Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
martedì 31 gennaio 2017
lunedì 30 gennaio 2017
domenica 29 gennaio 2017
sabato 28 gennaio 2017
Janiki Cingoli: Medio Oriente. I vincenti e i perdenti
Medio Oriente. I vincenti e i perdenti
di Janiki Cingoli, Direttore CIPMO
La Conferenza di Astana sulla Siria, iniziata lo scorso 24 gennaio, segna un punto di svolta nelle vicende mediorientali. I tre promotori, Russia, Turchia ed Iran, per la prima volta sono riusciti a riunire insieme i rappresentanti del regime di Assad ed i gruppi armati dei ribelli, ad esclusione di ISIS e dei gruppi legati a Al-Qaeda, ed a raggiungere un accordo di tregua tra le parti, che sarà seguita da un “Comitato di monitoraggio” costituito dai tre organizzatori della Conferenza.
Da notare che alla Conferenza hanno “partecipato” l’Ambasciatore Usa in Kazakistan, George Krol, e l’inviato speciale dell’ONU, Staffan de Mistura. L’UE non è stata menzionata: l’Alto Rappresentante della UE, Federica Mogherini, in una sua dichiarazione ha dichiarato di puntare le sue carte sulla Conferenza ONU, che si terrà a Ginevra il prossimo 8 febbraio, volta a raggiungere una soluzione complessiva di quel conflitto.
Non avrebbe potuto esserci una rappresentazione più plastica di chi ha vinto e di chi ha perso in Siria: Russia e Iran, cui all’ultimo momento con una rapida conversione ad U si è aggregata la Turchia, per lungo tempo sostenitrice dei più estremi gruppi armati anti Assad, dettano ora le condizioni di soluzione della crisi. Il traballante Regime di Assad ne esce consolidato, come partecipante indiscusso al processo di transizione, i cosiddetti ribelli moderati si aggregano al carro dei vincitori, ricercando una soluzione di compromesso con il regime, mentre ISIS ed i Qaedisti di Al-Nusra devono ora attendere l’attacco concentrico dei tre alleati, cui si aggiungerà la coalizione guidata dagli USA, secondo le nuove priorità indicate dal Presidente Trump, che pone al primo posto la sconfitta dei terroristi, ricercando l’alleanza con la Russia.
Di fatto, gli USA riconoscono che la Siria rientra come ai vecchi tempi nella sfera di influenza russa, e non sembrano dannarsi l’anima per questo.
Quanto alla Turchia, allineata sull’asse Mosca Teheran, e contemporaneamente membro della NATO, non sembra soffrire molto per la doppiezza della sua posizione, da cui spera al contrario di trarre il massimo vantaggio.
Non è detto che gli interessi di Russia ed Iran coincidano totalmente: l’Iran vuole consolidare quello che esso chiama “l’Arco della Resistenza” che altri hanno definito la Mezzaluna sciita, e che comprende, oltre all’Iran, l’Iraq, la Siria di Assad e gli Hezbollah libanesi. La Russia invece non è intenzionata a lasciarsi impantanare in una costosa guerra di lunga durata, tipo Afghanistan, e pare più propensa a ricercare una soluzione politica della crisi, che includa i gruppi moderati della rivolta anti Assad, tra cui sono forti i Fratelli Musulmani. Quanto alla Turchia, il suo interesse precipuo è evitare che ai suoi confini nasca in Siria una Entità nazionale curda, che costituirebbe un essenziale polo di attrazione e di riferimento per la forte minoranza curda della Turchia, alimentandone le spinte separatiste.
Ma oggi l’allineamento dei tre è forte, ed esce consolidato dalla Conferenza di Astana.
I perdenti sono in primo luogo i regimi sunniti di stampo wahabita, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, grandi finanziatori della rivolta anti Assad e che si trovano totalmente spiazzati dalla svolta in corso.
Diverso il caso dell’Egitto, che già da tempo guarda alla Russia come possibile fornitore di armi alternativo rispetto ai sempre più contingentati aiuti militari americani, e che ha accettato di allinearsi all’ipotesi almeno temporanea di una permanenza al potere di Assad. La rottura con l’Arabia Saudita che ne è derivata, con la brusca chiusura dei finanziamenti e dei rifornimenti di petrolio da parte di Riad, ha costretto l’Egitto a rivolgersi all’Iraq per i suoi rifornimenti energetici, il che ha determinato un suo sempre più forte collegamento con la coalizione guidata dalla Russia. Le prime ripercussioni si hanno anche nei rapporti con la Turchia, che mostrano primi segni di ripresa, dopo la rottura delle relazioni del 2013, determinata dal rifiuto di Assad di riconoscere la deposizione del Presidente Morsi e l’ascesa al potere di Al-Sisi.
Per Israele, poi, Assad è sempre stato considerato “il miglior nemico, anche se lo Stato ebraico guarda con preoccupazione all’accresciuto peso esercitato dall’Iran in tutta l’area. Da notare il consolidamento delle relazioni con la Russia. I contatti tra Netanyahu e Putin sono oramai almeno settimanali, e non è un caso che l’Ambasciatore russo all’Onu, dopo una accorata telefonata del leader israeliano al Presidente russo, avesse cercato all’ultimo minuto, senza riuscirci, di far rinviare il voto del Consiglio di Sicurezza 2334 dell’ONU contro gli insediamenti israeliani, poi approvata con l’astensione degli Usa al termine della presidenza Obama. Né è casuale che la Russia non abbia inviato il proprio Ministro degli Esteri alla recente Conferenza di Parigi sul Medio Oriente del 15 gennaio, facendosi rappresentare dal suo Ambasciatore a Parigi. I legami tra Russia e Israele si vanno sempre più consolidando, favoriti dal milione di ebrei russi emigrati in Israele all’inizio degli anni ’90 (che hanno mantenuto stretti rapporti anche economici con l’antica madre-patria), ed anche dal grande interesse che per la Russia riveste il know-how tecnologico israeliano.
D’altronde, il rinnovato asse Usa-Gran Bretagna, anche a proposito della partita mediorientale, lascia l’Europa frastornata, e marginalizzata: la sua assenza da Astana è stata al riguardo illuminante, come il tono minore con cui oramai quello che veniva chiamato l’Occidente si presenta sulla scena mediorientale.
Da vedere ora se la possibile connessione tra Trump e Putin, di cui si attendono i primi passi, non possa riverberarsi anche sul secolare conflitto israelo-palestinese, mettendo il Governo israeliano di fronte ad una posizione ed una proposta di mediazione congiunte, che sarebbe difficile non tenere in considerazione.
venerdì 27 gennaio 2017
giovedì 26 gennaio 2017
Franco Astengo: Da un proporzionalista convinto, un appunto
DA UN PROPORZIONALISTA CONVINTO UN APPUNTO RIVOLTO ALLE COMPAGNE E AI COMPAGNI DELLA SINISTRA NATURALMENTE PROPORZIONALISTA di Franco Astengo
La sentenza della Corte Costituzionale emanata ieri nel merito dei ricorsi avverso la legge elettorale maggioritaria deve essere accolta positivamente, un giudizio che può ben già essere espresso adesso pur in attesa delle motivazioni.
I punti positivi sono soprattutto due:
1) Aver stabilito, per la seconda volta in tre anni, la legittimità dell’intervento delle cittadine/i elettrici/ori in quella sede su di una materia di natura esclusivamente istituzionale;
2) E’ stato smontato definitivamente l’impianto renziano che mirava, dopo aver cercato di stravolgere la Costituzione ed essere stato seccamente respinto dal corpo elettorale, a far in modo che un solo partito si assegnasse il ruolo di “dominus” in Parlamento in modo da trasferire direttamente la centralità del sistema dai consessi elettivi agli esecutivi suffragando, di fatto, un regime autoritario – personalistico.
Adesso l’augurio che dobbiamo rivolgerci e l’impegno che, per quanto possibile, dobbiamo assumerci è quello, nell’occasione elettorale quando questa si presenterà, del mantenimento dell’impianto previsto dalla sentenza di ieri: anche se questa prevede comunque il raggiungimento di un premio maggioritario.
Suggeriscono questa soluzione le condizioni complessive del nostro sistema politico e il tipo di allineamento che, all’interno appunto del sistema politico, hanno assunto i partiti in riferimento alle stesse contraddizioni da ciascheduno evocate.
Risulterebbe negativo ogni tentativo di “reductio” al vecchio schema bipolare come nel caso del rispolverare il sistema misto proporzionale(25%)/maggioritario (75%) usato per le elezioni del 1994, 1996 e 2001: in questo senso c’è da sconfiggere la banale propaganda già in corso del “collegio uninominale che porta a un ravvicinamento tra eletti ed elettori”. Nella situazione italiana (candidati paracadutati e minorità nel numero dei collegi marginali) si tratta dell’ennesima bufala.
E’ evidente che un eventuale voto con il sistema così come uscito dalla sentenza della Corte (così come per il Senato) si tradurrà probabilmente in una governabilità affidata al duopolio PD – Forza Italia (e cespugli): ovverosia a entrambi i partiti “golpisti”, in tempi diversi, rispetto alla Costituzione Repubblicana (il PD attentatore della Costituzione in ciascheduna delle sue anime non soltanto in quella renziana. E’ bene ricordare infatti la “Bicamerale” presieduta nel 1997 da Massimo D’Alema).
L’occasione però che, in questo quadro, si presenta a una sinistra proporzionalista , non stupidamente nostalgica di un irrealistico centro – sinistra, è di notevole portata.
E’ stato realizzato, infatti, in almeno tre recenti occasioni un dato unitario importante attorno al tema dirimente del dettato costituzionale: sul referendum riguardante le trivelle, nell’occasione del referendum costituzionale e intorno al respingimento dell’Italikum.
Questa base comune deve essere valorizzata e implementata politicamente.
E’ necessaria una sinistra che riparta dall’opposizione, dismetta velleità governativiste del tutto irreali rispetto al concreto.
La sinistra proporzionalista ha il dovere di valutare seriamente le forze in campo per quello che sono , per ripromettersi il conseguimento di una presenza istituzionale che risulti in grado di affrontare le grandi contraddizioni della modernità che pure da più parti si sono ben rilevate dal punto di vista analitico.
Comunisti e socialisti apparentemente appaiono ormai aree politiche marginali nel panorama del sistema politico italiano: uno sforzo unitario che li colleghi in una visione di soggettività comune capace anche di comprendere settori rappresentativi delle fratture post – materialiste (pensiamo a tre filoni di pensiero: pacifista, femminista, ambientalista) ed anche più genericamente progressisti , all’interno del tracciato delineato dalla difesa e dall’affermazione della Costituzione Repubblicana, potrebbe rappresentare la mossa giusta per far ripartire, dall’opposizione (insisto e ripeto opposizione), una presenza di sinistra nel nostro Paese: una presenza che potrebbe aver influenza anche sull’intero quadro europeo.
Una soggettività comune al riguardo della quale si potrebbero individuare forme concrete anche dal punto di vista organizzativo tali da garantire a ciascun soggetto partecipante il mantenimento, rigoroso e coerente con la storia di ciascheduno, della propria identità: anzi muovendosi da una base positivamente identitaria per realizzare positivamente l’auspicato cammino unitario.
Le scarne note fin qui stilate rappresentano soltanto un appunto di riflessione: mi auguro davvero ci siano compagne e compagni, nel caso si sentissero nell’occasione positivamente stimolati, capaci di tradurle in analisi e iniziativa politica.
mercoledì 25 gennaio 2017
Franco Astengo: La sentenza della Corte
LA SENTENZA DELLA CORTE BOCCIA L’ITALIKUM ALMENO PER I 2/3 (a cura di Franco Astengo)
La possibilità di entrare meglio nel merito della sentenza uscita pochi minuti fa dalla Corte Costituzionale in esito ai ricorsi avverso la legge elettorale Italikum si avrà soltanto al momento della lettura completa delle motivazioni.
Per adesso si può affermare che si è stabilito, per la seconda volta, un principio democratico di fondamentale importanza: quello della possibilità di un’iniziativa attiva dei cittadini nel merito della legge elettorale attraverso la richiesta di pronunciamento da parte degli organi della magistratura.
Ed è questo un punto fortemente positivo.
Così come risulta essere sicuramente positivo il fatto che sia stata tolta di mezzo la possibilità per un partito di disporre della maggioranza assoluta senza aver raggiunto una soglia di voti adeguata in percentuale: questa possibilità non esiste più e avendo il corpo elettorale respinto la votazione del Senato in secondo grado nessuno potrà più artificiosamente impossessarsi del “dominio assoluto” dell’intero parlamento, magari disponendo appena, appena del 25% del totale dei voti validi (più o meno il 15% dell’intero corpo elettorale). Questa stortura è stata definitivamente affossata. Anche se il premio resta comunque di minoranza, ed è bene non dimenticarlo.
Non si può che segnalare come negativo il mantenimento dei capilista bloccati, anche se non ci sarà più la scelta della circoscrizione nel caso di pluricandidature (si procederà con un sorteggio).
E’ dunque così terminato il lungo iter del ricorso avverso l’Italikum: la sentenza della Corte Costituzionale ha bocciato l’Italikum per i 2/3 dei suoi contenuti : rimane, infatti, il premio di maggioranza per la lista (e non la coalizione) che supererà il 40% dei voti.
La corte ha precisato “le legge elettorale è suscettibile di immediata applicazione”, evidentemente tenendo conto del fatto che per il Senato la stessa Corte con la sentenza 1/2014 scelse Al Senato scelse un proporzionale puro con preferenza unica, soglia di sbarramento al 20 per cento per le coalizioni su base regionale, soglia dell’8 per cento se si corre da soli, soglia del 3 per cento per i partiti che fanno parte di una coalizione, che in questo caso ritiene evidentemente “armonica” con quella delineata con la sentenza di oggi.
Premesso che sarà necessario aspettare le motivazioni della sentenza per capire meglio la logica che guidato i giudici nel loro pronunciamento verificheremo quelle che sono gli intendimenti delle forze politiche: se si deciderà, cioè, di tentare una modifica profonda .
Per esempio il passaggio dell’attribuzione del premio di maggioranza dal partito alla coalizione, considerato che nelle condizioni attuali dei partiti non appaiono esserci concrete possibilità di attribuzione del premio (gli ultimi sondaggi, per quel che riguarda la Camera dei Deputati delineano questo quadro : i partiti sopra la soglia del 3% sono 7: Pd 31%, M5S 26%, Lega 14%, FI 13%, Ap 3,5%, SI 3,5%, Fdi 3,5%.
Dipenderà dal tipo di confronto politico che si aprirà fin da domani.
Occorrerà comunque tenere ben alta la guardia.
Ecco i punti principali della sentenza:
COSA CAMBIA DELL'ITALICUM - Il nuovo Italicum resta un sistema elettorale proporzionale (ovvero il numero di seggi verrà assegnato in proporzione al numero di voti ricevuti). Il calcolo sarà fatto utilizzando la regola "dei più alti resti" e sarà fatto su base nazionale.
Stop al ballottaggio. La caratteristica principale dell'Italicum era il secondo turno. Ovvero che tra i due partiti più votati senza raggiungere il 40% dei voti si tenesse uno 'spareggio' due settimane dopo per assegnare una maggioranza assoluta dei seggi della Camera. La Consulta ha bocciato questo aspetto che quindi scompare dalla legge.
Sì al premio di maggioranza. Via libera della Corte Costituzionale invece al premio di maggioranza alla lista più votata, se questa dovesse ottenere almeno il 40% dei voti. Alla lista saranno assegnati 340 seggi su 617 (sono esclusi dal calcolo il seggio della Valle d'Aosta e i 12 deputati eletti all'estero): si tratta del 55% dei seggi.
Candidature multiple. La consulta non ha toccato il sistema delle candidatura plurime, quindi un capolista potrà essere inserito nelle liste in più di un collegio elettorale, come già succedeva nel Porcellum, fino a un massimo di 10. Quello che la Consulta ha bocciato è la possibilità - in caso di elezioni in più di un collegio - che sia l'eletto a scegliere in quale collegio risultare eletto. In questo caso interverrà invece un sorteggio.
COSA RESTA - Sono molti i punti che non sono stati toccati e su cui la Corte non è dovuta intervenire. Eccoli:
Capilista bloccati - Le liste non sono bloccate, ma i suoi capilista sì. Questo punto non è stato toccato dalla Consulta. Quindi i capilista saranno i primi a ottenere un seggio, mentre dal secondo eletto in poi intervengono le preferenze (ogni elettore ne potrà esprimere due), reintrodotte rispetto al Porcellum.
Questo sistema avrà come conseguenza che i partiti più piccoli, che difficilmente eleggeranno più di un parlamentare in una circoscrizione, vedranno eletti i capilista, mentre i partiti più grandi avranno anche una quota di parlamentari scelti con le preferenze.
Soglie di sbarramento. L'Italicum prevede una distribuzione dei seggi su base nazionale ma al tempo stesso, per limitare il proliferare di gruppi parlamentari, al riparto potranno accedere solo le liste che supereranno la soglia del 3%.
È prevista anche una soglia per le minoranze linguistiche nelle regioni che le prevedono: lo sbarramento è del 20% dei voti validi nella circoscrizione dove si presenta.
Nel caso in cui un partito che facesse parte della coalizione che ottiene il premio di maggioranza non superasse la soglia di sbarramento, i suoi voti concorrerebbero al raggiungimento del premio ma sarebbe comunque escluso dal riparto dei seggi, che sarebbero redistribuiti agli altri partiti della coalizione.
Circoscrizioni più piccole e tornano le preferenze. Invece delle 27 circoscrizioni previste dalla precedente legge elettorale si passa a circoscrizioni di dimensione minore. Saranno 100 collegi (in media di circa 600mila abitanti ciascuno) e in ognuno verranno presentate mini-liste, in media di 6 candidati.
L'eccezione in Trentino-Alto Adige e Valle d'Aosta. La legge prevede che la regione Val d'Aosta e le province di Trento e Bolzano siano escluse dal sistema proporzionale. Qui si voterà in nove collegi uninominali (8 per T.A.A. e 1 per la Val d'Aosta), come già avveniva con il precedente sistema elettorale. Se alla regione Trentino-Alto Adige sono assegnati più di 8 seggi, questi verranno assegnati con il sistema proporzionale.
Quote rosa. Nessuno dei due sessi potrà essere rappresentato in misura superiore al 50% (con arrotondamento all'unità inferiore) e nella successione interna alle liste nessun genere potrà essere presente per più di due volte consecutive. Inoltre ciascuno dei due sessi può essere rappresentato massimo nel 50% dei capilista e se l'elettore esprimerà due preferenze, dovranno essere relative a
due candidati di sesso diverso, pena la nullità della seconda preferenza.
Nessuna di queste ipotesi garantisce che a essere elette sarà un numero consistente di donne, tutto dipenderà da come saranno scritte le liste e dalle preferenze che le donne otterranno.
Felice Besostri: Il testo completo dell'allocuzione di fronte alla Corte costituzionale
Signor Presidente Signore e Signori Giudici Costituzionali
Questa difesa innanzitutto vuole ringraziare la Corte per la sensibilità dimostrata di consentire la discussione di cinque ordinanze di rimessione alla Corte emesse in tempi diversi dai Tribunali di Messina, Torino, Perugia, Trieste e Genova in un’unica pubblica udienza, grazie all’opportuno rinvio dell’udienza del 4 ottobre, nella quale sarebbero state discusse soltanto le ordinanze n. 69 e 163 del 2016. Non solo: la celebrazione medio tempore del referendum costituzionale ex art. 138 Cost. consente, grazie al voto negativo di una chiara e netta volontà conservativa dell’impianto rappresentativo costituzionale da parte della maggioranza del corpo elettorale, di poter decidere in assenza del timore sulle conseguenze di un annullamento di parti importanti della legge elettorale dell’unica Camera elettiva
Mi sia consentito di svolgere alcune considerazioni introduttive di carattere generale, perché la riproposizione alla distanza di pochi anni - tre per l’esattezza dalla data di pubblicazione della sentenza n.1/2014, giustamente definita “storica” - è la dimostrazione, contrariamente alla vulgata della prevalenza di interessi materiali, della forza delle idee, purtroppo di quelle errate, come quella che “alla sera delle elezioni si deve sapere chi ci governerà”.
dalla rappresentanza degli elettori alla divisione dei poteri e alterare l’equilibrio tra gli organi costituzionali a favore del Governo e del suo capo. Gli effetti più perversi sono stati allontanati dall’esito referendario dello scorso 4 dicembre che chiaramente ha dimostrato di non volerli, ma resta il vulnus della Costituzione sotto diversi profili, denunciato negli atti introduttivi dei giudizi a quibus. Non tutti i profili di incostituzionalità sono stati oggetto di rimessione, ma quelli ritenuti nelle 5 ordinanze se accolti sono sufficienti a ricondurre la legge entro i parametri di costituzionalità
La discussione congiunta delle ordinanze e la loro successione ha anche l’effetto di consentirmi di trattare congiuntamente l’ordinanza n. 265 del 2016 del Tribunale di Trieste, quella n. 268 dello stesso anno del Tribunale di Genova in unione con gli avvocati on. prof. Lorenzo Acquarone e Vincenzo Paolillo. Nei due procedimenti sia nelle Memorie di Costituzione, che in quelle per la pubblica udienza si è scritto molto e pertanto la difesa svolta oralmente avrà un carattere di precisazione dei punti più rilevanti e controversi ad avviso di questa difesa tra i quali la richiesta di autorimessione(pag.8 Mem. Cost. Trieste e par.3.a a pag. 29-30 Mem. Cost. Genova), cui l’avvocatura dello Stato ha rinunciato a replicare, della questione relativa alla violazione dell’art. 72 c.4 Cost. compiuta dalla Camera dei Deputati per aver approvato gli artt. 1, 2 e 4 della legge 52/2015 con il voto di fiducia richiesto dal Governo e accordato dalla Presidenza dell’assemblea legislativa. Violazioni regolamentari equivalenti sono state compiute al Senato, ma nell’economia della trattazione orale per esse si fa rinvio agli scritti difensivi e alla produzione documentale in atti. L’allargamento del thema decidendum grazie all’autorimessione si impone per l’eccezionalità della fattispecie: l’interpretazione data all’art. 116 del Regolamento Camera dalla Presidenza dell’assemblea legislativa, secondo cui non sarebbe la materia elettorale tra quelle espressamente vietate dal detto articolo un pericoloso precedente e tra l’altro il primo a Costituzione vigente dopo la sentenza di questa Corte n.391/1995 e in contraddizione con l’autorevole precedente costituito dal cosiddetto “Lodo Iotti” del 1980 e a prescindere dal voto di fiducia con il quale era stata approvata al Senato la legge 31 marzo 1953, n. 148, volgarmente, e alla luce delle leggi n. 270/2005 e n. 52/2015 ingiustamente, conosciuta come “Legge Truffa”, perché conosciuto come ”non precedente Paratore”, dal nome del presidente del Senato, che volle che così risultasse espressamente a verbale Se la fiducia può essere posta su tutte le norme di leggi non escluse dall’art. 116 Reg. Camera, allora potrebbe essere chiesta anche su norme di legge in materia costituzionale, cui quelle in materia elettorale sono equiparate, sotto questo profilo procedurale, dall’art. 72 c. 4 Cost. Dalle decisioni di questa Corte sulle illegittimità costituzionali, sollevate dalle ordinanze ex art. 23 legge n. 87/1953, in esito alla discussione in questa pubblica udienza, se come si augura questa difesa, si deciderà nel merito ne uscirà, grazie ad annullamenti parziali, una legge elettorale per la Camera dei deputati immediatamente applicabile. Tuttavia resterebbe sempre lasciato al Parlamento il compito - come richiesto dalla logica di evitare esiti contraddittori, dal buon senso nonché dallo stesso Presidente della Repubblica - di armonizzare la legge della Camera con quella del Senato. Due questioni residuerebbero, oltre che quelle relative alla base regionale (art. 57 Cost.)e alla differente composizione del corpo elettorale, e sarebbe compito del Parlamento risolverle, ovvero l’armonizzazione della presentazione delle candidature (solo liste Camera e liste/ coalizioni di liste al Senato) e delle soglie di accesso ( unica alla Camera del 3% e differenziate al Senato con la previsione del 8% lista singola, 20% coalizione di liste e 3% lista coalizzata). Deve pure dirsi che le soglie potrebbero essere rese compatibili/omogene anche da queste Corte accogliendo in tutto o in parte l’ordinanza sul punto delle soglie del Senato del Tribunale di Messina. Le differenti valutazioni tra i gruppi parlamentari sulla data delle elezioni potrebbero indurre il Governo, per superare l’impasse, a fare ricorso nuovamente alla questione di fiducia, contraddicendo l’iniziale proclamata neutralità sulla legge elettorale, già venuta meno secondo questa difesa dalla decisione di intervenire nei procedimenti n. 265 e n. 268 del 2015 insistendo sull’inammissibilità delle ordinanze, perché relative ad una legge mai applicata. Una tesi comprensibile negli atti di intervento nei procedimenti numero 69, 163 e 192 del 2016 da parte di un governo che sulla legge elettorale aveva posto la fiducia, ma incomprensibile per un governo neutrale e che aveva annunciato di rimettersi alla dinamica parlamentare, a sua volta in attesa delle decisioni di questa Corte, visto lo stato dei lavori parlamentari. Sulle questioni dell’ammissibilità sotto i vari profili eccepiti interverranno altri componenti del collegio, ma mi sia consentito di anticipare che i riferimenti alle sentenze n. 193 e 110 del 2015 sono fuori luogo. In quanto alla prima perché trattandosi di impugnazione di uno specifico atto di proclamazione degli eletti non si può eccepire l’illegittimità costituzionale di una norma che non ha trovato concreta applicazione, trattandosi qui, come ebbe a dire nella sentenza 1/2014, della “tutela del diritto inviolabile di voto, pregiudicato da una normativa elettorale non conforme ai principi costituzionali, indipendentemente da atti applicativi della stessa”. In quanto alla seconda perché rinviando la proposizione di eccezioni di costituzionalità della legge elettorale all’impugnazione innanzi alla giustizia amministrativa della proclamazione dei risultati è implicito che non possa che riguardare elezioni, che si siano già svolte. Tuttavia proprio la sentenza n. 110/2015 conferma la specialità delle leggi elettorali per il parlamento nazionale, che non essendo soggette ad impugnazione giudiziale dei risultati, a ciò ostando l’art. 66 Cost., non potrebbero arrivare al controllo di costituzionalità per altra via diversa da un’azione di accertamento del diritto di votare in conformità alla Costituzione, diritto la cui violazione è stata accertata con la sentenza n. 8878/2014 della Prima Sezione Civile della Cassazione previa rimessione alla Consulta delle questioni di legittimità costituzionale in via incidentale della legge n. 270/2005 con l’ordinanza n. 12060 del 17 maggio 2013. Ordinanza ritenuta ammissibile e fondata dalla vostra sentenza n. 1/2014. L’applicazione di quella legge in tre tornate elettorali 2006, 2008 e 2013 in nessun momento è stata posta tra i requisiti e/o presupposti per l’accoglimento delle eccezioni di incostituzionalità, anzi è stato statuito l’esatto contrario, come si diceva, cioè l’ammissibilità “indipendentemente da atti applicativi della stessa[legge elettorale]”. Se l’applicazione della legge diventasse un presupposto per la l’ammissibilità delle relative questioni di costituzionalità delle sue norme o dell’intera legge significherebbe avallare in via di principio e preventiva la legittimità costituzionale di un Parlamento che potrebbe rivelarsi poi – come già accaduto - eletto con una legge elettorale incostituzionale e non come fatto necessitato dal tardivo controllo di costituzionalità dipendente talora dall’inerzia dei giudici investiti con gli atti introduttivi del giudizio. Se le leggi elettorali sono “costituzionalmente necessarie” esse debbono essere necessariamente costituzionali per non violare il diritto dei cittadini ad esercitare il voto in conformità ai principi ex art. 48 c. 2 Cost..
Proprio per rispetto della sentenza n. 1/2014 questa difesa, quali che siano le sue personali convinzioni, non intende mettere in discussione il convincimento che la governabilità sia un “obiettivo costituzionalmente legittimo” e che possa essere perseguito in astratto con soglie di accesso per evitare un’eccessiva frammentazione della rappresentanza o con premi alla maggioranza, ma contesta in modo specifico e concreto le modalità con cui l’obiettivo è stato perseguito dalla legge n. 52/2015. Questa legge prevede sia una soglia di accesso solo nazionale con eccezioni limitate ad alcune minoranze linguistiche, di cui la tedesca e l’italiana trentina con un regime speciale uninominale, ma escludendo le minoranze linguistiche più numerose la sarda e la friulana , sia un premio ad una minoranza consistente al primo turno ovvero alla vincitrice di un ballottaggio al secondo turno, cui si accede senza soglia minima delle singole liste ovvero nel loro complesso ed indipendentemente da ogni quorum di partecipazione, ben presente invece in altri Paesi europei come la Francia. Il premio di maggioranza, inoltre, non è rapportato al consenso elettorale, anzi è inversamente proporzionale al consenso elettorale specialmente nel caso che al ballottaggio prevalga la lista con il minor consenso delle due al primo turno. Per la prima volta nella storia repubblicana, territori diversi dalla Val d’Aosta, hanno un regime elettorale differenziato con 8 collegi uninominali e 3 seggi di recupero proporzionale nella Regione Autonoma del Trentino Alto Adige/Südtirol e collegi plurinominali variabili da 3 a 9 seggi nel restante territorio nazionale. Non soltanto le banche ma anche le leggi elettorali dovrebbero essere sottoposte ad uno stress test attesa l’imprevedibilità del comportamento elettorale. Un merito dell’ordinanza del Tribunale di Genova è quello di aver attirato l’attenzione sull’irragionevolezza dell’esclusione del ballottaggio nel caso del superamento della soglia del 40% dei voti validi da parte di due liste e di contro la previsione di un ballottaggio anche nel caso che una lista conquisti sul campo la maggioranza assoluta dei seggi, , perché non ha raggiunto la soglia del 40% dei voti validi, cioè conteggiando anche i voti delle liste sotto soglia. La soglia di accesso nazionale combinata con un premio di maggioranza nazionale esclude il voto personale e diretto nei collegi di candidatur, ed il peso uguale del voto espresso, cioè la violazione dell’art. 48 c. 2 e 56 c.1 Cost.
In questa situazione se agli 8 anni di vigenza di una legge incostituzionale come la legge n. 270/2005 dovesse aggiungersi anche una sola legislatura retta dalla legge n. 52/2015, la cui complessiva legittimità costituzionale potrebbe essere messa in discussione dalla maggioranza dei tribunali aditi, che non si è ancora pronunciata, il malessere in questo regno di Danimarca dell’Europa Meridionale chiamato Italia potrebbe provocare una crisi irreversibile del nostro sistema politico-istituzionali. Per questo occorre una decisione che produca un sistema elettorale applicabile e coerente tra le due Camere, come quello risultante dalla sentenza n. 1/2014 e la via maestra potrebbe essere quella dell’autorimessione, anche se richiederebbe di assicurare il diritto di difesa e il contraddittorio con la pubblicazione dell’ordinanza, garantendo i termini per la costituzione delle parti interessate e la fissazione della pubblica udienza per la sua trattazione unitamente alle ordinanze già chiamate per questa udienza, avvalendosi se del caso della facoltà di dimidiare i termini ex art. 9 legge cost. n. 1/1953.
In ogni caso ci si affida alla Corte Costituzionale affinché affermi principi e direttive, cui il Parlamento si deve attenere in ordine alle norme elettorali che dovesse o volesse adottare, in considerazione del fatto che gli avvertimenti formulati con le sentenze n. 15 e n.16 del 2008 e ribaditi con la sentenza n. 13/2012 sono rimasti inascoltati nella XVI^ legislatura e che nella XVII^ la sentenza n. 1/2014 non sia stata tenuta in conto nell’approvazione della legge n. 52/2015, anzi addirittura non applicata nelle surroghe successive alla sua pubblicazione in G.U..
Non si è reso conto il Parlamento che dopo la sentenza n. 1/2014 avrebbe dovuto agire come un sorvegliato speciale, cioè mutuando un’espressione carlschmittiana Fare la legge elettorale “sous l’oeil des russes” .
martedì 24 gennaio 2017
Franco Astengo: Uomo forte
Mi scuso per l’insistenza e la frequenza degli interventi afferenti lo stesso argomento, ma la preoccupazione per la tenuta democratica del sistema è molto forte e la necessità di puntualizzare tutti i passaggi che ci stanno portando in una situazione di vera e propria deriva, da questo punto di vista, appare – almeno dal mio punto di vista – assolutamente necessaria.
I dati nella rilevazione degli umori che percorrono l’opinione pubblica appaiono assolutamente inquietanti soprattutto per la loro contraddittorietà.
Il 4 Dicembre scorso l’elettorato ha sancito, attraverso un’espressione di voto molto forte (circa 19 milioni di voti si sono raccolti su questo tipo di opzione) il rifiuto di una riforma costituzionale il cui effetto più importante sarebbe stato quello di sancire un meccanismo di forte concentrazione del potere verso un partito fondato comunque sull’autorità del personalismo (in ogni caso così si configurava il PD, così come si configurano il M5S e Forza Italia, quest’ultima addirittura esempio di scuola nel passaggio tra “partito – azienda” e “partito – proprietario”).
Nello stesso tempo, oggi, sulla base delle rilevazioni pubblicate sull’Atlante Politico di Demos & PI con il coordinamento di Ilvo Diamanti (Campione nazionale, metodo Cati – Cami – Caw, attraverso un campione al riguardo del quale si ritiene possibile un margine di errore del 3,1%) emerge un indicatore che segnala una situazione di vero pericolo: il 79% delle interpellate/i ritiene necessario affidare la guida del Paese a un “uomo forte” (“uomo” e basta è scritto nel quesito: tanto per chiarire l’intendimento).
Cosa significa affidarsi a un “uomo forte” : l’articolo che accompagna questi dati (pubblicato da “Repubblica”) chiarisce che elettrici ed elettori si sentono “orfani di un Capo” e che questo modello, del Capo per intenderci, è popolare soprattutto tra i giovani che risultano, d’altronde, i più disillusi dalla politica e dei partiti.
Un modello, quello dell’ Uomo Forte, in costante crescita di popolarità: tra il 2004 e il 2016 il passaggio in percentuale è stato dal 49% al 79%.
Un’indicazione che accomuna elettrici ed elettori di tutte le tendenze e di tutte le età.
Dal punto di vista delle fasce demografiche si riscontra un 79%, eguale alla media complessiva, sia nella fascia tra i 18 e i 29 anni come in quella tra i 65 e più: ma la percentuale tra i 30 e 44 sale fino all’83%, determinando quindi quella prevalenza nelle fasce più giovani e attive che indicava poc’anzi.
Dal punto di vista dell’orientamento politico addirittura plebiscitario il riscontro tra le fila di Forza Italia, al 97%, minore ma molto alto nel PD al 78% e nel M5S, al 76%.
L’unica fetta di elettorato nella quale l’idea dell’uomo forte è minoritaria è quello di sinistra: la percentuale si colloca al 47%.
Tendenza molto significativa anche all’interno della vasta fascia dell’astensione: 77%.
In calo naturalmente la fiducia verso le istituzioni: l’indice, a questo proposito, al riguardo dello Stato tocca il 20%, mentre l’Unione Europea si situa al 29%.
Da rilevare ancora, però, elementi di forte contraddittorietà e di smarrimento alla base: prendiamo ad esempio l’elettorato del M5S, numericamente molto significativo (più o meno circa 8 milioni di voti) assolutamente incerto al riguardo della collocazione politica del Movimento stesso.
Il 30% si definisce di sinistra o di centro – sinistra, il 21% di destra o di centro destra, il 41% (fetta importante ma non maggioritaria) esterna a ogni collocazione.
Siamo di fronte, nella sostanza, a indicatori che segnalano – nella loro contraddittorietà – ancora una volta la debolezza del sistema, del quale potrebbe essere possibile anche un’implosione nella prospettiva di percorrere avventure di forte limitazione nel meccanismo di funzionamento democratico come apparentemente contraddetto invece dall’esito del referendum: sull’esito del quale non è il caso di dormire sonni tranquilli, in particolare se oggi la Corte Costituzionale dovesse confermare un impianto di legge elettorale forzatamente e ingiustificatamente maggioritario (con l’abolizione del ballottaggio, ma il mantenimento del premio alla dimensione della maggioranza assoluta della Camera).
Si tratterebbe,per contrastare questa deriva, di ripartire da due punti strettamente connessi tra di loro: la ricostruzione di soggetti politici condotti democraticamente al loro interno, rappresentativi di realtà sociali e strutturati attraverso diversi livelli di responsabilità funzionanti collegialmente e il ristabilimento del nesso tra questi soggetti e la rappresentatività politica all’interno delle istituzioni ribadendo l’assoluta centralità del Parlamento, in luogo del prevalere di un artefatto concetto di stabilità.
Grazie per l’attenzione
Franco Astengo
domenica 22 gennaio 2017
Franco Astengo: L'insediamento di Trump
L’INSEDIAMENTO DI TRUMP: ADESSO LA BORGHESIA HA PAURA DI AVER CAMBIATO SPALLA AL PROPRIO FUCILE? di Franco Astengo
Si ritrova ad aver paura l’alta borghesia più raffinata, cosmopolita, globalista, guerrafondaia del Pianeta, che ha fondato, in questi anni, la propria smisurata crescita di ricchezza sullo sviluppo illimitato di una tecnologia sottraente lavoro e “facente crescita” su smisurati profitti.
Una borghesia che – all’interno di se stessa –ha generato la classe politica più guerrafondaia della storia sulla base della nuova dottrina dell’esportazione della democrazia combattendo il terrorismo e strizzando l’occhio ai suoi finanziatori.
Così si evoluta /involuta quella classe auspicata e descritta da Madison dalla quale sarebbero sorti “lo statista illuminato” e il “filosofo benevolo” che avrebbero retto le redini del potere.
Idealmente “puri” e “nobili” questi uomini (le donne al tempo di Madison non erano contemplate, un punto da ricordare proprio nel giorno della “Women’s march) “contrassegnati dall’intelligenza, dal patriottismo, dalla proprietà e dall’indipendenza economica” avrebbe costituito un gruppo scelto di cittadini , la cui saggezza potrebbe distinguere meglio i veri interessi del loro paese, e che, per il loro patriottismo e il loro amore per la giustizia, saranno disposti a sacrificare tali interessi momentanei o paralleli”.
Dall’utopia del Federalista e della sua anticipatrice teoria delle éelite (in allora, Mosca, Pareto e Michels erano lontani da venire) sono sorti alla fine, da un lato, il gruppo chiuso dell’establishment che ha prodotto i Bush, i Clinton e gli Obama e dall’altro, per la via dei “Tea party”, Donald Trump.
Nessuno estraneo all’altro: il tutto frutto delle degenerazione culturale, morale e infine politica delle classi dirigenti sfruttatrici.
Torniamo, però, all’attualità.
La paura genera paura e il ceto sottostante a quest’alta borghesia appena descritta ha deciso, improvvisamente, di “cambiare spalla al proprio fucile” e di affidare il paese dal quale dipendono le sorti di una buona parte del mondo, a un altro tipo di riccone che inaugurato il suo regno all’insegna di una dottrina apparentemente opposta: in luogo del globalismo l’isolazionismo; invece della libertà sconfinata di produrre tecnologia destinata all’individualismo il vecchio sapore delle ferriere (e relativi padroni), in luogo dell’e-commerce universalista il vecchio protezionismo dei dazi doganali.
In questo scenario domani camminerà con la storia (chissà quanto e chissà per quanto) l’idea dell’appeasement (nemmeno tanto cordiale, chissà?) con il nemico storico in un ritorno al bipolarismo, questa volta senza “cortine più o meno di ferro”, giudicando il colosso cinese un nemico e svalutando i tradizionali strumenti di difesa: l’alleanza militare atlantica, l’Unione Europea (nata e crescita come avamposto e sentinella USA, anche in campo economico a difesa – appunto – della finanziarizzazione globalistica) .
Un radicale mutamento di scenario.
Se ne verificheranno concretezza modalità di realizzazione ed effetti pratici.
Nel frattempo però entrambi i poli d’attrazione, quello apparentemente scaduto della globalizzazione e dell’esportazione sistemica della guerra e l’altro apparentemente opposto del “protezionismo isolazionismo” (due spalle pronte ad accogliere il fucile della borghesia sfruttatrice) non appaiono in grado di affrontare le grandi contraddizioni emergenti nello scorcio del secolo:
a) Quella tra la gestione del ciclo capitalistico in senso di finanziarizzazione globale com’è avvenuta dagli anni’80 del XX secolo in avanti e la probabile proposizione di una “logica dei blocchi” militari, politici, economici
b) Quella del vero e proprio cozzo tra ricerca scientifica, tecnologia, produzione industriale, economia e politica che arriva a mettere in dubbio l’essenza della filosofia dello sviluppo che ha contrassegnato i progressisti e la sinistra fin dal tempo della prima rivoluzione industriale.
c) Quella della complessiva assenza di un vero e radicale aggiornamento nella teoria delle fratture intorno ai nodi della differenza di genere, della questione ambientale in relazione ai temi del cambiamento climatico, del ritorno – nelle parti apparentemente più sviluppate – a rigurgiti razzisti molto forti ed evidenti nell’occasione dello sviluppo di inediti movimenti migratori
d) Quella dell’evidente crisi delle forme politiche “classiche”della democrazia liberale. Un fenomeno che, dopo la proclamazione incauta della “fine della storia” al momento della caduta del muro di Berlino, adesso appare insidiata non soltanto dal già citato “protezionismo – isolazionismo” ma anche da forme profonde di integralismo alle quali pare che il capitalismo risponda con il restringimento dei meccanismi tradizionali nel nesso Parlamento / Governo in funzione di governabilità personalistiche sempre più ristrette nell’accentuazione della logica di dominio.
Si può dunque affermare che la storia sta affrontando un vero e proprio tornante, non una semplice svolta.
E’ venuta a mancare una visione liberatrice e illuminista di concreta della regolazione politica delle grandi contraddizioni, in modo da aprire la strada alla possibilità di una vera e propria transizione di sistema.
Un vuoto che potrebbe essere pagato a caro prezzo, nella responsabilità di incauti “progressisti” semplici imitatori dei disvalori introdotti dai fautori dello sfruttamento e della ricchezza predatrice.
sabato 21 gennaio 2017
Paolo Zinna: Dopo l'insediamento di Trump
Relazioni internazionali: una svolta necessaria
Stiamo guardando il mondo con gli schemi degli anni ’50, che sono superati almeno da trent’anni: i due blocchi, la minaccia russa, ecc. Questo ritardo concettuale ci ha fatto commettere molti errori: guerre inutili per l’esportazione della democrazia, apparati militari spropositati e inadeguati rispetto alle crisi di oggi. L’Unione Europea non è una risposta: non ha politica estera e non può avere l’autorevolezza necessaria per darsela. Le scelta di Trump verso relazioni internazionali più distese con la Russia e maggior attenzione al teatro asiatico può essere un’occasione per gli europei. Occorre coglierla senza remore: bloccare l’Unione allo stato di sviluppo di oggi, magari anche con qualche arretramento, proporsi invece un lavoro politico negli elettorati per far nascere dal basso partiti europei e poi istituzioni democratiche europee - a lungo termine, puntare su una comunità che abbia l’obbiettivo di De Gaulle:”Europa dall’Atlantico agli Urali”. Dissolvere consensualmente la Nato e puntare senza esitazioni verso una politica di disarmo dei grandi apparati militari e riconversione verso strumenti flessibili più adeguati alle sfide di oggi. Investire su una politica di cooperazione e sviluppo verso la sponda sud del Mediterraneo.
ooo
In questi giorni a Washington è cambiata l’amministrazione e molte cose cambieranno nella politica degli Usa verso il mondo. Ma forse non c’è solo questo; forse è il momento di accorgersi che molte cose sono già cambiate negli anni senza che noi ne abbiamo preso atto. Per capire, bisogna ripercorrere decenni di relazioni internazionali.
La visione della politica estera nel secondo novecento
Alla fine della seconda guerra mondiale, il prestigio degli Stati Uniti presso tutti i popoli del mondo era, giustamente, altissimo. Gli USA erano la patria della libertà, erano il grande amico d’oltreoceano che aveva sconfitto le dittature fasciste e il militarismo giapponese, verso di loro si aveva un forte e giustificato sentimento di riconoscenza. Con il piano Marshall, stavano aiutando l’Europa occidentale a riprendersi dalla povertà indotta dalla guerra. Nel Terzo mondo (fra gli arabi, ad esempio), gli americani erano quegli occidentali che rifiutavano l’approccio colonialista delle vecchie potenze e accompagnavano i popoli giovani verso un futuro di indipendenza. L’atmosfera di libertà della vita americana, lo stile di vita americano veicolato dai media, gli standard di consumo americani, erano i modelli positivi per le nuove generazioni in Europa, in Asia e Africa, forse un po’ meno solo in America Latina.
L’altro grande modello, la patria del socialismo, l’Unione Sovietica, era indubbiamente meno affascinante per chi non avesse un forte orientamento ideologico; e del resto, in pochi anni, si manifestavano tutti i suoi limiti: la mancanza di libertà, lo sviluppo frenato, il conformismo intellettuale imperante, e si scoprivano i crimini dello stalinismo e l’oppressione in Europa Orientale. La North Atlantic Treaty Organization, invece che un’alleanza militare come le altre, per noi era la lega dei popoli liberi, lo scudo contro la prepotenza dei tiranni di Mosca.
Questa visione ha costituito gli “occhiali” con cui diverse generazioni di politici hanno interpretato il mondo: America uguale “i nostri”, il Mondo Libero; avversari dell’America uguale “i cattivi” o almeno quelli “che avevano esaurito la spinta propulsiva”. Io stesso, per decine di anni, ho condiviso questa visione con convinzione.
Però, già allora non tutti la pensavano così. Charles De Gaulle, leader della Francia che non si era arresa ai nazisti, era un indiscutibile antifascista e anticomunista, un generale con tendenze conservatrici e autoritarie. Eppure aveva colto, e rifiutato, l’asimmetria dell’alleanza occidentale, il fatto che nella NATO uno decideva e gli altri si allineavano. Perciò, nel 1966, decise l’uscita della Francia dal dispositivo militare dell’alleanza, lo sviluppo autonomo della potenza nucleare francese, la dottrina di difesa “tous azimuts”. E già parlava di uno spazio europeo “dall’Atlantico agli Urali”.
Gli Stati Uniti sono un grande e complesso paese. Non sempre nel loro governo ha prevalso lo spirito democratico della Costituzione, talvolta sono state più forti le lobbies, la voce del complesso “militar-industriale”, come disse lo stesso Presidente repubblicano Eisenhower. E perciò, della posizione di enorme vantaggio psicologico di cui godeva, l’America fece spesso cattivo e prepotente uso, interferendo nei governi di paesi amici fino ad organizzare in parte e finanziare numerosi colpi di stato: es. 1953 Iran, 1954 Guatemala, 1963 R. Dominicana, 1965 Indonesia, e molti altri, in maggiore o minor misura. (Naturalmente non bisogna dimenticare altre vicende in cui invece gli Stati Uniti hanno usato la propria influenza a favore del processo democratico). Nell’opinione pubblica europea la guerra nel Vietnam ed il colpo di stato in Cile del 1973 contro Allende, sostenuto dalla CIA, hanno deteriorato molto il capitale di simpatia di cui godeva l’America. Ma molto si perdonava, in politica, vista la perdurante minaccia del blocco sovietico che, pur nel declino, mostrava ancora elementi di aggressività (Afghanistan 1978).
Fine secolo: cambio di paradigma
Il 1980 è stato un anno di rottura nella storia politica del ‘900. E’ il momento dell’arrivo al potere di Thatcher e Reagan, ma è soprattutto la data convenzionale della svolta con cui l’atmosfera intellettuale passa dal privilegiare i valori socialisti di giustizia sociale e solidarietà al mettere al primo posto i valori individuali: competitività, meritocrazia, affermazione del sé. Nelle teorizzazioni politiche, la svolta sfocia nel predominio del neoliberismo nei paesi anglosassoni e nella sua variante nordeuropea, ordoliberalismo ed economia sociale di mercato. Di fronte a tutto questo, le forze socialdemocratiche non sono riuscite ad elaborare una proposta alternativa convincente.
Con la fine del decennio, l’implosione del blocco sovietico cambia completamente la configurazione geopolitica del mondo. Lo schema bipolare non c’è più, o meglio, non c’è più uno dei blocchi, la stessa Unione Sovietica si frantuma in molti piccoli stati, la Russia entra in un decennio di confusione e debolezza. Fukuyama teorizza la “fine della storia” attraverso la definitiva prevalenza della democrazia liberale: “i buoni” hanno vinto. Però, mentre cambia la geopolitica, non cambiano gli strumenti e i sentimenti con cui la leggiamo. In effetti, se “i buoni” hanno sbaragliato gli avversari, a questo punto tutti dovrebbero diventare “buoni”. Perché continuare a privilegiare emotivamente un attore sugli altri? E, se la spada del nemico si è frantumata, a cosa ci dovrebbe più servire lo scudo? Ma il pensiero politico nei primi anni ’90 non trae queste conclusioni.
In seguito a questi sviluppi e anche come contrappeso alle prospettive di riunificazione tedesca, riparte il processo di integrazione europea, ma riparte curiosamente sbilanciato verso il lato economico (Maastricht 1993) e in qualche modo governato da un asse privilegiato fra Parigi e Berlino. Gli stati dell’Europa Orientale, appena liberati dalla sudditanza a Mosca, vengono coinvolti in un percorso di avvicinamento ed entrano a farne parte nel 2004. L’Unione degli anni 2000, perciò, risulta condizionata da due miti non completamente razionali: l’orrore per la politica economica espansiva, scolpito nell’opinione pubblica tedesca dal ricordo della disastrosa inflazione di Weimar - la russofobia dei “nanetti” centro orientali, fatta di ricordi e di paure. I due fenomeni convergono e si sostengono l’un l’altro, finendo per garantire a Berlino un’assoluta egemonia nell’Unione.
Nel nuovo secolo, i fronti ideologici sono cambiati. Patria del socialismo contro America capitalista e guerrafondaia, mondo libero contro comunismo stalinista: ormai questi slogan suonano falsi da entrambi i lati della barricata. Invece, emerge prepotente un diverso contrasto fra due modi di rapportarsi al mondo: fede religiosa applicata come stile di vita contro laicità e relativismo. E naturalmente la visione religiosa applicata in politica difficilmente sfugge all’integralismo e l’integralismo postula l’inferiorità del diverso. E’ atteggiamento purtroppo abbastanza diffuso nel mondo musulmano, ma non solo: buddisti birmani verso rohingya musulmani, coloni ebrei ortodossi verso palestinesi, indù verso musulmani ad Ayodhya (dove gli induisti radicali distruggono nel 1992 una moschea plurisecolare, senza che in occidente si indigni nessuno per la perdita dell’opera d’arte). E nordovest e sudest del mondo vanno in direzioni diverse anche su un altro fronte: negli ultimi decenni, nelle società laiche dell’occidente le donne hanno conquistato sempre maggiori spazi di autonomia e di potere; diventa quindi ancor più plateale la differenza dalle società a impronta etica di matrice religiosa.
Esportare la democrazia: un sostanziale fallimento
Fra noi del primo mondo, questi cambiamenti rivoluzionari avrebbero dovuto stimolare un riesame critico dei criteri di lettura del mondo che ci erano stati utili in altra epoca; invece hanno prevalso nettamente le persistenze. Ad esempio, potremmo sintetizzare grossolanamente così i sentimenti che hanno guidato fino ad oggi la politica estera statunitense:
▪ tutti i popoli desiderano la democrazia politica, basta liberarli dalle costrizioni imposte dai loro dittatori e si volgeranno ad essa, scegliendosi leaders amici dell’America
▪ in ogni caso, la Russia è un nemico, anzi: IL nemico.
Indipendentemente dai machiavellismi dei circoli governativi, importa sottolineare la sincerità di queste convinzioni nell’opinione pubblica americana. E ciò, ovviamente rende difficile e impopolare, per la diplomazia, cambiar strada.
Di fatto, non si riesce a concepire che, nei paesi poveri, vasti strati della popolazione possano liberamente dare il proprio sostegno a leaders poco attenti ai meccanismi della democrazia liberale, ma ben in grado di fare sperare in una prospettiva di benessere e anche di riscatto della dignità nazionale. Ovviamente, nelle megalopoli del terzo mondo o nelle campagne profonde, il corretto pluripartitismo e la libertà di stampa non sono esattamente al vertice delle preoccupazioni della gran massa del popolo …. Così gli elettori, in piena libertà, si sono affidati al FIS islamico (Algeria ’91), ad Ahmadinejad per due volte in Iran, a Chavez e a Maduro per moltissime elezioni in Venezuela, ecc. I diseredati sono il gran serbatoio di consensi per personaggi discutibili come Morsi in Egitto ed Erdogan in Turchia. In Europa e Nordamerica si simpatizza con l’opposizione, in generale ben radicata nelle classi medie urbane e fra gli studenti, meno si considerano le ragioni degli abitanti delle favelas. Persino il nostro modo di affrontare il grande e pressante tema ambientale risente di questo strabismo. Capiamoci bene, ci dicono gli statisti del terzo mondo: voi avete costruito il vostro benessere sfruttando le risorse naturali, inquinando senza limiti, disperdendo gas serra - e ora ci dite di non fare noi lo stesso, di preservare le foreste, di contenere l’innalzamento della temperatura? Magari di restare perciò un po’ più poveri, mentre voi continuate ad usare i vostri condizionatori? Sarà un approccio demagogico, ma è difficile controbatterlo.
Abbiamo dunque vissuto alcuni decenni di drammatica differenza nella percezione della realtà politica fra l’opinione pubblica occidentale (soprattutto nordamericana) e quella del resto del mondo. Questo quadro spiega anche, in parte, l’eccezionale importanza che tutti noi abbiamo dato alla tragedia delle Torri Gemelle (2001). E’ stato un brutale risveglio: “perché ci odiano?” si chiese, quasi sorpreso, il Presidente Bush. La strategia di risposta USA è stata influenzata dal pensiero politico “neoconservatore”: se quei popoli, aizzati e indottrinati da regimi illiberali, sono schierati contro di noi, dobbiamo liberarli dai loro regimi, con tutti i mezzi, perché la nostra democrazia è un bene assoluto. In alcuni casi, c’è di più: quei dittatori sono anche criminali, che opprimono il proprio popolo, imprigionano e uccidono gli oppositori, minacciano i vicini con armi chimiche e batteriologiche. Dobbiamo dare il via ad un “intervento umanitario” per neutralizzarli..
In effetti questa strategia è stato posta in essere con due diverse modalità, potremmo dire hard e soft, a seconda che ci siano stati scontri armati o no. I casi hard sono noti a tutti: Somalia 1993, Afghanistan dal 2001 ad oggi, Iraq 1991 e poi dal 2003 ad oggi, in parte Libia 2011. A distanza di molti anni, possiamo ormai serenamente constatare che i risultati non sono stati raggiunti: in nessuno di questi paesi si è usciti dalla guerra civile, si è riformato uno stato funzionante, c’è vera democrazia.
A partire dai primi anni 2000 sono state sostenute invece, con maggior successo, opposizioni non violente che hanno dato luogo ad una serie di “rivoluzioni colorate” contro leaders anti occidentali, spesso vicini a Mosca: Serbia 2000, Georgia 2003, Ucraina 2004, Kirghizistan 2005 e molte altre di minor successo . Questi movimenti si sono ispirati alle teorie non violente di Gene Sharp e del suo Albert Einstein Institute e talvolta hanno ricevuto fondi di provenienza americana, in parte da fonti legate a George Soros. Bisogna dire che i regimi rovesciati erano in genere veramente autoritari, inefficaci, corrotti - non sempre però ciò che ne è emerso è stato inappuntabile: basta ricordare che in Georgia e Kirghizistan i nuovi regimi si legittimarono con elezioni che dettero loro un poco credibile 90% dei consensi. [Tutto questo rende abbastanza divertenti le proteste negli USA per le campagne di influenza dei russi a favore di Trump … ].
Un ondata analoga ha investito i paesi arabi nel 2011 (“primavere arabe”), con risultati disuguali: transizione verso la democrazia in Tunisia, ricaduta in Egitto in regime autoritario, fallimento dello stato e guerra civile in Libia e nello Yemen, repressione in Bahrein.
Nodi attuali
E oggi, a che punto siamo? La storia non è finita, tutt’altro: non vediamo il mondo politicamente quasi uniforme e pacifico, avviato armoniosamente verso un nuovo ordine mondiale sotto la guida illuminata di Washington.
La Cina ha guadagnato il rango di polo alternativo, nell’impetuoso sviluppo economico e nella potenza militare; è alternativa al vecchio mondo europeo persino nei comportamenti neocoloniali in Africa. Il Pacifico, e non più l’Atlantico, si avvia ad essere il cuore del pianeta ed anche la frontiera più calda fra le aree d’influenza.
Nuovi paesi chiedono di essere ascoltati là dove si disegna l’ordine del mondo, che è ormai così mal rappresentato dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. BRICS è un acronimo che raccoglie situazioni poco comparabili, ma accomunate dalla percezione di “non aver contato abbastanza, finora”. Fra queste nazioni c’è anche la nuova Russia, che è in realtà anch’essa “nuova”; cioè, non ha in comune con l’Unione Sovietica né le ambizioni mondiali, né l’estensione dell’area dominata, né l’ideologia giustificante, né tanto meno le classi dirigenti.
L’Unione Europea ha perso l’anima. Qualcuno può ancora vederci l’ideale dei fondatori? Di Schumann, di De Gasperi, del coraggioso Adenauer, di Spinelli? Qualcuno ancora può entusiasmarsi per Bruxelles, per Strasburgo, per Francoforte? L’Unione di oggi è una macchina organizzativa, che produce norme inefficaci per sostenere il benessere del continente (infatti l’Europa è l’area economica che oggi cresce meno nel mondo), ma molto efficaci per gli interessi dei paesi forti ed in particolare della Germania. Se il dossier della Grecia viene lasciato gestire secondo le vedute degli Schauble, dei Djesselbloem, dei Dombroviskis, tornano i conti numerici, ma non ci sono più ragioni per appassionarsi all’Europa. Al massimo, i cittadini europei responsabili possono pensare: “romperla oggi, sarebbe peggio”. Ma si diffondono sempre più gli euroscettici, e come primo risultato abbiamo avuto la Brexit.
Ad est, abbiamo creato dal nulla una inutile minaccia di guerra. Invece di spingere l’Ucraina verso una politica di neutralità, con ampie autonomie regionali, come è stato fatto per Austria e Finlandia nel dopoguerra, abbiamo sostenuto e incoraggiato le peggiori forze nazionaliste e russofobe, che in quel paese hanno una lunga tradizione nella storia. La Russia, dal canto suo, non ha certo fatto una politica di pace.
Una prospettiva per il futuro
I temi da affrontare sono così delicati da richiedere, come premessa, la definizione dei nostri criteri di giudizio: quali azioni e mosse dei diversi attori sono lecite e desiderabili, come definire “positivo” uno sviluppo politico.
Credo nelle grandi parole della rivoluzione francese, liberté egalité fraternité, e credo che ciascun individuo e ciascun popolo sia il miglior giudice di quali siano le vie migliori da adottare per assicurarli a sé stesso, in un quadro internazionale di pace e di equilibrato benessere. D’altra parte, una riflessione politica svolta in Italia deve chiedersi con attenzione prioritaria quali mosse la nostra politica estera può e deve fare per realizzare per noi stessi questi obbiettivi. Le note che seguono si propongono di mantenere un ragionevole punto di equilibrio fra queste due prospettive.
L’attuale Unione Europea non è riformabile. Ciò non tanto per le resistenze che incontrerebbe ogni proposta federalista, per la farraginosità delle procedure, per la prevedibile opposizione dei sovranisti, ma soprattutto perché manca la slancio propulsivo che può venire solo da una calda partecipazione delle opinioni pubbliche, che, per queste istituzioni, non ci sarà mai più. Una politica illuminata non dovrà quindi rivolgersi alle istituzioni europee, in un impossibile dialoga fra sordi. Si dovrà invece puntare a creare un’opinione pubblica a livello continentale, costruire partiti e movimenti transnazionali, imporre dal basso la democratizzazione con elezioni dirette su liste trasversali ai confini nazionali. Nel frattempo, l’involucro attuale deve essere congelato, nella sua lentezza burocratica e nella sua impotenza, in attesa del momento giusto per farlo esplodere, ad esempio attraverso un movimento per una nuova costituzione europea: in essa, le questioni della rappresentanza, della politica estera, della difesa comune dovranno essere la premessa ad ogni regola economica. La prospettiva a lungo termine, però, non può essere limitata ai confini attuali dell’Unione: la Russia è parte della civiltà europea fin dal suo consolidarsi come stato e ancor più, dal 1700 in poi. Non può esserci Europa, concettualmente, se non ci si propone di costruirla “dall’Atlantico agli Urali”. Il regime parzialmente autoritario di Putin non è eterno, la civiltà europea sì.
In questo quadro, la svolta del Presidente americano Trump per migliori relazioni con la Russia e più leggera presenza degli Stati Uniti nello scacchiere europeo è un’opportunità da cogliere con spirito assolutamente positivo. La prima conseguenza, abbastanza ovviamente, dovrà essere la cancellazione delle inutili e dannose sanzioni verso la Russia ed una vigorosa azione di “moral suasion” verso gli attori del conflitto in Ucraina per una pace ragionevole e condivisa, senza vinti né vincitori. Raggiungere questo obbiettivo sarebbe un primo passo per il ristabilimento di un clima di collaborazione con la nazione russa.
[Questa apertura di credito verso l’amministrazione Trump non ha nulla a che vedere col giudizio che di essa si dà per quel che attiene alla politica interna nei suoi vari aspetti. Sulla politica interna, mi pare giusto mantenere le più ampie riserve e riconfermare una maggior vicinanza ai temi cari al partito democratico. Per la politica estera, invece, la sconfitta della Clinton, esponente dell’ala più interventista dell’amministrazione uscente, giustifica a mio parere un certo sollievo].
In prospettiva, non si vede davvero la ragione di mantenere in vita un alleanza militare così vincolante e sbilanciata nei poteri decisionali come la NATO. L’amministrazione Trump pare intenzionata a ridimensionarne i costi. Questo può far pensare che oggi, a differenza del passato, sia possibile una prospettiva di risoluzione amichevolmente consensuale dei trattati che la reggono. E’ pericoloso? Occorre rispondersi: lo sarebbe, se pensassimo realistica una prospettiva di invasione militare convenzionale, o di conflitto atomico, nel cuore dell’Europa. Onestamente, non mi pare che ciò rientri nel quadro dei panorami ipotizzabili.
Anche la politica italiana della difesa e degli armamenti dovrebbe essere rivalutata. Sembra che attualmente si disponga di una certa capacità di svolgere compiti nell’ambito di un conflitto convenzionale. Per questo scopo impegniamo risorse importanti in armamenti navali e aerei. Invece, andrebbe rivalutata la nostra capacità di far fronte ad esigenze realisticamente più probabili: limitati interventi in aree di crisi anche con fini di interposizione, sorveglianza e pattugliamento navale, nuclei di rapido intervento. Detto brutalmente: a cosa mai possono servirci gli F 35? A lungo termine, ovviamente, la nuova Europa dovrà avere una logica condivisa delle relazioni internazionali, strategie e strumenti di difesa comuni (“esercito europeo”), risorse adeguate - ma tutto ciò richiede una fase di transizione certamente non breve.
Un altro centro di grandissimo interesse per l’Italia deve essere la situazione della sponda sud del Mediterraneo. In effetti, solo un equilibrato sviluppo dei paesi del Nordafrica può dare prospettive sane di crescita economica al nostro Mezzogiorno e deve essere quindi, anche solo per questo, una vera priorità nazionale. Su questo teatro negli ultimi vent’anni siamo stati deboli per non dire distratti ed assenti, e ne abbiamo pagato e ne paghiamo le conseguenze. Il Marocco ha trovato la strada di un ragionevole sviluppo; l’Algeria, dopo una guerra civile di dimensioni tragiche, è tornata ad avere una sua normalità; la Tunisia, non senza tensioni, sembra avviarsi ad una vita politica democratica; l’Egitto gode di notevoli risorse naturali (gas sottomarino) ma è appesantito da una popolazione in continua crescita, cui non corrispondono opportunità equivalenti. In realtà, tutti questi paesi hanno significativi problemi economici, aggravati da dinamiche demografiche preoccupanti. Qui occorre riprendere una grande politica di cooperazione per lo sviluppo economico, investendo risorse importanti per le infrastrutture, lo sviluppo turistico, il potenziamento della capacità agricola e manifatturiera. Probabilmente questo sforzo eccederebbe le normali dinamiche di un normale programma italiano di cooperazione: dovremo accettarlo, non per generosità, ma per dare una prospettiva di crescita alle regioni meridionali del nostro stesso paese.
C’è poi la situazione libica. Risulta ancora oggi difficile capire perché nel 2011 il governo italiano dell’epoca non si sia opposto all’intervento franco americano, che, visto con imparzialità a posteriori, sembra configurare una inaccettabile aggressione internazionale (a parti invertite, si invocherebbe forse per i responsabili un giudizio del Tribunale dell’Aia). Ciò è tanto più strano, perché gli interessi che ne venivano colpiti erano essenzialmente interessi italiani.
E oggi? Abbiamo scelto di schierarci per una delle parti in causa, senza che all’opinione pubblica sia ben stato spiegato il perché di questa scelta. Sosteniamo un governo artificiale (Sarraj a Tripoli), che ha difficoltà ad imporsi nella sua stessa capitale (viene chiamato: il “governo della fregata” perché pare che riesca a riunirsi solo su una nave militare). Il suo principale sostegno sono le milizie islamiche di Misurata, a loro volta sostenute dal Qatar: è una posizione abbastanza sorprendente.
Nell’ottica di permetter la ricostituzione di uno Stato effettivo in Libia, capace di disarmare le milizie ed impedire il traffico dei migranti, sembrerebbe invece preferibile un’azione più vigorosa di impulso alla ricerca di un compromesso fra i due “governi” attuali (Tripoli e Tobruk), senza pretese di egemonia.
Resta, per concludere, ancora un nodo della geopolitica di oggi: il conflitto siriano e irakeno. Siamo meno direttamente coinvolti, il nostro interesse, come Italia, starebbe nelle fine della guerra civile ed in un ragionevole compromesso tra le fazioni che consenta di disarmare i terroristi dell’ISIS.
Eppure, non si può tralasciare una riflessione in merito. L’immagine che i media occidentale hanno trasmesso finora della situazione siriana (eroici ribelli che si oppongono ad un sanguinario dittatore) presenta molte evidenti incongruenze e domande irrisolte. Premettiamo che tutte le parti in causa hanno le loro colpe e certamente il governo Assad era dittatoriale e sostenuto essenzialmente dalle minoranze alawite, e cristiane, con poco spazio per la maggioranza sunnita.
Dopo molti anni di assoluta tranquillità, nel 2011 cominciarono a prodursi manifestazioni anti regime, duramente represse dalle forze di Assad. Improvvisamente, in pochi mesi, i manifestanti pacifici si sono trasformati in “ribelli”, cioè, hanno ottenuto armi e addestramento militare. Dove le hanno trovate? Non ci è stato detto. Nei tre anni da allora i dissidenti “laici e filooccidentali” sono stati relegati in secondo piano da ben due formazioni di matrice islamica e terrorista: al Nusra e l’Isis. Come è potuto accadere ciò? Chi ha fatto affluire combattenti addestrati e armati? Da dove sono passati? Chi ha finanziato l’Isis? Qual è stato il ruolo della Turchia nel flusso di vendita del petrolio ottenuto dall’Isis? E’ vero che in Aleppo occupata i regolari di Assad hanno catturato una decina di ufficiali sauditi in missione di assistenza ad Al Nusra? Dopo la caduta di Aleppo, è davvero avvenuta la strage di civili che era stata prevista? A quanto pare, il diabolico ISIS gestisce parecchi mezzi d’informazione su Internet e no: Amat news, al Furkam, al Hayat, Al Balagh, Fursan al Balagh, Dabiq, Rumiyah eccc. E’ davvero impossibile “spegnerli”?
Credo che alcune di queste domande avranno una risposta convincente e compatibile con la versione diffusa, ma altre no. Credo che i sauditi e i qatarioti stiano giocando un ruolo pesante. Credo che si debba chiedere che i paesi che hanno un ruolo non neutrale in campo debbano dichiararlo apertamente e dichiarare i loro veri scopi. Forse così capiremo perché e come il deprecato ISIS riesce a resistere con tanto successo contro forze che avrebbero dovuto da tempo farlo completamente scomparire.
Milano, 20.0.2017
venerdì 20 gennaio 2017
Franco D'alfonso: Atm e Comune
Il post sul bus notturno ha evidenziato come ci sia sempre grande interesse per come funziona il servizio pubblico a Milano. Provo a contribuire al dibattito spiegando, per come lo ricordo io, il rapporto fra Comune di Milano | Palazzo Marino ed ATM SpA.
Il comune paga di contratto di servizio 730 milioni. Ne ricava da biglietti 418, coprendo il costo per oltre il 60 per cento. Riceve da fondo nazionale trasporti 270 mio di euro via Regione, che ne "resega" ogni anno un po' (l'anno scorso una ventina di milioni). Tra i servizi che il comune paga col cds c 'è anche la gestione della sosta, per i quali i ricavi dai "grattini" vanno ad atm, mentre il Comune incassa le multe della sosta fatte con attività' degli ausiliari, a propria volta pagata dal comune ad #Atm con il cds/importo già detto. Poi ci sono i ricavi da#AreaC, gestita egualmente da Atm. Vuol dire che milano sul tpl in senso stretto non tira fuori nulla! E non ci sono paragoni simili per il tpl in italia.
Il buco da 80-85 milioni all anno viene aperto a causa di un project per #M5 ( e molto presto per #M4) scandaloso come costi. In questo caso non si tratta di trasporto, ma di ripagare ruote, binari, gallerie, scambi a chi ha anticipato i soldi sull' investimento. Un po' come se si volesse mettere la costruzione della variante di valico nel conto economico di Ferrovie dello Stato, che in questo modo vedrebbero la borsa con un binocolo che dovrebbe prestargli qualche amico.
Dal 2011 ad oggi sono aumentate ore e chilometri di servizio , sono diminuiti quasi a zero gli incidenti dovuti alla carenza di manutenzione (vi ricordate come nel 2010 non passasse giornate senza che piazzale Baracca , viale Brianza o altre zone fulcro di #traffico fossero bloccate da #tram o #autobus in panne o dagli scambi rotti ?), è aumentata l'#occupazione, l'azienda è tornata in utile, ha investito direttamente (con fondi propri) quasi mezzo miliardo di euro, ha riportato la reputazione del servizio e di Milano a livelli straordinari, con buona pace dei Napalm 51 che infestano il #web accusando gli amministratori della città di essere "Delinquenti e criminali o incapaci e incompetenti".
Discutiamo pure, non è bene tirarsi indietro lasciando il campo ai parolai dal motto "mi sono già fatto una idea, non disturbatemi con i numeri ". Ma ricordiamoci di quello che diceva Umberto #Eco : il web è democratico, perchè permette anche ad un imbecille di esprimere un'opinione, ma non lo trasforma in uno intelligente.
Andrea Ermano: Ombre e luci di inizio anno
Ombre e luci di un
inizio d’anno inquieto
di Andrea Ermano
dall'Adl
Pessime notizie dal Centro Italia. La neve, il freddo, le ulteriori scosse sismiche, gli ulteriori crolli: come in guerra si contano morti e dispersi. Forse la notizia più brutta, però, è l’avvilimento delle popolazioni che attendevano un nuovo inizio. Non quest’altro disastro. Dopodiché, certo, la protezione civile, le forze armate e il volontariato mostrano ancora una volta di sapere affrontare l’emergenza. È tempo di solidarietà, non di molte parole. Ma “dopo”? Bisognerà discutere sulle politiche di lungo periodo. Solo un “Servizio civile nazionale” in grande stile potrà allora innescare quegli interventi che da decenni andrebbero affrontati, ma che poi vengono sempre rinviati perché lo Stato non ha i soldi e il Mercato se ne disinteressa. In questo contesto, l’istituzione di un grande “Servizio civile” costituirebbe una doppia buona azione rivoluzionaria, perché assorbirebbe un bel po’ di disoccupazione giovanile e metterebbe finalmente in opera le misure necessarie al governo del territorio.
È una buona notizia che i richiedenti asilo (i quali hanno dietro di sé situazioni umane analoghe a quelle di chi subisce un terremoto) verranno impegnati in lavori socialmente utili, come ha detto il ministro Minniti. Una buona notizia, a patto che essa preluda all'istituzione di un vero e proprio "Servizio civile migranti". Solo un'accoglienza effettiva, cioè umana e ben organizzata, ci salverà. L'Italia, del resto, ha tutto l'interesse a tramutare le spinte migratorie in apporti per la compensazione del proprio deficit demografico nonché in un volano di buone relazioni con i popoli dell'Africa e del Mediterraneo. L'istituzione di un "Servizio civile migranti" potrebbe essere la risposta giusta alle pulsioni populiste che dilagano.
In tema di populismo, veniamo a Trump. Dopo oltre trent'anni di speculazioni finanziarie che si sono assommate in migliaia di miliardi tolti al popolo americano tramite la delocalizzione e il dissanguamento dell'economia reale, un signore di nome Donald, sceso in campo dal suo mega-grattacielo a Ovest di Paperino, è riuscito a intercettare la rabbia della gente e a farsi affidare la valigetta con i codici nucleari: da domani deterrà un reale potere di vita e di morte su tutti noi. Speriamo bene. Per intanto, The Donald attacca la Nato e l'Europa dichiarando che l'America non sa che farsene di questa UE. Al netto del tono inaudito, c'è da comprendere, tuttavia, che esiste un sentimento profondo nelle famiglie e nelle classi dirigenti USA (e UK). Potranno, gli anglo-americani, accettare di avere pagato un così alto tributo di sangue al nostro continente, sui campi di battaglia di due guerre mondiali, per stare ora a guardare la grande potenza economica europea che si allinea alle esigenze della bilancia commerciale tedesca in un potenziale contrasto con gli interessi dell'Occidente?
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Inquadratura di Salvate il soldato Ryan,
celebre film di Steven Spielberg del 1998
No – liebe Freunde der Vernunft – questo scenario, gli anglo-americani non potranno accettarlo facilmente. E non l'accetteranno nemmeno i russi (di qui, tra parentesi, si vede bene in quale tenaglia geopolitica va pilotandosi l'UE di oggi, UE che Romano Prodi giudica "morta"). Di questi sentimenti anglo-americani profondi il vecchio cancelliere socialdemocratico Helmut Schmid era ben consapevole. In Italia la questione è stata recentemente riportata alla memoria da Carlo Galli, filosofo prestato alla politica, in un dibattito con il professor Gian Enrico Rusconi sul libro di quest'ultimo dedicato all'egemonia tedesca in Europa. La fragilità di questa egemonia è ben riassunta dalle parole dell’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer: “Ci siamo svegliati e improvvisamente ci siamo accorti di avere un ruolo da leader, almeno in Europa, ma senza averne la voglia. Il paese non aveva la minima idea di che cosa volesse dire avere un ruolo egemone” (vedi scheda del libro al sito, Egemonia vulnerabile. La Germania e la sindrome Bismarck, Bologna 2016).
Quanto a Trump, e stavolta con riferimento alla Nato, alleanza che egli definisce "obsoleta", par di capire che i partner europei, secondo il presidente eletto, dovrebbero mettere mano al portafogli e impegnarsi di più. Come no. Tutti vorremmo poterci impegnare di più. Ma qui stiamo parlando di guerra. Laddove il diritto internazionale sancisce che la guerra è sempre illegale, fatta eccezione per la legittima difesa o per gli interventi militari autorizzati dal Consiglio di sicurezza dell'ONU.
Invece, la Nato si è distinta in una serie di operazioni e interventi non motivati dalla legittima difesa del territorio di propria pertinenza né autorizzati dal Consiglio di sicurezza. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, e basti pensare al caos sanguinario provocato dalle guerre civili attualmente in corso lungo le coste del Mediterraneo con tragici contraccolpi "asimmetrici" nelle metropoli dell'Occidente.
Un catalogo impressionante di violazioni compiute da stati dell'Alleanza Atlantica contro l'ordine pacifico mondiale sancito dall'ONU è stato raccolto dallo storico svizzero Daniele Ganser nel suo volume Illegale Kriege ("Guerre illegali", vai al sito della pubblicazione). La situazione è quella che papa Bergoglio ha più volte riassunto: "Una terza guerra mondiale a piccoli pezzi".
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Heri dicebamus… L’ADL del 15 maggio 1944 con un appello del
Socialist Vanguard Group di Londra sull’Europa e la pace mondiale
Certo, noi ci accorgiamo poco di tutto ciò, anche perché i nostri organi d'informazione osservano una certa autodisciplina mediatica di guerra, diciamo, fatta di autocensure e di manipolazioni.
Così, un terrorista è definito "ribelle" (o un ribelle "terrorista") a seconda delle convenienze del caso, non per quel che fa o dice, ma in base alla sua momentanea (e talvolta casuale) accidenza rispetto alle strategie di questa o quella parte belligerante.
Ciclicamente, partono appelli un tanto al chilo per "salvare" Bengasi o qualche altra città coinvolta in conflitti belluini, provocati, alimentati e armati da paesi Nato. Cioè da noi stessi.
Prima istighiamo al caos più atroce. Poi ci proponiamo come "soccorritori", scrive lo storico Ganser.
L'odierna autodisciplina mediatica di guerra prevede che, in nome della Pace e della Civiltà, si debbano inviare qua e là truppe "con gli stivali sul terreno", Boots on the Ground, come si usa dire.
Pace. Cioè altra guerra.
Civiltà. Cioè altri vecchi, donne e bambini morti, bombardati, gasati.
E mai nessuno che si domandi da dove venga il gas.
Non mancano, invece, dozzine di commentatori lesti a prendere la palla al balzo, dopo la sparata di Donald Trump sulla Nato "obsoleta": pronti a disquisire sul fatto che sì, in effetti, in quest'Europa panciafichista si spende "oggettivamente" troppo poco per andare in giro per il mondo a fare… la guerra.
E allora ripetiamolo: la guerra è illegale, lo è sul piano del diritto internazionale e, per il nostro Paese, anche su quello della legittimità costituzionale. La nostra Costituzione, confermata dalla volontà popolare in due recenti referendum, stabilisce, infatti, che: "L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali" (Art. 11).
In tema di Costituzione repubblicana, infine, c'è che tra qualche giorno la Consulta si pronuncerà sul cosiddetto "Italicum". Si tratta di una legge elettorale fondata sul pio(?) desiderio per cui la sera delle elezioni occorrerebbe sapere chi ci governa per un'intera legislatura. A parte che in questo modo si bypasserebbero allegramente le funzioni di rappresentanza, mediazione e controllo politico del Parlamento, la Presidenza del Consiglio verrebbe affidata a un uomo solo al comando, capo di capilista bloccati, catapultato a Palazzo Chigi da un premio di maggioranza incongruente.
Come era già accaduto nell'azione contro il Porcellum – cui l'Italicum somiglia moltissimo – è Felice Besostri, avvocato socialista, a coordinare i ricorsi di costituzionalità. A lui e a tutto il pool di giuristi democratici anti-Italicum i nostri migliori auguri di successo: "Se le leggi elettorali sono costituzionalmente necessarie, devono essere necessariamente costituzionali".
giovedì 19 gennaio 2017
mercoledì 18 gennaio 2017
Antonio Caputo: Per la ripresa di una moderna cultura laica liberalsocialista e azionista
forum sul post-referendum: che fare? n.6
per la ripresa di una moderna cultura
laica liberalsocialista e azionista!
antonio caputo
da critica liberale
La domanda di “Critica Liberale”, che ha aperto al riguardo un Forum
permanente: dopo la davvero storica vittoria nel referendum costituzionale che ha visto
impegnate assieme per la prima volta a favore del NO forze liberali, repubblicane e
socialiste e di ispirazione azionista, che fare?
È possibile, e come, riaggregare a sinistra un’area azionista e di democrazia laica in
grado di dare rappresentanza a quel vastissimo “spazio” culturale, sociale e politico che
ormai da decenni è costretto ad affidarsi a partiti che hanno poco o nulla da spartire con
quelle tradizioni?
La risposta è complessa , ma la domanda merita più che una speranza.
La cultura liberalsocialista e azionista è stata in genere repressa in Italia e soffre
una crisi di abbandono. Sotto l'impulso contrario prima delle due chiese, di impostazione
comunista o socialcomunista da un lato e cattolica o cattocomunista , dall'altro.
Quindi, dopo la caduta del muro e l'avvento della c.d. seconda repubblica, sotto la
spinta contraria del berlusconismo da una parte , affaristico individualista e clientelare o
anche nelle versioni iperliberistiche (quantomeno a parole) , da un lato e i diversi
travestimenti in salse variopinte, ace cattocomuniste o da amalgama non riuscito del PciPds-Ds
, Margherita e compagnia cantando e quindi l'emergere del Pd-partito della
nazione, degli affari del familismo e/o delle caste o del nichilismo affaristico familistico
post ideologico e privo di principi.
Il tutto nella dimenticanza crescente dell’etica pubblica e privata , e dei principi
fondanti la res pubblica ; nella dimenticanza del Risorgimento e della Resistenza, quali
momenti di storia patriottica e progressista ad un tempo , di ispirazione universalistica ed
europea.
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Ulteriormente, la cultura liberalsocialista e azionista è stata obnubilata
dall'emergere di movimenti , semplificativamente populistici e post democratici, come i 5
stelle o deliberatamente razzisti e/o nazionalisti quali la Lega , sotto la pressione delle
ondate di emigrazione.
Ancora gli eccessi della finanziarizzazione dell'economia e del liberismo
globalizzante hanno sotterrato quelle istanze di partecipazione democratica e plurale, e
insieme di rivoluzione democratica ininterrotta che sta a base del pensiero azionista e
liberalsocialista, unitamente alla crisi della sovranità ( nelle diverse sue configurazioni,
monetaria, politica e transnazionale) e del principio di rappresentanza che ha disgregato
la forma partito e lo stesso associazionismo, snaturando i principi stessi del
costituzionalismo liberaldemocratico.
Dopo la vittoria del No nel referendum costituzionale , che ha significato richiesta e
anche riappropriazione di sovranità e di partecipazione popolare , può iniziare una nuova
riflessione sui modi e i contenuti di una reviviscenza dell'azionismo e della cultura
liberalsocialista in genere, a partire dai principi del costituzionalismo moderno, liberale e
democratico, centrati sul principio della separazione dei poteri che è da sviluppare
ulteriormente dando forma anche a nuove istituzioni, quali l'Ombudsman ( garante
indipendente del principio di buona amministrazione ed egli pure organo di rilevanza
costituzionale, come nei Paesi scandinavi o dell'area iberica).
E sui modi per garantire l'effettività' e attuazione dei diritti fondamentali delle
persone, enti ed individui, valorizzandosi i diritti e l'indefettibile principio di laicità delle
Istituzioni e la scuola pubblica, quale "organismo di rilevanza costituzionale".
Tanta è la strada da percorrere, diretta a modernizzare il Paese e dotarlo di Istituzioni
democratiche realmente rappresentative, plurali e rispettose dei cittadini, al servizio degli
stessi.
Il referendum può costituire la base di un rinnovato percorso che prendendo avvio
dall'insegnamento esemplare del secolo breve e per impedirne l'orrore, il cui rischio latente
sta riaffiorando nel mondo contemporaneo, dai risorgenti nazionalismi, all'estremismo
stragista jadista, ai fondamentalismi religiosi ritrovi le ragioni alte di una azione culturale
e politica fondata sui valori della persona e dell'individuo, sui principi di Giustizia e
Libertà, Laicità e partecipazione democratica e su Istituzioni autorevoli e ad un tempo
pienamente rappresentative, nel segno della distinzione tra pubblico e privato e di una
ritrovata eticità.
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16 gennaio 2017
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È un cammino arduo, ma ne vale la pena.
Per i nostri" maggiori".
Per dare piena cittadinanza democratica ai nostri concittadini .
Riaggregando “li rami” sparsi in percorsi plurali e ad un tempo omogenei, anche
riscoprendo insieme i principi ispiratori di Ventotene e di un federalismo europeo da
compiere, con l'attenzione rivolta al protagonismo delle nuove generazioni, in ottica
globale e mazziniana, unire l'Europa per unire il mondo!
Non si tratta di far rinascere il vecchio Pri o il Pli o il Psi o il PdA .
Ma di costruire un movimento plurale che riporti al centro della discussione e
dell'azione politica valori e principi, come quelli che hanno permeato la Costituzione
repubblicana, appena uscita indenne, o quasi , dal tentativo di strage posto in essere dai
nostri riformatori in salsa renzianverdiniana.
Giustizia e Libertà, traduzione sintetica dei principi e valori della Resistenza che ha
dato origine alla Costituzione. casa comune dei cittadini .
Cominciamo?
Paolo Bagnoli: Sono morti e non lo sanno
sono morti e non lo sanno
paolo bagnoli
da critica liberale
Èproprio vero che i detti popolari sono dei luoghi comuni e, politicamente, ”anno
nuovo” non equivale a vita nuova; è solo un prolungamento di quello precedente. Il lancio
fatto da Renzi sulla legge elettorale è stata solo l’ennesima guasconata dell’ex presidente
nel consiglio poiché prima della sentenza della Consulta è chiaro che ogni proposta valesse
una corsa sul posto. L’attesa, infatti, è ragionevolmente ansiosa perché ogni parte in campo
non nasconde l’interesse a piegarla secondo le proprie particolari convenienze come se lo
Stato democratico non esistesse. La motivazione, che anche molti politologici non
nascondono, è che occorre tener conto che oramai l’Italia è tripolare e, quindi, a secondo di
come si consideri il problema, si propongono soluzioni affinché la nuova legge preveda
l’esclusione di chi non si gradisce. E meno male che la politologia è scienza della politica.
Talora, pur con tutto il rispetto, ci sembra più una disciplina da venditori di almanacchi!
Leopardi naturalmente, perdonerà!
L’anno vecchio, tuttavia, qualcosa su cui riflettere lo ha lasciato. Vale a dire, quanto
fermenta nel partito democratico come se il voto referendario avesse aperto gli occhi sia a
qualcuno degli addetti ai lavori sia a cittadini comuni, anche se Renzi dopo
l’inammissibilità del referendum riguardante l’articolo 18 tende a far capire di aver
pareggiato i conti con il Paese come se il voto popolare valesse il parere della Consulta. Il
tutto sta nell’ansia di voler votare il prima possibile; prima che, al di là dei fallimenti
accertati, la stella del renzismo sfumi nel fondo dell’orizzonte politico italiano. La stessa
recente intervista dell’ex-premier a Enzo Mauro, annunciata come un manifesto del
rientro, non è stata altro che un frullio di vecchi motivi e le espressioni di pentimento per
gli atteggiamenti tenuti non solo non appaiono convincenti, ma mere formalità che non
celano un falso pentimento; a noi è parso lo scalpiccio rabbioso di chi ha, come unica
preoccupazione, il prendersi una rivincita. La verità è che la sconfitta cui Renzi ha portato
il suo partito e il suo governo continuerà a pesare come un macigno praticamente
inalleggeribile. Il Pd, avendo puntato tutto sulla vittoria al referendum e avendo perso, non
ha uno straccio di linea politica; bensì solo frasi fatte e anche deboli di senso politico come
quelle rilasciate dal viceministro Enrico Morando che continua a definire la riforma
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costituzionale come «la madre di tutte le riforme» dicendosi convinto che dopo «il NO
abbiamo un Paese certamente più debole».
Da tempo sosteniamo – in assoluta solitudine – che il primo problema del Pd
risiede nella sua impossibilità ad essere “partito”; ora, le prime ammissioni in tal senso,
cominciano a fare capolino sia per l’esito del voto sia perché, anche se non si capisce bene
quando, ci sarà un congresso la cui fisionomia ha del leopardiano: vale a dire, “vaga e
indefinita”.
In sul finire del 2016 Gianni Cuperlo ha dichiarato alla stampa in relazione al rinvio
dell’assise: «Un congresso non si fa quando dieci persone decidono che sono pronte loro.
Questo è un Pd senz’anima, se non va a congresso è un partito morto». A leggerle viene un
brivido; si ha l’impressione che l’ex presidente del partito, quindi un dirigente di primo
piano, sia fino ad oggi vissuto in un altro “luogo”. Comunque l’analisi che fa delle
condizioni del partito di Renzi sono precise e da esse, se non sbagliamo, pare emergere
anche una esistenziale amarezza per come è finita la storia dei comunisti italiani. L’ultimo
triste fallimento de “l’Unità” ne sembra l’ennesima conferma. Il problema è che, una volta,
essi assolvevano i propri errori, o quanto il Pci riteneva fosse sbagliato, con la pratica
dell’autocritica: strumento oggi non più utilizzabile.
Pur tuttavia Giorgio Napolitano, inaugurando la sua nuova attività di commentatore
su “La Stampa”, a dimostrazione che il lupo perde il pelo, ma non il vizio, vi è parzialmente
ricorso prendendo, con tono sapienziale, le distanze da Renzi e dalla sua politica che,
peraltro, egli aveva richiesto e incoraggiato fino all’ultimo. Napolitano, come se atterrasse
ora da un altro pianeta, ha denunciato, «una perdita di consapevolezza storica»
puntualizzando: «Il caso italiano ci dice che si perde in chiarezza e consensi se ci si pone,
nel guidare la sinistra, in discontinuità con il lungo processo di maturazione da cui è
scaturita una coerente sinistra di governo, parte integrante di una più ampia alleanza di
centro-sinistra e riformista». Una mezza autocritica che, per voler essere realista, si
inventa una realtà fittizia. Infatti è vero quanto in merito alla consapevolezza storica, ma
questa è dovuta solo ai comunisti italiani e la maturazione di cui parla per giustificare il Pd
palesa come l’ennesima trasformazione del comunismo in un’alleanza con i democristiani
facesse pensare ai primi di far pesare la loro egemonia, mentre invece ha segnato un totale
fallimento, la cancellazione della categoria della sinistra e l’avallo a un falso centro-sinistra
che ha fatto solo politiche di destra.
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In generale la pratica dell’autocritica è stata sostituita da una tamburante lamentela
sul fatto che un partito di sinistra, quale ritengono sia il Pd, dovrebbe avere un
comportamento consono all’essere, appunto, di sinistra; ossia, a ciò che invece non è per
chimica genetica e intenzione politica. Se lo fosse in qualche modo stato il fenomeno Renzi
non ci sarebbe stato, ma esso è stato possibile proprio perché il Pd non solo non è di
sinistra, ma neppure un partito nel senso classico del termine. Oltretutto, per voler
apparire il soggetto del leader, ha messo pure in scena altri leader e leaderini assai modesti
quanto arroganti; altro che rottamazione. Ovvero la rottamazione c’è stata di tutto quanto
era rimasto, non molto invero, della politica democratica, un’operazione che doveva avere
nella nuova Costituzione il proprio riconoscimento istituzionale aprendo l’era felix del
pontificato renziano. Giorgio Napolitano, che sta all’inizio di tutto questo percorso, già
prima del citato intervento, aveva detto che Renzi aveva perso il referendum perché era
andato a cercare consensi nell’antipolitica. Non si era accorto, il due volte presidente della
Repubblica, di fare una petizione di principio perché proprio il renzismo era antipolitica.
Ed è antipolitica tutto il resto: Grillo, Salvini, Berlusconi, oramai preoccupato della propria
sopravvivenza politica per far salvaguardare le proprie aziende dalle insidie di quel
“mercato” che ora gli piace meno di una volta!
Crediamo che la stagione aurea del Pd il referendum se la sia portata via e non
scommetteremmo nemmeno su una sua futura esistenza anche se, con il congresso, il
renzismo venisse battuto e prendesse in mano il partito l’opposizione interna che,
sicuramente, presenta un profilo più apprezzabile. Ma se Speranza ce la dovesse fare non è
che può presentare, come cifra del nuovo corso, il ritorno alla stagione dell’Ulivo che
Bersani ricorda spesso come un qualcosa di mitico alla stregua di un Eldorado perduto.
L’Ulivo è stata la stagione perdente di Romano Prodi e già questo non ci sembra un bel
riferimento, ma poiché Ulivo e Prodi sono fratelli gemelli come è possibile indicarli quali
futuro dal momento che il professore bolognese – sarebbe da capire fino in fondo il motivo
– ha votato “si” al referendum cercando di bilanciare la scelta con un po’ di critica;
insomma, da persona proprio non convinta, il che rende il richiamo identitario di Bersani
ancor più privo di sostanza.
Il problema è che un partito politico ha bisogno, per essere, prima di tutto di
identità e quando questa non ce l’ha è il suo leader che fa della sua persona l’identità del
proprio soggetto: lo ha fatto Berlusconi, lo ha fatto Renzi e lo sta facendo pure Grillo a capo
di un partito che, pur riscuotendo molte simpatie popolari, ci sembra un laboratorio di
modesti artigiani portati a fare grandi danni. Di tale partito Grillo è il funambolo e il dio
della verità, spregiudicato fino all’inverosimile come dimostra la polemica aperta contro i
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giornali per allontanare le critiche massicce che si stavano addensando sul suo movimento
con l’approvazione delle regole sui possibili avvisi di garanzia. Ancor di più lo dimostra la
vicenda grillina all’Europarlamento; tragica, pietosa e inquietante. Peccato che vi resti
impigliato il riferimento a “Rousseau”, un nome che meriterebbe maggior rispetto e non
finire a emblematizzare una piattaforma digitale di gestione e di manipolazione del potere
di un Movimento che, al pari del Pd, non potrà, per motivi genetici, mai essere un partito. I
5Stelle sono, nonostante tutto, nei sondaggi avanti al Pd e ciò ci dice in quali condizioni
versi la democrazia italiana visto che si fronteggiano due non partiti; sostanzialmente di
destra entrambi.
L’uscita di Renzi dalla scena governativa ha inoltre, paradossalmente, impoverito la
qualità del porsi politico dei massimi dirigenti del suo partito. Un esempio per tutti.
Intrattenendosi sulla situazione del presente il capogruppo al Senato, Luigi Zanda, ha
consegnato all’opinione pubblica il seguente pensiero sugli effetti politici del referendum.
Ha detto: «Quelli sostanziali sono tre: si allontana la prospettiva del bipartitismo, già
messa in crisi dalla comparsa dei 5Stelle. Nei partiti aumenterà il peso delle correnti che
già emergono persino tra i grillini. Infine aumenterà la spinta verso sistemi elettorali
proporzionali». Non se la prenda il senatore Zanda, ma, tra banalità e confusione, non
sappiamo quale delle due abbia il peso maggiore. Ed è chiaro che, non avendo dato il Pd
nessuna interpretazione del voto referendario, non sappiano cosa fare; ma l’ultima
Direzione perché non ha discusso né messo ai voti documento alcuno, né di maggioranza
né di opposizione, rimanendo attaccata al vecchio premier segretario del partito? E perché
la corrente bersaniana invece di andare via, non ha messo ai voti un proprio documento
preferendo risolvere tutto nell’annuncio della candidatura di Speranza così come la
maggioranza è rimasta al siparietto televisivo di Renzi che annunciava il congedo da
Palazzo Chigi? Perché questo insieme di comportamenti, di vuoti, di nullismo politico? La
risposta è semplice: perché il Pd non è e non riuscirà mai a essere un partito degno di
questo nome.
I dirigenti del Pd dovevano essere, tuttavia, ben sicuri che la ricetta renziana
avrebbe funzionato: non c’era bisogno di niente, il leader bastava, era sufficiente per fare
partito. Un giovane militante friulano andato l’anno scorso alla scuola di formazione
democratica a Roma ha raccontato che, in quella sede, il presidente Matteo Orfini spiegò
che bisognava superare la logica delle sezioni sul territorio «per adottare la realtà del
partito alla nuova legge elettorale». Da Zanda e da Orfini la logica che ricaviamo è che il
renzismo si fonda sull’ossessione del governo ossia della gestione del potere; la logica di un
partito politico non è così unidirezionale, ma culturale, morale e sociale e il governo,
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aspirazione legittima del fare politica, è uno strumento per cambiare le cose non solo per
gestire il potere per il potere.
La tragicità della situazione italiana è che, di fronte a una crisi così acuta che vive un
Paese in grande sofferenza, ovunque ci si rigiri, tra gli addetti alla politica, non si trova
coscienza del momento oramai lungo che stiamo vivendo. In fondo mancanza di partiti e
vuoto di politica democratica sono i binari lungo i quali corre la crisi. A mo’ di corollario,
infine, ci sia permesso di ricordare che, da documenti ufficiali, risulta in 122 miliardi di
euro l’anno la perdita di risorse che l’infedeltà tributaria procura allo Stato e che, a
novembre, il tasso di disoccupazione è salito all’11,9%; nella fascia dei giovani tra i 15 e i 24
anni la percentuale, poi, raggiunge il 39,4%. Di tutto ciò non ci è riuscito a trovare traccia
in nessun cicaleccio della politica ufficiale
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