mercoledì 6 aprile 2011

Renato Fioretti: Lavoro, il paradosso della situazione

da micromega
Lavoro: il paradosso della situazione (politico-sindacale) italiana e i “contorsionismi” di Pietro Ichino

di Renato Fioretti

E’ (ormai) da tempo che, nel nostro Paese, le discussioni intorno alle questioni del lavoro hanno assunto un carattere paradossale.
Tutti convergono sul problema della diffusa precarietà e sulla conseguente opera di vera e propria “ghettizzazione” cui finiscono per essere destinati milioni di lavoratori.
Persino la Presidente di Confindustria ha, recentemente, “scoperto” che in Italia “C’è un problema di flessibilità in ingresso, forse eccessiva, con strumenti che vanno tarati.” e - al fine di porvi rimedio, “a modo suo” - ha posto “un problema di flessibilità in uscita che, appunto, prima o poi va affrontato”!
Naturalmente, l’esito finale previsto dalla collega del Presidente del Consiglio in carica dovrebbe essere rappresentato dal bilanciare l’eccessiva flessibilità in entrata con una corrispondente dose di flessibilità “in uscita”.
Si tratterebbe, in sostanza, della riproposizione di un antico tema: il superamento dell’art. 18 dello Statuto.
Però, a ben vedere, la soluzione proposta dalla Marcegaglia non presenta nulla di eclatante o stravagante; rientra nell’assoluta normalità che la rappresentante della maggiore associazione degli imprenditori italiani continui la consueta “litania” di accuse e improperi all’indirizzo dell’art. 18.
Responsabile - a suo parere - di un’infinita sequenza di “freni allo sviluppo”: dal “nanismo” delle aziende al basso indice di produttività dei lavoratori, passando, inevitabilmente, attraverso la perversa “rigidità” di un mercato del lavoro fiero e insormontabile ostacolo verso il definitivo sviluppo dell’occupazione!
Al riguardo, tuttavia - come già evidenziato in altra occasione - è solo il caso di rilevare che l’ultimo rapporto sull’occupazione in Europa rileva che tutti i paesi che precedono l’Italia nella speciale graduatoria relativa al “grado di rigidità normativa” che disciplina i rapporti di lavoro, presentano (ad eccezione del Belgio) tassi di occupazione superiori alla media dell’UE a 27.
E’ questo il caso di Svezia, Germania, Belgio, Francia Spagna e Portogallo.
Tra l’altro, la posizione “defilata” del nostro Paese - nell’ambito della suddetta classifica - dovrebbe (risolutivamente) smentire la strumentale indicazione della “giusta causa” quale essenza della fantomatica e specialissima “rigidità” della normativa italiana.
La stessa posizione di quanti - nell’ambito della maggioranza di governo - continuano a difendere strenuamente tutti i provvedimenti di legge adottati dai governi Berlusconi - a partire dal famoso “Libro bianco” del lontano 2001 - non rappresenta, a mio parere, alcuna sorpresa, né infrange alcuna illusione in merito alle reali intenzioni dell’ex ministro del lavoro Maroni e del suo degno successore.
E’ sin troppo evidente che, per costoro, si tratterebbe di rendere “compiutamente operativa” - come amano sostenere - la legge 30/03; adottando, in particolare, semplici provvedimenti di sostegno al reddito (i c.d. “ammortizzatori sociali”) di tipo più generalista.
In definitiva, per i fautori di questo tipo di soluzione - di là da qualsiasi retorica circa la (cattiva) sorte di milioni di lavoratori “di serie B” - è importante che nulla alteri l’attuale “status quo”.
Resta, al riguardo, solo da registrare il profondo rammarico per un’opzione che, nei fatti, realizza un’inconsueta “comunione d’intenti” tra l’Esecutivo in carica e Cisl e Uil!
A ben vedere, è proprio questo il primo aspetto “stravagante” della questione lavoro nel nostro Paese.
Infatti, la cronaca degli ultimi anni, a partire dall’insediamento del Berlusconi II, è stata caratterizzata dal susseguirsi di una serie di accordi sindacali “separati” - da quello sulla (contro)riforma del rapporto di lavoro a tempo determinato (D. Lgs. 368/2001) a quello sulla “Contrattazione di secondo livello”, fino alla recentissima firma “disgiunta” sull’ipotesi di Ccnl del settore Terziario - che hanno fatto da contraltare a una profonda e sistematica divergenza di posizioni rispetto ai provvedimenti adottati dai governi di centrodestra.
Non è questa, però, l’occasione per affrontare un esame “di merito” della situazione realizzatasi tra le maggiori Confederazioni sindacali.
In questa sede mi preme (solo) evidenziare che riesce davvero difficile non contestare adeguatamente, se non, addirittura (nei fatti) condividere - come troppo spesso hanno (recentemente) fatto Cisl e Uil - provvedimenti governativi che spaziano dall’abrogazione della legge 188/2007 (che cercava, per quanto possibile, di porre un argine all’abuso del ricorso alle c.d. dimissioni “in bianco”) all’arbitrato “secondo equità”!
Il tutto va, comunque, rinviato a più approfondite indagini e riflessioni.
Tornando all’aspetto più eclatante e, appunto, paradossale di come viene affrontata la questione “lavoro” nel nostro Paese, è - piuttosto - opportuno evidenziare la/e posizione/i assunta/e dal più grande partito di opposizione.
In questo senso, il Pd - nel mentre afferma di considerare il lavoro un “tema” centrale della propria azione politica, lasciando intendere di volersi ergere a sostenitore delle rivendicazioni di una rilevante parte di quei soggetti la cui esistenza è scandita da una qualsiasi attività prestata in cambio di una sostanziale “dipendenza economica” - dimostra di non essere in grado di sapere, o (forse) potere, andare oltre il semplice “effetto placebo” e si esercita, quindi, in precari e incomprensibili giochi di equilibrismo.
E’ questa la prima sensazione che scaturisce dalla presa d’atto che, nel Partito democratico, se l’Assemblea nazionale approva - a maggioranza molto ristretta - una precisa linea d’indirizzo, rispetto alle modalità attraverso le quali tentare di risolvere il problema della dilagante “precarietà” di tanta parte dei lavoratori italiani, contemporaneamente, Pietro Ichino - a nome dei senatori - è artefice di tutt’altra ipotesi.
Anticipo che non è mia intenzione entrare nel merito della (prima) proposta “ufficiale” del Pd.
Mi limito a evidenziare che reputo la soluzione ideata: cioè l’aumento del costo del lavoro “atipico” - per renderne meno “appetibile” il massiccio e reiterato ricorso - frutto di un malcelato sentimento di sostanziale acquiescenza allo “status quo” realizzatosi nel mercato del lavoro italiano. Espressione dell’unica sintesi possibile in un partito “bicefalo” che, a mio avviso, soffre di un male incurabile: l’assoluta incapacità di assumere una posizione univoca; soprattutto se in linea con i trascorsi di ex e lontana “sinistra” di una parte dei suoi dirigenti più noti!
Reputo più interessante, invece, rilevare qualche “segno particolare” della seconda proposta dello stesso Pd. Allo scopo, chiarisco, innanzi tutto, i due motivi per i quali considero “ufficiale” - e degna di dignità almeno pari alla prima - anche l’ipotesi cara a Pietro Ichino.
Il primo è rappresentato dal fatto che la soluzione adottata in sede di Assemblea nazionale è stata - come già anticipato - approvata con appena tre/quattro voti di scarto (una cinquantina quelli favorevoli e circa altrettante astensioni).
Il secondo, determinante ai fini dell’esito del precedente, è dettato dalla circostanza che al Senato - a nome e per conto del Pd - Pietro Ichino aveva già presentato, insieme con una cinquantina di altri suoi colleghi, un ddl che, sostanzialmente, parte dalle stesse premesse, si pone lo stesso obiettivo, ma prevede l’adozione di un provvedimento di tutt’altra natura: il suo “tutti a tempo indeterminato ma nessuno inamovibile”.
Un eufemismo attraverso il quale il più (implicitamente) “aziendalista” presente tra le fila del Partito democratico, insiste - in estrema sintesi - nel perseguire lo stesso obiettivo al quale tende la presidente di Confindustria; il definitivo superamento dell’art. 18 dello statuto!
Tra l’altro, a mio parere, quella di Ichino è (ormai) divenuta una vera e propria ossessione: fino al punto di riproporla in “tutte le salse” quale panacea del mercato del lavoro italiano. L’ultima occasione, solo in ordine di tempo, è stata rappresentata da una recente sentenza attraverso la quale il Tribunale di Genova ha accolto il ricorso e riconosciuto a 15 insegnanti “precari” - con tre anni di servizio su posti vacanti - un maxi risarcimento danni pari a circa 30 mila Euro per la mancata stabilizzazione.
Al riguardo, considero semplicemente disarmante la versione che Ichino offre delle motivazioni (non ancora ufficializzate) della sentenza.
Innanzi tutto, non condivido l’affermazione secondo la quale i circa 150 mila “precari” della scuola - potenziali beneficiari dello stesso trattamento riconosciuto ai 15 ricorrenti - rappresentino l’effetto della “flessibilità” di cui ha oggi bisogno il sistema scolastico.
Nulla di più falso. Si tratta di una sostanziale distorsione della realtà!
I 150 mila si trovano nella non invidiabile condizione di “precari pluriennali” non in conseguenza di una sana - legittima, motivata e comprensibile - esigenza di “flessibilità” del sistema scolastico, ma semplicemente perché la legge 124/99 - che ne consente l’utilizzo - non prevede l’obbligo, da parte del Ministero dell’Istruzione, di applicare i limiti che devono essere rispettati, nel settore privato, dal datore di lavoro che utilizza un lavoratore a tempo determinato (la causale, il carattere temporaneo e non stabile dell’esigenza e le limitazioni rispetto ai periodi di durata massima del rapporto).
Non a caso, il giudice, in applicazione della direttiva sul lavoro a termine (1999/70/Ce), si è assunto - attraverso la sentenza - la responsabilità di disapplicare la vigente normativa (la suddetta 124/99) che, in sostanza, permette alla P. A. di operare “in deroga”, consentendo il reiterato ricorso a rapporti di lavoro a tempo determinato anche per sopperire a esigenze di carattere ordinario.
Quindi - di fronte alla situazione che ha determinato il provvedimento del Tribunale di Genova - piuttosto che auspicare (sempre e comunque) la “soluzione Ichino” che, personalmente, valuto alla stregua di una sottospecie del contratto di lavoro a termine - con le (due) aggravanti dell’indeterminatezza della data di scadenza e del superamento delle garanzie offerte dalla “giusta causa” - riterrei più serio e corretto che ci si ponesse il problema di evitare, nel pubblico come nel privato, l’ingiustificata reiterazione dei rapporti di lavoro a tempo determinato.
Anche il (mio) secondo motivo di critica è dettato da una questione d’informazione poco corretta.
Infatti, il senatore Ichino, nel corso di un articolo pubblicato dal Corriere della Sera, il 31 marzo 2011, afferma che - in virtù dell’applicazione della direttiva 1999/70 - “lo stesso identico problema è destinato a riproporsi anche nel settore privato”.
Di qui, l’inderogabile esigenza di ricorrere - sempre e comunque - all’ipotesi prevista dal suo ddl. 1481/09.
In effetti, l’esercizio di una più corretta informazione, avrebbe dovuto sconsigliare al Prof. Ichino di sostenere - in termini quasi profetici, come se dovuti a un’improvvisa “visione” o, piuttosto, nel senso di una catastrofe annunciata - che il problema è “destinato a riproporsi” anche nel settore privato. In realtà, nel settore privato, il problema si pone già da molti anni a questa parte: a partire dalla controriforma operata - anche con il suo assenso, oltre a quello di Cisl e Uil - attraverso il D. Lgs. 368/2001!
Da quando, cioè, il sostanziale superamento delle c.d. “causali oggettive”, per il ricorso ai rapporti di lavoro a tempo determinato, ha prodotto il proliferare e l’ingiustificata reiterazione di tale tipologia contrattuale.
D’altra parte, come già rilevato, la sentenza 520/2011, nasce sulla scorta dell’applicazione al pubblico di norme già previste - anche se (spesso) eluse o evase - per il settore privato; fatta salva la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

1 commento:

sergio ha detto...

Il documento contiene almeno un'inesattezza quando cita la Spagna (ed altri
paesi con scarsa flessibilità del lavoro) come paese che supera la media
europea dell'occupazione davanti all'Italia.

Sergio Tremolada