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sabato 10 marzo 2018
Paolo Zinna: Ridare senso alla sinistra
RIDARE SENSO ALLA SINISTRA
IL PANORAMA. Il disastro della sinistra politica sta stimolando qualche riflessione, cosa rara negli ultimi anni. Si possono individuare subito due grandi categorie interpretative, che mi sembrano entrambe corrette ma insufficienti da sole a definire del tutto il problema e quindi insufficienti come basi per trovarne la soluzione.
Molti evidenziano l’ineluttabilità delle conseguenze della globalizzazione: cadono le barriere fisiche e normative, cadono le barriere informative, il mercato, e in particolare il mercato del lavoro, è diventato globale. Il benessere dei ceti medio bassi dei paesi sviluppati era sostenibile solo in un quadro di diseguaglianza fra aree del mondo, che non può più continuare. E’ scomparso (o meglio, si sta attenuando) l’ingiusto “premio di cittadinanza” di cui essi godevano. Perciò, il grafico ad elefante di Milanoviç fotografa un’evoluzione inarrestabile: stanno meglio gli ultimi, i poveri cinesi o indiani, perdono i penultimi, che erano la constituency della sinistra occidentale. La teoria socialdemocratica non può rovesciare queste tendenze, i ceti deboli cercano risposte purchessia al loro disagio, perciò i partiti socialdemocratici europei si indeboliscono tutti. Perciò, nessuno ne ha colpa, la sinistra occidentale non potrà più vincere.
Altri, invece, ne fanno una questione di subalternità culturale. Dopo la fine degli anni ’70, il pensiero dominante è diventato neoliberista. Le sinistre europee, invece di contrastarlo, si sono adeguate, hanno sostenuto riforme penalizzanti per i lavoratori e i pensionati, senza che questo portasse benefici ai giovani disoccupati e sottooccupati, nonostante tutto lo “storytelling” interessato. Cit.: “La lotta di classe è finita, perché l’hanno vinta i ricchi”. Ovvio che, finché non riprenderemo a praticare un sano antagonismo, i ceti deboli non si sentano rappresentati da noi. Invece, “presa in mano la lettera di Trichet a Berlusconi, il Governo Renzi si è ben applicato e mentre da un lato operava dazioni sociali a man bassa (80 euro), dall’altro, indossato il maglione blu di Marchionne, ha avviato una serie di riforme decisamente osteggiate dal mondo del lavoro ancor più che dal sindacato: Jobs Act e Buona Scuola hanno segnato un profondo distacco per contenuto e valenza simbolica”(G.Ucciero).
Tutto ciò non si può negare, sono necessarie però alcune osservazioni. Certo, la globalizzazione, ecc, ecc. ma i mercati di consumo restano (restavano …) in Occidente. Certo, non vogliamo opporci alla crescita dei redditi dei poverissimi del mondo. Però i privilegiati e le loro corporations si sono appropriati di buona parte dei vantaggi di costo derivanti dalle nuove localizzazioni: potevamo contrastarli in questo. Il grafico ad elefante, finora, non dice che i poveri dell’occidente si sono impoveriti, dice solo che, da vent’anni, i loro redditi sono cresciuti meno di altri: la politica della sinistra occidentale avrebbe potuto confiscare una parte dei profitti che si stanno creando per mantenere a buon livello i propri sistemi di welfare. “Ma la libertà di commercio, ma ….” Parliamo chiaro: l’ideologia della “libertà dei mercati” sempre e comunque è, appunto, un’ideologia, il credo religioso del WTO non è meno assurdo di quello salafita. In ultima analisi si tratta sempre di una scelta della politica, per la quale non possiamo sentirci innocenti. Non è vero che “There Is No Alternative”. Cioè, la prima spiegazione si risolve anch’essa nella seconda.
Allora, basta tornare alla politica della sinistra nella “golden age” socialdemocratica? Se ciò fosse del tutto vero, a sinistra del PD si sarebbero davvero aperte praterie e Liberi ed Uguali sarebbe stata la risposta vincente. Evidentemente, c’è anche qualcosa d’altro.
Perché, nel tardo 1800, nacquero le leghe, i sindacati, i partiti socialisti? Perché grande era la disparità di potere fra il proprietario, industriale o latifondista, e il singolo lavoratore; lo Stato, come sempre, era dei più forti, la sua forza proteggeva i più forti. Poi, per un secolo, la storia è stata storia delle lotte, vinte o perdute, per rovesciare questo stato di cose. Le grandi organizzazioni della sinistra hanno controbilanciato il potere delle élites, difendendo “los de abajo” dal potere di “los de arriba”.
Oggi in Europa non è più così. La polverizzazione dei centri di lavoro ha minimizzato la presa e l’efficacia del sindacato, il più forte sindacato in Italia è lo SPI. I partiti, svaporato il collante dell’ideologia, sono diventati evanescenti comitati elettorali, più o meno egemonizzati da bande che li piegano ai propri personali interessi. La comunità locale è meno solidale, più frammentata. Il tempo, anche e soprattutto il tempo libero, viene fruito individualmente. I network creano relazioni deboli, non creano comunità. Persino il nucleo familiare diventa light, ad esempio scompare il rito del pasto comune, anzi, del pasto tout court. So di dire cose scontate ma ne voglio trarre una conclusione generale: ciascuno di “los de abajo” oggi si sente più solo di fronte a giganti inattaccabili.
E ciascuno di noi, in un momento o nell’altro, sente di essere uno “de los de abajo”. L’ho sentito su me stesso, qualche tempo fa, in una divertente “storia-siparietto” che mi ha contrapposto alla Citroen. Mi stavano facendo una ridicola prepotenza ma cosa potevo farci? Un professore di economia neoliberista mi avrebbe detto: c’è la libera concorrenza, compra un auto di altra marca, quando la dovrai rinnovare! Sì, certo, sai quanto ne soffrirà la Citroen del mio comportamento di utente singolo! E sei sicuro che tutte le concorrenti non si comportino allo stesso modo? (vedi ad esempio la storia della fatturazione a 28 giorni …). E voi, avete mai dialogato con Telecom o con le sue concorrenti, con le autostrade e le compagnie aeree, con la RAI o con l’INPS, con la Pubblica Amministrazione?
Se guardiamo la geografia elettorale, l’Italia è diventata tripolare. Il 2018, invece, sta facendo emergere, al di sotto dei colori parlamentari, un reale bipolarismo di fondo: “responsabili” ed irresponsabili, europeisti e sovranisti, “competenti” e incompetenti, quelli che hanno fatto esperienza in America e quelli che non sanno usare i congiuntivi. Insomma, quelli che sanno come si sta a tavola e quelli che non ci sanno stare: la Lega e i Cinque stelle. E, se ti senti inconsciamente uno “de los de abajo”, a chi darai il tuo voto? Se poi invece scegli di identificarti con LeU o Potere al Popolo, perché mai ci dovremmo aspettare che tu senta Gori meno lontano di Fontana? Ugualmente Destra, tutti e due. [Sia detto en passant: in questo panorama, l’approccio comunicativo che, come PD, abbiamo avuto verso i 5S appare semplicemente assurdo]
Consideriamo ora come viene visto il Partito Democratico (senza escludere i fuorusciti oggi in LeU né i sodali di Insieme o di +Europa) da chi lo guarda con gli occhi di “los de abajo”. Noi, siamo il partito di “los de arriba”; di più, siamo quelli che hanno occupato lo Stato a proprio uso. Ci giudicano troppo indulgenti coi “poteri forti” al vertice: il rapporto fra economia e politica si è rovesciato, siamo stati noi ad essere molto “governativi” verso il potere economico. Stiamo sembrando piuttosto sensibili alle piccole lobby nei quadri intermedi (ricordate le concessioni balneari? E non vorrei tornare su altre recenti vicende …). Ci vedono disinvolti nel cogliere le opportunità della gestione della PA ai livelli inferiori. E’ un quadro ingiusto? In parte certo sì ma capisco che molti elettori ci abbiano visto così. Come insegnava Gilas, i beni in “proprietà pubblica” sono, di fatto, in proprietà privata della classe politico-burocratica, che decide come usarli e che si appropria dei benefici della loro amministrazione sotto forma di stipendi, poltrone, prebende.
UNA LINEA D’AZIONE PER IL FUTURO. Una linea dedicata a chi vuole la costruzione di una società con ridotte diseguaglianze, con libertà e opportunità ragionevolmente disponibili a tutti, una società socialdemocratica. Dedicata soprattutto a chi vuole impegnarsi per realizzarla oggi e non proporsi di vedere i risultati fra decine d’anni. Una “sinistra di governo” dunque, che non si scandalizzi delle necessarie mediazioni con chi ha posizioni diverse ma, al proprio interno, abbia archiviato una volta per sempre l’equivoca nozione di “centrosinistra”.
In questa prospettiva, è chiaro che il primo campo d’azione non può essere che il PD, un PD ovviamente “derenzizzato” (ma questo primo passo sembra ormai quasi già avvenuto). Lo spazio politico per una nuova formazione a sinistra, invece, mi pare per ora ridotto.
Intanto, (cit. Rosa Fioravante) “è un voto di classe quello che ha spaccato in due il Paese, con un plebiscito grillino in meridione, dove lo Stato è più assente. All’aumentare del reddito si vota PD o Forza Italia, al diminuire è una vandea gialla se si ha un livello di istruzione medio o “Salvini Premier” se ci si è fermati alla scuola dell’obbligo”. Nel programma per il nostro futuro governo è necessario e doveroso, quindi, che ci sia la ripresa delle posizioni tradizionali delle sinistra socialdemocratica: una politica economica moderatamente espansiva, orientata alla stabilizzazione in percentuale dell’incidenza del debito sul PIL (e non alla sua riduzione) - una seria politica fiscale - un piano di piccoli investimenti pubblici decentrati, senza violentare il territorio - una correzione degli interventi degli ultimi vent’anni sul mercato del lavoro, cancellandone gli aspetti più “ideologici” e non necessariamente utili per il benessere delle aziende, eccetera, eccetera su infiniti altri temi.
Tutto scontato, quasi banale - ma, come già detto, assolutamente insufficiente se non dimostreremo concretamente che stiamo dalla parte dei piccoli contro i grandi e i privilegi degli “incumbent”; mi azzarderei a definire tutto questo “una parte della lotta di classe del XXI° secolo”. Questa deve essere l’impronta delle nostre proposte “bandiera”, del programma dei primi cento giorni di ogni nostro futuro governo. Ad esempio, dobbiamo proporre una legge efficace per favorire le “class action” anche contro la Pubblica Amministrazione. La partecipazione dei cittadini (anche tramite sorteggio) alle attività delle autorità di sorveglianza. Una legislazione rigorosa contro nepotismo e favoritismi nei campi ove tutti sappiamo che sono diffusissimi (università, professioni, …). La regolamentazione trasparente del lobbying parlamentare e nelle autonomie. Un finanziamento pubblico della politica moderato e trasparente, collegato a limiti di spesa ben più vincolanti. Per la RAI, una drastica cura dimagrante ed una rifondazione radicale. Serietà nella lotta all’evasione fiscale transnazionale: non c’è nulla da scoprire, bisogna soltanto volerlo. E mille altre cose che potremmo elencare.
Secondo passo: cosa pensiamo sull’evoluzione e sulla crisi del lavoro? Sul restringersi dell’area del lavoro in Occidente? L’argomento è finalmente all’attenzione dell’opinione pubblica grazie al reddito di cittadinanza dei 5 Stelle. Da questo punto di vista, il dibattito mi pare per ora insufficiente, volto solo a correggere i problemi peggiori e senza respiro strategico. Ma la “scomparsa del lavoro” ha implicazioni epocali sulla società: se col lavoro scompare il reddito, chi consumerà? quali conseguenze sull’economia? E il lavoro nella nostra cultura è anche asse costitutivo dell’identità della persona. Come sostituirlo? Non ho la presunzione di definire qui una ricetta ma affermo che su questo terreno sta l’altro pilastro del futuro della sinistra. Dobbiamo spendere tutte le nostre energie intellettuali su questo campo.
Ma, ancor prima di proporre per il paese, dobbiamo aver agito su noi stessi, perché è doveroso, e perché è indispensabile per recuperare la nostra credibilità.
Per la politica e il partito, userei il concetto di “rigenerazione” (trascurando che l’abbia detto Zingaretti, non mi interessa). Abbiamo bisogno di rigenerarci, tutti e ciascuno di noi. I Democratici devono recuperare i valori dei partiti di sinistra del dopoguerra: l’integrità di comportamento, la sincerità nelle affermazioni, il senso di comunità. La “rottamazione” di Renzi? No, per l’approccio sprezzante, no per l’applicazione “furba” ai soli avversari. Sì, perché non si può fare un partito nuovo senza un profondo rinnovamento del personale politico. Ci vuole una robusta dose di serietà e severità, che è mancata in questi anni.
Dobbiamo rinnovare il costume nel partito, emarginando chi mette i propri obbiettivi personali al di sopra della politica. Dobbiamo favorire il sentimento di comunità coesa entro le articolazioni locali del PD, penalizzando i disinvolti. Dobbiamo garantire a tutti di poter influire in proporzione al proprio consenso, misurato con onestà: ci vorrà una radicale revisione degli Statuti. Archiviamo le Primarie, ove si contende il base alla notorietà nel pubblico e non in base ad ipotesi politiche chiaramente in competizione, semmai immaginiamo forme più sofisticate di apertura della politica ai cittadini (referendum interni, “doparie”, “public debate”, …). Riportiamo le decisioni negli organi del partito: la distanza fra procedure formali e informali è diventata insopportabile. Diamo concretezza a tutto questo attraverso leggi attuative dell’articolo 49 Costituzione. Misure specifiche dovranno essere studiate per contrastare l’influenza prevalente degli “ottimati”: recuperiamo l’uguaglianza vera fra compagni. Siamo chiari: dobbiamo rinunciare a molte posizioni di vantaggio. Abbiamo troppi “articoli 90”, troppe consulenze, troppe corsie privilegiate. E non si possono vedere candidati, anche meritevolissimi, riproporsi per infinite volte ….
Nella sfera pubblica, dobbiamo radicalmente cancellare la prevalenza dell’“uomo solo al comando”, ridando centralità e potere ai Consigli. Infine, ma non ultima per importanza, dobbiamo semplicemente tornare all’unica legge elettorale onesta e corrispondente ai nostri valori democratici: la legge proporzionale della prima Repubblica. Essa deve avere due corollari: scelta degli eletti a preferenze e assoluto divieto di pluricandidature.
In un ambiente proporzionale, com’è ovvio, nessuno può aspirare a governare da solo. Non c’è più spazio per presunzioni di superiorità e “vocazioni maggioritarie”. Si è costretti a riconoscere agli avversari diritto di pensiero critico e legittimazione politica. L’eccezione antifascista è basata non sulla superiorità morale, ma sul diritto di legittima difesa della Repubblica e dei singoli.
Però, se non ci proponiamo più di piacere a tutti, se archiviamo il “partito della Nazione” (che, diciamocelo, non era poi tanto diverso dal “partito degli onesti” di berligueriana memoria …), bisogna recuperare una nostra chiara identità, dire chi siamo e dove vogliamo andare e anche quali interessi vogliamo favorire, chi vogliamo rappresentare: gli startuppers o i lavoratori delle cooperative di logistica? il mondo dello spettacolo di Roma o gli agricoltori siciliani? gli avvocati d’affari o ….
Paolo Zinna
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