Franco Bianco PANEACQUA 13 aprile
Dibattito a sinistra Il settore manifatturiero non solo ''non può'' crescere, perché i continui progressi tecnologici conducono all'opposto: esso ''non deve'' crescere, bisogna produrre meno beni materiali e più servizi. La sinistra politica e sindacale non deve auspicare l'aumento dell'occupazione operaia: deve invece farsi paladina di un "cambio di paradigma", sostenere che la crisi produttiva deve essere valutata e sfruttata come occasione per ripensare il ''modello di sviluppo''
Prendendo lo spunto da quanto viene affermato in un saggio di recente pubblicazione, vorrei aggiungere qualche altro tassello di considerazioni alla discussione che si è aperta, qualche settimana fa, sull'attualità degli operai - non vorrei continuare ad usare l'antica espressione della sinistra, "classe operaia", poiché credo (lo credono in molti, comprese persone che per storia personale e per cultura costituiscono riferimenti autorevoli e non sospettabili) che nel mondo attuale non sia più corretto continuare ad usare questa parola ed il concetto che essa sottendeva - come soggetto della trasformazione sociale, ruolo che a mio parere attualmente da un lato compete, e dall'altro è opportuno che venga riconosciuto, a quella che, pur con qualche approssimazione, ed in mancanza di classificazioni più adeguate, ho infine definito "moltitudine terziaria" (www.paneacqua.eu/notizia.php?id=17194, dell'11 Marzo). Il sostegno di questa tesi, che ho lungamente affrontato in articoli precedenti, mi darà modo di allargare le mie considerazioni ad un altro e non meno importante tema.
Il saggio dal quale traggo spunto è stato pubblicato nel Gennaio 2011 da DeriveApprodi, ed è intitolato ''Nuova Panda schiavi in mano'' (164 pagg., 12 euro), dove il senso della parola ''schiavi'' - che rende il titolo una sorta di ammiccante parafrasi del ''chiavi in mano'' che si usa con altro significato - viene chiarito già dal sottotitolo: ''La strategia Fiat di distruzione della forza operaia''. Ne è autore il ''Gruppo Lavoro'' del Centro per la Riforma dello Stato - CRS (che, come recita la ''Presentazione'' esposta nel suo sito, "si caratterizza per una elaborazione intellettuale capace di stimolare il dibattito tra partiti, istituzioni e studiosi di diversa estrazione e cultura politica". Chi desiderasse informazioni sul CRS le troverà al suo sito, www.centroriformastato.org/crs2/spip.php?article33). Il saggio del Gruppo Lavoro - che è la parte consistente del libro - viene seguito, in chiusura del volume, da un testo di una dozzina di pagine (''conciso e sostanzioso'', vorrei dire) di Mario Tronti, che del CRS è il Presidente, che da esso prende le mosse per aggiungere considerazioni che si collegano a quelle svolte dal Gruppo Lavoro per poi estendersi anche a temi più ampi.
Il libro è dedicato, come si intende subito da titolo e sottotitolo, alla vicenda Fiat: nello specifico, a quella di Pomigliano. Di essa indaga i vari aspetti, con lo scopo di trarne il senso per così dire "paradigmatico". E' un libro ''di parte'', in tutta evidenza (non lo dico in senso critico, è una constatazione): esso si pone esplicitamente il compito di "squarciare il velo ideologico" che presiede ai comportamenti della Fiat di Marchionne, e di rintracciarne i motivi più profondi, la vera ''posta in gioco'', che è quella - secondo gli autori - di far sì che "la definitiva brutalizzazione del lavoro e della società tutta divenga socialmente accettabile" (ecco il "paradigma"). Quel compito viene perseguito con compiutezza di analisi e di argomentazioni, direi quasi ''con tigna'', senza mai lasciarsi distrarre da aspetti che non rientrino nel fine annunciato della trattazione - il che non vuol dire che si debbano condividere le tesi esposte e le metodologie di interpretazione: è solo un riconoscimento della serietà del lavoro svolto, al di là del giudizio di merito.
Lo scopo che si propongono queste brevi note non è tanto quello di recensire il testo e nemmeno quello di esprimersi sul metodo in esso seguito e sulle tesi esposte, quanto quello di rilevare l'orientamento che esso esprime e trarne valutazioni che vanno ben al di là del caso considerato, pur così importante in sé.
La prima impressione che viene dalla lettura del libro in questione, e che è confermata dal saggio conclusivo di Tronti, è che viene - ancora una volta, come sempre - confermata l'incoercibile "vocazione produttivista" della sinistra. Essa si rivela, peraltro, fin dalle primissime pagine - e la cosa non fa meraviglia, alla luce della storia secolare della sinistra politica e sindacale -, benché gli autori dichiarino subito, quasi a mettere le mani avanti, che quanto esprimono "nulla ha a che vedere con un nostalgico attaccamento a novecenteschi residui di lavoro operaio e di lotta di classe", ma aggiungendo, di seguito, che "la posta oggi in palio a Pomigliano è altissima per il lavoro e la società tutta... la vicenda del sito campano ha reso tangibile la ''ratio'' della riorganizzazione del lavoro che ha caratterizzato il trentennio di ristrutturazioni capitalistiche che ci lasciamo alle spalle". Ora nessuno si sogna di non voler dare tutta l'attenzione sociale e politica che merita ad una vicenda che riguarda alcune migliaia di lavoratori: ma dare a questa una valenza, appunto, "paradigmatica" significa forse non essersi accorti, o non avervi prestato sufficiente attenzione, di quanto andava accadendo intorno a noi già da tempo, mentre il lavoro ''non-operaio'' diventava largamente più numeroso di quello manifatturiero (il ''Terziario'' occupa attualmente, in Italia, il 68% dell'intera massa dei lavoratori, contro il 30% del settore industriale, che include il lavoro manifatturiero e quello dell'edilizia). E la ragione di questa ''distrazione'' sta proprio in quella "vocazione produttivista", che pur senza voler fare deliberatamente torto a nessuno ha tuttavia sempre considerato di primaria importanza (non voglio dire esclusiva: ma fortemente preponderante sì) il lavoro operaio.
Lo stesso Mario Tronti, nel suo saggio finale, scrive - Gennaio 2011 - che "L'industria manifatturiera fa la differenza fra un paese forte e uno fragile, tra un'economia solida e una liquida... Solo il lavoro operaio può ridare un centro al pluriverso del lavoro contemporaneo. E di qui può ricollocarsi al centro della questione sociale". Affermazioni sorprendenti in Tronti: quando è stato ripubblicato, nel 2006 da DeriveApprodi, il suo testo ''principe'', quell' ''Operai e capitale'' che (cito dalla descrizione del libro) "nel corso degli anni Sessanta ha determinato la fondazione di una mentalità, un atteggiamento, un lessico assolutamente innovativi, contribuendo alla formazione culturale di migliaia di nuovi militanti... Concetti che [....] si sono man mano imposti nel lessico del dibattito politico fino a diventare "senso comune", lo stesso Tronti, intervistato da Antonio Gnoli per ''Repubblica", diceva testualmente che "C'è stato un passaggio, che a me pare irreversibile, dalla centralità alla marginalità operaia. Ed è un movimento che ha motivazioni economiche, sociologiche, politiche e che sta dentro il tempo stretto in cui viviamo"; ed era talmente convinto di quello spostamento che concludeva quell'intervista con le parole seguenti: "È possibile che al livello mondo il soggetto operaio possa nuovamente riemergere. Ma forse la storia sarà un'altra. E allora preferisco stare fermo sulla coscienza della sconfitta più che baloccarmi sui ritorni di fiamma. È un atteggiamento culturalmente più produttivo e più onesto. Anche se è molto amaro. Ma l'amarezza fa parte della nostra vita". Ecco perché mi suonano sorprendenti le parole di Tronti di oggi, paragonate a quelle da lui pronunciate cinque anni fa.
Uno dei molti saggi di cui si compone quel testo di Tronti - che personalmente ritengo non più adeguato ai tempi in cui viviamo, ma che resta come testimonianza di un pensiero di enorme spessore, e che va giudicato nel contesto storico del tempo in cui è stato scritto - è intitolato ''La fabbrica e la società": facendo ad esso riferimento i ricercatori del CRS scrivono che "la tesi di Tronti potrebbe rivelarsi ancora vera", nel senso che (citazione da Tronti) "Quel che si verifica e si modella nel lavoro produttivo allargato [.....] il giorno dopo te lo ritrovi nei rapporti sociali, nelle nuove regolamentazioni giuridiche". Ebbene, io credo che la straordinaria terziarizzazione che si è verificata in questi decenni - non solo in Italia, poiché si tratta di un fenomeno assolutamente ''globale'' e che conserva una irreversibile tendenza oggi e per il futuro - abbia in certo modo ribaltato quei poli, sì che le regole - durissime, forse non conosciute abbastanza - che sono invalse nel mondo invaso (e sempre più lo sarà) da lavoro terziario si ribaltano, esse, sul lavoro operaio: dalla società (terziarizzata) alla fabbrica, oggi, come in un gioco di specchi. Come ho scritto in precedenza, ritengo inevitabile che, in una società assimilabile ad un sistema di vasi comunicanti, le condizioni che valgono per i lavoratori più numerosi (quelli del Terziario) in certo senso finiscano con ''l'assediare'' tutti gli altri e, prima o poi, con il trascinarli a sé. E' per questo che non posso sentirmi d'accordo, in questa occasione, con Mario Tronti, che resta comunque un maestro di pensiero.
Ed infine, ma non meno importante: la "vocazione produttivista" che percorre ed informa quel testo dalla prima all'ultima pagina, comprese quelle finali di Tronti, fa parte di una cultura che ormai da tempo ha mostrato i suoi limiti, che ha già arrecato molti danni e che minaccia di produrne di devastanti. Se il lavoro operaio deve essere al centro (questo l'assunto), esso deve rafforzarsi sempre più (la tendenza è esattamente l'opposta, ma per il momento glissiamo su questo aspetto); come conseguenza di quell'assunto, perché il lavoro operaio si rafforzi, il settore manifatturiero deve crescere sempre più: e siamo così fino al collo, ancora e sempre, in quella cultura della ''crescita senza fine'' che è stata ed è alla base del capitalismo, sin da quando esso si è imposto, nella seconda metà del Settecento. Per una sorta di paradosso storico, in questo la sinistra ed il capitalismo vanno d'accordissimo: ma il mondo non ce la fa, né a fornire risorse (le ''sorgenti'') in modo indefinito, né a smaltire rifiuti ed inquinamento (anche i ''pozzi'' sono limitati). Io non mi chiedo soltanto come farà la Fiat a produrre globalmente 6 milioni di vetture, di cui circa un milione e mezzo in Italia (dalle 600.000 attuali): credo che dovrebbe spaventarci ancor più la prospettiva che la Fiat riesca veramente a farlo.
Il settore manifatturiero non solo ''non può'' crescere, perché i continui progressi tecnologici conducono all'opposto: esso ''non deve'' crescere, bisogna produrre meno beni materiali e più servizi. La sinistra politica e sindacale non deve auspicare l'aumento dell'occupazione operaia: deve invece farsi paladina di un "cambio di paradigma", sostenere che la crisi produttiva deve essere valutata e sfruttata come occasione per ripensare il ''modello di sviluppo'': ma per davvero, e non solo proclamarlo come fa troppo spesso. Ed in quel nuovo modello non ci può essere ''più produzione''.
E' una mutazione culturale profonda e difficile, ma è ad essa che la sinistra deve tendere, abbandonando l'industrialismo che ha sempre guidato i suoi comportamenti. Perché se il mondo non lo farà per scelta, sarà ben presto costretto a farlo per necessità. E non sarà per niente una cosa piacevole.
2 commenti:
Su paneacqua Franco Bianco ha commentato una ricerca del Centro Riforma dello Stato con una illeggibile pizza che troverete sotto il titolo "sinistra produttivista". Vi mando il mio più leggibile commento.
F.B. ha il merito di aver richiamato l'attenzione su una evoluzione importante nella nostra analisi tradizionale. E il CRS e Tronti, che hanno scritto il libro che F.B. commenta, non sono da prendere sottogamba, anche quando danno al loro libro (edito da Deriveapprodi) un titolo da sinistra noglobal "Nuova Panda schiavi in mano"
Certo, nel ricco occidente gli sfruttati stanno nel terziario, dalle badanti agli addetti ai supermarket e al fast food, alle cooperative di sfruttamento del lavoro esternalizzato dalle fabbriche e dagli enti pubblici, ai lavoratori dei call center .
Dall'altro lato ci stanno i lavoratori delle aziende che fanno qualità, in mezzo gli operai tradizionali, che producono beni di consumo durevoli di qualità andante, la cui attività viene svolta a minor costo fuori dall'occidente.
E' questa la categoria in via di estinzione economica, che il beato Airaudo da Torino cerca di difendere a oltranza, ma senza porre a Marchionne la domanda cruciale: la produzione del nuovo piano FIAT sarà del livello Toyota o del livello BMW? Perché c'è una bella differenza tra le due, come c'è persino per i frigo e le cucine, come tra il tessile di Biella e quello della Cina. E quando si trascurano questi settori può anche succedere quello che denuncia Saviano: che nell'esternalizzazione della qualità delle griffe si inserisca non il sindacato ma la camorra.
Più modestamente, i pensatori del "sindacato in un solo paese" dovrebbero porsi il problema di sapere come la pensano, tra BMW e Toyota, i secondi azionisti del gruppo, gli operai di Detroit, e qui in Italia di come tutelare i figli degli operai che hanno studiato e adesso fanno nei call center un lavoro difficile e qualificato che nessuno riconosce.
Magari anche di capire come funzionano le università straniere che assumono i nostri migliori laureati a condizioni che qua non si sognano. Uno di questi cervelli che si trasferisce definitivamente all'estero è la perdita secca di un investimento italiano non lontano dai 500.000 euro: lo mettiamo tra gli "aiuti al primo mondo"?
Concordo, pensare che Lombardi parlava di cambio di paradigma del modello di sviluppo già negli anni 70 ":... gli Stati Uniti consumano il 45% delle risorse della terra, quando i paesi del terzo mondo si svilupperanno esse non basteranno per tutti, se non si vorrà un conflitto di enormi proporzioni si dovrà cambiare modello: meno beni inutili e più consumi "culturali" e maggiore accesso ai servizi"...
Eppure negli anni 80 nel sindacato e nella parte di società più attenta si era sviluppato un dibattito sul modo di produrre e sui prodotti e servizi da sviluppare, il paradigma era la qualità in ogni settore ed un coinvolgimento dei lavoratori nell'impresa.
Ricordiamoci inoltre la questione della "Democrazia industriale" che la componente socialista del Sindacato aveva cercato di far diventare discussione generale del Paese.
Ciao a tutti.
Sergio Tremolada
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