la stampa
11/12/2009
Ancora buio dopo il tunnel
MARIO DEAGLIO
Grazie al forte calo della produzione industriale dei Paesi ricchi (tra il 10 e il 20% rispetto ai valori di un anno fa) il livello di inquinamento del pianeta è sicuramente diminuito in maniera sensibile.
Come è però ovvio, questo modo di ridurre l’inquinamento non piace a nessuno, neppure ai partecipanti alla Conferenza sul clima di Copenhagen. La nostra è infatti ben lontana dall’essere una decrescita felice: nel quadro economico mondiale, gli unici indicatori in sicuro e sensibile aumento sono il numero degli affamati dei Paesi poveri e dei disoccupati nei Paesi ricchi nonché l’ammontare del debito pubblico di molte tra le maggiori potenze economiche.
La quasi assenza della ripresa è una sorpresa per molti osservatori, che, sulla base dell’esperienza di altre crisi recenti, derivanti dalla necessità di comprimere la domanda per tenere a bada l’inflazione, prevedevano un rapido recupero produttivo. Secondo lo schema del premio Nobel Milton Friedman, dopo aver superato il punto di svolta inferiore, la produzione, sgravata dai pesi imposti per recuperare la stabilità dei prezzi, avrebbe dovuto scattare all’insù come un elastico e riportarsi in pochissimo tempo sul sentiero di crescita forzatamente abbandonato. La ripresa è invece pigra, quasi svogliata, le economie più dinamiche del pianeta hanno mostrato una bassa reattività all’imponente iniezione di risorse finanziarie nel sistema da parte delle banche centrali e dei governi. In Giappone è tornata la stagflazione, una temutissima «malattia economica» derivante dalla presenza congiunta di un calo di produzione e un calo generalizzato dei prezzi, in Spagna la disoccupazione sfiora il 20 per cento.
La spiegazione di simili lentezze e incertezze si può trovare precisamente nel diverso carattere della crisi attuale che, distruggendo enormi risorse finanziarie, ha fortemente ridotto non solo le capacità di spesa delle famiglie ma anche le capacità delle imprese di investire, innovare, reagire alla crisi stessa. Passeranno quindi ancora molti trimestri prima che si raggiungano i valori di produzione che oggi rivedremmo volentieri, anche se portano con sé un inquinamento maggiore.
Un esempio dell’inadeguatezza della ripresa può essere facilmente trovato nei più recenti dati italiani: secondo quanto confermato ieri dall’Istat, nel periodo luglio-settembre il prodotto lordo è cresciuto dello 0,6 per cento rispetto al trimestre precedente. Può sembrare un ottimo risultato ma se si confronta il dato con quello del terzo trimestre 2008 si constata una caduta del 4,6 per cento, tra le peggiori dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Pensavamo di essere usciti dal tunnel, e forse statisticamente lo siamo, ma ci accorgiamo che fuori dal tunnel è buio, la strada è tortuosa e piena di buche, il nostro navigatore si è rotto e procediamo cautamente, un metro dopo l’altro, senza avere un’idea precisa di dove stiamo andando.
L’espansione a passo di lumaca preoccupa soprattutto i produttori di petrolio, tormentati non già dalla prospettiva dell’esaurimento delle loro riserve bensì da quella opposta di una perdurante debolezza nella domanda del loro prodotto. Al punto che il Messico ha deciso di spendere un miliardo di dollari per acquistare una polizza di assicurazione contro la caduta del prezzo del petrolio: se le quotazioni dell’ «oro nero» scenderanno mediamente sotto i 57 dollari al barile nel corso del 2010, il Messico verrà «indennizzato» da un gruppo di banche con le quali ha concluso il contratto.
Del resto il Venezuela, altro produttore latino-americano di primaria grandezza, è precipitato in recessione dopo quasi sei anni di espansione; e alla base delle difficoltà di Dubai e di Abu Dhabi c’è la previsione che la rendita petrolifera di cui godono i Paesi del Golfo sia destinata a calare. Incuranti dell’ottimismo di molti analisti e delle dichiarazioni piene di fiducia di molti capi di governo, i detentori di capitali di quell’area stanno «votando con i loro soldi», per parafrasare un’espressione di Einaudi, ossia portando i loro capitali fuori da quello che doveva essere un paradiso basato sul petrolio e che invece rischia di diventare una trappola di costruzioni faraoniche non finite. Stanno di fatto comportandosi come se la ripresa fosse inesistente o di entità irrilevante.
La scommessa messicana e i comportamenti dei produttori petroliferi del Medio Oriente vanno presi sul serio soprattutto dagli europei, in quanto la probabile crisi del debito pubblico greco introduce una nuova, allarmante dimensione a un quadro che di per sé non è già dei migliori.
Pessimismo? No, realismo dal quale è necessario partire per imbastire discorsi fondatamente ottimistici. L’economia non è come la Bella Addormentata destinata a svegliarsi per miracolo senza segni di vecchiaia dopo un lungo sonno; e a svegliarla e a farla ringiovanire non sarà il bacio di un Principe Azzurro. E’ necessaria un’azione dura e spesso oscura di un gran numero di imprenditori, banchieri, politici pronti a mettere in gioco le loro fortune personali, a contrapporre azioni con orizzonti lunghi alle scommesse anti-rischio di breve termine come quella del Messico. Le diatribe dei politici di questi giorni, lontanissime dai problemi che l’economia deve affrontare, mostrano quale distanza ci separa da una vera ripresa.
mario.deaglio@unito.it
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