutta la loro rabbia, e darsi pace se rompevano qualche vetro dei palazzi dei grandi banchieri o se qualcuno finiva per assaggiare i manganelli della polizia belga, perché era per una buona causa.
Poi, certo, avremmo ammainato la bandiera lo stesso. Come i luddisti, avremmo ammesso la sconfitta, ma forse avremmo ottenuto migliori condizioni di resa, e staremmo meglio di ora, e vivremmo in un'Italia migliore.Perché come ormai dovrebbe esser chiaro persine ai nostri maggiori, così entusiasti di questa loro maledetta globalizzazione senza regole, i soldi che oggi risparmiarne comprando i prodotti cinesi sono quegli stessi soldi che servivano a pagare gli stipendi degli operai italiani, i mutui delle loro case e le loro pensioni, i loro ricoveri in ospedale, le scuole dei loro figli, le loro macchine e i loro vestiti. La loro vita, la nostra vita>.
Cari saluti.
Lorenzo Borla
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