Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
lunedì 29 febbraio 2016
sabato 27 febbraio 2016
Franco Astengo: Al limite della credibilità del sistema
AL LIMITE DELLA CREDIBILITA’ DEL SISTEMA di Franco Astengo
Le ultime vicende parlamentari hanno portato al centro del dibattito politico il tema dello spostamento dell’asse di governo assumendo come dato acquisito la centralità del rapporto tra il PD e tre formazioni che alle elezioni del 2013 si erano presentate come parte degli schieramenti concorrenti: NCD e ALA quali componenti del Popolo delle Libertà dal quale si sono staccate generandosi per scissione e Scelta Civica soggetto residuale dell’area che, nelle stesse elezioni, si era presentata autonomamente rivendicando il sostegno alla continuità con il governo Monti.
Ultimo esempio la votazione della fiducia in Senato sul tema delle Unioni Civili (tema sul quale è stata forzata la derivazione parlamentare del disegno di legge, trasformandolo ancora una volta in un atto di diretta emanazione governativa attraverso il passaggio “emendamento – voto di fiducia) realizzata attraverso uno schieramento affatto diverso da quello presentato alle elezioni e che era composto da uno schieramento formalmente di centro – sinistra (si omette a questo punto, per ragioni di economia del discorso di entrare nel merito dei contenuti per limitarci a un discorso di appartenenze parlamentari) composto da PD e SeL.
Uno stato di cose davvero “border line” non tanto rispetto alla Costituzione che formalmente è stata rispettata: anche se è bene ricordare che questo Parlamento è stato eletto attraverso l’utilizzo di una legge poi giudicata incostituzionale dell’Alta Corte soprattutto sotto due aspetti decisivi, nomina dei parlamentari e premio di maggioranza, che ne inficiano direttamente la validità politica.
Del resto era già stato considerato “border line” il comportamento del presidente Napolitano nell’occasione della caduta, nel novembre 2011, del governo Berlusconi IV con la nomina preventiva di Mario Monti a senatore a vita e il suo successivo incarico, fuori dalla prassi parlamentare.
Salta fuori, a questo punto, la questione del rapporto Governo / Parlamento e anche questo costituisce un altro punto di riflessione in materia di analisi di funzionamento costituzionale, dopo decenni di presunto “decisionismo”, di caduta della produzione legislativa da parte delle Camera e di crescita esponenziale nel numero di conversioni di decreti governativi.
In realtà il limite vero che sta incontrando il sistema politico italiano è quello di una credibilità complessiva del sistema e dell’insieme dei rapporti tra – appunto – il sistema politico e la società nel suo insieme.
Un limite che rischia di mettere in difficoltà la stessa tenuta democratica.
Una progressiva separazione tra il sistema e le stesse forme di democrazia liberale intese nella Costituzione repubblicana in cui il “caso italiano” si specchia in quello che è stato definito deficit democratico europeo.
Non è tanto la questione, pur molto importante (assai di più di quanto non pensino molti cultori dell’allineamento alle cosiddette “democrazie mature”) della precipitosa diminuzione che si registra occasione per occasione nella partecipazione al voto, a prescindere dal tipo di elezione. Un tempo sotto quest’aspetto vigeva una precisa gerarchia d’importanza: adesso la personalizzazione ha confuso tutto sotto il manto delle ambizioni personali e dell’individualismo competitivo. Si leggono così interviste incredibili ai candidati più improbabili.
Tutto questo però non è soltanto frutto di un cedimento episodico avvenuto sul piano politico, ma prima di tutto di una cedimento strutturale alla mercificazione della cultura cui l’ esercizio della politica è risultato subalterna subendone l’egemonia.
A questo punto l’incrocio tra la confusione imperante sotto il cielo della politica e l’affermarsi di un’evidente “liquidità sociale” sulla quale fanno premio soltanto la gestione autoritaria delle lobbie non solo ha divelto gli antichi legami dell’appartenenza politica ma ha esaltato la trasversalità di un meccanismo d’opinione all’interno del quale appare difficile rintracciare coordinate di riferimento nei valori generali di una società in veloce trasformazione.
“Lobbie” che si muovono di volta in volta sulla base di una sorta di “nicchia di specificità consumistica” che mai s’incrocia all’interno di un progetto di carattere generale.
Progetto generale che meno che mai deve essere caratterizzato da un riferimento e da un’appartenenza politica storicamente determinata.
L’appartenenza politica storicamente determinata appare prima essere considerata come un inutilizzabile ferrovecchio.
Il tutto si riduce in una perenne attualità e nell’unico parametro della vittoria e della sconfitta che ciascheduno misura di volta in volta con il proprio metro.
Siccome la trasversalità dei riferimenti pone la necessità di affrontare questioni di grande e drammatica importanza privi di adeguate capacità di espressione culturale in ogni senso si verifica un fenomeno tipico di questa fase a tutti i livelli: quello della separazione tra la decisionalità e la democrazia.
Verificata l’inoppugnabilità del valore specifico assunto dal “comando unico” l’esito è quello di un sostanziale autoritarismo esercitato all’interno di un quadro politico ritornato, esaurita la funzione dei partiti di massa, a una sorta di esercizio di notabilato magari realizzato attraverso il web oppure seguendo il metodo delle primarie quale momento di esaltazione di quell’individualismo competitivo cui si è già fatto cenno.
All’autoritarismo già presente pare contrapporsi una sorta di “ribellismo latente” che assume la forma del disincanto nichilista e dell’abbandono.
Le espressioni possibili di questo disincanto potrebbero risultare molto pericolose aprendo la strada ad una reazione di inasprimento della logica del comando dall’alto che si calerebbe in una situazione di sostanziale neghittosità della galassia sociale, come sta accadendo del resto in questi giorni dove si notano attive soltanto quelle già definite come “minoranze rumorose” attive soltanto nell’espressione o nella difesa conservativa di interessi particolari.
Servirebbe la messa in azione di una vera e propria ripresa politica, difficile da promuoversi nell’assenza di adeguate soggettività.
Queste considerazioni si concludono del tutto sprovviste di una qualche indicazione politica nella coscienza che si tratta di mere indicazioni di testimonianza relativa a un inquietante processo di vero e proprio arretramento storico e di degrado politico – culturale in base del quale rischia seriamente di degenerare la stessa convivenza civile.
venerdì 26 febbraio 2016
giovedì 25 febbraio 2016
Franco Astengo: Democrazia governante e rappresentanza politica
DEMOCRAZIA GOVERNANTE E RAPPRESENTANZA POLITICA di Franco Astengo
La decisione del tribunale di Messina di rinviare alla Corte Costituzionale la nuova legge elettorale “Italikum” nelle sue parti fondamentali apre ufficialmente la necessaria battaglia politica di contrasto verso un fattore fondamentale della costruzione in Italia di un sistema politico fondato su di un decisionismo autoritario personalistico e sulla logica della “dittatura di una minoranza relativa”.
Un processo che dura ormai da molti anni e che, in questa fase, i cultori della governabilità come sola essenza possibile di un sistema politico intenderebbero rendere irreversibile forzando le tappe anche attraverso una vera e propria “deformazione costituzionale” attraverso la quale la possibilità dei cittadini di esprimersi in materia di rappresentanza risulterebbe drasticamente ridotta da tutti i punti di vista.
La questione del rapporto fra quella che è stata definita “democrazia governante” (fallacemente introdotta attraverso la costruzione del soggetto politico “a vocazione maggioritaria”) e la rappresentanza politica non è però limitata al “caso italiano”, ma è ormai inserita nell’agenda del dibattito politico a livello europeo.
Ne è esempio la recentissima uscita del saggio di Pierre Rosanvallon dal titolo “Le bon gouvernament” (Seuil) laddove l’autore pone un tema di assoluta valenza strategica sul piano della dimensione politologica” : “ I nostri regimi possono essere considerati democratici, noi però non siamo governati democraticamente”: un paradosso che a prima vista rappresenta una irrisolvibile aporia.
L’autore di “Controdemocrazia, la politica nell’era della sfiducia”, asserita l’impossibilità dell’autogoverno, propone che “ per diventare davvero responsabile l’esecutivo deve essere sottoposto a valutazioni più frequenti, a un controllo continuo da parte della gente comune. Così si evitano le derive autoritarie o populiste”.
Rosanvallon in un passaggio coglie anche un altro aspetto decisivo: “ la necessità di anteporre la decisione all’elaborazione della norma e la mediatizzazone portano a focalizzare l’attenzione sugli uomini più che sulle idee”.
E’ chiaro l’accenno alla personalizzazione della politica come elemento atto a favorire cesarismo e populismo.
Sia permesso però , a questo punto, obiettare attorno a un altro tema di fondo: nell’analisi , concretamente pessimistica, di Rosanvallon manca la ripresa del concetto di rappresentanza politica e della sua piena espressione a livello di assemblee elettive.
Il nodo del governo è infatti quello della sua derivazione parlamentare, in una assise effettivamente rappresentativa delle sensibilità politiche organizzate presenti in un Paese.
Sensibilità politiche organizzate (torna qui il tema del partito) espressione di idee da confrontare proprio nella sede dell’espressione di rappresentanza.
Si riprende allora, a questo punto, il tema trascurato della legge elettorale da intendersi come cardine del sistema politico.
Il tema della legge elettorale risulta, così, strettamente collegato a quello di presenze politico-istituzionale in grado di confrontare l’elaborazione di “progetti di sintesi” .
Ripercorriamo velocemente le caratteristiche dei due principali sistemi elettorali: il maggioritario (nella cui direzione ci si è rivolti, in Italia, al fine di costruire un artificioso bipolarismo).
L’idea del maggioritario è stata frutto, al momento dell’implosione del sistema politico nei primi anni’90, di una vera e propria “ubriacatura ideologica”, strettamente connessa all’ondata liberista: non si sono avuti risultati sul terreno della frammentazione partitica e su quello della stabilità di governo (sono, forse, diminuite le crisi formali ma di molto accresciute, se guardiamo anche alla stessa fase più recente fibrillazione come è stato nel caso delle Unioni Civili).
Ritorno su temi già abbozzati in principio di questo intervento: il maggioritario ha aperto la strada allo svilimento nel ruolo delle istituzioni, alla crescita abnorme della personalizzazione , alla costruzione di quella pericolosissima impalcatura definita “Costituzione materiale” attraverso l’esercizio della quale si tende verso una sorta di presidenzialismo surrettizio, all’allargamento del distacco tra istituzioni e cittadini.
Il varco, quello della surrettizietà di un presidenzialismo “de facto” e non di diritto che ha aperto la strada alla controffensiva in atto oggi proprio rispetto alle già citate “deformazioni costituzionali” e alla legge elettorale “Italikum”.
Il sistema proporzionale è stato accusato di rappresentare, nel passato recente della storia d’Italia, il veicolo di quel consociativismo considerato l’origine di tutti i mali del sistema politico, inefficienza e corruzione “in primis”.
Preso atto di tutto ciò va colta, in questo frangente, l’occasione per esprimere una valutazione di fondo favorevole al sistema proporzionale: il proporzionale, infatti, rappresenta un sistema fondato necessariamente sul ruolo dei partiti, quali componenti fondamentali di una democrazia stabile, inoltre lo scrutinio di liste esige, necessariamente, un diverso equilibrio tra le candidature, affrontando così il tema del decadimento complessivo della classe politica.
Interessa, però, soprattutto il legame tra sistema elettorale e struttura dei partiti.
E’ questo il punto fondamentale del discorso che intendiamo sostenere in questa sede: emerge l’esigenza di una ridefinizione della soggettività politica che, proprio alla presenza di un’articolazione così evidente nelle richieste della società , produca reti fiduciarie più ampie e meno segmentate, più aperte verso le istituzioni.
Una qualità di espressione della soggettività politica in grado di essere considerata produttrice e riproduttrice di capitale sociale, di allentare la morsa del particolarismo dilatando anche le maglie delle appartenenze locali e rilanciando il “consolidamento democratico”.
Sarà su questo punto che potrà essere affrontato il dilemma che il testo di Rosanvallon pone con così grande urgenza e acutezza: il voto quale espressione di convinzioni politiche, di intreccio tra l’appartenenza e l’opinione risulta ancora essere lo strumento più adeguato per far sì che il governo della società complessa risulti essere frutto di una spinta sociale di piena espressione democratica.
Felice Besostri: Quale Europa? Crisi evidente
Quale Europa?
Crisi evidente
Non c’è e non ci sarà accordo sulla questione dei migranti e la Brexit, comunque vada a finire, minerà la credibilità dell’UE. L’unico aspetto “positivo” potrebbe essere il ritardo nell’approvazione del TPPI, ma un ritardo non è accantonamento.
di Felice Besostri
Una delle prime cose che si insegnano è che uno Stato, vale anche per quelli federali, per esistere deve avere un popolo, un governo e un territorio.
La UE, che non è uno Stato federale, ha certamente un territorio, peraltro non soggetto alle stesse leggi, perché l’adesione alla UE di Danimarca con la Groenlandia, Gran Bretagna e Repubblica d’Irlanda, prevede deroghe, ma soprattutto netta è la distinzione tra i paesi, che hanno una moneta comune e gli altri membri della UE (Capo 4 del Titolo VIII° TFUE).
Il popolo non è costituito dalla sommatoria aritmetica dei possessori della cittadinanza UE, ma dal convincimento di appartenere ad una comunità con istituzioni e valori condivisi. Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 è detto “Un paese che non conosce la garanzia dei diritti e la divisione dei poteri non ha una costituzione”: l’Europa non ha una garanzia dei diritti rimessa direttamente all’iniziativa giudiziaria dei cittadini, se non in limitati casi, quindi non ha una Costituzione.
Se non c’è una Costituzione non può esserci un popolo. Eppure le premesse c’erano e ci sono e stanno tutte scritte nei Trattati istitutivi di cui ho allegato ampi estratti. Mi riferisco in particolare al Preambolo e ai titoli I° e II° del Trattato sull’Unione Europea (TUE) , al Titolo II° della Parte Prima del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) e alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE (CDFUE).
I principi sono chiari, ma sulla carta. A volte basta un piccolo inciso per poter stravolgere il significato come quando parla di “un'economia sociale di mercato fortemente competitiva” (art. 3 c.3 TUE), ma per scelte politiche il competitivo ha prevalso sul sociale.
Crescita economica equilibrata e stabilità dei prezzi stanno nello stesso articolo 3 TUE, ma ancora una volta è la politica che decide se debba prevalere la stabilità dei prezzi o la crescita economica, che potrebbe richiedere un certo tasso d’inflazione: invece ora il pericolo deriva addirittura dalla deflazione.
La politica d’austerità ha provocato reazioni nazionaliste prevalentemente di stampo demagogico populista con tratti xenofobi, ma anche sinistra non ne è immune, quando una critica fondata all’euro si traduce in una proposta di uscita dall’UE. Nel breve periodo non escludo che ritrovare la sovranità monetaria possa avere benefici effetti congiunturali, sempre che non peggiori la valutazione dei nostri titoli di Stato da parte delle agenzie internazionali di rating , con il conseguente aumento del nostro debito pubblico causa l’aumento dello spread tra i nostri BTP e i Bund tedeschi ( mi scuso per l’uso di termini stranieri, cui ormai assegniamo un significato negativo: basta pensare a jobs act e a stepchild adoption o all’ossessione per la governance, che in italiano si traduce in “Renzi per sempre”, cioè for ever).
Sono convito che la UE abbia molto difetti, ma la risposta dovrebbe essere un’altra costituzione europea e non la rinazionalizzazione della politica, particolarmente esiziale per una sinistra che una volta cantava “ avanti popolo non più frontiere, stanno ai confini rosse bandiere”, quella che ormai è la strofa dimenticata di Bandiera Rossa.
Come sarebbe possibile invertire la rotta quando la realtà non corrisponde all’ideale normativo: dove sono “. I partiti politici a livello europeo” che “contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell'Unione.” delineati dall’art. 10 c. 4 TUE? Sono quelli che in esecuzione dell’ articolo 224 TFUE beneficiano degli ingenti finanziamenti sul bilancio UE, ma senza assolvere alla funzione loro attribuita dai Trattari europei.
Se esistessero dei partiti politici europei il socialdemocratico slovacco Robert Fico, primo ministro dal 2012 e membro del PSE, non si sarebbe fatto promotore della resistenza degli Stati del Gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) a un qualsiasi accordo sull’accoglienza dei migranti, accodandosi al reazionario Viktor Orbán, primo ministro ungherese dal 2010 e membro del PPE. Se esistessero dei partiti politici europei i socialdemocratici danesi, all’opposizione, non avrebbero votato il prelievo forzoso dei richiedenti asilo. Non voglio per rispetto del partito socialista austriaco, SPÖ, indicare tra i reprobi l’austriaco Werner Faymann, Cancelliere dal 2008, anche perché l’Austria, con la Germania, è stato uno dei paesi più accoglienti nel punto più alto dell’emergenza profughi.
Il Gruppo di Volpedo, voce isolata nel panorama della sinistra italiana, aveva prefigurato proprio nel suo documento fondativo la trasformazione del PSE in un partito transnazionale e federale la chiave per una rinascita o risorgimento socialista in Europa. Purtroppo non abbiamo personaggi come Brandt, Kreisky, Palme, Mitterrand, González, Soares e anche il nostro Craxi, nei suoi momenti migliori, al vertice del socialismo europeo. Comunque dobbiamo ripartire dal federalismo europeista socialista di Eugenio Colorni e Ignazio Silone, comprese le utopie degli Stati Uniti Socialisti d’Europa del laburista Harold Laski.
Prima o poi la sinistra tutta dovrà convergere su questa posizione cioè di un’integrazione più stretta dell’Europa grazie a più democrazia e partecipazione cittadina. Ne colgo il segno nella proposta, non per caso fatta a Berlino, dall’ex ministro delle Finanze del primo Governo Tsipras, Gianīs Varoufakīs. Un progetto che per avere gambe ha bisogno che tornino alla ribalta e al potere partiti come la SPD in Germania e il PS in Francia, con un’altra leadership e altri programmi. Al rinnovamento socialista in Europa possono dare un contributo i socialisti portoghesi e spagnoli e il Labour Party, come costituisce un segnale il successo di Bernie Sanders nelle primarie democratiche USA.
Franco Astengo: Partiti
Care compagne e cari compagni del Circolo Rosselli,
La discussione su “canguro, regole, coerenza” sviluppata con grande articolazione di posizioni da parte di molti frequentatori del blog sta toccando i nervi scoperti della struttura del nostro sistema politico.
Siamo così arrivati, discutendo delle cosiddette “primarie”,al tema dei partiti oggi, partiti che rimangono nonostante tutto, i soli soggetti possibili per l'articolazione della democrazia politica.
Riflettiamo, allora, sulla base delle considerazioni precedenti, sulla realtà dei partiti oggi: di ciò che, in effetti, sono, all'interno del sistema politico italiano, i partiti eredi della storia della sinistra.
Occupandoci dei partiti intendiamo, semplicemente entrare nel cuore della necessaria “pars costruens” di difesa e sviluppo della nostra democrazia repubblicana, oggi messa in crisi dalle deformazioni costituzionali ancora in discussione in Parlamento e dall’Italikum.
Gli elementi costitutivi di quello che potrebbe essere definito come un “grande partito” (al di là dei numeri disponibili in partenza) debbono essere rappresentati dalla capacità di darsi una forte identità che distingua il partito dagli altri partiti, rendendolo così ben riconoscibile.
E, ancora, un partito deve essere distinto e riconosciuto, attraverso la capacità di elaborare un programma di governo dell'intera società, sul fondamento di una selezione di interessi e valori prevalenti rispetto a quelli delle parti politiche e sociali portatrici di differenti interessi e valori.
Un partito che, infatti, pretendesse di tutto inglobare e rappresentare cesserebbe di essere una organizzazione dai tratti distinti, di competere liberamente e propriamente nel confronto con gli altri partiti, sia alleati, sia decisamente avversari.
Un tale partito, con l'ambizione di presentarsi “aperto” finirebbe con l'appesantire la sua barca, di avere troppi timonieri, di non riuscire a tenere la rotta, di non compiere le scelte capaci di compattarlo.
Un tale partito dai tratti indistinti, rischierebbe di rendersi poco riconoscibile, di andare incontro a gravi difficoltà, se non addirittura alla paralisi al momento di assumere le necessarie decisioni.
Su di un partito gravano tre pericoli: l'essere troppo chiuso, troppo aperto o , al tempo stesso, l'una e l'altra cosa.
Un partito è troppo chiuso quando il suo gruppo dirigente non ha un sufficiente tasso di rinnovamento e tende ad una solitaria chiusura oligarchica.
Un partito è troppo aperto, quando la sua base di riferimento è indeterminata e non risulta chiaro il rapporto tra gli iscritti, che hanno compiuto una scelta di impegno in prima persona e un corpo indefinito, mobilitato in consultazioni attinenti a questioni decisive quali la direzione del partito, alle quali viene attribuita la fisionomia di elezioni generali, ad opera di cittadini alcuni dei quali simpatizzanti e altri, al limite infiltrati, aventi finalità negative.
Un partito è, insieme, troppo chiuso o troppo aperto, quando la sostanza oligarchica si combina con la mobilitazione indistinta dei cittadini con l’idea di un dialogo diretto tra questa massa indistinta e un Capo assolutisticamente decisionista.
Dove sta, allora, la risposta a quale tipo e quale forma di soggettività politica è necessario guardare oggi, nella crisi del neoliberismo e della torsione negativo subito, appunto, dalle strutture politiche esistenti?
Per rispondere a questa domanda non ci aiuta la debolezza della nostra concezione della democrazia, di una visione negativa e minimalista della democrazia.
Abbiamo bisogno di recuperare, da un lato, la forza etica della dignità della persona e della partecipazione politica e, dall'altro canto, riscattare la politica dall'imperio tirannico del privatismo individualistico.
Abbiamo bisogno di recuperare i due valori fondanti della democrazia: la cittadinanza e l'eguaglianza.
Abbiamo bisogno della cittadinanza perché l'erosione delle istituzioni politiche e del ruolo della partecipazione è facilmente strumentalizzabile da chi ha più presenza politica e più strumenti per formare il consenso.
Abbiamo bisogno dell'eguaglianza perché appare sotto gli occhi di tutti l'attacco sistematico cui il concetto di eguaglianza è sottoposto, con l'indebolimento dei diritti sociali, della scuola pubblica, della stessa idea di redistribuzione come volano di solidarietà.
Sia la cittadinanza, sia l'eguaglianza meritano la nostra attenzione oggi, non per ridimensionare la cultura dei diritti, ma per rafforzarla reinterpretandola all'interno di una cornice politica, non soltanto morale e giuridica, per l'appunto individualista.
Ci si deve domandare, infatti, quale sia la forma di partito, non soltanto più efficiente, ma anche la più democratica.
Ad esempio: è necessario che il gruppo dirigente sia eletto secondo procedure certe e con un grado “alto” di possibilità di controllo: nomina e controllo che non siano l'espressione di un “popolo” indeterminato,ma affidate a chi abbia titoli certi di legittimità, quali l'iscrizione al partito e la presenza di una rappresentanza operativa degli iscritti.
Questi elementi rappresentano i presupposti inderogabili perché si possano elaborare idee e programmi, istruire un dibattito permanente, un controllo nell'operato dei vertici, una selezione adatta ad assicurare un ricambio dei quadri.
Se si ritiene, invece, di far irrompere direttamente nella vita di un partito, e anzitutto nella formazione della sua leadership, componenti indistinte della cosiddetta “società civile” l'effetto inevitabile sarà quello, non già di alzare il tasso di democraticità delle procedure, ma di abbassarlo, inducendo i leader a ricorrere ad un consenso di stampo plebiscitario, che finirebbe con il mortificare il significato e la funzione del partito stesso.
L'effetto, alla fine, sarebbe quello di aprire gli argini al cosiddetto “partito – liquido”: non propriamente un partito, ma un contenitore di forze dai confini sfuggenti, e quindi tale da provocare spinte e controspinte difficilmente governabili, come dimostra l’esperienza delle “primarie all’italiana” e l’uso arrogante della cosiddetta vocazione maggioritaria.
Occorre riprendere il ragionamento sul partito, cercando di comprendere, prima di tutto, che la pretesa di un partito di essere lo specchio ed il contenitore di tutti gli interessi e di tutti i valori importanti e significativi presenti nella società (come nel caso del cosiddetto “Partito della Nazione”) è sintomo non di forza, ma di debolezza; dell'incapacità di comprendere che un partito è un raggruppamento di volontà determinate e specifiche; uno strumento di scelte di campo; di quelle cose, di quei fattori che nel loro convergere costituiscono un programma, matrice dei “sì” e dei “no”, che animano e danno senso alla competizione tra partiti e loro programmi.
Un partito non è un ente che debba ambire ad inglobare la società, ma un ente che si pone di fronte a questa e indica, in modi diversi, ma anche alternativi, di governarla.
Un partito che intenda “pacificare” nel suo seno le varie opzioni esistenti nella società abdica per ciò stesso al proprio ruolo e si assegna uno scopo non perseguibile.
In questo senso, dopo l'azzeramento delle scelte compiute a cavallo della “transizione italiana” avviata agli inizi degli anni'90 del secolo scorso, l'opera da compiere è enorme.
Essa abbraccia quattro materie, bisognose di analisi distinte, ma egualmente indispensabili a una formazione politica duratura:
1) Ideologia, che non vuol dire ritratti di nonni e di padri appesi alle pareti, bensì principi resistenti al mutare delle circostanze per istituzioni, democrazia, giustizia,laicità,economia,socialità, Europa, relazioni con il mondo;
2) Organizzazione: tesseramento, militanza, democrazia interna, finanziamenti;
3) Linea politica: alleanze, programmi, proposte per affrontare le grandi questioni come la situazione finanziaria;
4) Leadership: chi deve guidare il partito, con quali criteri fare questa scelta.
Queste materie vanno plasmate in modo nuovo, chiaro, convincente, recuperando il ruolo che i partiti (come ricorda Duverger) ebbero nella tenuta contro i fascismi in Francia e in Gran Bretagna o nella riscossa contro i fascismi al potere come in Italia.
Abbiamo citato il punto della storia più alto, maggiormente nobilitante per i partiti nell'occidente europeo: un riferimento che vogliamo mantenere e che deve, necessariamente, orientarci per il futuro.
Resta fondamentale, concludendo proprio su questo punto, il rapporto tra il partito e la cultura, il partito e gli intellettuali.
La sinistra italiana disponeva di un formidabile background sotto questo aspetto e, al di là del discorso sull'organicità gramsciana e dell'idea di “egemonia” che in essa si collocava, il discorso sulla tradizione va ripreso attorno a due punti:
a) l'idea di una ripresa culturale, che faccia parte della vita del partito come “ponte” verso l'esterno, senza chiusure immotivate, ma anche come sede di una battaglia da combattere (quella della vita culturale vera e propria, nel senso dell'impresa culturale: riviste, case editrici, utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa, ecc.); una battaglia da combattere attraverso quelle che un tempo si definivano “armi della critica”, ponendoci un primo obiettivo, quello di aprire un ciclo di studi seri e meditati, con ricerche pazienti per arrivare ad una approfondita rielaborazione della storia del nostro Paese, in ambito e con respiro europeo, almeno per gli ultimi 40 anni: sta qui,infatti, nell'assenza di una ricostruzione storica concreta dei passaggi che abbiamo vissuto, il nocciolo della distruzione di memoria, di identità e, quindi, di capacità politica che stiamo vivendo. La ricostruzione della storia è la sola strada possibile per un recupero di egemonia;
b) ricostruire la storia per ricostruire l'identità non può risultare un esercizio fine a sé stesso ma necessario, invece, per far sì che si dispieghino liberamente le contraddizioni sociali dell'oggi, offrendo loro una sintesi: una sintesi di proposta politica di trasformazione della società.
In conclusione: una idea, quella di una soggettività politica per la trasformazione che oggi può apparire balzana, irrealistica, addirittura utopica, ma senza il cui riferimento, pratico ed ideale, non solo non avrebbe senso una discussione come questa che stiamo affrontando, ma anche qualsiasi azione politica conseguente.
Franco Astengo
mercoledì 24 febbraio 2016
Franco Astengo: Sfruttamento
SFRUTTAMENTO di Franco Astengo
A volte capita di sentirsi un poco obsoleti e superati nel richiamare continuamente il concetto di sfruttamento e indicare in quella contraddizione, in quella “frattura epocale”, il principale carico d’ingiustizia e – di conseguenza naturale – evocare quel concetto di “lotta di classe” che si tende a considerare ormai tramontato, desueto e la cui permanenza sulla scena delle dinamiche economiche, sociali e politiche appare a molti come del tutto residuale.
Ci si augura che la notizia sotto riportata contribuisca a far riflettere in questo senso e a riportare il ragionamento verso un’attualità bruciante e concreta.
E’ questo il nocciolo duro di quella insostenibile logica della “disuguaglianza” indicata da alcuni profeti inascoltati come il male principale della nostra società che si vuole moderna e avanzata.
Sono condizioni come queste , tra le tante che sicuramente potrebbero essere segnalate, che rappresentano il distacco esistente (e crescente) tra il capitalismo e la democrazia.
Il lavoro alienante e sfruttato esiste, eccome, e la sua liberazione non può che rappresentare l’obiettivo principale di chi intende lottare stando con rigorosa precisione “da una parte della barricata”.
Senz’altro commento, ringraziando per l’attenzione.
Più di dodici ore di lavoro nei campi per un salario di 25-30 euro al giorno, meno di 2 euro e 50 l'ora. È la situazione in cui lavorano in Italia 400 mila lavoratori sfruttati dal caporalato, stranieri nell'80% dei casi. È quanto emerge da uno studio di The European House-Ambrosetti su dati Flai Cgil relativi al 2015, presentato al convegno di Assosomm-Associazione italiana delle agenzie per il lavoro 'Attiviamo lavoro. Le potenzialità del lavoro in somministrazione nel settore dell'agricoltura. Gli oltre 80 distretti agricoli italiani in cui si pratica il caporalato vedono in 33 casi condizioni di lavoro "indecenti" e in 22 casi condizioni di lavoro "gravemente sfruttato" e sottraggono alle casse dello Stato circa 600 milioni di euro ogni anno.
Alla paga di chi lavora sotto caporali, pari alla metà di quanto stabilito dai contratti nazionali, inoltre, devono essere sottratti i costi del trasporto, circa 5 euro, l'acquisto di acqua e cibo, l'affitto degli alloggi ed eventualmente l'acquisto di medicinali. Infatti il 74% lavoratori impiegati sotto i caporali è malato e presenta disturbi che all'inizio della stagionalità non si erano manifestati. Le malattie riscontrate sono per lo più curabili con una semplice terapia antibiotica ma si cronicizzano in assenza di un medico cui rivolgersi e di soldi per l'acquisto delle medicine.
martedì 23 febbraio 2016
Roberto Biscardini: Lista municipale Milano in Comune
LISTA MUNICIPALE MILANO IN COMUNE: IL SINDACO E IL PROGETTO
La Lista Municipale “Milano in Comune” sta lavorando da tempo e intensamente a un programma per Milano.
Dopo l’affollatissima assemblea in sala Alessi, Palazzo Marino, la Lista ha incluso altri soggetti, restando aperta a ulteriori contributi.
Quello che capita a Milano ha sempre importanti riflessi sul piano nazionale. Non vale il contrario: alchimie nazionali o candidati paracadutati non possono costituire una soluzione per Milano.
La nostra è una partita cittadina e municipale.
Il programma sta nascendo dalla vita reale e dal protagonismo attivo delle cittadine e dei cittadini, zona per zona, quartiere per quartiere.
Un progetto autonomo e alternativo alla logica dei sindaci-manager, e una sq uadra al lavoro per dargli corpo.
Infine, il nome di un sindaco o di una sindaca che abbia preso parte a questo processo di costruzione, che lo sappia rappresentare e garantire.
Consapevoli che il nome del sindaco costituisce il fatto più mediatico e notiziabile, abbiamo comunque deciso di intraprendere un’altra strada, politicamente inattuale: non partendo dall’uomo al comando per “discendere” al programma, ma cominciando da un meticoloso e partecipato lavoro sui contenuti che mette a frutto molte competenze per arrivare infine a un sindaco garante.
Un uomo o una donna che viva in prima persona la città e i suoi problemi e che sappia coglierne le grandi opportunità.
Un profilo civico-politico contro la retorica dei tecnici, dotazione certamente indispen sabile in una squadra di governo. Ma tecnici e manager sono senz’altro i meno adatti a guidare una città delle persone, e a governare un processo di trasformazione come quello che stiamo attraversando. Processo che richiede anzitutto capacità di visione e amore per il mondo.
lunedì 22 febbraio 2016
Luciano Belli Paci: Canguro, regole, coerenza
Quasi tutto mi divide dal M5S.
E per giunta sono un convinto sostenitore della legge sulle unioni civili e il 23 gennaio ero in piazza nella manifestazione Sveglia Italia.
Però questo coro di accuse contro i grillini perché non hanno accettato di votare l'emendamento "canguro" per accelerare l'iter della Cirinnà lo trovo semplicemente indegno.
Che la polemica sulla questione venisse usata a fini di propaganda politica era scontato. L'incultura e la volgarità sono a tal punto dominanti nel confronto tra i partiti italiani - o come si chiamano adesso - che nulla più stupisce.
Quello che allarma è che anche opinionisti seri - penso per esempio a Michele Serra e a Piero Ignazi - in questa occasione si siano prestati a battere la grancassa, ostentando un disprezzo assoluto sia per la cultura delle regole sia per il principio di coerenza.
Il cosiddetto canguro è una palese violazione delle più elementari regole parlamentari, come perfino il tremebondo presidente Grasso sembra ora avere capito (dopo averne consentito l'uso violento in sede di approvazione dell'Italikum).
Esso consiste infatti in un emendamento costruito in forma di catalogo: la presente legge conterrà a-b-c-d .... L'effetto è quello di far decadere in un colpo solo tutti gli emendamenti riguardanti tutti i successivi articoli, esattamente come se fosse stata posta la questione di fiducia. Ovviamente è lecito che il governo ponga la fiducia se ritiene di farlo e quando le regole glielo consentono, ma negli altri casi la norma cardine per cui ogni legge deve essere votata "articolo per articolo" (art. 72 Cost. e regolamenti delle Camere) non può essere aggirata con un espediente che svuota una delle prerogative essenziali della funzione parlamentare.
L'abuso dell'ostruzionismo, in simili situazioni, può essere contrastato con altri mezzi, come peraltro è stato sempre fatto prima della recente invenzione del canguro.
Ma in ogni caso, per quanto possa essere giustificato e nobile lo scopo, il fine non giustifica i mezzi se il mezzo è la violazione delle regole fondamentali delle istituzioni democratiche.
Oltre a questo punto, che è dirimente, nel caso di specie sussiste anche una questione di elementare coerenza.
Il M5S aveva fatto una battaglia durissima contro il canguro, e proprio per le ragioni di principio sopra esposte.
Non si capisce con che faccia avrebbe potuto accettare di utilizzare uno strumento che solo pochi mesi fa aveva definito incostituzionale ed antidemocratico. Oltretutto senza che sussistesse un vero problema di ostruzionismo, che si era ridotto a poche centinaia di emendamenti, ma solo per levare le castagne dal fuoco al Pd che temeva di essere impallinato dai catto-dem.
Insomma, non solo in materia costituzionale non è vero che "Parigi val bene una messa", ma nel nostro caso "Parigi" non era nemmeno la legge Cirinnà, ma era la faccia del Pd.
Luciano Belli Paci
domenica 21 febbraio 2016
venerdì 19 febbraio 2016
giovedì 18 febbraio 2016
Franco Astengo: Stiglitz
UN’ANNOTAZIONE A MARGINE PER UN LIBRO IMPORTANTE di Franco Astengo
“F: LA GRANDE FRATTURA : la disuguaglianza e i modi per sconfiggerla” è questo il titolo dell’edizione italiana (Einaudi) della raccolta di scritti di Joseph E. Stiglitz, premio Nobel per l’economia che con i suoi testi pubblicati dal New York Times e da diverse riviste si e proposto lo scopo di analizzare, per combatterla, la frattura che separa l’1 per cento dei ricchi dal 99 per cento degli altri.
A suo parere bisogna affrontare la disuguaglianza economica come una questione politica e morale. Per una società più prospera e giusta.
Stiglitz affronta il tema in maniera naturalmente diversa dai marxisti e dalla concezione di fondo della lotta di classe: pur tuttavia notata questa decisiva distinzione sul piano ideologico che va comunque mantenuta, non si può ignorare l’importanza del lavoro di questo economista così come quello di altri interni al filone dell’eredità keynesiana tipo Paul Krugman, oppure di teorici del rapporto tra la libertà e il benessere degli individui come Amartya Sen e ancora studiosi del regime di disuguaglianza nella ricchezza come Thomas Piketty.
L’argomento che s’intendeva toccare però, attraverso questo intervento, è un altro il cui riferimento è contenuto in questo passo del libro che si riporta di seguito : “Gran parte del mio servizio accademico e pubblico degli ultimi decenni, compreso l’incarico presso il Consiglio dei consulenti economici durante l’amministrazione Clinton e quello alla Banca Mondiale, è stato dedicato al contenimento della povertà e della disuguaglianza. Spero di essere stato all’altezza della chiamata di Martin Luther King mezzo secolo fa. Il reverendo aveva ragione a individuare nella persistenza di questi dovari un cancro per la nostra società, che mina la democrazia e indebolisce l’economia. Il suo messaggio era che le ingiustizie del passato non erano inevitabili. Ma sapeva anche che sognare non era abbastanza”.
Queste parole pongono una questione prima di tutto di carattere etico: circondati come siamo da tanta arroganza esercitata da improvvisati arrampicatori del potere, colpisce come uno studioso del valore di Joseph Stiglitz interroghi se stesso sul valore della sua opera in cinquant’anni di attività.
Un gesto di enorme umiltà consapevole, un segnale la cui essenza morale appare dimenticata nell’arrembante “disvalore sociale” emergente nell’oggi.
Un segno di umiltà consapevole che si pone accanto all’altra indicazione che queste poche righe contengono: quella della “chiamata”, dell’avere cioè seguito un messaggio ideale al riguardo del quale essere coerenti fino al punto dell’interrogarsi sulla propria capacità personale nel seguire il messaggio presente in quella “chiamata”.
Una vera e propria “vocazione all’umiltà”.
Si tratta davvero poche righe che fanno meditare sul rapporto tra visione morale e impegno intellettuale e politico: un nesso che rappresenta merce davvero rara di questi tempi e che vale la pena evidenziare per rifletterci assieme.
mercoledì 17 febbraio 2016
martedì 16 febbraio 2016
Franco Astengo: Referendum
SUL SENSO POLITICO DEL REFERENDUM di Franco Astengo
“ Perché, se ci guardiamo attorno scopriamo un panorama politico e istituzionale senza territorio. Senza partiti. Ma con molti piccoli capi, i sindaci. Sparsi e dispersi nel Paese. A governare su tutti: un solo leader. Circondato da pochi consiglieri fidati. Sfidato solo da alcuni anti – leader”.
Ilvo Diamanti conclude così un suo articolo di analisi della condizione del sistema politico italiano, apparso sulle colonne di Repubblica lunedì 15 Febbraio.
Una sintesi stringente e molto indicativa per una riflessione che parte dalla modifica del sistema elettorale per i Comuni (legge 81/93) che introdusse l’elezione diretta avviando la stagione del “partito dei sindaci” secondo alcuni, o quella dei “cacicchi” secondo altri.
Comunque una pietra miliare nel disfacimento del sistema dei partiti così come questo aveva egemonizzato la scena politica italiana a partire dal dopoguerra.
Il risultato di questa evoluzione è pessimo con la messa in discussione dei principi – base che reggono, sul terreno istituzionale, l’impianto della Costituzione repubblicana.
La sintesi offerta in conclusione dall’articolo di Diamanti rappresenta anche il miglior punto di confronto sul quale sviluppare l’iniziativa politica dal punto di vista del “NO” in occasione del referendum confermativo sulla legge recentemente approvata dal parlamento in materia di “deformazione costituzionale” riguardante il Senato, le autonomie locali, il ruolo della presidenza del consiglio.
Il primo punto da sottoporre all’attenzione di quanti vorranno impegnarsi in questo senso riguarda, però, il nesso inscindibile da stabilire sempre, sul piano dell’analisi politica, tra il NO alle deformazioni costituzionali e il SI all’abrogazione della nuova legge elettorale denominata “Italikum”.
E’ necessario, infatti, fissare al meglio nell’identità stessa delle argomentazioni che dovranno essere sostenute nel corso di questa fondamentale scadenza del referendum che si tratta di mettere in moto un meccanismo di vera e propria inversione di tendenza rispetto a quanto accaduto, sul piano istituzionale (ma di conseguenza anche economico, sociale, del costume e dei rapporti civili) nel corso del ventennio della lunga “transizione italiana” segnata dall’affermazione del maggioritario, della personalizzazione della politica, della prevalenza assoluta del concetto di governabilità, dello squilibrio tra centralità dello stato e sistema autonomistico, del ruolo del parlamento e degli altri consessi elettivi, della trasformazione della natura dei partiti, dello svilimento nella funzione dei corpi sociali intermedi, nell’affermazione del principio dell’apparire nella funzione di informazione e deformazione della realtà attuato dai mezzi di comunicazione di massa, nell’individualismo oggettivamente esaltato all’innovazione tecnologica e dal principio assurdamente vincente del consumismo e della competizione egoistica.
In sostanza in quel ventennio è accaduto ciò che preconizzava Antonio Gramsci quando diceva che “se il vecchio muore e il nuovo non nasce, in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.
Ne è uscito infatti, nel fallimento del progetto costituzionale europeo e nell’illusione dell’intreccio governabilità/maggioritario, un vero e proprio spossamento nella funzione dello Stato, senza che si realizzasse una critica al “sovranismo” posta al di fuori dal populismo, di destra e di presunta sinistra.
Da questi elementi è sortito il quadro così efficacemente sintetizzato da Diamanti che nel “A governare su tutti un solo leader: circondato da alcuni consiglieri fidati. Sfidato soltanto da alcuni anti leader” disegna esattamente il quadro di un Regime già costruito, al quale riforma del Senato e nuova legge elettorale fornirebbe una semplice suffragazione.
La governabilità non può scaturire dall’incontro plebiscitario tra il Capo e le masse (Capo uscito o meno dal web), ma deve essere frutto della rappresentanza politica derivante dalla competizione tra élite agganciate, idealmente e programmaticamente, alla realtà delle contraddizioni e dall’insieme di risvolti sociali, culturali, politici che queste provocano agendo nel concreto della realtà storica.
Questo principio di fondo vale nell’era digitale, come valeva in quella della “lettera 22” o della penna intinta nell’inchiostro del calamaio: per evitare di tornare ai “notabili” risulta essenziale la funzione pedagogica dei soggetti politici e, di conseguenza, dei partiti che rimangono la dimensione meno imperfetta della rappresentanza politic.
Di conseguenza il senso politico del referendum deve essere inteso complessivamente come punto di vera e propria rottura nella degenerazione del sistema, rifiutando l’idea di un plebiscito attorno alla figura di un sedicente leader e anche un eccesso di tecnicismo attorno alle norme in discussione.
Il NO alle deformazioni costituzionali e il SI all’abrogazione delle Italikum da intendersi come un pieno, effettivo, ritorno alla politica così come intesa dal dettato della Costituzione repubblicana.
lunedì 15 febbraio 2016
sabato 13 febbraio 2016
Franco Astengo: Il ritorno del "noi"?
POLITICA: IL RITORNO DEL “NOI”’? di Franco Astengo
A sorpresa il “Corriere della Sera” si interroga, attraverso una riflessione firmata da Mauro Magatti, sul ritorno del “noi” in politica: un “noi”, dopo la lunga fase dell’individualismo competitivo, che piacerebbe tanto ai giovani, i cosiddetti “millenials”, la generazione nata tra il 1980 e il 2000.
L’occasione per avviare questo discorso è data dall’imprevista ascesa di Jeremy Corbyn alla guida del Labour britannico e dalle affermazioni di Bernie Sanders nelle prime prove delle primarie USA.
Due uomini politici anziani appartenenti ancora all’antica stagione delle ideologie che paiono sopravvissuti alla tempesta degli ultimi vent’anni per riproporre concetti e programmi che apparivano ormai definitivamente superati e la cui espressione era diventata, fin qui, un po’ irrisa come simbolo di un’arretratezza culturale.
Naturalmente non c’è nessun pericolo “rosso” alle porte e nessun ritorno bolscevico: entrambe le opzioni appartengono alla tradizione del moderatismo e non c’è in ballo nessuna ripresa della sinistra europea, così come l’abbiamo vissuta almeno fino agli anni ’70 del XX, anche perché non esistono più due fattori di riferimento che per socialisti e comunisti occidentali apparivano come assolutamente essenziali: da un lato le socialdemocrazie nordiche (Piano Maidner, welfare state) e dall’altro il blocco del “socialismo reale”.
Pur tuttavia il fatto che dal mondo politico anglo- sassone, quello dal quale partì l’ondata reazionaria e conservatrice poi definita come reaganian – tachteriana arrivata fino a proclamare l’avvenuta “fine della storia”, derivi un movimento contrario se non opposto appare molto significativo.
Magatti parla di generazioni a metà tra l’io e il noi e precisa: “Un po’ in tutti i paesi occidentali (e anche in Italia) questa nuova generazione è alla ricerca di un nuovo equilibrio tra le proprie aspirazioni personali e lo sviluppo della comunità, tra la crescita economica e il rispetto dell’ambiente, tra l’identità storica e culturale di un popolo e la necessità di aprirsi al mondo”.
Una nuova generazione capace di alzare lo sguardo verso l’orizzonte non ripiegandosi come la precedente sull’individualismo?
Da questa analisi emerge, prima di tutto, per intero la difficoltà a produrre egemonia da parte della globalizzazione fondata sulla velocità nella diffusione dei messaggi comunicativa e nell’omologazione dei comportamenti al modello imposto dal “pensiero unico” del capitalismo distruttivo.
Possiamo allora pensare a una nuova proposta di passaggio dalla “polis” tirannide alla “polis” democratica, con l’“Io” che si dissolve e il ritorno al “Noi” della comunità)? Il “Noi” della comunità che diventa causa sociale, una configurazione, un’istituzione che si sottrae all’arbitrio individuale?
Certo, siamo ad accenni appena abbozzati e l’interrogativo che si pone è quello della capacità di rappresentare un’inversione di tendenza.
Si tratta di riprendere il filo di un ragionamento di fondo, quello del recupero del concetto di rappresentanza politica.
La rappresentanza deve essere agganciata, prima di tutto, a una prospettiva di sistema, a un’idea del divenire, a un’ipotesi di futuro; in secondo luogo la rappresentanza deve valere rispetto alle contraddizioni operanti nel concreto della società per predisporre un progetto di affrontamento e superamento dell’esistente.
Come non comprendere questo nel quadro delle colossali ingiustizie che ogni giorno verifichiamo a tutti i livelli?
Come far finta di non accorgerci delle disparità globali che avvinghiano il nostro modo di vivere, rendono precario il futuro, ci espongono a tutti i pericoli derivanti dal dominio della sopraffazione perpetrato nella globalità dalla casta dei potenti?
Le ragioni ideologiche servono a questo, a non fermarsi al dominio dell’esistente: quello sì un dominio feroce.
Forse il consenso raccolto attorno alle candidature di Corbyn e Sanders, così lontani politicamente da quello che sono state le esperienze più avanzate della sinistra europea del dopoguerra, può insegnarci che arrendersi al conformismo è sempre sbagliato.
La lezione che ne deriva, al di fuori da ogni concessione al personalismo può essere questa: l’idea di sottostare al pericolo di guerra che sta attraversando il mondo e di suffragare passivamente le colossali discriminazioni che percorrono la nostra società non può essere passivamente accettata.
Il rifiuto della compatibilità all’esistente deve valere in ogni situazione, dal livello della globalità alienante, alla miseria del vuoto culturale che percorre la mistificazione individualistica presente, ad esempio, nell’elezione di un presidente, di un sindaco, di un qualsiasi rappresentante istituzionale.
L’espressione di una voce “contro” appare oggi l’azione politica più moderna e matura: non certo in nome della nostalgia ma proprio per provocare il cambiamento.
Una voce “contro” non collocata indiscriminatamente sul versante della neghittosità oppure stretta nella morsa tra il movimentismo moltitudinario e il populismo della governabilità come accade in questo momento in alcune esperienze europee.
Esperienze europee dimostratesi subalterne alla logica del dominio e coinvolte, alla fine, nelle negative esperienze politiciste di presunto governo che hanno acceso fallaci speranze nel corso di questi anni.
Una voce “contro” ben saldata con le fratture sociali dell’oggi e provvista, nella sua capacità d’espressione, delle robuste radici che la storia ha costruito in decenni di lotte per l’affrancamento e l’eguaglianza.
Questi elementi vanno seriamente discussi, fatti oggetto di lotta politica e sociale, di progetti per il futuro.
Rifiutiamo quella resa per disperazione che vi viene proposta dai cultori di un falso, ingannevole, realismo dell’eterno presente.
Un imperativo categorico questo del rifiuto del presunto realismo dell’eterno esistente da rivolgere a qualsivoglia idea di ricostruzione di una soggettività politica rappresentativa della sinistra in funzione dell’opposizione e dell’alternativa.
Non saranno le elezioni inglesi o, addirittura, quelle americane a segnare una “nuova frontiera” ma dalle scelte delle giovani generazioni di quei paesi possono venire anche per noi indicazioni preziose e, almeno, lo spunto per riavviare una riflessione controcorrente.
Senza alcun ottimismo preventivo, anzi ragionando su come dal pessimismo della realtà possano derivare prospettive concrete di inversione di tendenza rispetto al disastro di questi anni.
venerdì 12 febbraio 2016
Paolo Zinna: Le primarie e l'equivoco arancione
Fino al voto, non ho voluto inserirmi nel dibattito sulle Primarie e sui candidati: non volevo che le mie osservazioni venissero lette come sollecitazioni a votare o non votare questo o quello, cosa che, credetemi, non era proprio nelle mie intenzioni.
Per correttezza verso di voi, premetto di aver votato per il candidato Sala – ho deciso così semplicemente perché mi pare quello che può essere il migliore come sindaco di Milano, fra i candidati che sono stati in campo a febbraio. Ancor di più mi aveva convinto la candidatura di Emanuele Fiano che, alle qualità di concretezza e fattività di Sala, avrebbe potuto aggiungere un’ampia visione politica generale, che per adesso, lo ammetto, non può ancora essere data per certa nel candidato vincente.
Entrambi questi nomi hanno posizioni politiche generali abbastanza lontane dalle mie? Verissimo, ma di questo non ho visto conseguenze di questo in ciò che si proponevano nell’azione amministrativa in Comune. Di fatto, né a Fiano né, mi pare, a Sala manca la sensibilità sociale, la tensione verso l’equità, l’attenzione verso il disagio. Non nego che anche i loro competitors si sarebbero proposti obbiettivi simili, o magari anche traguardi più avanzati – io mi sono sentito sento più garantito da loro nell’attendermi che alle buone intenzioni segua anche la capacità di realizzare. Meno parole di sinistra, forse, ma più fatti di sinistra.
Ma si è detto: queste primarie sono anche un congresso politico, pro o contro Renzi e il partito della Nazione. Lo sarebbero state, se da un lato avessimo avuto un politico supinamente allineato al premier, e dall’altro uno schieramento capace di far discendere dalla sue tesi generali una visione alternativa della città. Mi pare che nessuna di queste due condizioni si sia verificata, per ora. Sala, semplicemente, si preoccupa di problemi diversi da quelli che in Parlamento contrappongono Renzi alla sinistra. Quanto alla visione alternativa di città, non mi pare che la giunta Pisapia abbia prodotto granché in merito (parlo di visione alternativa, non di buona amministrazione). Del resto, riconoscerete che in queste settimane, nelle prese di posizione dei candidati e negli abbozzi di programma, emergevano da tutti gli stessi nodi: casa – quartieri periferici – efficienza della macchina comunale – rapporto positivo coi nuovi cittadini – attrattività della città e supporto all’innovazione. Milano sa benissimo quali sono i problemi da risolvere, la differenza, a mio parere, la può fare la capacità di risolverli davvero.
Se il candidato alternativo fosse stato soltanto Pier Majorino, potrei fermarmi qui, con una serena valutazione delle differenze e … che vinca il migliore! [E merita rispetto il suo lineare comportamento, da uomo seriamente convinto del proprio progetto, al di là di ogni tatticismo di breve periodo - Concetto questo da spiegare anche a quei sostenitori di Sala che incitavano strumentalmente Majorino a restare in campo, cosa che non mi sono mai permesso di fare].
Ma da più di vent’anni a Milano alligna anche una “sinistra” diversa. Una “sinistra” molto poco popolare, molto sensibile ai diritti civili, molto meno ai temi sociali. Molto giustamente attenta al rispetto delle regole di legalità e anche di eleganza nei comportamenti politici, molto meno preoccupata delle condizioni strutturali sottostanti ai fenomeni anomali. Molto attiva sui social, meno presente nei quartieri, specie se sono quartieri disagiati. Per tradurla in battute: si scandalizzano se un giorno i cinesi vanno a votare organizzati dai notabili della comunità, il giorno dopo si dimenticano di chiedersi se, guarda caso, durante tutto l’anno la vita delle comunità etniche non sia governata da quei notabili. Una “sinistra” che, per esempio, ha del sindacato la stessa considerazione che ne ha Matteo Renzi. In effetti, chi ha questa sensibilità, non ama i corpi intermedi, aborre in particolare i partiti e soprattutto il PD, non concepisce di poter rinunciare in qualche aspetto al proprio specifico punto di vista se questo non è condiviso dalla propria comunità politica; anzi, non si riconosce in alcuna collettività politica. Si potrebbe definirla “la sinistra di quelli che sanno di essere bravi e carini”. Al vertice, sostenuti da questa sensibilità diffusa, ci sono gli ottimati progressisti, quelli onestamente convinti che le opinioni di 51 fra di loro su chi debba essere il prossimo sindaco abbiano più diritto di essere ascoltate di quelle di 51 anziani pensionati di un quartiere periferico. (Senza malevolenza, devo dire che non riesco a spiegarmi come questo atteggiamento possa in qualche modo venire ricollegato alle esperienze del socialismo riformista, municipale o no, quello della CGdL e delle cooperative. Sinceramente, non arrivo a capirlo).
Nel movimento che ha portato alla vittoria di Pisapia nel 2011 c’era tutto questo, ma non c’era soltanto questo. C’era una genuina ansia di liberazione da un’atmosfera cittadina grigia, da un ceto politico interessato e ormai con poche idee, da un provincialismo talvolta imbarazzante. C’erano anche energie economiche e imprenditoriali pronte a mettersi in gioco, c’era speranza e voglia di politica come non si vedeva da tempo. Dopo le primarie, c’era persino il PD. Tutto queste cose insieme hanno fatto il movimento arancione, che ha creduto di identificarsi in un Pisapia mitico, indipendente da quello reale; caratteristico il fatto che, negli anni, la popolarità degli assessori sia risultata bassina, ma quella del sindaco sempre molto alta. E caratteristica anche la delusione che oggi molti provano per “Giuliano”, senza volersi render conto di essersi aspettati troppo da un sindaco, da un buon sindaco: si può essere un buon sindaco e condurre una consiliatura complessivamente positiva anche se non si è perfetti e si fanno anche scelte sbagliate o insufficienti, anche se si sbagliano tempi e modi del phase out. Su questa mitologia confusa sono stati insieme i Comitati per Pisapia e gli ottimati, Limonta e Repubblica e Marco Vitale. Questo pasticcio, tra l’altro, è perfettamente espresso da SEL Milano, che, alla prova di un passaggio politico difficile, ha fatto contemporaneamente tutte le scelte possibili.
Le vicende di quest’anno invece sono state sì un “congresso”, ma non un congresso politico (Sala non è più “renziano” di quanto lo sia De Luca o Emiliano o Crocetta, o lo stesso Fassino). Direi che c’è stato un “congresso sociologico”: la Milano della concretezza e dei fatti e la sinistra popolare (Sala e Majorino) contro gli ottimati e la sinistra dei carini. Trovo la migliore spiegazione in un articolo di Jacopo Tondelli: “da una parte noi, riformisti, pronti al compromesso politico, coscienti che senza una dialettica vera coi poteri economici non fai nulla e non fai progredire niente e nessuno. Dall’altra parte, loro: alto-borghesi nati ricchi, progressisti per lascito testamentario di padre in figlio, schifati dalle plebi prima democristiane e poi berlusconiane. Chi vince governa, chi perde il congresso, in forma di primarie, se ne va a casa, per sempre.” A me sembra chiarissimo: questa vicenda ha separato l’acqua e l’olio nell’emulsione arancione.
Ma non sono sicuro che l’ultima frase citata sarà vera. Sento parlare di liste Balzani in appoggio a Sala, di SEL che forse resta, forse va, ecc, ecc. Preferirei di molto che la coalizione di Sala comprendesse invece Basilio Rizzo e Rifondazione: non la penso come loro ma, almeno, essi si ricollegano alla tradizione della sinistra seria e severa.
Francesco Maria Mariotti: Un ministro del tesoro europeo
Una bella intervista di Enrico Letta a Repubblica e un articolo de Linkiesta sull'ipotesi di Ministro del Tesoro europeo (di cui si parla già da molto tempo, si veda un mio spunto http://mondiepolitiche.blogspot.it/2012/06/pronti-tutto-per-salvare-leuro.html?m=1 oppure, ovviamente molto più in profondità: http://www.linkiesta.it/it/article/2012/10/19/ministero-delle-finanze-europeo-sara-realta-fra-tre-anni/9846/)
Buona lettura
Francesco Maria Mariotti
***
"(...) Dovrebbe rappresentare solo l'eurozona o tutta l'Unione?
> "E' fondamentale che questa figura sia tutta interna all'area dei paesi dell'euro. Deve essere cioè, come ha scritto ieri Scalfari, il ministro del Tesoro dei 19 e non di tutti i 28. Deve essere il primo passo verso l'Europa a due cerchi che rappresenta l'unica soluzione positiva per il futuro e per evitare il Brexit. Un cerchio largo con Gran Bretagna e altri che vogliano condividere alcune politiche, dal mercato unico al commercio internazionale, senza volere integrarsi di più. E un cerchio ristretto, quello dei 19, con l'obiettivo di una più stretta integrazione per rendere finalmente vincente la scelta della moneta unica".
Che poteri dovrebbe avere il nuovo ministro?
> "Dovrebbe essere una figura riconoscibile dalla pubblica opinione, autonoma e dotata di forti poteri. Dovrebbe incarnare in sé l'equilibrio virtuoso delle due polarità su cui si regge l'idea di Europa, la Responsabilità e la Solidarietà, un'unione virtuosa di valori tedeschi e latini".
In pratica cosa significa?
> "Incarnare la Responsabilità vuol dire che il super Ministro deve controllare e bloccare i bilanci dei paesi che fanno deficit e debiti eccessivi perché è chiaro che con la stessa moneta chi è irresponsabile danneggia gli altri. L'incarnazione della Solidarietà vuol dire invece che deve gestire un Fondo Monetario Europeo per aiutare i paesi in difficoltà, abbattere le disuguaglianze ed evitare le crisi. Dovrebbe anche disporre di un bilancio dell'eurozona per iniziative per la crescita e contro le crisi sociali, come la disoccupazione giovanile. Potrebbe ad esempio lanciare l'Erasmus dell'apprendistato, un milione di borse da dare a giovani che svolgano, terminati gli studi, un anno di apprendistato in un altro Paese per poi tornare a casa avendo imparato un lavoro e una lingua".(...)"
http://m.repubblica.it/mobile/r/sezioni/esteri/2016/02/11/news/enrico_letta_al_superministro_ue_un_budget_per_la_crescita_-133182860/
"(...) In tal senso va letta l’idea di creare un ministro europeo del Tesoro, scelta che rappresenta una formidabile opportunità per completare l'edificazione europea attraverso la costituzione di un’Unione fiscale, a patto che questa si ispiri a principi di mutualità e che il superministro abbia a disposizione un budget da poter spendere a sostegno delle politiche per la crescita. In alternativa, il «cambio di verso» auspicato da Renzi non si otterrà certo in nome di generici richiami alla necessità di cambiare. Ancor meno ingaggiando tanto aspre, quanto sterili battaglie dialettiche con la Commissione Europea.
Ha certamente ragione Renzi: di sola austerità si muore. Ma si muore anche di scelte sbagliate, specialmente quando le risorse scarseggiano e manca una visione per il Paese, prim’ancora che per l’Europa.(...)"
http://www.linkiesta.it/it/article/2016/02/11/scontro-renzi-europa-meno-male-che-ce-bruxelles/29243
giovedì 11 febbraio 2016
CONTRIBUTO PER ASSEMBLEA COSMOPOLITICA
CONTRIBUTO PER ASSEMBLEA COSMOPOLITICA
10 febbraio 2016
In vista della 3 giorni romana di Cosmopolitica (19/21 febbraio), alcuni compagni, rappresentativi di realtà associative e territoriali, hanno ritenuto utile rappresentare le proprie proposte in ordine al processo costituente del nuovo soggetto politico della sinistra. "Consapevoli dell'importanza cruciale, e per certi versi irripetibile, di tale fase, per il nostro Paese e per le prospettive della sinistra, chiediamo che il processo sia partecipato dai territori, plurale, ma anche strutturato attorno ad una cultura politica di riferimento ben riconoscibile ed autonoma, nella sua dialettica critica rispetto al capitalismo. Quanto alle questioni organizzative del nuovo partito, chiediamo che, nella tradizione del socialismo e del comunismo italiani, si recuperi uno spirito di rappresentanza di interessi sociali ampi, danneggiati dalla crisi, in una logica di solidità e strutturazione culturale e di selezione e crescita della classe dirigente
Il CONTRIBUTO PER L’ASSEMBLEA NAZIONALE “ COSMOPOLITICA” è promosso da: Riccardo Achilli (Tupàc Amarù II) Lucia Delgrosso Stefano Delrio Dessì Nicola Melinda Di Matteo Gian Franco Ferraris Mario Francese Simona Ghinassi Strocchi Danilo Gruppi Marco Lang Paolino Madotto (Pao Lin) Marcella Mauthe Marco Proto Fabio Quadrana Adriano Romano Pietro Sergi Francesco Siciliano Lanfranco Turci
CONTRIBUTO PER L’ASSEMBLEA NAZIONALE “ COSMOPOLITICA”
L’imminenza di un appuntamento cruciale per il futuro della sinistra italiana, rappresentato dall’evento di lancio del nuovo soggetto unitario, nei giorni dal 19 al 21 Febbraio prossimi, ci sollecita a proporre alcuni spunti di riflessione. Partiamo dalla consapevolezza, riteniamo comune a tutti, che quella che si aprirà sarà l’ultima occasione per rilanciare una sinistra di Governo per il nostro Paese. Se disgraziatamente dovessimo perdere questa opportunità, consegneremo l’Italia ad un devastante gioco fra una nuova destra, appoggiata però sui dettami neoliberisti di sempre, e caratterizzata da un inedito tentativo di costruire trasversalismo sociale anche sulle classi danneggiate dalle sue politiche, e la demagogia di movimenti plebiscitari, connotati da inquietanti derive autoritarie (nascoste dietro la finzione della democrazia del web), xenofobia più o meno esplicita e programmi economici sfavorevoli ai ceti popolari.
La sfida che abbiamo di fronte è per la sopravvivenza, a fronte di un tentativo di costruire egemonia culturale rimettendo in discussione persino la distinzione fra destra e sinistra, ridotta a differenziazione fra “conservatori” e “riformatori”, oppure fra “europeisti” e “euroscettici”. Una nuova categorizzazione della politica estremamente perniciosa, perché tende, sull’onda lunga della “fine delle ideologie” teorizzata da più di vent’anni, ad eliminare dall’agone politico la battaglia sui valori di riferimento, sulle visioni del mondo e sugli interessi di classe, per sostituirla con una mera distinzione di posizioni su specifiche politiche o scelte di campo geostrategiche. Riducendo la politica ad un mero elenco di cose da fare (le famigerate riforme) legate alle stesse scelte di campo internazionali, senza più collegamento diretto con gli specifici interessi dei diversi ceti sociali, la ragione stessa di esistenza della sinistra scompare, ed il sistema politico si riduce ad una brutale semplificazione verticale, concentrando sul leader acclamato un mandato generale di condurre il Paese senza più alcun momento di confronto e riflessione con gli interessi sociali coinvolti. Non a caso, funzionale a questa politica senza anima né contatto con gli interessi popolari, si dipana un progetto di liquefazione dei corpi intermedi di rappresentanza, non più visti come punti di sintesi ed elaborazione di domanda sociale, ma come ostacoli al rapporto mistico fra il leader ed un popolo sostanzialmente sottomesso, privato di strumenti di analisi politica e di reale capacità di incidenza sulle grandi scelte, manovrato dagli opinion maker, imbottito di comunicazione sostitutiva del dibattito e dell’approfondimento dei temi.
Da quanto sopra, è evidente che se la sinistra vuole tornare ad avere uno spazio di protagonismo politico e culturale (avendo appreso da Gramsci che i due momenti di protagonismo sono strettamente legati fra loro ed inscindibili l’uno dall’altro) a fronte delle parole d’ordine che si impongono nel nuovo scenario, ovvero leaderismo, verticalizzazione, liquefazione, orizzontalismo interclassista, occorre contrapporre parole d’ordine contrarie. Quindi al leaderismo associato ad una illusione di partecipazione diretta (in realtà ampiamente manovrata e depotenziata) occorre contrapporre il concetto di rappresentanza. Alla verticalizzazione dei poteri occorre contrapporre il concetto di socializzazione responsabile e democratica dei grandi temi. Alla liquefazione ed all’interclassismo occorre contrapporre la solidità organizzativa e la visione classista della società, sapendo che il grande tema in gioco, in questi anni, è la ridefinizione del rapporto fra capitale e lavoro, attuata destrutturando i mercati del lavoro, precarizzando le esistenze e smantellando lo Stato sociale. Al concetto di uomo solo al comando che procede per accumulazione di singoli provvedimenti, occorre contrapporre il concetto di programmazione pubblica di lungo periodo, che presuppone un recupero di valore e funzioni per lo Stato e la Pubblica Amministrazione. Si tratta di scegliere fra queste parole d’ordine contrapposte. Cioè scegliere se vivere o morire.
Questo frangente così drammatico non può risolversi con la demagogia della speranza. Siamo realisti e sappiamo che fa parte della cassetta degli attrezzi della politica, ma non è adeguata alla fase che stiamo vivendo. La narrazione, la speranza come messaggio apodittico, una visione eccessivamente buonista della globalizzazione, sono elementi utili per governare società sazie, piene di opportunità ben distribuite, dove il conflitto sociale si è smussato in una comunità dell’abbondanza, o in una credibile promessa di realizzazione della stessa, e dove quindi la politica deve occuparsi di gestire la quota fisiologica ed umana di tensione ed angoscia per il futuro. Ammesso e non concesso che una società simile sia mai esistita, oppure, più realisticamente, che il riflusso individualistico degli anni Novanta abbia potuto produrre l’illusione che si andasse in questa direzione, la crisi epocale che ancora stiamo vivendo ha rimescolato completamente le carte. La fuoriuscita neoliberista alla crisi ha prodotto una nuova, e più aspra, polarizzazione sociale, facendo sprofondare il ceto medio verso povertà e precarietà. La minore tenuta dei ceti medi ha rimesso in discussione la stessa democrazia politica, facendo riemergere prospettive inquietanti di chiusura del processo decisionale entro élite tecnocratiche non più legate alla comunità nazionale, ma divenute apolidi.
Lo stesso concetto di globalizzazione, che la sinistra degli ultimi vent’anni ha vissuto in forma culturalmente ancillare rispetto ai dogmi liberali, oggi mostra il suo volto feroce. L’appartenenza all’euro ci impone politiche del tipo “follow-the-leader”, che si traducono in una drammatica deflazione/svalutazione di salari e diritti sociali. La globalizzazione non ci mette al riparo dall’insorgenza di una nuova guerra mondiale condotta per micro-scenari regionali. Le migrazioni, frutto amaro del neoimperialismo, rimettono in discussione l’approccio buonista dell’accoglienza incondizionata, producendo frizioni lavorative, sociali e culturali non più trascurabili dalla sinistra, perché provenienti da quelle classi popolari che dovremmo rappresentare (e che infatti, senza una risposta di sinistra sul governo di tali flussi, derivano in modo preoccupante verso l’offerta xenofoba ed isolazionistica delle destre). Torna prepotentemente all’attenzione dell’agenda politica il tema della comunità locale e nazionale e del suo rapporto con la globalizzazione, un tema che non può essere affrontato né con gretti localismi ma nemmeno con una adesione acritica alla globalizzazione ed a un europeismo utopistico e mai realizzatosi, e non può essere demandata alla Nouvelle Droite ed ai suoi miserrimi epigoni italiani. Abbiamo già misurato in questi anni come non solo le politiche delle classi dominanti, ma la stessa architettura delle istituzioni europee imperniate sulla austerità e su una banca centrale senza un corrispettivo Stato federale, abbiano esasperato i conflitti fra i vari interessi nazionali, e alzato una barriera contro politiche progressiste che pare invalicabile, come sta misurando in questi mesi anche la Grecia. I sogni del Manifesto di Ventotene si sono trasformati in un incubo. Dunque bisogna cominciare a pensare anche, come piano B, alla ipotesi concreta di una politica senza Euro, riportando allo Stato nazionale la gestione della moneta e le principale scelte economiche e recuperando la collaborazione europea e internazionale in termini di accordi fra gli Stati, e non di interessi dei capitali.
Più in generale, dobbiamo muoverci con un punto di vista critico sul capitalismo, critico e consapevole delle sue contraddizioni e della necessità di intervenire su di esse con le correzioni necessarie, e con un punto di vista autonomo da quello delle classi dominanti. Sapendo che all’odg non c’è la sua sostituzione con un altro sistema totalmente alternativo (qui giocano ancora le aporie messe in luce dal fallimento del socialismo reale), ma una profonda riforma che cambi i rapporti fra capitale e lavoro e fra capitale e Stato. Si tratta di unire insieme gli obiettivi che tradizionalmente si raccolgono sotto il termine di giustizia sociale e gli obiettivi di un nuovo modello di sviluppo ecologicamente e socialmente compatibile, che il mercato non è da solo in grado di garantire. Anzi, come abbiamo visto in questi anni, rende sempre più difficili da raggiungere. Questa può essere oggi una definizione proponibile di socialismo, come volontà di controllare le logiche irrazionali del capitalismo (quelle che Marx riassumeva nella formula della produzione per la produzione) e di garantire uno sviluppo equo e di qualità. A questo fine il keynesismo e il marxismo sono due fonti necessarie da cui non si può prescindere.
Ed in questo senso, si richiede un ruolo radicalmente diverso della mano pubblica. A questo proposito interviene il prezioso recente contributo di Mariana Mazzucato sullo Stato imprenditore/innovatore. La novità di questa impostazione è che l’autrice va ben oltre il keynesismo del deficit spending, che pure sarebbe una manna in questa fase di austerità cupa e suicida. Essa non è riducibile neppure a una semplice indicazione tipo “più stato meno mercato”. La Mazzucato non rinchiude l’intervento pubblico nell’ambito della risposta ai fallimenti del mercato, e per ciò stesso non accetta di sottoporlo alla contrapposta teoria dei fallimenti dello Stato. L’obiettivo è più ambizioso e si connette a quello che correntemente chiamiamo nuovo modello di sviluppo. In un suo recente saggio l’autrice indica il cambiamento climatico, la disoccupazione giovanile, l’invecchiamento e la crescente ineguaglianza come le sfide sociali poste davanti al capitalismo contemporaneo. Di fronte a questa situazione, ella pone il problema non tanto di regolare i mercati, ma di plasmarli e addirittura crearli per obiettivi pubblicamente e democraticamente definiti. Con altre parole tornano in mente quelle riforme di struttura proposte in anni lontani da una certa cultura socialista e comunista italiana, come quella di Lombardi e Trentin.
Il mondo del lavoro, proprio perché è quello sulle cui spalle è stato scaricato il peso della rivincita neoliberista, non può non essere il perno dello schieramento che abbia l’obiettivo di rovesciare quella logica e di aprire una nuova fase. Questa fase, per quello che abbiamo detto, non sarà solo il recupero delle conquiste del compromesso socialdemocratico, ma avrà obiettivi più ambiziosi sia in termini di diritti sociali e civili, sia soprattutto in termini di governo dello sviluppo. Riunificare il mondo del lavoro è dunque l’esigenza primaria, tutt’altro che facile da soddisfare, perché non servono le semplificazioni ideologiche e le illusorie riduzioni ad unum. Bisogna indagare materialmente tutte le pieghe della nuova articolazione sociale del mondo del lavoro, anche quelle che sembrano più lontane dal lavoro dipendente, per essere capaci di elaborare piattaforme politiche e sindacali capaci di far emergere le connessioni e gli interessi comuni. Pensiamo per esempio alle nuove figure lavorative della share economy. Il lavoro dunque come base per alleanze che possono andare molto oltre, per costruire un nuovo blocco sociale che abbia l’ampiezza e la capacità egemonica di altri blocchi sociali di altre epoche storiche.
Queste sfide richiedono una capacità organizzativa che sia all’altezza. Non un leader salvifico, ma una intelligenza collettiva, che sappia rappresentare le tante sfumature di una realtà sempre più complessa e conflittuale. Non un confronto fra “addetti ai lavori” o comunque minoranze politicizzate, che si incontrano su tavoli tematici per parlare a loro stesse per qualche giorno, mentre il Paese reale, quello deluso dalla politica, quello che non partecipa e non vota più, rimane per l’ennesima volta fuori dai cancelli. Ma la capacità di stare al cuore della disperazione, di vivere dentro le contraddizioni del presente. Per questo abbiamo dubbi su format tipo Leopolda. La Leopolda è un format che va benissimo alla destra, ma non è adeguato per la sinistra. E’ in fondo un luogo dove le classi dirigenti si incontrano, si rafforzano nei loro valori e nelle loro relazioni, e staccano generosi assegni per finanziare il leader (e quest’ultima è a bene vedere la ragione del successo elettorale di chi organizza le Leopolde). Evidentemente non sono questi gli interlocutori della sinistra, ed organizzare tavoli tematici per iscritti, militanti e chi è già simpatizzante della sinistra presuppone innanzitutto la proposizione preliminare di un quadro di riferimento in cui iscrivere le ipotesi, anche alternative, di risposta a specifici argomenti. Se no il rischio è un parlarsi addosso inconcludente come è già successo in altri momenti.
Soprattutto se si vuole consenso e uscire dall’isolamento, occorre essere presenti nelle fratture e nelle terre di mezzo. E per farlo occorre la rete sul territorio, occorre un lavoro paziente, occorre stare lì, nel cuore della crisi. E non è facile. E poi occorre saper sintetizzare in una proposta politica questo ascolto. In queste condizioni, una nuova stagione di una sinistra di governo capace anche delle necessarie alleanze sia sul piano politico che sociale può rinascere soltanto da un processo attento di lavoro sulle condizioni sociali del Paese, di ascolto e quindi di proposta, su una piattaforma che oggi va tutta quanta costruita. Su un compromesso politico alto, che ri-politicizzi un Paese disperato, disilluso e sterilmente rabbioso. Un compromesso, cioè, che nasca dal basso, dal coinvolgimento dei soggetti sociali e delle loro problematiche reali, rivalorizzando la funzione di sintesi e rappresentanza, in un processo partecipato, dove i poli della rappresentanza e dell’autonomia dei soggetti sociali siano legati dialetticamente fra loro. Pensare di fare una sinistra di governo e di fronte ampio con un approccio verticistico, significa soltanto fallire.
Per aggregare una domanda sociale, analizzarla e sintetizzarla in proposte, occorre un soggetto catalizzatore, cioè un partito. Non si potrà mai ricostruire un popolo di sinistra, dopo la lunghissima fase di depoliticizzazione, senza un soggetto autonomo in grado di promuovere cultura politica. Dopo l’assemblea del 19-21 Febbraio, ci si concentri soprattutto sul percorso di costruzione del nuovo soggetto politico. Rifuggendo da idee bizzarre, da riproposizioni di confederazioni, mutuate da malintesi riferimenti a realtà socio-politiche molto diverse dalle nostre. Serve un soggetto che rimescoli le identità politiche, non che le mantenga intatte ed autosufficienti.
Se il personalismo e l'identitarismo sono problemi della sinistra italiana (e non solo), allora dentro il nuovo soggetto bisogna entrare con una leadership il più possibile collettiva, e con una sintesi. E qui, a prescindere dall’appuntamento di Febbraio, guardando più in direzione della fase costituente che si aprirà, e che durerà fino al prossimo autunno, servirebbe una conferenza di programma, organizzata a partire dai territori, in cui si dia incarico ad uno o più gruppi di lavoro di raccogliere ed organizzare le proposte dal basso in base alle diverse tematiche (l’organizzazione, ed i diversi tematismi del programma). Proposte dal basso che nascano da una reale fase di ascolto dei soggetti sociali, sui territori. Sulla base di questi documenti, si presentino diverse mozioni programmatiche ed organizzative ad un dibattito aperto, e quindi di queste si faccia una sintesi. E dopo, solo dopo, al Congresso costituente, si potrà procedere alla nomina degli organismi dirigenti unitari, cercando il massimo di distribuzione e condivisione della leadership.
E’ evidente che nel nuovo soggetto confluiranno diverse culture politiche. Dall’ecologismo al femminismo, dai beni comuni alla politica dei diritti civili, dai temi della alienazione consumistica a quelli della “emergenza antropologica”. Ma noi crediamo che esso non decollerà se non avrà al suo centro come asse portante la lettura del capitalismo. Per questo può sembrare paradossale, ma la cultura più preziosa di cui non potrà fare a meno, è ancora quella del vecchio socialismo. Da esso sono nati, pur tra divisioni e sconfitte, i soggetti storici della sinistra del ‘900. Il socialismo storicamente nasce come antitesi al capitalismo, presuppone un punto di vista autonomo e critico su di esso e un protagonismo delle masse popolari. In questo è ancora un valore essenziale, da cui non si può prescindere. Bisogna ricostruire con pazienza e apertura mentale, avendo ben chiaro le coordinate del lavoro.
QUESTO DOCUMENTO E’ PROMOSSO DA:
RICCARDO ACHILLI – Potenza
LUCIA DELGROSSO – Pescara
STEFANO DELRIO – Cagliari
NICOLA DESSI’ – Vercelli
MELINDA DI MATTEO – Napoli
GIAN FRANCO FERRARIS - Alessandria
MARIO FRANCESE - Caserta
SIMONA GHINASSI STROCCHI - Livorno
DANILO GRUPPI – Bologna
MARCO LANG – Roma
PAOLINO MADOTTO – Roma
MARCELLA MAUTHE – Napoli
MARCO PROTO – Salerno
FABIO QUADRANA - Roma
ADRIANO ROMANO – Roma
PIETRO SERGI – Bologna
FRANCESCO SICILIANO – Caltanissetta
Aldo Penna: L'unione europea e le sette piaghe del meridione
Nel territorio dell’Unione Europea vi sono molte aree che hanno avuto problemi di forte insediamento criminale, gravi arretratezze economiche, labilità dello stato di diritto, ma nessuno Stato della Comunità, tranne l’Italia, ha sul suo territorio questi problemi tutti insieme. Dallo storico Occidente che ha fondato l’Unione, ai nuovi paesi d’Oriente, inclusi dopo il disfacimento dell’Impero Sovietico, nessuno convive con questi flagelli.
Dopo il tramonto della mafia marsigliese, il passaggio alla legalità dell’ETA e dell’IRA, la sconfitta del terrorismo armato in Germania, le uniche zone a sovranità limitata, dove il monopolio della forza si è trasformato in duopolio (un condominio tra Stato e crimine) è il Meridione d’Italia.
Delle diseguaglianze nello sviluppo economico, nella qualità della vita, nel reddito pro capite e del compito di colmarle si occupa la Comunità Europea con programmi miliardari destinati alle regioni cosiddette sotto soglia. All’inizio della nuova programmazione solo due grandi macro aree restano sotto la soglia del 75% del reddito europeo: il Meridione italiano e le Regioni dell’Est. La differenza non potrebbe essere più grande.
Polonia, Paesi Baltici, Romania, Ungheria si muovono con dinamismo, utilizzano bene i fondi europei ed è prevedibile che nel 2020 molti di loro saranno oltre la soglia del 75%. Il Meridione, vasto per superficie e popolazione come la Germania dell’Est, insegue da 150 anni, senza riuscirci, il Nord italiano ed è l’unico aggregato territoriale a saldo zero con le sue regioni rimaste sostanzialmente immobili nella zona non sviluppata dell’Unione.
Che cosa fare oltre che commentare i puntuali studi che affollano le nostre librerie? Come invertire una tendenza secolare interrotta dalla lodevole eccezione degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso? Come debellare le piaghe che affliggono il Sud e si perpetuano nonostante i governi nazionali e locali di ispirazione diversa? Proviamo ad elenca le piaghe del Sud tracciando le similitudini con le bibliche piaghe che colpirono l’Egitto.
Grandine
Come preziose risorse devastano invece di far crescere. L’idea di creare grandi istituti che finanziassero lo sviluppo traeva ispirazione dalle agenzie americane che durante il New Deal contribuirono a far risorgere una nazione. Nella declinazione italiana e nell’applicazione al Sud di tale impostazione, si crearono enormi centri di potere che dirottarono le risorse su grandi opere, spesso costose oltre misura e poco, molto poco, alle imprese e alla formazione. La presenza della criminalità che aveva scoperto la sua grande influenza sul processo politico attraverso il controllo di vaste porzioni di popolazione fece il resto.
Acqua in sangue
Incapacità di utilizzare le immense risorse naturali e in capitale umano. L’unità d’Italia invece di attenuare la distanza tra Nord e Sud Italia l’ha acuita. L’abdicazione del controllo del territorio da parte dello Stato lasciando che le mafie continuassero a intermediare conflitti, imporre tributi, erogare pene, ha creato uno stato nello stato, un ordinamento che si è sovrapposto a quello legale.
Ulcere su animali e uomini
Ovvero, come ridurre un popolo intero dipendente dalle mance clientelari, dispensate dilapidando pubbliche risorse. Un sovietismo senza servizi che ha aperto profonde ferite sulla capacità di decidere il proprio destino. La caratteristica immediata dell’affluire delle risorse finanziarie sotto il controllo di una classe politica impreparata condusse specie in Sicilia dotata di autonomia, e quindi di una struttura regionale, a un’elefantiasi del settore pubblico e una crescita dei privilegi. Se la Sicilia ha 5 volte i dipendenti della Lombardia pur avendo la metà dei suoi abitanti non può essere solo un caso ma una filosofia. Se per i suoi dipendenti l’assemblea regionale, inferiore di 50 unità a quella lombarda, spende il doppio, non può essere solo un caso. L’idea che il settore pubblico avrebbe risolto i problemi della disoccupazione siciliana e del Sud Italia in generale ha condotto ai 100.000 precari in Sicilia, alle migliaia di forestali in Calabria, Sicilia e Campania.
Invasione di cavallette
Come svuotare i forzieri e cospargere la terra di sale. La rinuncia della politica meridionale alla creatività, al coraggio e al sogno di poter riscattare queste terre ha consentito l’emergere di una casta burocratica autosufficiente e irresponsabile, lautamente pagata che si uniforma, in tutto il Sud Italia, con un solo atteggiamento dominante: il rifiuto. Pongono ostacoli, non sviluppano iniziative e si fanno scudo di leggi e regolamenti per non fare. Nell’ultimo decennio percepiscono premi retributivi accessori cospicui senza contropartita per il loro impegno.
Malattia del bestiame
La subalternità delle imprese ai pubblici apparati è radicata e dura a cambiare. Poche imprese ricevono cospicui sostegni, per le restanti bastano briciole che li illudono finendo per rendere fiacca la loro azione. Nella scorsa programmazione le imprese sono rimaste alla finestra in attesa che passasse il corteo dorato dei fondi. I fondi sono rimasti in gran parte nei cassetti e l’acquiescenza del sistema imprenditoriale in cerca di protettori più che di metodi nuovi ed equi ha fatto il resto. Una corrosiva malattia che toglie a regioni vaste e popolose la possibilità di essere veicolo di liberazione.
Tenebre
Ed è proprio il liquefarsi della speranza di un futuro diverso che sta spingendo le nuove generazioni verso l’esodo e le vecchie in una tenebrosa rassegnazione densa di risentimento che non riesce a individuare vie d’uscita o responsabili. Donne e uomini nuovi scelti come liberatori si sono trasformati in custodi dell’esistente, incapaci di spezzare il circuito malefico che ha ridotto terre potenzialmente floride in aree buie e sconsolate.
Morte dei primogeniti
Il male più grande per una famiglia è allargare le braccia quando i figli si rivolgono loro interrogandosi sul futuro. Quasi ogni famiglia del Sud Italia ha un figlio oltre i confini, una fuga, una perdita, una condotta obbligata, non un percorso di liberazione o contaminazione. Una deportazione senza fucili alla schiena.
Queste sette piaghe non convinceranno nessun faraone a liberare i popoli del meridione. Sette piaghe non inflitte da un Dio che ama un popolo ai suoi nemici, ma tramandate da generazioni. Solo la consapevolezza di essere liberatori di se stessi può portare il Sud Italia a scuotersi dal giogo di pavidi cavalieri che sulla paura e l’inconsapevolezza dei tanti hanno costruito le loro orride fortune.
Aldo Penna
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