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sabato 18 febbraio 2017
Franco Astengo: Le ragioni della scissione
LE RAGIONI DELLA SCISSIONE di Franco Astengo
Al di là dell’esito concreto della vicenda interna al PD (che ci sia o non ci sia la scissione) è il caso di indagare a fondo la situazione che si sta profilando ricercandone le cause:
1) Primarie: istituzionalizzazione del sacrificio e del tragico senso di colpa che non trova una possibile riconciliazione. Da qui l’origine “vera” della scissione non tanto a livello di singoli ma a dimensione “sistemica” come si cercherà di argomentare.
2) Le primarie diventano il momento della legittimazione mitica che consegna a una persona la segreteria del partito, il controllo degli organismi dirigenti, il potere di nomina dei parlamentari e la guida del governo, l’elezione del capo dello Stato. Congiunte al premio di maggioranza, le primarie in astratto rendono possibile un comando assoluto che s’insinua, a partire dai riti del gazebo, in ogni ambito del potere pubblico (Il nuovismo realizzato di Michele Prospero.) Un comando assoluto che segna il confine tra il partito leaderistico (il PSI di Craxi), il partito – azienda con un capo (Berlusconi) e il partito personale (PdR)
3) Ancora una volta si dimostra come le forme della politica abbiano regole invalicabili che quando si superano attuando forzature più o meno forti, come nel caso dell’attualità, alla fine si rivelano pericolose per l’equilibrio degli assetti democratici. Per questo motivo l’eventuale scissione del PD (che se fosse mancata lo sarebbe soltanto per un atto di mero opportunismo) presenta in sé una sua razionalità: appare tutt’altro che inspiegabile proprio perché origina da un’evidente forzatura attuata in partenza, fin dai tempi dei plebisciti al riguardo delle candidature Prodi e Veltroni. Plebisciti, infatti, e non primarie “all’americana”. Plebisciti che consegnano un indiscutibile “potere di nomina”.
Nonostante l’esito del referendum del 4 Dicembre non è stato ancora sventato il pericolo di una codifica formale di un regime personalistico – autoritario che si intendeva e si intende realizzare in Italia sulla base di assunti dettati da poteri economici e finanziari esterni al sistema politico e ispirati nella sostanza dal documento di Rinascita democratica stilato dalla loggia massonica segreta P2 nel 1975.
Sulla base di questi primi punti fermi è necessario indagare a fondo il fenomeno della personalizzazione così come questo si è realizzato nel corso degli ultimi decenni all’interno del quadro complesso del sistema politico italiano.
Scrive Rossana Rossanda: “ Penso che oggi ci sia un bisogno spontaneo della gente di avere più una persona cui collegarsi che un’idea”.
Questo fatto avviene in un momento di crisi profonda delle identità collettive e di vera e propria destrutturazione dell’agire politico ormai diluito nei rivoli del corporativismo.
Un fenomeno chiarito già negli anni centrali del “secolo breve” da Max Weber che, preso atto dell’esistenza di una tensione verso un legame rivolto al riguardo del leader da parte delle masse in ragione della ricerca del successo e quindi dell’esigenza di controllo del potere, spiegava come in assenza di una forte spinta ideale viene a mancare una capacità d’interpretazione degli eventi.
Sottolinea Weber, con un’affermazione di straordinaria attualità legata proprio al “caso italiano”: “ anche sui trionfi politici esteriormente più efficaci pende la maledizione della nullità”. Sembra proprio la fotografia del PdR all’indomani del vantato (e inesistente) 40,8% alle elezioni europee del 2014. Inesistente perché pochissimi hanno valutato quel risultato per quel che valeva anche sul piano numerico, drogato dall’astensione più elevata nella storia della Repubblica.
Quello della presenza o dell’assenza della spinta ideale rappresenta il confine tra la direzione vera di un’organizzazione di massa che può anche essere interpretata da un soggetto identificato personalmente e il demagogo vanitoso che ride, recita, s’immerge nella finzione e la scambia egli stesso per il vero.
I partiti tramontavano e la nuova parola magica “leadership” risuonava nel mondo della politica italiana e procedeva senza che a nessuno venisse in mente un controllo analitico del suo significato.
Un’analisi non fatta che avrebbe dovuto svilupparsi, invece, attorno ad un punto: “il potere della persona” in Occidente rappresenta, in un’interpretazione di lungo periodo, una perdita secca rispetto a secoli di storia politico – giuridica occidentale che hanno separato la persona fisica dal potere.
Quando, da parte di analisti tacciati di eccessivo pessimismo, si accenna a un “arretramento storico” in atto è proprio a questo tipo di fenomeni cui si fa riferimento.
Un fenomeno del tutto diverso da quello, ad esempio, della solitudine del presidente americano che, come sottolinea Mauro Calise nel suo fondamentale “Il partito personale”: “trascende sì la funzione rappresentativa e concentra una grande autorità di comando ma questa è protetta, come accade nei sistemi sviluppati, da istituzioni complesse, da organizzazioni pubbliche che funzionano come procedure”.
Tutto questo non è inteso dalla personalizzazione all’italiana che discende dall’idea mal interpretata delle “vocazione maggioritaria” e dal conseguente meccanismo di primarie intese come plebiscitanti.
Su questi punti avviene la scissione: una rottura di fondo tra il soggetto che intende incarnare il plebiscito e il sistema democratico.
Ben oltre a ciò che accadrà nella dimensione ridotta del PD tra chi entrerà e chi uscirà dalla porta girevole, tra un Pisapia che entra, un D’Alema che esce e un po’ di tremebondi che restano sull’uscio.
I nodi verranno sicuramente al pettine e le scissioni dalla realtà si misureranno con il concreto.
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