Da La Stampa
7/12/2009
Pd, il partito né di lotta né di governo
LUCA RICOLFI
Comunque la si giudichi, non vi sono molti dubbi che la manifestazione di sabato contro Berlusconi - il cosiddetto «No B-day» - abbia spiazzato il partito di Bersani. Non certo per il numero di partecipanti, presumibilmente non lontano dalle 200 mila unità, ma per il fatto stesso che un evento del genere possa aver avuto luogo. Che cosa c’era di tanto spiazzante nella manifestazione di sabato?
Intanto la mancanza di uno sponsor o di un promotore forte, sostituiti da una rete di contatti via Internet. Non solo niente sigle di partito, ma anche niente movimenti e niente leader. Tutte le grandi adunate degli ultimi anni, anche le meno convenzionali, un catalizzatore lo avevano sempre avuto: Wojtyla e la gioventù cattolica (2000), Cofferati e il popolo della sinistra (2002), Pezzotta e il family day (2007), Grillo e il vaffa-day (2007). Qui invece niente, un appuntamento nato senza l’aiuto di nessuna star religiosa, politica o mediatica.
Poi lo stile. A quel che riferiscono le cronache il tono dominante è stato l’allegria, o forse il senso di liberazione. Nessun incidente, nessuna bandiera americana bruciata, nessuna offesa al Capo dello Stato, solo la condanna intransigente del premier, considerato non degno di occupare la carica che occupa. Nessuna voce ai tanti politici che hanno provato a esserci, alcuni non senza imbarazzo.
Ma l’elemento più spiazzante della manifestazione di sabato, rilevato da molti commentatori, è stato che essa ha messo a nudo la debolezza politica del Partito democratico. Che non sta nel non aver aderito alla manifestazione, ma nel fatto di non essere in grado di spiegare le ragioni della sua assenza. Se la manifestazione avesse preso una piega violenta, qualunquistica, antiistituzionale oggi il Pd potrebbe tirare un sospiro di sollievo e dire: ve l’avevo detto. Ma non è andata così, e l’elettore di sinistra fa fatica a capire perché Bersani, leader del Pd, ha disertato una manifestazione in cui c’era anche Franceschini (ex segretario, ora capogruppo Pd alla Camera), c’era anche Marino (uno dei tre candidati alla segreteria), c’era anche Rosy Bindi, che del Partito democratico è niente meno che il presidente.
Naturalmente i dirigenti del Pd una spiegazione sono in grado di darla, ma il punto è che si tratta di una spiegazione in codice, piena di sottigliezze e di distinguo. Ne abbiamo avuto un saggio qualche sera fa in tv, quando Rosy Bindi ha provato a spiegare perché non sarebbe andata alla manifestazione, salvo poi cambiare idea e andarci: segno che la spiegazione non aveva convinto neppure lei.
Da dove viene tanta confusione di idee nel principale partito di opposizione?
Io un’ipotesi ce l’avrei, anche se non sono affatto sicuro di essere nel giusto. La mia ipotesi è che nel Pd prevalga ancora, con effetti paralizzanti, la dottrina Veltroni dei due tipi di riforme. Secondo tale dottrina, da lui enunciata non appena gli venne affidato il comando del Pd, una dialettica sana fra governo e opposizione poggia su due principi: condivisione e convergenza sulle regole del gioco, scontro anche aspro sui programmi e sui contenuti. Il Pd attuale sembra ancora ipnotizzato dalla dottrina Veltroni: infatti cerca disperatamente un accordo sulla giustizia, sulle riforme istituzionali, e in prospettiva sulla legge elettorale, mentre critica duramente il governo sulla politica economica, sull’evasione fiscale, sulla scuola, sull’università, sulla sicurezza, sulla criminalità, sull’immigrazione, sul terremoto, insomma praticamente su tutto quel che fa.
Io penso che la dottrina Veltroni sia errata, e che le cose stiano semmai al contrario: il dialogo (quasi) impossibile è quello sulle regole, il confronto possibile è quello sulle riforme economico-sociali (come è già successo, quasi di nascosto, con la riforma Brunetta-Ichino della Pubblica amministrazione). Ma il punto che qui mi interessa non è se la dottrina Veltroni sia giusta o sbagliata, ma quali conseguenze produce.
Se credi di poterti mettere d’accordo sulla giustizia (meno intercettazioni, limiti al potere dei Pubblici ministeri, salvacondotto per Berlusconi), accordo che, stante il numero di politici inquisiti, è interesse comune del ceto politico di destra e di sinistra, devi «abbassare i toni» sulle questioni di principio e non puoi aderire a una manifestazione che - per quanto civile e ordinata - esclude ogni forma di collaborazione con il governo. Se credi di non poterti mettere d’accordo sulle riforme economico-sociali, e che anzi sia proprio quello il terreno su cui costruire l’identità del nuovo partito, diventa naturale criticare il governo qualsiasi cosa esso faccia o non faccia, denunciarne continuamente i fallimenti, nella speranza che a forza di disastri e insuccessi gli elettori si decidano a cambiare governo, come in effetti hanno sempre fatto nella seconda Repubblica.
Ed ecco le conseguenze. Agli occhi degli elettori l’opposizione del Pd appare al tempo stesso «inciucista» e disfattista, pavida e anti-italiana. Inciucista e pavida perché non osa unirsi alla protesta di piazza contro le leggi ad personam, disfattista e anti-italiana perché le sue critiche alle cose che il governo fa sono spesso pregiudiziali e inconsistenti. Di qui la paralisi di un partito che non riesce a fare politica né in piazza né in Parlamento, perché la dottrina Veltroni gli vieta sia la piazza (sulle regole dobbiamo andare d’accordo), sia il Parlamento (sulle cose da fare dobbiamo distinguerci). Di qui il paradosso di un partito che regge come intenzioni di voto (oggi il Pd è tornato intorno al 30%) ma di cui gli elettori non apprezzano il modo di fare opposizione (i giudizi positivi sul governo sono oltre il 50%, quelli sull’opposizione sono sotto il 25%).
Forse, per il bene stesso del Partito democratico, è giunto il momento di farsi qualche domanda sulla dottrina Veltroni.
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