Dal sito di Sinistra democratica
Un colpo al cuore del diritto del lavoro
di Massimo Roccella
Mar, 08/12/2009 - 19:22
Ma guarda un po’. Mentre si discute a perdifiato (giustamente) del processo breve nell’area del diritto penale, la maggioranza di destra che sorregge il governo Berlusconi, nella disattenzione generale, si appresta a varare una legge sul « processo zero » nel campo del diritto del lavoro. L’art. 33 del disegno di legge n. 1167, approvato dal Senato il 26 novembre scorso, ed ora all’esame della camera dei deputati, introduce infatti svariate forme di arbitrato, una delle quali di carattere sostanzialmente obbligatorio: consentendo che il contratto di lavoro, certificato secondo le norme di cui al d.lgs. n. 276/2003 (meglio noto come “legge Biagi”), contenga una clausola compromissoria in forza della quale le future controversie fra le parti saranno sottratte all’autorità giudiziaria ordinaria e deferite, appunto, ad arbitri.
La giustizia arbitrale nel diritto del lavoro, per la verità, esiste già adesso. Ci si potrebbe chiedere, allora, dove stia la novità e se sia davvero il caso di allarmarsi tanto. E’ il caso: ma per rendersene conto bisogna avere ben chiara la logica che ha sorretto (almeno sino ad oggi) il sistema del diritto del lavoro, basato su un tessuto di norme inderogabili, a tutela della parte debole del rapporto di lavoro, la cui violazione può sempre essere fatta valere davanti al giudice e da questi sanzionata secondo i criteri prefissati dal legislatore. Domani non sarà (non potrà più essere) così.
Non a caso, vale la pena di ricordarlo, la Corte costituzionale ha espresso, già molto tempo addietro (con una sentenza del 1977), un’opinione in generale severamente critica nei confronti dell’arbitrato applicato alle controversie di lavoro, fondata sulla convinzione che « la giustizia per arbitri dà risultati particolarmente soddisfacenti quando le parti si trovino in posizione di relativo equilibrio. Il che non è nel rapporto di lavoro, ovvero tra due soggetti di forza economica assai diversa ». Da simile premessa la Corte trasse coerentemente la conseguenza che l’arbitrato in materia di lavoro, sconsigliabile in generale, fuoriesce dalla legittimità costituzionale allorché si configuri come arbitrato obbligatorio, per contrasto con gli artt. 24, co. 1, cost. (a mente del quale « tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi ») e 102, co. 1, cost. (che stabilisce che « la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle nome sull’ordinamento giudiziario »).
Si potrebbe obiettare - è vero - che l’arbitrato prefigurato dal d.d.l. n. 1167 appare formalmente di carattere volontario (come quello già oggi esistente). Soltanto formalmente, però: nella sostanza si tratterebbe di arbitrato obbligatorio, dal momento che la clausola compromissoria potrebbe essere inserita nel contratto di lavoro all’atto della sua stipulazione, ovvero nel momento in cui il lavoratore, posto di fronte all’eventualità di perdere l’occasione di lavoro, è disponibile a sottoscrivere qualsiasi cosa, trovandosi in una situazione di debolezza estrema, che nessuna certificazione è in grado di compensare. O si vuol forse fare credere che il lavoratore, che ha accettato di firmare la clausola compromissoria, davanti ad una commissione di certificazione sarebbe disposto ad ammettere che la sua volontà è stata coartata (con il risultato di ottenere l’annullamento della clausola e, contemporaneamente, di vedersi negata l’assunzione)?
Per capire meglio, si potrebbe aggiungere che, stando sempre alla giurisprudenza della Corte costituzionale, nel rapporto di lavoro subordinato sussistono «ostacoli materiali, cioè la situazione psicologica del lavoratore, che può essere indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a rinunciarvi, cioè per timore del licenziamento ». Parafrasando le parole della Corte (tratte dalla sua storica pronuncia del 1966 sulla prescrizione dei crediti retributivi), si potrebbe allora concludere che il legislatore vorrebbe ora introdurre nel sistema una forma arbitrale cui il lavoratore non potrebbe sottrarsi per timore (non del licenziamento, ma) di perdere il posto di lavoro promesso a condizione di accettare l’inserimento della clausola compromissoria nel contratto di lavoro: proprio per questo soltanto formalisticamente si potrebbe qualificare di carattere volontario un arbitrato rispetto alla cui attuazione la volontà del lavoratore appare destinata a giocare un ruolo irrilevante.
L’aspetto più devastante del modello di “giustizia” del lavoro in gestazione, ad ogni modo, che vale a renderlo a più forte ragione di assai dubbia (per usare un eufemismo) costituzionalità, riguarda la legittimazione dell’arbitrato c.d. d’equità (non precluso, anzi esplicitamente consentito, dallo stesso d.d.l. n.1167). Equità, naturalmente, nel linguaggio dei comuni mortali è parola che suscita sensazioni positive ed un atteggiamento di istintiva approvazione. Sfortunatamente, nel linguaggio giuridico l’arbitrato d’equità è quel tipo di arbitrato che consente di risolvere le controversie prescindendo dall’applicazione delle norme inderogabili di legge e contratto collettivo (ad esempio sanzionando un licenziamento illegittimo con il riconoscimento di un risarcimento forfetario del danno e non con la reintegrazione nel posto di lavoro prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori).
Non a caso questa forma arbitrale non è mai stata consentita, da noi, in relazione a controversie di lavoro: proprio perché il sistema del diritto del lavoro, essendo proiezione dei principi e valori costituzionali in materia, si fonda sull’inderogabilità della legislazione ordinaria, che a quei principi e valori ha dato attuazione, sinora è stato ammesso esclusivamente l’arbitrato di diritto. Domani non sarà più così. Con l’arbitrato (quasi-obbligatorio e soprattutto) di equità, che sta per fare la sua comparsa nel nostro sistema di tutela dei diritti dei lavoratori, questi ultimi rischiano di essere privati di ogni effettività; in pratica verrebbe legittimata una sorta di rinuncia del lavoratore a far valere i propri diritti prima ancora che il rapporto abbia cominciato ad avere svolgimento: quanto basta per aspettarsi che la Corte costituzionale sarà presto chiamata ad occuparsi della questione.
E l’opposizione parlamentare? Caso vuole che essa sia rappresentata al Senato dal prof. Pietro Ichino, il quale da tempo ritiene che l’inderogabilità della norma lavoristica sia un tabù cui non vale la pena di restare troppo affezionati. In effetti il senatore ha scritto un denso editoriale sul Corriere della Sera del 19 novembre scorso, criticando il d.d.l. n. 1167 perché…darebbe troppo spazio ai giudici per sindacare la legittimità di un licenziamento! Che dire? Ci voleva davvero la lente d’ingrandimento di un oppositore intransigente per scorgere nel provvedimento approvato dal Senato un pericolo del genere.
D’altronde, che si pretende? Dalle parti del PD l’idea della difesa non ‹‹ nel processo ››, ma ‹‹ dal processo ›› è già stata accreditata in materia penale. Ci si poteva forse opporre più di tanto ad una sua concreta sperimentazione nel diritto del lavoro?
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