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Congedi
Enrico Manca (5 luglio 2011)
Stefano Rolando
Si scorrono, inevitabilmente, i nomi dei necrologi. E nei pensieri si riformano legami, si ridisegnano riunioni e assemblee, riappare quel tessuto di relazioni che è Roma, tra politica ed economia, tra istituzioni e luoghi di appartenenza.
Altre città abituate alle aziende, soprattutto industriali, come ambiti delle relazioni e dello sviluppo, conoscono poco e male questo brulicare romano di iniziative parallele, di associazioni e istituti, di centri studi e club che derivano quasi sempre da antichi impegni, da circuiti relazionali che si sono stabiliti nei partiti, nei ministeri, nelle partecipazioni statali. Circuiti vivi, progettuali, con economie ormai piccole e difficili, ma che non demordono per consentire legami e sperimentazioni a chi spesso sarebbe altrimenti ai margini di ciò che si intende per “classe dirigente”.
Questa sociologia relazionale ha bisogno di personalità forti, di figure che – magari risolto il loro problema personale con una buona pensione parlamentare o aziendale – dedicano il loro tempo prevalente a “tenere insieme” storie e persone anche diverse ma aggregabili così come il superamento di antichi conflitti e dissensi nel tempo diventa, anzi, esperienza comune.
Di queste personalità Enrico Manca è stato, negli ultimi venti anni a Roma, forse la figura più solida e attiva, nel territorio a metà tra politica e imprese che è quello delle comunicazioni.
La nostalgia di un partito politico a lungo “ago della bilancia” della politica nazionale (il PSI) e di una grande azienda come la Rai da sempre proiezione diretta dell’evoluzione dei poteri del paese, due motori psicologici mai spenti per generare ancora voglia e volontà di tenere – con istituti di studio, con la convegnistica, con riviste - connessi mondi che altrove recitano su spartiti antagonisti ma che da qualche parte devono provare a cantare nello stesso coro. E in questa impresa formandosi, nel tempo, un ambito di amicizie e di frequentazioni per chi non mette la parola fine alla voglia di interpretare, discutere, commentare laddove ormai la “politica praticata” è diventata un mezzo deserto.
Questa è la fotografia che mi viene da delineare, questa mattina, 6 luglio, in treno da Milano, appresa ieri la notizia inaspettata della scomparsa di Enrico Manca, già vicesegretario del Partito Socialista, già ministro, già presidente della Rai della cui più interessante nuova creatura – l’Isimm (cioè l’Istituto di Studi sui media e la multimedialità)- sono stato per molti anni il vice-presidente, partecipando poi, collateralmente, ai comitati redazionali delle riviste più dichiaratamente politiche come Pol.is che, con sforzi crescenti, prolungavano la qualità di un dibattito ormai estraneo alla rappresentazione corrente della politica.
Vado a Roma per i funerali, annunciati alla Protomoteca. La notizia della morte mi ha davvero colpito perché negli ultimi mesi – soprattutto per il coinvolgimento nella vicenda elettorale milanese – ho frequentato poco Roma e ho ritardato a dare risposte a sollecitazioni in primavera dello stesso Enrico a rivederci e parlarci. Mi hanno detto che a Pasqua si sono manifestati problemi polmonari e che la crisi negli ultimissimi giorni sia stata improvvisa. Ritaglio questo tempo in treno con dedizione personale, rivolto a tanti ricordi, per uno spazio sul mio sito che dedico a “congedi” rispetto a figure importanti della mia vita e del mio lavoro.
All’origine le nostre posizioni erano politicamente conflittuali, io tra coloro che – alla fine degli anni ’70 – affiancavano Claudio Martelli che era alla guida dell’area cultura, spettacolo e informazione del PSI, lui sconfitto da Craxi, ritenuto rappresentante di quel “ventre molle” del partito, sospettato di troppa indulgenza verso i comunisti e considerato incline anche ai tradimenti.
La creazione dell’Isimm – lui subito dopo la fine del periodo di presidenza della Rai, io direttore generale dell’informazione a Palazzo Chigi – fu occasione per dare un senso a un progetto che poteva avere un ruolo importante – visto nell’ottica di istituzioni che avrebbero dovuto impegnarsi in convenzioni – come terreni di incontro, mediazione e depotenziamento di conflitti laddove era già evidente che proprio il conflitto (e non solo quello degli interessi di Berlusconi) era una causa costante di sviluppo ritardato per gli interessi competitivi italiani.
Poi, dopo avere lasciato sia la Presidenza del Consiglio che, a seguito, l’Olivetti, mi impegnai di più in quel progetto che ebbe proprio alla fine degli anni ’90 particolare creatività. Ma dietro a questo “salotto” si manteneva anche viva la discussione sul “che fare” rispetto alla politica in frantumi. Ho scritto una pagina nel libro Quarantotto (Bompiani, 2008) per avere avuto a che fare con uno dei tanti tentativi compiuti da Enrico Manca per dare sbocco a queste discussioni. Quello di pochi anni fa, con Piero Fassino alla segreteria del PD, di mettere il segretario di fronte a una cinquantina di rispettabilissime persone di storia socialista per obbligarlo non a una silenziosa politica di annessioni alla spicciolata ma ad una più rituale regolazione di vicende che avevano bisogno di ammissioni e di rilancio rispettoso delle storie. Manca volle che fossi io ad aprire il giro degli interventi, perché avevo scritto a proposito di identità e di memoria che il nuovo gruppo dirigente del PD tendeva a tagliare e a cancellare. Chiesi appunto un “rito” e non provvedimenti in ombra e alla spicciolata. Fassino che era il migliore interlocutore che si potesse avere in quella fase, non poteva però garantire né il rito né la luce del sole. Ne seguì una mia lettera aperta che raccontava questa storia andata male, così come era andata male prima la possibilità di creare nella Margherita di Rutelli (c’era stata una preliminare sollecitazione di Paolo Gentiloni) una vera gamba laico-socialista che avrebbe disegnato poi anche una diversa geografia del PD, a causa del veto (mi aveva detto Rutelli quando fui ai Beni culturali suo consigliere economico) dei prodiani e di Castagnetti.
Insomma socialisti scomodi, dispersi, rispettati singolarmente ma non ritenuti spendibili come aggregato storico. Un cruccio per tanti. Uno sforzo di salvare patrimonio e metodo (quello che hanno fatto, per esempio, alcune fondazioni e alcune riviste, innanzi tutto Mondoperaio diretta da Gigi Covatta, ma anche Critica Sociale e appunto Pol.is). Una rielaborazione di ruolo in forme nuove (come potrebbe rappresentare, provo a dire io da qualche tempo, un modello “oltre” tipo quello vincente a Milano impersonato da Giuliano Pisapia). Di questa vicenda milanese recente non ho avuto modo di parlare con Enrico, che è stato attento allo sguardo sempre meno “romano” che ho cercato di avere negli ultimi anni. Ne ho scritto un po’ su Mondoperaio e gli ho mandato qualche nota. Ma questa volta non c’è stata la condizione di riprendere de visu gli elementi di novità e purtroppo non ci sarà più.
Nel 2010 mi aveva scritto il suo dissenso per avere io accettato di fare il capolista indipendente con i radicali alle regionali in Lombardia (Como e Milano).Poi le liste non arrivarono al voto per insufficienza di firme, ma aprendo una querelle importante proprio su firme e legalità e consentendo di dire per primi lo scandalo del listino formigoniano con le note imposizioni del premier. Abbiamo avuto uno scambio di lettere di altri tempi, lunghe, argomentate, con i punti esclamativi. Per spiegargli alla fine il perché – in quel momento – di un segnale di indipendenza per riprendermi il diritto di parola su tante cose del sistema Italia arrivate, a mio avviso, al capolinea. Ma i capi socialisti hanno anche maturato nel tempo insofferenza per Marco Pannella, che a me – che non ho avuto quei coinvolgimenti un po’ nevrotici – produce invece simpatia e comunque rispetto per il varco tenuto aperto nel rapporto tra politica, diritti e legalità. Comunque alla fine di quelle lettere il dissenso si stemperò e, mantenendo il punto, Enrico accettò anche il mio di punto.
Nella relazionalità il suo è stato uno sforzo generoso. Non poteva assicurare soluzioni, ma ha tenuto luoghi e modi per consentire aggregazioni sempre larghe. E – per tutti coloro che hanno ruolo nel sistema delle comunicazioni – ha creato condizioni per accompagnare e capire innovazioni, trasformazioni, adeguamento delle politiche pubbliche. Il mio manuale di Politiche pubbliche per le comunicazioni (Etas, 2009) ha beneficiato non poco di quell’ambiente di discussione e della rete di amici (davvero tanti e soprattutto i più giovani, da Anna Alessi a Robert Castrucci) che senza Enrico Manca non sarebbe esistita. Se si ha da dare – e l’esperienza (Paolo Franchi la tratteggia bene sul Corriere di oggi) è un bagaglio ineludibile nel rapporto raffinato tra conoscenza e decisione – non ha senso invocare il giovanilismo per polemizzare con il “protagonismo” di persone un po’ anziane. Soprattutto perché questo “dare” non è legato ai “posti di lavoro”, ma ad una modalità di connettere generazioni e storie anche dissimili dentro percorsi formativi che né la scuola, né l’università né le aziende sanno generare, almeno in Italia. Quindi, alla fine di questi pensieri, il mio è un grazie a un amico, un compagno, una figura che ha rispettato le mie esperienze, non piegandole a piccoli interessi ma aiutando, a suo modo, a vincere o almeno a contenere delusioni e solitudini e a tenere in tensione speranze e indomiti impulsi di servire il miglioramento del Paese.
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