sabato 21 gennaio 2017

Paolo Zinna: Dopo l'insediamento di Trump

Relazioni internazionali: una svolta necessaria Stiamo guardando il mondo con gli schemi degli anni ’50, che sono superati almeno da trent’anni: i due blocchi, la minaccia russa, ecc. Questo ritardo concettuale ci ha fatto commettere molti errori: guerre inutili per l’esportazione della democrazia, apparati militari spropositati e inadeguati rispetto alle crisi di oggi. L’Unione Europea non è una risposta: non ha politica estera e non può avere l’autorevolezza necessaria per darsela. Le scelta di Trump verso relazioni internazionali più distese con la Russia e maggior attenzione al teatro asiatico può essere un’occasione per gli europei. Occorre coglierla senza remore: bloccare l’Unione allo stato di sviluppo di oggi, magari anche con qualche arretramento, proporsi invece un lavoro politico negli elettorati per far nascere dal basso partiti europei e poi istituzioni democratiche europee - a lungo termine, puntare su una comunità che abbia l’obbiettivo di De Gaulle:”Europa dall’Atlantico agli Urali”. Dissolvere consensualmente la Nato e puntare senza esitazioni verso una politica di disarmo dei grandi apparati militari e riconversione verso strumenti flessibili più adeguati alle sfide di oggi. Investire su una politica di cooperazione e sviluppo verso la sponda sud del Mediterraneo. ooo In questi giorni a Washington è cambiata l’amministrazione e molte cose cambieranno nella politica degli Usa verso il mondo. Ma forse non c’è solo questo; forse è il momento di accorgersi che molte cose sono già cambiate negli anni senza che noi ne abbiamo preso atto. Per capire, bisogna ripercorrere decenni di relazioni internazionali. La visione della politica estera nel secondo novecento Alla fine della seconda guerra mondiale, il prestigio degli Stati Uniti presso tutti i popoli del mondo era, giustamente, altissimo. Gli USA erano la patria della libertà, erano il grande amico d’oltreoceano che aveva sconfitto le dittature fasciste e il militarismo giapponese, verso di loro si aveva un forte e giustificato sentimento di riconoscenza. Con il piano Marshall, stavano aiutando l’Europa occidentale a riprendersi dalla povertà indotta dalla guerra. Nel Terzo mondo (fra gli arabi, ad esempio), gli americani erano quegli occidentali che rifiutavano l’approccio colonialista delle vecchie potenze e accompagnavano i popoli giovani verso un futuro di indipendenza. L’atmosfera di libertà della vita americana, lo stile di vita americano veicolato dai media, gli standard di consumo americani, erano i modelli positivi per le nuove generazioni in Europa, in Asia e Africa, forse un po’ meno solo in America Latina. L’altro grande modello, la patria del socialismo, l’Unione Sovietica, era indubbiamente meno affascinante per chi non avesse un forte orientamento ideologico; e del resto, in pochi anni, si manifestavano tutti i suoi limiti: la mancanza di libertà, lo sviluppo frenato, il conformismo intellettuale imperante, e si scoprivano i crimini dello stalinismo e l’oppressione in Europa Orientale. La North Atlantic Treaty Organization, invece che un’alleanza militare come le altre, per noi era la lega dei popoli liberi, lo scudo contro la prepotenza dei tiranni di Mosca. Questa visione ha costituito gli “occhiali” con cui diverse generazioni di politici hanno interpretato il mondo: America uguale “i nostri”, il Mondo Libero; avversari dell’America uguale “i cattivi” o almeno quelli “che avevano esaurito la spinta propulsiva”. Io stesso, per decine di anni, ho condiviso questa visione con convinzione. Però, già allora non tutti la pensavano così. Charles De Gaulle, leader della Francia che non si era arresa ai nazisti, era un indiscutibile antifascista e anticomunista, un generale con tendenze conservatrici e autoritarie. Eppure aveva colto, e rifiutato, l’asimmetria dell’alleanza occidentale, il fatto che nella NATO uno decideva e gli altri si allineavano. Perciò, nel 1966, decise l’uscita della Francia dal dispositivo militare dell’alleanza, lo sviluppo autonomo della potenza nucleare francese, la dottrina di difesa “tous azimuts”. E già parlava di uno spazio europeo “dall’Atlantico agli Urali”. Gli Stati Uniti sono un grande e complesso paese. Non sempre nel loro governo ha prevalso lo spirito democratico della Costituzione, talvolta sono state più forti le lobbies, la voce del complesso “militar-industriale”, come disse lo stesso Presidente repubblicano Eisenhower. E perciò, della posizione di enorme vantaggio psicologico di cui godeva, l’America fece spesso cattivo e prepotente uso, interferendo nei governi di paesi amici fino ad organizzare in parte e finanziare numerosi colpi di stato: es. 1953 Iran, 1954 Guatemala, 1963 R. Dominicana, 1965 Indonesia, e molti altri, in maggiore o minor misura. (Naturalmente non bisogna dimenticare altre vicende in cui invece gli Stati Uniti hanno usato la propria influenza a favore del processo democratico). Nell’opinione pubblica europea la guerra nel Vietnam ed il colpo di stato in Cile del 1973 contro Allende, sostenuto dalla CIA, hanno deteriorato molto il capitale di simpatia di cui godeva l’America. Ma molto si perdonava, in politica, vista la perdurante minaccia del blocco sovietico che, pur nel declino, mostrava ancora elementi di aggressività (Afghanistan 1978). Fine secolo: cambio di paradigma Il 1980 è stato un anno di rottura nella storia politica del ‘900. E’ il momento dell’arrivo al potere di Thatcher e Reagan, ma è soprattutto la data convenzionale della svolta con cui l’atmosfera intellettuale passa dal privilegiare i valori socialisti di giustizia sociale e solidarietà al mettere al primo posto i valori individuali: competitività, meritocrazia, affermazione del sé. Nelle teorizzazioni politiche, la svolta sfocia nel predominio del neoliberismo nei paesi anglosassoni e nella sua variante nordeuropea, ordoliberalismo ed economia sociale di mercato. Di fronte a tutto questo, le forze socialdemocratiche non sono riuscite ad elaborare una proposta alternativa convincente. Con la fine del decennio, l’implosione del blocco sovietico cambia completamente la configurazione geopolitica del mondo. Lo schema bipolare non c’è più, o meglio, non c’è più uno dei blocchi, la stessa Unione Sovietica si frantuma in molti piccoli stati, la Russia entra in un decennio di confusione e debolezza. Fukuyama teorizza la “fine della storia” attraverso la definitiva prevalenza della democrazia liberale: “i buoni” hanno vinto. Però, mentre cambia la geopolitica, non cambiano gli strumenti e i sentimenti con cui la leggiamo. In effetti, se “i buoni” hanno sbaragliato gli avversari, a questo punto tutti dovrebbero diventare “buoni”. Perché continuare a privilegiare emotivamente un attore sugli altri? E, se la spada del nemico si è frantumata, a cosa ci dovrebbe più servire lo scudo? Ma il pensiero politico nei primi anni ’90 non trae queste conclusioni. In seguito a questi sviluppi e anche come contrappeso alle prospettive di riunificazione tedesca, riparte il processo di integrazione europea, ma riparte curiosamente sbilanciato verso il lato economico (Maastricht 1993) e in qualche modo governato da un asse privilegiato fra Parigi e Berlino. Gli stati dell’Europa Orientale, appena liberati dalla sudditanza a Mosca, vengono coinvolti in un percorso di avvicinamento ed entrano a farne parte nel 2004. L’Unione degli anni 2000, perciò, risulta condizionata da due miti non completamente razionali: l’orrore per la politica economica espansiva, scolpito nell’opinione pubblica tedesca dal ricordo della disastrosa inflazione di Weimar - la russofobia dei “nanetti” centro orientali, fatta di ricordi e di paure. I due fenomeni convergono e si sostengono l’un l’altro, finendo per garantire a Berlino un’assoluta egemonia nell’Unione. Nel nuovo secolo, i fronti ideologici sono cambiati. Patria del socialismo contro America capitalista e guerrafondaia, mondo libero contro comunismo stalinista: ormai questi slogan suonano falsi da entrambi i lati della barricata. Invece, emerge prepotente un diverso contrasto fra due modi di rapportarsi al mondo: fede religiosa applicata come stile di vita contro laicità e relativismo. E naturalmente la visione religiosa applicata in politica difficilmente sfugge all’integralismo e l’integralismo postula l’inferiorità del diverso. E’ atteggiamento purtroppo abbastanza diffuso nel mondo musulmano, ma non solo: buddisti birmani verso rohingya musulmani, coloni ebrei ortodossi verso palestinesi, indù verso musulmani ad Ayodhya (dove gli induisti radicali distruggono nel 1992 una moschea plurisecolare, senza che in occidente si indigni nessuno per la perdita dell’opera d’arte). E nordovest e sudest del mondo vanno in direzioni diverse anche su un altro fronte: negli ultimi decenni, nelle società laiche dell’occidente le donne hanno conquistato sempre maggiori spazi di autonomia e di potere; diventa quindi ancor più plateale la differenza dalle società a impronta etica di matrice religiosa. Esportare la democrazia: un sostanziale fallimento Fra noi del primo mondo, questi cambiamenti rivoluzionari avrebbero dovuto stimolare un riesame critico dei criteri di lettura del mondo che ci erano stati utili in altra epoca; invece hanno prevalso nettamente le persistenze. Ad esempio, potremmo sintetizzare grossolanamente così i sentimenti che hanno guidato fino ad oggi la politica estera statunitense: ▪ tutti i popoli desiderano la democrazia politica, basta liberarli dalle costrizioni imposte dai loro dittatori e si volgeranno ad essa, scegliendosi leaders amici dell’America ▪ in ogni caso, la Russia è un nemico, anzi: IL nemico. Indipendentemente dai machiavellismi dei circoli governativi, importa sottolineare la sincerità di queste convinzioni nell’opinione pubblica americana. E ciò, ovviamente rende difficile e impopolare, per la diplomazia, cambiar strada. Di fatto, non si riesce a concepire che, nei paesi poveri, vasti strati della popolazione possano liberamente dare il proprio sostegno a leaders poco attenti ai meccanismi della democrazia liberale, ma ben in grado di fare sperare in una prospettiva di benessere e anche di riscatto della dignità nazionale. Ovviamente, nelle megalopoli del terzo mondo o nelle campagne profonde, il corretto pluripartitismo e la libertà di stampa non sono esattamente al vertice delle preoccupazioni della gran massa del popolo …. Così gli elettori, in piena libertà, si sono affidati al FIS islamico (Algeria ’91), ad Ahmadinejad per due volte in Iran, a Chavez e a Maduro per moltissime elezioni in Venezuela, ecc. I diseredati sono il gran serbatoio di consensi per personaggi discutibili come Morsi in Egitto ed Erdogan in Turchia. In Europa e Nordamerica si simpatizza con l’opposizione, in generale ben radicata nelle classi medie urbane e fra gli studenti, meno si considerano le ragioni degli abitanti delle favelas. Persino il nostro modo di affrontare il grande e pressante tema ambientale risente di questo strabismo. Capiamoci bene, ci dicono gli statisti del terzo mondo: voi avete costruito il vostro benessere sfruttando le risorse naturali, inquinando senza limiti, disperdendo gas serra - e ora ci dite di non fare noi lo stesso, di preservare le foreste, di contenere l’innalzamento della temperatura? Magari di restare perciò un po’ più poveri, mentre voi continuate ad usare i vostri condizionatori? Sarà un approccio demagogico, ma è difficile controbatterlo. Abbiamo dunque vissuto alcuni decenni di drammatica differenza nella percezione della realtà politica fra l’opinione pubblica occidentale (soprattutto nordamericana) e quella del resto del mondo. Questo quadro spiega anche, in parte, l’eccezionale importanza che tutti noi abbiamo dato alla tragedia delle Torri Gemelle (2001). E’ stato un brutale risveglio: “perché ci odiano?” si chiese, quasi sorpreso, il Presidente Bush. La strategia di risposta USA è stata influenzata dal pensiero politico “neoconservatore”: se quei popoli, aizzati e indottrinati da regimi illiberali, sono schierati contro di noi, dobbiamo liberarli dai loro regimi, con tutti i mezzi, perché la nostra democrazia è un bene assoluto. In alcuni casi, c’è di più: quei dittatori sono anche criminali, che opprimono il proprio popolo, imprigionano e uccidono gli oppositori, minacciano i vicini con armi chimiche e batteriologiche. Dobbiamo dare il via ad un “intervento umanitario” per neutralizzarli.. In effetti questa strategia è stato posta in essere con due diverse modalità, potremmo dire hard e soft, a seconda che ci siano stati scontri armati o no. I casi hard sono noti a tutti: Somalia 1993, Afghanistan dal 2001 ad oggi, Iraq 1991 e poi dal 2003 ad oggi, in parte Libia 2011. A distanza di molti anni, possiamo ormai serenamente constatare che i risultati non sono stati raggiunti: in nessuno di questi paesi si è usciti dalla guerra civile, si è riformato uno stato funzionante, c’è vera democrazia. A partire dai primi anni 2000 sono state sostenute invece, con maggior successo, opposizioni non violente che hanno dato luogo ad una serie di “rivoluzioni colorate” contro leaders anti occidentali, spesso vicini a Mosca: Serbia 2000, Georgia 2003, Ucraina 2004, Kirghizistan 2005 e molte altre di minor successo . Questi movimenti si sono ispirati alle teorie non violente di Gene Sharp e del suo Albert Einstein Institute e talvolta hanno ricevuto fondi di provenienza americana, in parte da fonti legate a George Soros. Bisogna dire che i regimi rovesciati erano in genere veramente autoritari, inefficaci, corrotti - non sempre però ciò che ne è emerso è stato inappuntabile: basta ricordare che in Georgia e Kirghizistan i nuovi regimi si legittimarono con elezioni che dettero loro un poco credibile 90% dei consensi. [Tutto questo rende abbastanza divertenti le proteste negli USA per le campagne di influenza dei russi a favore di Trump … ]. Un ondata analoga ha investito i paesi arabi nel 2011 (“primavere arabe”), con risultati disuguali: transizione verso la democrazia in Tunisia, ricaduta in Egitto in regime autoritario, fallimento dello stato e guerra civile in Libia e nello Yemen, repressione in Bahrein. Nodi attuali E oggi, a che punto siamo? La storia non è finita, tutt’altro: non vediamo il mondo politicamente quasi uniforme e pacifico, avviato armoniosamente verso un nuovo ordine mondiale sotto la guida illuminata di Washington. La Cina ha guadagnato il rango di polo alternativo, nell’impetuoso sviluppo economico e nella potenza militare; è alternativa al vecchio mondo europeo persino nei comportamenti neocoloniali in Africa. Il Pacifico, e non più l’Atlantico, si avvia ad essere il cuore del pianeta ed anche la frontiera più calda fra le aree d’influenza. Nuovi paesi chiedono di essere ascoltati là dove si disegna l’ordine del mondo, che è ormai così mal rappresentato dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. BRICS è un acronimo che raccoglie situazioni poco comparabili, ma accomunate dalla percezione di “non aver contato abbastanza, finora”. Fra queste nazioni c’è anche la nuova Russia, che è in realtà anch’essa “nuova”; cioè, non ha in comune con l’Unione Sovietica né le ambizioni mondiali, né l’estensione dell’area dominata, né l’ideologia giustificante, né tanto meno le classi dirigenti. L’Unione Europea ha perso l’anima. Qualcuno può ancora vederci l’ideale dei fondatori? Di Schumann, di De Gasperi, del coraggioso Adenauer, di Spinelli? Qualcuno ancora può entusiasmarsi per Bruxelles, per Strasburgo, per Francoforte? L’Unione di oggi è una macchina organizzativa, che produce norme inefficaci per sostenere il benessere del continente (infatti l’Europa è l’area economica che oggi cresce meno nel mondo), ma molto efficaci per gli interessi dei paesi forti ed in particolare della Germania. Se il dossier della Grecia viene lasciato gestire secondo le vedute degli Schauble, dei Djesselbloem, dei Dombroviskis, tornano i conti numerici, ma non ci sono più ragioni per appassionarsi all’Europa. Al massimo, i cittadini europei responsabili possono pensare: “romperla oggi, sarebbe peggio”. Ma si diffondono sempre più gli euroscettici, e come primo risultato abbiamo avuto la Brexit. Ad est, abbiamo creato dal nulla una inutile minaccia di guerra. Invece di spingere l’Ucraina verso una politica di neutralità, con ampie autonomie regionali, come è stato fatto per Austria e Finlandia nel dopoguerra, abbiamo sostenuto e incoraggiato le peggiori forze nazionaliste e russofobe, che in quel paese hanno una lunga tradizione nella storia. La Russia, dal canto suo, non ha certo fatto una politica di pace. Una prospettiva per il futuro I temi da affrontare sono così delicati da richiedere, come premessa, la definizione dei nostri criteri di giudizio: quali azioni e mosse dei diversi attori sono lecite e desiderabili, come definire “positivo” uno sviluppo politico. Credo nelle grandi parole della rivoluzione francese, liberté egalité fraternité, e credo che ciascun individuo e ciascun popolo sia il miglior giudice di quali siano le vie migliori da adottare per assicurarli a sé stesso, in un quadro internazionale di pace e di equilibrato benessere. D’altra parte, una riflessione politica svolta in Italia deve chiedersi con attenzione prioritaria quali mosse la nostra politica estera può e deve fare per realizzare per noi stessi questi obbiettivi. Le note che seguono si propongono di mantenere un ragionevole punto di equilibrio fra queste due prospettive. L’attuale Unione Europea non è riformabile. Ciò non tanto per le resistenze che incontrerebbe ogni proposta federalista, per la farraginosità delle procedure, per la prevedibile opposizione dei sovranisti, ma soprattutto perché manca la slancio propulsivo che può venire solo da una calda partecipazione delle opinioni pubbliche, che, per queste istituzioni, non ci sarà mai più. Una politica illuminata non dovrà quindi rivolgersi alle istituzioni europee, in un impossibile dialoga fra sordi. Si dovrà invece puntare a creare un’opinione pubblica a livello continentale, costruire partiti e movimenti transnazionali, imporre dal basso la democratizzazione con elezioni dirette su liste trasversali ai confini nazionali. Nel frattempo, l’involucro attuale deve essere congelato, nella sua lentezza burocratica e nella sua impotenza, in attesa del momento giusto per farlo esplodere, ad esempio attraverso un movimento per una nuova costituzione europea: in essa, le questioni della rappresentanza, della politica estera, della difesa comune dovranno essere la premessa ad ogni regola economica. La prospettiva a lungo termine, però, non può essere limitata ai confini attuali dell’Unione: la Russia è parte della civiltà europea fin dal suo consolidarsi come stato e ancor più, dal 1700 in poi. Non può esserci Europa, concettualmente, se non ci si propone di costruirla “dall’Atlantico agli Urali”. Il regime parzialmente autoritario di Putin non è eterno, la civiltà europea sì. In questo quadro, la svolta del Presidente americano Trump per migliori relazioni con la Russia e più leggera presenza degli Stati Uniti nello scacchiere europeo è un’opportunità da cogliere con spirito assolutamente positivo. La prima conseguenza, abbastanza ovviamente, dovrà essere la cancellazione delle inutili e dannose sanzioni verso la Russia ed una vigorosa azione di “moral suasion” verso gli attori del conflitto in Ucraina per una pace ragionevole e condivisa, senza vinti né vincitori. Raggiungere questo obbiettivo sarebbe un primo passo per il ristabilimento di un clima di collaborazione con la nazione russa. [Questa apertura di credito verso l’amministrazione Trump non ha nulla a che vedere col giudizio che di essa si dà per quel che attiene alla politica interna nei suoi vari aspetti. Sulla politica interna, mi pare giusto mantenere le più ampie riserve e riconfermare una maggior vicinanza ai temi cari al partito democratico. Per la politica estera, invece, la sconfitta della Clinton, esponente dell’ala più interventista dell’amministrazione uscente, giustifica a mio parere un certo sollievo]. In prospettiva, non si vede davvero la ragione di mantenere in vita un alleanza militare così vincolante e sbilanciata nei poteri decisionali come la NATO. L’amministrazione Trump pare intenzionata a ridimensionarne i costi. Questo può far pensare che oggi, a differenza del passato, sia possibile una prospettiva di risoluzione amichevolmente consensuale dei trattati che la reggono. E’ pericoloso? Occorre rispondersi: lo sarebbe, se pensassimo realistica una prospettiva di invasione militare convenzionale, o di conflitto atomico, nel cuore dell’Europa. Onestamente, non mi pare che ciò rientri nel quadro dei panorami ipotizzabili. Anche la politica italiana della difesa e degli armamenti dovrebbe essere rivalutata. Sembra che attualmente si disponga di una certa capacità di svolgere compiti nell’ambito di un conflitto convenzionale. Per questo scopo impegniamo risorse importanti in armamenti navali e aerei. Invece, andrebbe rivalutata la nostra capacità di far fronte ad esigenze realisticamente più probabili: limitati interventi in aree di crisi anche con fini di interposizione, sorveglianza e pattugliamento navale, nuclei di rapido intervento. Detto brutalmente: a cosa mai possono servirci gli F 35? A lungo termine, ovviamente, la nuova Europa dovrà avere una logica condivisa delle relazioni internazionali, strategie e strumenti di difesa comuni (“esercito europeo”), risorse adeguate - ma tutto ciò richiede una fase di transizione certamente non breve. Un altro centro di grandissimo interesse per l’Italia deve essere la situazione della sponda sud del Mediterraneo. In effetti, solo un equilibrato sviluppo dei paesi del Nordafrica può dare prospettive sane di crescita economica al nostro Mezzogiorno e deve essere quindi, anche solo per questo, una vera priorità nazionale. Su questo teatro negli ultimi vent’anni siamo stati deboli per non dire distratti ed assenti, e ne abbiamo pagato e ne paghiamo le conseguenze. Il Marocco ha trovato la strada di un ragionevole sviluppo; l’Algeria, dopo una guerra civile di dimensioni tragiche, è tornata ad avere una sua normalità; la Tunisia, non senza tensioni, sembra avviarsi ad una vita politica democratica; l’Egitto gode di notevoli risorse naturali (gas sottomarino) ma è appesantito da una popolazione in continua crescita, cui non corrispondono opportunità equivalenti. In realtà, tutti questi paesi hanno significativi problemi economici, aggravati da dinamiche demografiche preoccupanti. Qui occorre riprendere una grande politica di cooperazione per lo sviluppo economico, investendo risorse importanti per le infrastrutture, lo sviluppo turistico, il potenziamento della capacità agricola e manifatturiera. Probabilmente questo sforzo eccederebbe le normali dinamiche di un normale programma italiano di cooperazione: dovremo accettarlo, non per generosità, ma per dare una prospettiva di crescita alle regioni meridionali del nostro stesso paese. C’è poi la situazione libica. Risulta ancora oggi difficile capire perché nel 2011 il governo italiano dell’epoca non si sia opposto all’intervento franco americano, che, visto con imparzialità a posteriori, sembra configurare una inaccettabile aggressione internazionale (a parti invertite, si invocherebbe forse per i responsabili un giudizio del Tribunale dell’Aia). Ciò è tanto più strano, perché gli interessi che ne venivano colpiti erano essenzialmente interessi italiani. E oggi? Abbiamo scelto di schierarci per una delle parti in causa, senza che all’opinione pubblica sia ben stato spiegato il perché di questa scelta. Sosteniamo un governo artificiale (Sarraj a Tripoli), che ha difficoltà ad imporsi nella sua stessa capitale (viene chiamato: il “governo della fregata” perché pare che riesca a riunirsi solo su una nave militare). Il suo principale sostegno sono le milizie islamiche di Misurata, a loro volta sostenute dal Qatar: è una posizione abbastanza sorprendente. Nell’ottica di permetter la ricostituzione di uno Stato effettivo in Libia, capace di disarmare le milizie ed impedire il traffico dei migranti, sembrerebbe invece preferibile un’azione più vigorosa di impulso alla ricerca di un compromesso fra i due “governi” attuali (Tripoli e Tobruk), senza pretese di egemonia. Resta, per concludere, ancora un nodo della geopolitica di oggi: il conflitto siriano e irakeno. Siamo meno direttamente coinvolti, il nostro interesse, come Italia, starebbe nelle fine della guerra civile ed in un ragionevole compromesso tra le fazioni che consenta di disarmare i terroristi dell’ISIS. Eppure, non si può tralasciare una riflessione in merito. L’immagine che i media occidentale hanno trasmesso finora della situazione siriana (eroici ribelli che si oppongono ad un sanguinario dittatore) presenta molte evidenti incongruenze e domande irrisolte. Premettiamo che tutte le parti in causa hanno le loro colpe e certamente il governo Assad era dittatoriale e sostenuto essenzialmente dalle minoranze alawite, e cristiane, con poco spazio per la maggioranza sunnita. Dopo molti anni di assoluta tranquillità, nel 2011 cominciarono a prodursi manifestazioni anti regime, duramente represse dalle forze di Assad. Improvvisamente, in pochi mesi, i manifestanti pacifici si sono trasformati in “ribelli”, cioè, hanno ottenuto armi e addestramento militare. Dove le hanno trovate? Non ci è stato detto. Nei tre anni da allora i dissidenti “laici e filooccidentali” sono stati relegati in secondo piano da ben due formazioni di matrice islamica e terrorista: al Nusra e l’Isis. Come è potuto accadere ciò? Chi ha fatto affluire combattenti addestrati e armati? Da dove sono passati? Chi ha finanziato l’Isis? Qual è stato il ruolo della Turchia nel flusso di vendita del petrolio ottenuto dall’Isis? E’ vero che in Aleppo occupata i regolari di Assad hanno catturato una decina di ufficiali sauditi in missione di assistenza ad Al Nusra? Dopo la caduta di Aleppo, è davvero avvenuta la strage di civili che era stata prevista? A quanto pare, il diabolico ISIS gestisce parecchi mezzi d’informazione su Internet e no: Amat news, al Furkam, al Hayat, Al Balagh, Fursan al Balagh, Dabiq, Rumiyah eccc. E’ davvero impossibile “spegnerli”? Credo che alcune di queste domande avranno una risposta convincente e compatibile con la versione diffusa, ma altre no. Credo che i sauditi e i qatarioti stiano giocando un ruolo pesante. Credo che si debba chiedere che i paesi che hanno un ruolo non neutrale in campo debbano dichiararlo apertamente e dichiarare i loro veri scopi. Forse così capiremo perché e come il deprecato ISIS riesce a resistere con tanto successo contro forze che avrebbero dovuto da tempo farlo completamente scomparire. Milano, 20.0.2017

Nessun commento: